giovedì 22 gennaio 2015

LE DOMANDE FONDAMENTALI SULL'ISLAM (1)



Giorni fa avevo segnalato l’intervento di rav Laras, rabbino di Milano, come il più lucido e condivisibile, dal mio punto di vista, sulla tragica vicenda di Parigi. Ora si registra l’intervento nel dibattito di un'altra voce autorevolissima, quella di Enzo Bianchi - priore della comunità di Bose – che, con rammarico, afferma di non condividere il parere di rav Laras. Per la verità, non mi è chiarissimo il punto di dissenso rimarcato dal priore. Ma andiamo con ordine.
Enzo Bianchi esordisce con una precisazione, molto opportuna, sui rapporti fra cristianesimo ed ebraismo, riprendendo la ben nota metafora dei “fratelli gemelli”. In realtà, il priore, in poche righe, riassume il nocciolo dei risultati a cui sono giunti, già da qualche decennio, gli studi storici sul periodo del mediogiudaismo, studi che hanno messo fine a una lunga stagione di pregiudizi, equivoci e convinzioni infondate sulle origini del cristianesimo e sui suoi rapporti con l’ebraismo. Il merito di ciò va soprattutto a uno studioso italiano che da molti anni insegna negli U.S.A.; Gabriele Boccaccini.
Nel mondo accademico e tra gli studiosi del settore si tratta di cose ormai scontate, ma è bene che vi sia una seria opera di divulgazione, perché una autentica e profonda consapevolezza delle comuni origini di ebraismo e cristianesimo è forse il migliore antidoto al pregiudizio antigiudaico e antisemita, che è tanto radicato da insinuarsi anche nelle persone meno “sospettabili” e da esprimersi nelle forme più varie e spesso “mascherate” (ad esempio, il double standard quando si tratta di valutare i comportamenti degli ebrei e quelli di altri popoli o gli atti del governo di Israele e quelli di altri governi o regimi).
 Non si tratta solo di prendere coscienza della “ebraicità” di Gesù, dei suoi discepoli o di Paolo – questa coscienza per fortuna si sta diffondendo, dopo secoli di sostanziale rimozione di questo dato, giunta fino agli estremi rappresentati dai deliri sul “Gesù ariano”. Si tratta di capire che, almeno sul piano storico, il cristianesimo – come afferma Boccaccini – non è altro che una forma di giudaismo, una delle due forme di giudaismo – l’altro è quello che noi chiamiamo “ebraismo” – che sono sopravvissute alla catastrofe del 70 e.v. e alla distruzione del Tempio. E’ auspicabile, quindi, che Enzo Bianchi ed altri che hanno accesso ai grandi organi di informazione compiano questa meritoria opera di divulgazione, che può essere molto più efficace di tante celebrazioni meramente rituali della “Giornata della Memoria”.
Sorvolo sul breve passaggio che Bianchi dedica ai figli di Abramo e allo stato di Israele, in quanto mi è risultato del tutto incomprensibile. Finalmente, il priore giunge al punto e dice di voler pronunciare “una parola” sulle vicende di Parigi o sulle reazioni ad esse. Solo che poi questa parola, per quanto mi riguarda, suscita sconcerto, e anche, lo confesso, un po’ di dolore e di tristezza. Perché essa viene da una persona che tante volte è stata capace di mostrarci in modo autenticamente magistrale come la croce di Cristo sia anche e soprattutto criterio di discernimento fra i carnefici e le vittime. E in questa vicenda, prima di ogni altra e pur importante considerazione, dovremmo parlare delle vittime e della violenza che li ha tolti dal mondo, per qualche vignetta o per il solo fatto di essere ebrei. E invece che cosa ci dice Enzo Bianchi, al suo primo intervento sul quotidiano torinese dopo quei fatti? Ci dice che “abbiamo parlato troppo”, che “abbiamo sfigurato una religione, l’islam”. Ci dice che dovremmo ricominciare dal precetto aureo – non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te – e che ciò dovrebbe “vietarci caricature offensive verso l’Islam”. Fortunatamente, il priore concede che “una caricatura, anche offensiva, non può mai essere vendicata con la violenza e l’omicidio” e che “questa è barbarie criminale!”, ma solo per poi appoggiare la metafora del papa, quella del pugno e della madre, con la quale metafora egli “si è fatto capire dalle persone più semplici e quotidiane”. Difatti: il papa si è fatto capire fin troppo bene  e proprio da quelle persone “semplici” che già dicevano, più o meno a mezza voce, che in fondo quei giornalisti se l’erano un po’ cercata (e gli ebrei dell’ipercasher, verrebbe da chiedere, se l’erano forse cercata anche loro, magari perché avevano l’impudenza di essere ebrei?). Come ho già scritto giorni fa, la dichiarazione del papa non solo non può essere condivisa, ma non può neanche essere liquidata, come hanno fatto taluni, alla stregua di una “battuta infelice”, o criticata come incoerente rispetto al precetto di Gesù del porgere l’altra guancia. Il Papa non parlava in generale, ma si riferiva alla vicenda di Parigi, ben sapendo quali erano state le diverse reazioni e quali i diversi commenti. Ha scelto consapevolmente di avallare certe reazioni e commenti (probabilmente per un motivo di realpolitik nei confronti del mondo islamico). Perciò, la sua battuta merita solo un aggettivo: agghiacciante.
A prescindere dalla dichiarazione del Papa, Bianchi, come molti, condivide l’idea che una vignetta possa oggettivamente “offendere” qualcuno nel suo credo religioso e sembra quindi suggerire una sorta di autocensura. L’autocensura, quando non riguarda parole o gesti che costituiscano reato – e la satira sulla religione evidentemente non è reato, nei paesi occidentali - non è meno preoccupante della censura, in quanto configura una situazione totalitaria. La censura sta alla autocensura, potremmo dire, come un tradizionale regime autoritario sta a un regime totalitario. Inoltre, mi ripeto ancora, una volta ammesso che si possa legittimamente considerare una grave offesa una vignetta, dobbiamo anche mettere in conto che qualcuno pensi di dover lavare con il sangue una tale offesa. Ma è possibile criticare e superare il presupposto che tanti, e tra essi il nostro priore, danno quasi per scontato, che cioè delle manifestazioni del pensiero o della creatività possano urtare e offendere la sensibilità religiosa, tanto che la libertà d’opinione e di espressione entri in conflitto con il diritto di ogni persona a professare liberamente e senza subire molestie di sorta il proprio credo? Ciò mi pare assolutamente necessario, se vogliamo mantenere i nostri ordinamenti liberali e preservare i valori fondanti delle società occidentali, nel contesto di una società multireligiosa. Il mondo occidentale un tale problema lo ha già affrontato e risolto una volta: si trattava allora di conflitti interni al cristianesimo, ma essi erano ancor più violenti e distruttivi di quelli attuali. La formula che ci ha salvati e ci ha consentito di convivere tra confessioni religiose diverse, prima, e poi tra credenti e agnostici o atei, la formula che ci ha consentito di sviluppare i nostri ordinamenti civili, è stata “inventata” già all’inizio del Seicento, ma su essa si sono poi fondati l’Illuminismo, la Rivoluzione, le dichiarazioni dei diritti, gli stati liberali e le costituzioni democratiche. La formula è quella secondo cui gli ordinamenti civili, politici e giuridici restano validi etsi Deus non daretur, anche se Dio non fosse dato, se non esistesse. Qualcuno potrebbe erroneamente attribuire questa frase ad un ateo: in realtà essa è del giusnaturalista Grozio, un fervente calvinista, che per ragioni di fede subì anche una lunga prigionia (e tra l’altro per colpa di altri calvinisti). Grozio cercava appunto una risposta a un problema che ora torna di grande attualità: come si fa a convivere pacificamente in una stessa comunità tra individui che professano co0nfessioni religiose diverse e persino contrapposte? La risposta, implicita nella formula citata, è che occorre separare la sfera del credo religioso da quella dello Stato.
In fin dei conti, è questa la prima grande questione che il rabbino Laras poneva all’islam, ma che Enzo Bianchi ha lasciato del tutto cadere: è possibile per l’Islam, ed è possibile per motivi teologici, anteporre il concetto di  “cittadinanza politica”, che si può condividere con persone di diverso credo religioso, a quello di “cittadinanza religiosa”, che invece confligge apertamente con i valori occidentali? Ciò presuppone evidentemente che si possa distinguere tra cittadinanza politica e cittadinanza religiosa e che le due dimensioni non siano sovrapposte o coincidenti (il che pare, invece, il problema dell’Islam). Presuppone, quindi, quel cammino che l’Occidente ha fatto a partire appunto da Grozioo, più indietro ancora, dalla Riforma.
Occorre, però, ancora un passaggio. L’Islam, come è noto, prescrive, fin dal termine stesso, l’assoluta “sottomissione” a Dio. Non si tratta di una peculiarità, magari negativa, dell’Islam: ebraismo e cristianesimo si fondano su un’analoga idea della assoluta signoria di Dio, dal primo comandamento allo shema’ Israel, e conoscono un medesimo concetto di obbedienza. Questa obbedienza, per un credente, non solo non contrasta con la libertà, ma ne è precisamente la condizione. Il problema, dunque, non riguarda solo l’islam, in questo caso, ma anche l’ebraismo e il cristianesimo: pur volendo accettare i principi fondanti della convivenza con chi non crede nello stesso Dio in cui credo io, come faccio poi ad accettare anche le “offese” che costoro lanciano a un Dio al quale devo assoluta sottomissione o obbedienza? Se ne esce solo in un modo: se si capisce che quelle frasi o quei disegni satirici rappresentano una critica, più o meno violenta, più o meno condivisibile, alla religione, a qualche suo aspetto o rappresentante, a situazioni e costruzioni umane, dunque, ma non possono affatto riguardare, colpire e tantomeno insultare e offendere il mio Signore e la fede che ho in lui. Ma per questo ulteriore passaggio è indispensabile un’altra fondamentale distinzione (anche di questo ho già parlato in un post precedente): quella tra fede e religione.
Questa distinzione veniva richiamata nell’articolo di rav Laras, che citava una serie di grandi personalità del pensiero e della teologia, sia ebraici che cristiani, per sostenere che ebraismo e cristianesimo sono prima fedi che religioni. Su questo il priore concorda, anche se preferisce citare Marcel Gauchet, piuttosto che Barth o Bonhoeffer, Buber o Rosenzweig. Il cristianesimo, aggiunge, è capace di una critica, di una distanza alla stessa religione e ciò perché non ha al centro un libro, ma Gesù Cristo. Bianchi riconosce che l’Islam ha ancora da fare un lungo cammino di confronto con la modernità, ma rileva che anche per il cristianesimo questo cammino è stato lungo, è stato travagliato e non è certo concluso (si pensi ai fondamentalismi cristiani).
Queste osservazioni non mi sembrano tuttavia sufficienti a focalizzare il vero centro del problema, che invece rav Laras mi pare cogliere assai bene. Cristianesimo ed ebraismo hanno potuto compiere questo cammino, non solo e non tanto per sollecitazioni ed esigenze esterne, ma per intrinseche ragioni teologiche. Anzi, proprio la teologia cristiana ed il pensiero ebraico hanno contribuito in modo decisivo alla formazione di quel mondo che definiamo “moderno” ed il pensiero politico o le istituzioni civili di questo mondo moderno nascono in buona misura dalla secolarizzazione della teologia cristiana e del pensiero ebraico. Non si è quindi trattato né di un cammino forzato, né di un adattamento o un compromesso con una realtà esterna ed estranea (anche se questo, mi verrebbe da osservare un po’ malignamente, è in buona parte vero per quella componente specifica, ma così importante e pervasiva, del mondo cristiano che è l’istituzione ecclesiastica romana). Pertanto, è rav Laras, e non Enzo Bianchi, che si pone la vera domanda, quando si chiede se per l’Islam questo cammino è possibile “in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani”. In altri termini, mentre Bianchi, e molti altri con lui, pare ritenere che l’Islam si trovi sulla medesima linea retta e marci nella stessa direzione di ebraismo e cristianesimo, trovandosi solo un po’ più indietro (e mi chiedo se poi questa prospettiva non sia nella sostanza più “offensiva” di tutte le vignette di Charlie Hebdo e non tradisca il vecchio vizio dell’imperialismo religioso, mascherato da ecumenismo o dialogo), rav Laras si pone ben altro problema: è possibile per l’Islam effettuare quel cammino che può portare a una convivenza pacifica e ad un incontro reale con le altre due religioni monoteistiche, non per acquiescenza o necessità, ma per motivi teologici? E dato che la teologia delle religioni monoteistiche altro non è che esegesi del Libro sacro o, almeno, ha questa esegesi come suo fondamento e criterio, le questioni fondamentali riguardano proprio il Corano: esso è Sacra Scrittura ed è parola autoritativa, allo stesso modo in cui lo sono la Torah per gli ebrei e la Bibbia per i cristiani? Quale è, nel Corano, il rapporto tra parola divina e parola umana e in che senso il Libro media fra Dio e l’uomo? La risposta a queste domande, nell’ebraismo e nel cristianesimo, ha reso non solo possibile, ma addirittura necessaria l’esegesi critica, storica e letteraria. Si tratta di capire se per il Corano la situazione è analoga - ed allora i ritardi, le difficoltà, le tensioni e le incomprensioni dipenderebbero solo da contingenze storiche e politiche e da interpretazioni erronee o parziali - o se invece il cammino auspicato è ostacolato, se non reso addirittura impraticabile, da profonde ragioni teologiche. Se fosse vera la seconda ipotesi, ciò non dovrebbe certo chiudere le prospettive del dialogo e tantomeno della convivenza pacifica e solidale, ma questo dialogo e questa convivenza se devono essere solidi e autentici devono fondarsi sulla verità e non sulla retorica.
In secondo luogo, si tratta di capire che cosa dice veramente il Corano, riguardo ai rapporti dei musulmani con ebrei e cristiani, sgombrando il campo da ogni semplificazione di comodo sul “vero islam” (semplificazioni oltretutto operate molto spesso da personaggi che si improvvisano esperti di islam senza conoscere neanche una lettera dell’alfabeto arabo). Si tratta ad esempi di capire se, oltre ad avere una certa utilità nel dialogo interreligioso, le espressioni “religioni del Libro” e “religioni abramitiche” abbiano anche un vero significato teologico. Abramo è davvero un padre comune? Ma di questo, in una prossima puntata!


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