Giorni
fa avevo segnalato l’intervento di rav Laras, rabbino di Milano, come il più
lucido e condivisibile, dal mio punto di vista, sulla tragica vicenda di
Parigi. Ora si registra l’intervento nel dibattito di un'altra voce
autorevolissima, quella di Enzo Bianchi - priore della comunità di Bose – che,
con rammarico, afferma di non condividere il parere di rav Laras. Per la
verità, non mi è chiarissimo il punto di dissenso rimarcato dal priore. Ma
andiamo con ordine.
Enzo
Bianchi esordisce con una precisazione, molto opportuna, sui rapporti fra
cristianesimo ed ebraismo, riprendendo la ben nota metafora dei “fratelli
gemelli”. In realtà, il priore, in poche righe, riassume il nocciolo dei
risultati a cui sono giunti, già da qualche decennio, gli studi storici sul
periodo del mediogiudaismo, studi che hanno messo fine a una lunga stagione di
pregiudizi, equivoci e convinzioni infondate sulle origini del cristianesimo e
sui suoi rapporti con l’ebraismo. Il merito di ciò va soprattutto a uno
studioso italiano che da molti anni insegna negli U.S.A.; Gabriele Boccaccini.
Nel
mondo accademico e tra gli studiosi del settore si tratta di cose ormai
scontate, ma è bene che vi sia una seria opera di divulgazione, perché una
autentica e profonda consapevolezza delle comuni origini di ebraismo e
cristianesimo è forse il migliore antidoto al pregiudizio antigiudaico e
antisemita, che è tanto radicato da insinuarsi anche nelle persone meno
“sospettabili” e da esprimersi nelle forme più varie e spesso “mascherate” (ad
esempio, il double standard quando si
tratta di valutare i comportamenti degli ebrei e quelli di altri popoli o gli
atti del governo di Israele e quelli di altri governi o regimi).
Non si tratta solo di prendere coscienza della
“ebraicità” di Gesù, dei suoi discepoli o di Paolo – questa coscienza per
fortuna si sta diffondendo, dopo secoli di sostanziale rimozione di questo
dato, giunta fino agli estremi rappresentati dai deliri sul “Gesù ariano”. Si
tratta di capire che, almeno sul piano storico, il cristianesimo – come afferma
Boccaccini – non è altro che una forma di giudaismo, una delle due forme di
giudaismo – l’altro è quello che noi chiamiamo “ebraismo” – che sono
sopravvissute alla catastrofe del 70 e.v. e alla distruzione del Tempio. E’
auspicabile, quindi, che Enzo Bianchi ed altri che hanno accesso ai grandi
organi di informazione compiano questa meritoria opera di divulgazione, che può
essere molto più efficace di tante celebrazioni meramente rituali della
“Giornata della Memoria”.
Sorvolo
sul breve passaggio che Bianchi dedica ai figli di Abramo e allo stato di
Israele, in quanto mi è risultato del tutto incomprensibile. Finalmente, il
priore giunge al punto e dice di voler pronunciare “una parola” sulle vicende
di Parigi o sulle reazioni ad esse. Solo che poi questa parola, per quanto mi
riguarda, suscita sconcerto, e anche, lo confesso, un po’ di dolore e di
tristezza. Perché essa viene da una persona che tante volte è stata capace di
mostrarci in modo autenticamente magistrale come la croce di Cristo sia anche e
soprattutto criterio di discernimento fra i carnefici e le vittime. E in questa
vicenda, prima di ogni altra e pur importante considerazione, dovremmo parlare
delle vittime e della violenza che li ha tolti dal mondo, per qualche vignetta
o per il solo fatto di essere ebrei. E invece che cosa ci dice Enzo Bianchi, al
suo primo intervento sul quotidiano torinese dopo quei fatti? Ci dice che
“abbiamo parlato troppo”, che “abbiamo sfigurato una religione, l’islam”. Ci
dice che dovremmo ricominciare dal precetto aureo – non fare agli altri quel
che non vorresti fosse fatto a te – e che ciò dovrebbe “vietarci caricature
offensive verso l’Islam”. Fortunatamente, il priore concede che “una
caricatura, anche offensiva, non può mai essere vendicata con la violenza e
l’omicidio” e che “questa è barbarie criminale!”, ma solo per poi appoggiare la
metafora del papa, quella del pugno e della madre, con la quale metafora egli “si
è fatto capire dalle persone più semplici e quotidiane”. Difatti: il papa si è
fatto capire fin troppo bene e proprio
da quelle persone “semplici” che già dicevano, più o meno a mezza voce, che in
fondo quei giornalisti se l’erano un po’ cercata (e gli ebrei dell’ipercasher,
verrebbe da chiedere, se l’erano forse cercata anche loro, magari perché
avevano l’impudenza di essere ebrei?). Come ho già scritto giorni fa, la
dichiarazione del papa non solo non può essere condivisa, ma non può neanche
essere liquidata, come hanno fatto taluni, alla stregua di una “battuta
infelice”, o criticata come incoerente rispetto al precetto di Gesù del porgere
l’altra guancia. Il Papa non parlava in generale, ma si riferiva alla vicenda
di Parigi, ben sapendo quali erano state le diverse reazioni e quali i diversi
commenti. Ha scelto consapevolmente di avallare certe reazioni e commenti
(probabilmente per un motivo di realpolitik
nei confronti del mondo islamico). Perciò, la sua battuta merita solo un
aggettivo: agghiacciante.
A
prescindere dalla dichiarazione del Papa, Bianchi, come molti, condivide l’idea
che una vignetta possa oggettivamente “offendere” qualcuno nel suo credo
religioso e sembra quindi suggerire una sorta di autocensura. L’autocensura,
quando non riguarda parole o gesti che costituiscano reato – e la satira sulla
religione evidentemente non è reato, nei paesi occidentali - non è meno
preoccupante della censura, in quanto configura una situazione totalitaria. La
censura sta alla autocensura, potremmo dire, come un tradizionale regime
autoritario sta a un regime totalitario. Inoltre, mi ripeto ancora, una volta
ammesso che si possa legittimamente considerare una grave offesa una vignetta,
dobbiamo anche mettere in conto che qualcuno pensi di dover lavare con il
sangue una tale offesa. Ma è possibile criticare e superare il presupposto che
tanti, e tra essi il nostro priore, danno quasi per scontato, che cioè delle
manifestazioni del pensiero o della creatività possano urtare e offendere la
sensibilità religiosa, tanto che la libertà d’opinione e di espressione entri
in conflitto con il diritto di ogni persona a professare liberamente e senza
subire molestie di sorta il proprio credo? Ciò mi pare assolutamente
necessario, se vogliamo mantenere i nostri ordinamenti liberali e preservare i
valori fondanti delle società occidentali, nel contesto di una società
multireligiosa. Il mondo occidentale un tale problema lo ha già affrontato e
risolto una volta: si trattava allora di conflitti interni al cristianesimo, ma
essi erano ancor più violenti e distruttivi di quelli attuali. La formula che
ci ha salvati e ci ha consentito di convivere tra confessioni religiose
diverse, prima, e poi tra credenti e agnostici o atei, la formula che ci ha
consentito di sviluppare i nostri ordinamenti civili, è stata “inventata” già
all’inizio del Seicento, ma su essa si sono poi fondati l’Illuminismo, la
Rivoluzione, le dichiarazioni dei diritti, gli stati liberali e le costituzioni
democratiche. La formula è quella secondo cui gli ordinamenti civili, politici
e giuridici restano validi etsi Deus non
daretur, anche se Dio non fosse dato, se non esistesse. Qualcuno potrebbe
erroneamente attribuire questa frase ad un ateo: in realtà essa è del
giusnaturalista Grozio, un fervente calvinista, che per ragioni di fede subì
anche una lunga prigionia (e tra l’altro per colpa di altri calvinisti). Grozio
cercava appunto una risposta a un problema che ora torna di grande attualità:
come si fa a convivere pacificamente in una stessa comunità tra individui che
professano co0nfessioni religiose diverse e persino contrapposte? La risposta,
implicita nella formula citata, è che occorre separare la sfera del credo
religioso da quella dello Stato.
In
fin dei conti, è questa la prima grande questione che il rabbino Laras poneva
all’islam, ma che Enzo Bianchi ha lasciato del tutto cadere: è possibile per
l’Islam, ed è possibile per motivi teologici, anteporre il concetto di “cittadinanza politica”, che si può condividere
con persone di diverso credo religioso, a quello di “cittadinanza religiosa”,
che invece confligge apertamente con i valori occidentali? Ciò presuppone
evidentemente che si possa distinguere tra cittadinanza politica e cittadinanza
religiosa e che le due dimensioni non siano sovrapposte o coincidenti (il che
pare, invece, il problema dell’Islam). Presuppone, quindi, quel cammino che
l’Occidente ha fatto a partire appunto da Grozioo, più indietro ancora, dalla
Riforma.
Occorre,
però, ancora un passaggio. L’Islam, come è noto, prescrive, fin dal termine
stesso, l’assoluta “sottomissione” a Dio. Non si tratta di una peculiarità,
magari negativa, dell’Islam: ebraismo e cristianesimo si fondano su un’analoga
idea della assoluta signoria di Dio, dal primo comandamento allo shema’ Israel, e conoscono un medesimo
concetto di obbedienza. Questa obbedienza, per un credente, non solo non
contrasta con la libertà, ma ne è precisamente la condizione. Il problema,
dunque, non riguarda solo l’islam, in questo caso, ma anche l’ebraismo e il
cristianesimo: pur volendo accettare i principi fondanti della convivenza con
chi non crede nello stesso Dio in cui credo io, come faccio poi ad accettare
anche le “offese” che costoro lanciano a un Dio al quale devo assoluta
sottomissione o obbedienza? Se ne esce solo in un modo: se si capisce che
quelle frasi o quei disegni satirici rappresentano una critica, più o meno
violenta, più o meno condivisibile, alla religione, a qualche suo aspetto o
rappresentante, a situazioni e costruzioni umane, dunque, ma non possono
affatto riguardare, colpire e tantomeno insultare e offendere il mio Signore e
la fede che ho in lui. Ma per questo ulteriore passaggio è indispensabile
un’altra fondamentale distinzione (anche di questo ho già parlato in un post
precedente): quella tra fede e religione.
Questa
distinzione veniva richiamata nell’articolo di rav Laras, che citava una serie
di grandi personalità del pensiero e della teologia, sia ebraici che cristiani,
per sostenere che ebraismo e cristianesimo sono prima fedi che religioni. Su
questo il priore concorda, anche se preferisce citare Marcel Gauchet, piuttosto
che Barth o Bonhoeffer, Buber o Rosenzweig. Il cristianesimo, aggiunge, è
capace di una critica, di una distanza alla stessa religione e ciò perché non
ha al centro un libro, ma Gesù Cristo. Bianchi riconosce che l’Islam ha ancora
da fare un lungo cammino di confronto con la modernità, ma rileva che anche per
il cristianesimo questo cammino è stato lungo, è stato travagliato e non è
certo concluso (si pensi ai fondamentalismi cristiani).
Queste
osservazioni non mi sembrano tuttavia sufficienti a focalizzare il vero centro
del problema, che invece rav Laras mi pare cogliere assai bene. Cristianesimo
ed ebraismo hanno potuto compiere questo cammino, non solo e non tanto per
sollecitazioni ed esigenze esterne, ma per intrinseche ragioni teologiche. Anzi,
proprio la teologia cristiana ed il pensiero ebraico hanno contribuito in modo
decisivo alla formazione di quel mondo che definiamo “moderno” ed il pensiero
politico o le istituzioni civili di questo mondo moderno nascono in buona
misura dalla secolarizzazione della teologia cristiana e del pensiero ebraico.
Non si è quindi trattato né di un cammino forzato, né di un adattamento o un
compromesso con una realtà esterna ed estranea (anche se questo, mi verrebbe da
osservare un po’ malignamente, è in buona parte vero per quella componente specifica,
ma così importante e pervasiva, del mondo cristiano che è l’istituzione
ecclesiastica romana). Pertanto, è rav Laras, e non Enzo Bianchi, che si pone
la vera domanda, quando si chiede se per l’Islam questo cammino è possibile “in
ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani
osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e
cristiani”. In altri termini, mentre Bianchi, e molti altri con lui, pare ritenere
che l’Islam si trovi sulla medesima linea retta e marci nella stessa direzione di
ebraismo e cristianesimo, trovandosi solo un po’ più indietro (e mi chiedo se
poi questa prospettiva non sia nella sostanza più “offensiva” di tutte le
vignette di Charlie Hebdo e non tradisca il vecchio vizio dell’imperialismo
religioso, mascherato da ecumenismo o dialogo), rav Laras si pone ben altro
problema: è possibile per l’Islam effettuare quel cammino che può portare a una
convivenza pacifica e ad un incontro reale con le altre due religioni monoteistiche,
non per acquiescenza o necessità, ma per motivi teologici? E dato che la
teologia delle religioni monoteistiche altro non è che esegesi del Libro sacro
o, almeno, ha questa esegesi come suo fondamento e criterio, le questioni fondamentali
riguardano proprio il Corano: esso è Sacra Scrittura ed è parola autoritativa,
allo stesso modo in cui lo sono la Torah per gli ebrei e la Bibbia per i
cristiani? Quale è, nel Corano, il rapporto tra parola divina e parola umana e
in che senso il Libro media fra Dio e l’uomo? La risposta a queste domande,
nell’ebraismo e nel cristianesimo, ha reso non solo possibile, ma addirittura
necessaria l’esegesi critica, storica e letteraria. Si tratta di capire se per
il Corano la situazione è analoga - ed allora i ritardi, le difficoltà, le
tensioni e le incomprensioni dipenderebbero solo da contingenze storiche e
politiche e da interpretazioni erronee o parziali - o se invece il cammino
auspicato è ostacolato, se non reso addirittura impraticabile, da profonde
ragioni teologiche. Se fosse vera la seconda ipotesi, ciò non dovrebbe certo
chiudere le prospettive del dialogo e tantomeno della convivenza pacifica e
solidale, ma questo dialogo e questa convivenza se devono essere solidi e
autentici devono fondarsi sulla verità e non sulla retorica.
In
secondo luogo, si tratta di capire che cosa dice veramente il Corano, riguardo
ai rapporti dei musulmani con ebrei e cristiani, sgombrando il campo da ogni
semplificazione di comodo sul “vero islam” (semplificazioni oltretutto operate
molto spesso da personaggi che si improvvisano esperti di islam senza conoscere
neanche una lettera dell’alfabeto arabo). Si tratta ad esempi di capire se, oltre
ad avere una certa utilità nel dialogo interreligioso, le espressioni “religioni
del Libro” e “religioni abramitiche” abbiano anche un vero significato
teologico. Abramo è davvero un padre comune? Ma di questo, in una prossima
puntata!
Nessun commento:
Posta un commento