lunedì 8 maggio 2017

HANNO INVENTATO IL BURATTINO PERFETTO

Ci sono riusciti. Hanno creato in laboratorio l’automa perfetto. Dalla loro bottega è uscito il burattino ideale, obbediente a tutti i loro comandi. Si chiama Emmanuel Macron. Svezzato dalla sua professoressa, allevato e addestrato in un grande gruppo bancario, compiuto il suo tirocinio al governo e nel partito socialista, l’automa-burattino, nell’estate del 2016, mentre in Francia esplodeva il malcontento sociale per le «politiche europee», mentre a Nizza si verificava l’ennesima strage islamista, mentre interi quartieri cittadini era in mano a immigrati di prima, seconda o terza generazione e governati più dalla sharia che dalla Republique, mentre Hollande si preparava a una mesta e ingloriosa uscita di scena e il suo partito era sull’orlo dell’estinzione, mentre accadeva tutto questo, il designato delfino della tirannide eurocratica veniva spinto al passo decisivo e formava un suo movimento politico. Una brillante operazione di marketing elettorale lanciata in tempo utile. Un nome suggestivo nella forma, vuoto nella sostanza: en marche (ma per andare dove?). La sua era l’immagine di «uomo nuovo» e non compromesso con la politica tradizionale, nella quale invece si era formato, ritirandosi al momento giusto, abbandonando prima il partito e poi il governo. Certo, occorreva glissare sul fatto che l’uomo nuovo dovesse la sua ascesa politica proprio a quel partito ormai così screditato e che fosse stato fino al giorno prima il Ministro dell’Economia dell’odiatissimo governo Valls. Operazione non impossibile: ormai basta trovare un somaro giovane e che si possa spacciare per “nuovo” ed ecco frotte di elettori acclamanti. Nella Gerusalemme di oggi non entrano messia in groppa all’asina, ma gli asini soltanto; e non turbano le elite del Tempio, visto che anzi sono queste a spalancargli le porte.

Certo, il consenso a Macron in termini assoluti è assai ridotto, anche se oggi questo dato obiettivo viene taciuto dai più. La Francia è drammaticamente divisa ed è come se ormai ci fossero due diverse nazioni: da un lato, Parigi, le elite borghesi e intellettuali, i grandi media, i molti cittadini islamici; dall’altro lato la cosiddetta “Francia profonda”, le campagne, la provincia, i contadini e gli operai, le vittime della globalizzazione e quelle della società “multiculturale”, i francesi che, al contrario di Macron, pensano ancora che esista una “identità nazionale” e che vedono falcidiati i loro redditi.

Un quadro a prima vista non molto diverso da quello degli USA – anche nella mobilitazione liberal-progressista preelettorale, con la demonizzazione dell’antagonista - ma con un esito opposto. Come mai? Innanzitutto, per la diversa struttura della nazione francese rispetto a quella americana: l’America non è New York, non è la fascia urbana dell’East e della West Coast, l’America non è il New York Times, non è un grande college progressista. Controllare queste aree e questi ambienti è importante, ma non decisivo. La Francia, invece, è prima di tutto Parigi. Nel senso che nessuno può prendere il potere senza prendere Parigi. Se ne dovette accorgere Enrico di Borbone, capo del partito protestante, che poté diventare re solo entrando a Parigi, sebbene non avesse più antagonisti, e per entrare a Parigi dovette farsi cattolico («Parigi val bene una messa»). Per questo motivo, mentre a novembre avevo puntato sulla vittoria di Trump, non avrei scommesso un euro e nemmeno un vecchio franco su quella di Marine, che a Parigi raccoglie percentuali di voti risibili.

Peraltro, va anche detto che se è vero che senza Parigi nessuno può prendere il potere in Francia, è altrettanto indubitabile che senza controllare la campagna e la provincia nessuno può restarci a lungo al potere. Lo capirono subito i rivoluzionari del 1789 che dopo soltanto una ventina di giorni dalla caduta della Bastiglia seppero conquistarsi larga parte delle campagne e del mondo contadino con l’abrogazione giuridica del regime feudale. Lo seppero i giacobini che seppero contenere le tante “Vandee” del malcontento contadino, distribuendo le terre.  

Per questo, se c’è ancora una residua speranza, come dice Winston Smith, il personaggio inventato da Orwell in 1984, questa speranza risiede nei prolet e non certo nei ricchi progressisti del Marais e negli intellò che, in larghissima maggioranza, stanno ora festeggiando Macron.

Intanto, però, non si può che registrare l’abilissima operazione che ha portato “Lolito” Macron all’Eliseo e che soprattutto ha probabilmente affondato definitivamente le speranze di riscatto e rinascita dei popoli europei.

L’ideologia immigrazionista e multiculturale ha realizzato il suo capolavoro, confermandosi efficacissimo strumento al servizio delle oligarchie dominanti. E’ riuscita, infatti, prima a dividere il fronte della protesta e del malcontento, che se si fosse compattato, come mostrano oggettivamente i risultati di Melenchon e Le Pen al primo turno, avrebbe prevalso e poi ad agitare il consueto spauracchio del pericolo “fascio-xenofobo”, dell’”estrema destra populista”. Etichette vuote e mistificanti, eppure vincenti. Lo spartiacque fra destra e sinistra è ormai ridotto a una formula che consolida i poteri dominanti e che fa avanzare i soli fascismi dei nostri tempi – se proprio si vuole usare questo termine in senso evidentemente improprio e comunque molto lato (in una approssimativa accezione politologica e non certo storiografica) – “fascismi” che sono il regime eurocratico, da un lato, il totalitarismo islamista, dall’altro.

E’ significativo che ancor prima di quella di Macron sia giunta ieri sera, a urne chiuse e proiezioni appena lanciate, la dichiarazione trionfante della Merkel. Gli eurocrati, che negano il conflitto di civiltà, in realtà se ne  servono per dividere gli scontenti, separando gli scontenti di "sinistra" ammaliati dalla favola del "buon immigrato", da quelli di "destra", spaventati dall'"uomo nero". Gli eurocrati sanno bene che la supremazia occidentale è ormai finita, ma invece di concepire una strategia politica che consenta all’Occidente, sia pure ridimensionato, di sopravvivere, salvaguardando i propri valori fondanti, arraffano i preziosi e l’argenteria, depredano tutto ciò che si può depredare, spolpano vivi i loro popoli e aprono la porta ai nemici della nostra civiltà, prima di scappare, probabilmente, e di correre a nascondersi dove sperano di godersi i frutti della rapina. Gli eurocrati, che oggi proclamano felici che “la paura è stata sconfitta”, sulla paura in realtà hanno costruito la loro vittoria e la vittoria del loro pupazzo. O meglio, ad una paura sacrosanta – quella del popolo che si vede scorticato dalla moneta unica, esposto alla minaccia terroristica e invaso da una massa portatrice di identità, abitudini e mentalità incompatibili con quelle occidentali -  hanno saputo opporre una paura finta e strumentale, quella del “populismo”.

Tra le molte battute che circolano in queste ore ho letto anche questa: “i francesi hanno dimostrato di essere più stupidi degli italiani”. Aspettiamo, però, a sorridere, sia pure amaramente: tra poco saremo chiamati a scegliere fra Renzi e Di Maio… Il regime dominante mostra purtroppo la capacità che hanno i dominatori più ferrei: riesce a scegliere non solo chi deve governare, ma anche chi deve rappresentare l’alternativa. In modo che questa alternativa sia improponibile, come si è mostrata la Le Pen in Francia, oppure vuota e inutile, come il M5S in Italia, sul quale il giudizio forse definitivo è quello, come al solito spietatamente lucido di Luttwak, in occasione della visita negli USA di Di Maio (Di Maio ad Harvard: un nuovo ossimoro): «il M5S ha raccolto una volontà di cambiamento e l’ha tradotta in un niente».

Probabilmente, avete vinto voi. Lo sappiamo. Un giorno, magari, scopriremo di amare il Grande Fratello, il dio Baal di Bruxelles (se non arriverà prima il Califfo…). A tanti accade già. Un giorno, ci convincerete che due più due fa cinque, che «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza e forza».

Ma non è ancora il tempo, se mai arriverà. Per ora possiamo ancora ritirarci in un angolo nascosto a scrivere il nostro diario. Per ora possiamo perfino scrivere voluttuosamente sulla pagina «abbasso il Grande Fratello, abbasso il Grande Fratello!». Per ora, soprattutto, possiamo ancora correre fuori città, andare in campagna, come Winston e Julia in 1984, lungo quel ruscello, nel “Paese d’oro” che certe volte continuiamo a sognare, Winston con Julia, Julia con Winston; oppure con gli amici fidati, o persino da soli. Prima di essere presi, possiamo vivere ancora liberi per qualche tempo.

E quindi tenetevi le vostre vittorie, le vostre bandiere e i vostri burattini; e non ci date fastidio.




sabato 6 maggio 2017

IL FANTASMA DEL "LODO MORO"



Ho pensato oggi di ricordare e a raccontare a me stesso e a chi vorrà leggermi una vecchia storia, una storia nota a pochissimi e sepolta nell’inferno della prima Repubblica, una storia che – oltre ad illuminare sul nostro recente passato – potrebbe avere inquietanti aspetti di attualità.
Ho pensato di farlo dopo il 25 aprile, quando a Roma vi sono state due distinte manifestazioni: quella dell’Anpi, con le solite bandiere palestinesi – che nulla hanno a che vedere con la Resistenza - e con i soliti slogan anti israeliani. E quella della Brigata Ebraica, che invece con la Resistenza ha moltissimo a che fare.
Mi sono convinto definitivamente dopo la notizia che alcuni deputati del Parlamento italiano – provenienti da Sel – avevano aderito alle manifestazioni di solidarietà nei confronti dei “detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane” – in realtà terroristi, spesso pluriomicidi – bevendo simbolicamente bicchieri di acqua e sale.
Non ho voluto raccontare, come tanti meritoriamente già fanno, come occorre fare sempre di nuovo e ripetutamente, la vera storia della cosiddetta “occupazione” israeliana dei cosiddetti “territori palestinesi” e neanche quella – anch’essa giustamente rievocata nei giorni scorsi – del Gran Muftì di Palestina e della sua alleanza con i nazisti, a fronte del’eroico contributo della Brigata ebraica alla Resistenza.
Ho voluto ricordare e raccontare una storia diversa, ma che pure potrebbe portare i non ciechi e non faziosi a capire che cosa veramente stanno sventolando quando agitano una bandiera “palestinese” e con chi solidarizzano quando solidarizzano con la "resistenza" palestinese. E soprattutto potrebbe aprire gravi e inquietanti interrogativi sul presente, ammesso che certe domande scomode qualcuno voglia porsele e porle.


La strage di Bologna: una ferita perenne
E’ la vicenda del “lodo Moro”, dei rapporti di governi e servizi italiani con il terrorismo palestinese e potrebbe essere anche quella della più terribile fra le stragi della storia italiana, quella della stazione di Bologna.
Una strage, quella del 2 agosto 1980, che oltre che per le sue terribili dimensioni (85 morti e 200 feriti), anche per altri motivi costituisce una ferita nel nostro animo che non può rimarginarsi. Perché è una strage fuori tempo massimo, visto che la “strategia della tensione” era finita già da alcuni anni; perché è una strage che, a differenza di altre, non è rimasta impunita, ma ha trovato un esito giudiziario assai poco convincente, con dei condannati – Fioravanti e Mambro – che continuano a dichiararsi innocenti, pur non avendo più alcun motivo per mentire, visto che si sono meritati già vari ergastoli per altri delitti, delitti che invece hanno sempre rivendicato; perché, infine, quella strage si consumò in un luogo che è familiare a gran parte di noi: tutti prima o poi siamo passati per quella stazione e parecchi lo hanno fatto o dovevano farlo proprio quell’estate, in quei giorni, alcuni addirittura quella stessa mattina. In tal senso, siamo tutti dei sopravvissuti e ci portiamo dietro la condanna alla memoria e al rimorso che appartiene ai sopravvissuti. E il dovere di capire.
Un libro molto ben documentato e pubblicato nei mesi scorsi aiuterebbe a capire. E’ quello scritto da Valerio Cutolilli e Rosario Priore (il magistrato di Ustica) (I segreti di Bologna, edito da Chiarelettere). Se non che, questo volume, dopo le sciatte e doveroso recensioni, è stato subito dimenticato. Lo segnalo a chi non lo avesse letto e provo a farne una personalissima sintesi.


I missili terra-aria di Ortona, tre autonomi e uno strano studente palestinese
Priore e Cutolilli iniziano efficacemente la loro narrazione con un fatto – apparentemente banale – avvenuto nella notte fra il 7 e l’8 novembre 1979, ad Ortona, sul litorale abruzzese. Una pattuglia di carabinieri ferma un furgone con tre giovani romani. I tre dichiarano di essere turisti diretti alle Tremiti. Motivazione plausibile della loro presenza a Ortona, se non fosse che a novembre sono sospesi i collegamenti marittimi fra il porto abruzzese e le Tremiti. Gli accertamenti rivelano subito che i tre appartengono all’Autonomia Operaia e la perquisizione del furgone fa scoprire, nascosti in una cassa di legno, addirittura tre missili terra-aria. Si tratta degli Strela, o Sam-7, di fabbricazione sovietica, capaci di centrare un obiettivo in volo all’altezza di 2000 metri. L’URSS li fornisce a paesi e movimenti politici amici, ma non si tratta certo di armi usate dagli autonomi e nemmeno dalle BR.
Il mistero comincia a squarciarsi, grazie a un numero telefonico – un’utenza bolognese - trovato addosso a uno dei tre giovani. E’ lo stesso numero che qualcuno ha chiamato poche ore prima dall’agenzia marittima Fratino. E questo qualcuno è un trafficante di armi, un siriano appena giunto ad Ortona, con l’imbarcazione libanese Sidon. Ma a chi appartiene l’utenza bolognese, che collega il trafficante di armi ai tre autonomi trovati in possesso dei missili? Si tratta di uno “studente” palestinese, Abu Anzeh Saleh, residente da nove anni a Bologna. Di esami ne ha dato uno solo, ma nei suoi confronti sono stati emanati più volte decreti di espulsione, poi regolarmente ritrattati o disattesi. Sembra che qualcuno si muova per proteggerlo e consentirgli di restare in Italia. Saleh è un militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), capeggiato da George Habash, una formazione marxista, che propugna la lotta armata e organizza azioni terroristiche, che critica “da sinistra” Arafat, ma che comunque fa parte dell’O.L.P.. Saleh finisce in carcere, stavolta, insieme ai tre giovani autonomi.
L’episodio passa pressoché inosservato, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, ma manda in fibrillazione il servizio segreto militare. In realtà, eravamo di fronte a un drammatico crocevia della nostra storia, che segnava la fine del cosiddetto “lodo Moro” e preparava – forse – la terribile strage dell’estate successiva.


“Stefano d’Arabia”, la “diplomazia parallela” in Medio Oriente e le origini del ”lodo Moro”
Dall’agenda di Saleh risultano i suoi contatti con un certo “Stefano”. Si tratta del colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut. Da quasi dieci anni, Giovannone è il referente di una “diplomazia parallela e segreta” in Medio Oriente, il che gli è valso il soprannome di “Stefano d’Arabia”. E’ l’anello di contatto fra servizi segreti e politica ed è stato l’uomo di fiducia di Aldo Moro, che nelle sue lettere dal carcere delle BR ne aveva invocato l’intervento. Giovannone è a Beirut dal 1972 e da quel  momento risponde da un lato a Moro e dall’altro direttamente al capo del Sid, Vito Miceli, scavalcando, sia nel rapporto politico che in quello spionistico, qualunque altro soggetto, compreso l’ambasciatore italiano in Libano.
E’ però nell’anno successivo, il 1973, che questa “diplomazia parallela e segreta” trova il suo sbocco nel cosiddetto “lodo Moro”. Il 5 settembre 1973 vengono arrestati ad Ostia cinque fedayyin palestinesi e vengono scoperti dei missili Strela, simili a quelli che anni dopo saranno trovati ad Ortona. L’arresto dei terroristi, che pare stessero progettando un attacco all’aereo della premier israeliana Golda Meir, provoca la reazione furiosa dell’OLP che minaccia azioni di rappresaglia contro l’Italia. Il governo Rumor accoglie la proposta avanzata dall’OLP in una riunione segreta al Cairo: liberazione dei detenuti in cambio della sospensione delle azioni terroristiche sul territorio italiano. Per scarcerare i detenuti, come in altre occasioni, ci si servirà della cosiddetta “legge Valpreda”, che concede agli imputati la libertà provvisoria. I primi due fedayyin vengono così ricondotti in Libia, ai primi di novembre del 1973, a bordo di un aereo dell’aeronautica italiana, usato anche da Gladio, l’Argo 16.
Qualche settimana dopo, l’Argo 16 precipita con i quattro uomini dell’equipaggio. Ufficialmente si parla di incidente e il processo a carico di Asa Leven, all’epoca responsabile del Mossad a Roma, si concluderà con un’assoluzione. Tuttavia, sia Cossiga che Paolo Emilio Taviani hanno alluso a un sabotaggio organizzato dagli israeliani, in risposta alla liberazione dei terroristi palestinesi e come avvertimento all’Italia per la politica filoaraba.
Reazioni – e ancora più gravi – ci sono anche nel mondo del terrorismo palestinese. Il gruppo dissidente di Ahmed Abdel Ghaffour per sabotare l’accordo fra Italia e OLP organizza il 17 dicembre 1973 – proprio mentre si stanno processando gli altri membri del commando di Ostia -  l’attacco di Fiumicino a un Boeing della Pan Am e il dirottamento di un aereo della Lufthansa. Ci sono 34 morti, tra cui 6 italiani. Si è poi scoperto che il mandante dell’azione era Gheddafi, capofila del cosiddetto “fronte del rifiuto” e deciso ad appoggiare i gruppi estremisti palestinesi e a sabotare il dialogo fra Arafat e l’Europa. In realtà, Arafat conduce una sorta di doppio gioco: da un lato, veste un abito moderato per stringere rapporti con l’Italia e con altre nazioni europee, per accreditarsi all’ONU (si prepara il discorso alle Nazioni Unite del 13 novembre 1974) e presso ambienti politici statunitensi; dall’altro lato, si guarda bene dallo sconfessare o combattere la dissidenza interna, a cominciare dal FPLP, che continua a far parte dell’OLP e che comunque torna utile al gioco spregiudicato del leader di Al Fatah.
Dopo l’attentato di Fiumicino, i tre fedayn rimasti in carcere vengono rilasciati e consegnati a Gheddafi, nel massimo riserbo. Soprattutto, si stringe un accordo complessivo che durerà per anni e che farà effettivamente cessare le azioni del terrorismo palestinese in Italia. In cambio, l’Italia sarà utilizzata come base logistica per il traffico di armi, per il movimento di uomini e per le azioni terroristiche in altri paesi. Quando qualche terrorista verrà “malauguratamente” fermato dalle forze di polizia saranno usati gli strumenti legali, come la legge Valpreda o l’istituto della grazia, per lasciarlo andare.


Come funzionava e che cosa era il “lodo Moro”
Un caso esemplare di applicazione del patto è quello del marzo 1976: tre terroristi arabi vengono perquisiti a Fiumicino. Sono trovati con pistole e con una bomba a mano. Vengono condannati per direttissima a sette anni per detenzione, introduzione abusiva e porto illegale di armi. “Stranamente” rinunciano all’appello, sicché la sentenza passa subito in giudicato. In tal modo il Presidente Leone può intervenire, concedendo la grazia ai tre, che abbandonano il paese su un velivolo militare.
 Fino ai fatti di Ortona, nulla trapelerà e nulla si metterà di traverso all’accordo. Per questo, ufficialmente il “lodo Moro” non è mai esistito.
Non bisogna dare, peraltro, una lettura riduttiva del “lodo Moro”. Non si tratta solo di opportunismo, ma dello sbocco di una tendenza filoaraba ben radicata nella politica italiana, che ha degli illustri precedenti in Mattei, La Pira, Gronchi, che è da sempre presente e dominante nella sinistra democristiana e che dopo la guerra dei Sei Giorni ha coinvolto anche il PCI e il PSI. Nel Sid il “partito arabo” fa capo proprio a Miceli, uomo di fiducia di Moro. Questa corrente si rafforza ulteriormente dopo lo choc petrolifero del 1973 e con la crescente dipendenza italiana dal petrolio libico e dal gas algerino.
Se questi fossero i termini della questione e non vi fossero altre gravissime implicazioni, in fondo il lodo Moro si potrebbe anche ricondurre a una spregiudicata ma accorta espressione della ragion di stato e alla traduzione a livello di intelligence di una determinata strategia politica, anche questa lucida per quanto discutibile.
Disgraziatamente, anche prima del tragico e ancora oscuro epilogo della strage di Bologna e pur senza voler considerare ciò che eticamente non si può invece ignorare – ossia il prezzo in vite umane pagato da altri paesi, vittima di attentati che utilizzavano l’Italia come base logistica – il lodo Moro ha avuto risvolti inquietanti e francamente inammissibili, da qualunque punto di vista, anche per la vita civile della nostra nazione e nel periodo nel quale esso “funzionò” (1974-79).


I rapporti fra terrorismo palestinese e BR: la nemesi del lodo Moro
Proprio il rapimento a via Fani del promotore politico del patto lascia emergere questi risvolti, che  si traducono poi in una nemesi di cui cade vittima lo stesso Aldo Moro. I servizi italiani, nell'imminenza dell'azione di via Fani, avevano ricevuto, attraverso il solito Giovannone, una soffiata proveniente dal FPLP su una gravissima azione terroristica che era in preparazione e che era stata definita in una non precisata località europea, durante un summit fra diversi gruppi terroristici. Il fatto è che il FPLP opera in sinergia con altri gruppi terroristici di estrema sinistra, fra cui le “nostre” BR, e che però con questa “soffiata” – che non avrà purtroppo risultati pratici – intende ribadire la propria “fedeltà” al lodo Moro. E’ per questo che il leader DC – che nella sua prigionia, contrariamente a quanto si dice da più parti, resta lucidissimo – chiede l’intervento di Giovannone: sa bene che i fedayyin palestinesi possono fare da mediatori con i loro compagni delle BR. L’intervento palestinese, come riferisce tra l’altro Oreste Scalzone, leader dell’Autonomia Operaia, ci sarebbe stato effettivamente, ma si sarebbe arenato dietro il fermo rifiuto delle BR stesse.

Il caso Moro lascia così trapelare i rapporti organici esistenti fra terrorismo palestinese e terrorismo “rosso” italiano, con scambio di informazioni e di armi e con una complessiva sinergia organizzativa e logistica. Tutto ciò sarà confermato e provato più tardi grazie alle rivelazioni di Patrizio Peci, il “pentito” delle BR. Peci, nel 1980, dichiara che due mesi prima dei fatti di Ortona, da cui siamo partiti, le BR hanno fatto sbarcare in Italia l’arsenale ricevuto dai fedayyin palestinesi in Libano. Moretti in persona ha effettuato il viaggio, caricando esplosivi, bombe a mano, fucili e mitragliatori. Le armi sarebbero state divise fra BR e OLP (ma in seguito si scoprirà che parte di esse erano destinate anche ad altri gruppi terroristici europei). In seguito a queste rivelazioni, sarà scoperto in Barbagia uno dei depositi di armi.
Ma, a questo punto, la questione del “lodo Moro” acquista una ben diversa portata: agevolando il terrorismo palestinese, dal 1974 al delitto Moro, e credendo di preservare così il proprio territorio, l’Italia – o almeno i settori politici e militari che promuovono e poi salvaguardano il patto – finiscono indirettamente per agevolare anche le azioni delle BR. L’impunità concessa ai palestinesi ha finito per armare le BR. E si noti che è proprio nel periodo in questione che si assiste alla crescita esponenziale della capacità d’azione della lotta armata di matrice “rossa”.


Il nuovo scenario internazionale e la crisi del lodo Moro
Il lodo Moro va in crisi per il mutare dello scenario internazionale che si verifica nel 1979 e per i riflessi di questo cambiamento sulla scena politica italiana. Negli anni precedenti, gli USA – con amministrazioni indebolite dal Vietnam e dal Watergate e alle prese con l’instabilità economica e monetaria che subentra ai “trenta gloriosi anni” del boom del dopoguerra – hanno lasciato all’Italia inusitati margini di manovra nello scacchiere Mediterraneo. Alla fine del decennio, tuttavia, gli USA e la Nato tornano attivamente in campo, intesi a contrastare e neutralizzare la superiorità strategica militare dell’URSS in Europa e la sua crescente influenza politica in Medio Oriente. L’Italia è chiamata a un brusco cambio di rotta: la questione su cui si gioca la partita della superiorità strategica in Europa è quella degli euromissili, che dovranno essere dislocati proprio in Italia, e l’uomo che deve realizzare la svolta è Francesco Cossiga, tornato al governo come primo ministro dopo la momentanea crisi della sua carriera politica conseguente all’uccisione di Moro. Nel mirino degli americani non c’è solo l’URSS, ma ci sono soprattutto i suoi alleati arabi, a cominciare da Gheddafi che si è pericolosamente avvicinato a Mosca e che ovviamente continua a sostenere i gruppi armati palestinesi, specie quelli più radicali come il FPLP, a sua volta finanziato e armato dai sovietici.
Questo contesto internazionale pone le premesse per la fine del lodo Moro; i fatti di Ortona, richiamati all’inizio, acquistano così una portata cruciale, perché da un lato rivelano l’esistenza del patto, dall’altro ne segnano la fine. Dopo l’arresto di Saleh, uomo di punta del FPLP in Italia, i palestinesi si muovono come di consueto, senza percepire il mutamento del clima. Il 12 gennaio 1980, visto che la detenzione del loro uomo si prolunga e i missili non vengono restituiti, Abu Sharif, dirigente del FPLP e “addetto stampa” in Italia, rilascia un’intervista a “Paese sera”, nella quale ricorda o rivela che da anni il territorio italiano viene usato per il trasporto di armi, chiede la restituzione delle stesse e minaccia rappresaglie in caso contrario. Riceverà, però, la risposta più autorevole possibile: lo stesso giorno una nota ufficiale della Presidenza del Consiglio nega qualsiasi accordo fra l’Italia e il terrorismo palestinese per il trasporto di armi, afferma addirittura che l’Italia non avrebbe alcun rapporto con il FPLP e ipotizza che i missili di Ortona stessero entrando in Italia, piuttosto che lasciare il territorio nazionale, il che aggraverebbe la posizione di Saleh. Il lodo Moro viene così sconfessato agli occhi di chi ne era partecipe o ne era al corrente, mentre a tutti gli altri si dichiara che non è mai esistito.
Dieci giorni dopo gli imputati di Ortona vengono condannati. Il vecchio capo del Sid, Vito Miceli, esce allora allo scoperto, con una intervista all’Espresso, nella quale autorizza il giornalista a porre tra virgolette l’esistenza dell’accordo con i fedayn per scongiurare il rischio di attentati. Il suo tentativo non serve a nulla, se non a confermare l’esistenza del patto: Cossiga è irremovibile. Tuttavia, questi non ha ancora vinto la sua partita, destinata a riportare l’Italia saldamente nel campo occidentale e filoamericano, perché deve ancora affrontare un duro scontro politico in occasione del congresso del suo partito. La sua linea politica è contestata all’interno della DC, sia sul piano internazionale che su quello delle alleanze nazionali, da uno schieramento che comprende sia Andreotti che la sinistra di De Mita e Zaccagnini. Questo schieramento vuole il proseguimento della politica filoaraba e, sul piano interno, la ripresa dell’intesa con il PCI, a scapito del PSI di Craxi, che invece Cossiga considera alleato privilegiato. Con Cossiga si schierano invece sia Forlani che Donat-Cattin, le cui mozioni convergono su un “preambolo” che contiene una conventio ad excludendum dei comunisti e allude quindi anche al riallineamento internazionale. L’adesione al preambolo dei dorotei risulta decisiva: Zaccagnini è costretto a dimettersi, Piccoli e Forlani diventano segretario e presidente del partito e Cossiga può formare un secondo governo, più forte del primo. Parallelamente anche Craxi può così conservare la segreteria e rafforzare la sua linea politica.


La rottura del lodo Moro e le reazioni di Gheddafi e dei palestinesi
Il secondo governo Cossiga (DC-PSI-PRI), nato nell’aprile del 1980, prende decisamente le distanze da Gheddafi e conferma la rottura del lodo Moro con i palestinesi. Giovannone è allarmato: avverte che il FPLP ha intenzione di compiere un attentato dimostrativo che resterà senza rivendicazione, ma che dovrà giungere al governo italiano come un inequivocabile segnale. L’assenza di rivendicazione è volta a evitare che l’iniziativa venga bloccata da Arafat (impossibile ipotizzare che egli resti all’oscuro di quanto si prepara), il quale non potrebbe consentire una azione sanguinaria contro l’Italia esplicitamente riconducibile a una qualche frazione dell’OLP, in quanto ciò rischierebbe di compromettere la sua linea diplomatica (ricordo che la strage di Bologna non è mai stata rivendicata). D’altra parte, Arafat tiene all’unità palestinese anche più che alle sue manovre diplomatiche. La non rivendicazione rappresenta dunque la linea di compromesso fra il FPLP e il capo di Al Fatah.
Habash, leader del FPLP, non perde tempo e contatta il più noto terrorista internazionale, il venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come “Carlos, lo sciacallo”.
Poco più di un mese prima della strage della stazione di Bologna, l’Italia è funestata da un’altra tragedia, quella di Ustica. A distanza di tanti anni, la spiegazione più plausibile è che quella notte si volesse abbattere l’aereo che trasportava il leader libico e che il DC9 sia stato fatalmente colpito in un’azione volta a neutralizzare i due caccia libici che avrebbero dovuto scortare l’aereo di Gheddafi. I velivoli libici, d’altra parte, sembrano ancora in grado di utilizzare i “corridoi segreti” che l’Italia aveva loro lasciato negli anni precedenti. Il DC9 di Ustica è così vittima paradossalmente tanto del lodo Moro che della sua rottura.
Dopo la strage di Ustica, nel luglio del 1980, è altissimo nei servizi segreti l’allarme per un imminente grave attentato che a questo punto sarebbe insieme avvertimento per la denuncia del lodo Moro e rappresaglia per la tentata liquidazione di Gheddafi. L’11 luglio è il capo della polizia in persona ad avvertire del pericolo, come mostra un documento pubblicato nel libro di Priore e Cutonilli. Una nota del Sismi rivela poi che il servizio segreto si aspetta un’azione imminente del FPLP, mentre Silvio Di Napoli, un dirigente del Sismi stesso, rivelerà al giudice Mastelloni di essere venuto a conoscenza a suo tempo di un incontro fra il FPLP e Carlos per dare attuazione alla rappresaglia contro l’Italia.


L’enigma della strage
Questo scenario rende quindi plausibile la pista palestinese nella strage di Bologna. Mancano, tuttavia, gli elementi fattuali di prova. A questo punto, infatti, l’attenta e puntuale ricostruzione di Priore e Cutolilli deve necessariamente perdersi nei mille meandri misteriosi che vengono fuori dall’indagine giudiziaria: dai soliti e molteplici depistaggi, agli svariati elementi enigmatici, che non si risolvono né accettando le spiegazioni ufficiali dei protagonisti o dei soggetti comunque coinvolti, né provando a darne una lettura opposta che possa avvalorare una pista diversa. Ne cito solo uno fra i tanti, che vale per tutti, e rimando per il resto all’ultimo capitolo del libro citato.
Nel 2000 Carlos, in un’intervista al “Messaggero”, fa una sibillina allusione alla strage di Bologna: la mattina del 2 agosto 1980 nel capoluogo emiliano ci sarebbe stato un suo uomo – secondo quanto asserisce, non autore dell’attentato alla stazione, ma destinato a organizzarne altri. Sarebbe sceso da un treno in corsa, sapendosi pedinato, e senza valigia avrebbe lasciato la stazione poco prima dell’esplosione. La rivelazione di Carlos pare, in realtà, un messaggio cifrato e forse un avvertimento. Nulla di più se ne riesce a ricavare, finché nel 2005, attraverso un percorso tortuoso, salta fuori l’identità dell’”uomo senza valigia”: si tratterebbe di Thomas Kram, che nelle carte della Stasi, il servizio segreto della DDR, risulta da anni militante del gruppo terroristico di Carlos e, in particolare, esperto di esplosivi. Kram, la sera del 1° agosto, ha preso alloggio all’hotel Centrale di Bologna. Interrogato, dà questa ricostruzione dei suoi movimenti: giunto a Chiasso quello stesso giorno, poco dopo mezzogiorno, precisamente alle 12.08, come risulta anche dagli atti della commissione Mitrokhin, sarebbe stato trattenuto per ore dalla polizia di frontiera, fino a giungere con molto ritardo a Milano dove aveva un appuntamento con una ragazza austriaca, che lo aveva invitato in Italia; così, non era più riuscito a rintracciare la donna. Naufragata l’avventura amorosa, aveva deciso di proseguire per Firenze per andare a trovare dei suoi amici. Temendo però di arrivare troppo tardi e di non riuscire a trovare un albergo, aveva deciso, a tarda sera, di scendere a Bologna e pernottare lì. La sua spiegazione della presenza nel capoluogo emiliano il giorno della strage, sebbene legata a una serie di circostanze piuttosto singolari, sembra reggere. Sono due blogger, però, a scoprire una falla decisiva in questa ricostruzione, dovuta a un errore contenuto nella stessa relazione Mitrokhin: Kram, in realtà, è giunto a Chiasso alle 10.30 e non a mezzogiorno ed è stato trattenuto poco tempo dalla polizia di frontiera. L’orario delle 12.08 non si riferisce al suo arrivo a Chiasso, ma è l’orario del treno per Milano su cui è salito. A Milano, Kram ci è arrivato alle 14 e non in serata, per cui, anche dopo il mancato appuntamento con la ragazza, avrebbe avuto a disposizione diverse ore per giungere a Firenze. L’alibi non tiene più. Lo stesso Kram successivamente cambia la sua versione, dichiarando al magistrato di essersi registrato all’Hotel Centrale di Bologna nel pomeriggio e non a tarda notte. Ma qui il mistero si infittisce, perché la magistratura nel 1980 ordinò subito di controllare i registri degli alberghi per verificare se qualche sospetto fosse giunto in città nei giorni precedenti. Il nome di Kram non saltò fuori perché nei registri dell’albergo il suo arrivo, come poi si è scoperto, risulta annotato a penna dopo la mezzanotte e quindi inserito tra quelli del 2 agosto. A questo punto, o Kram ha mentito nella sua seconda versione e resta il mistero su perché lo abbia fatto, o qualcuno ha manomesso il registro. Vi sono ancora altre falle nel suo racconto e ne cito solo due: gli amici che doveva raggiungere a Firenze sono rimasti sempre sconosciuti. Egli poi sostiene di aver raggiunto il capoluogo toscano, il 2 agosto, a bordo di un bus, perché la stazione ferroviaria era ovviamente inutilizzabile, ma si dà il caso che non vi fossero collegamenti di pullman fra Bologna e Firenze.
Un altro mistero è questo: Kram era un soggetto noto alla nostra polizia e doveva essere pedinato sul suolo italiano, ma di questo pedinamento – a cui peraltro allude anche Carlos, come abbiamo visto – non si è mai saputo nulla.
E tuttavia, se il suo alibi fa acqua da tutte le parti e la sua ricostruzione è ben poco plausibile e vistosamente contraddittoria, altrettanto poco plausibile è anche l’ipotesi del suo coinvolgimento nella strage. E’ singolare, infatti, che un terrorista in procinto di compiere un simile attentato si registri tranquillamente in albergo con il suo nome, essendo peraltro anche esperto nella fabbricazione di documenti falsi.

conclusione
L’enigma della strage di Bologna resta dunque irrisolto, mentre è invece chiaro il contesto storico immediatamente precedente, con la stipula del patto definito “lodo Moro”, verso il 1973, e la sua rottura pochi mesi prima delle stragi di Ustica e di Bologna. Chiari sono anche significati e implicazioni del “lodo Moro”.
Tanto dovrebbe bastare a porsi qualche domanda anche sull’attuale fenomeno terroristico e sulle connivenze o coperture che da qualche parte potrebbe aver trovato, senza peraltro commettere il gravissimo errore di considerarlo per questo eterodiretto, scivolando in ipotesi complottistiche. Neanche le BR erano eterodirette, né la storia degli anni di piombo si può ridurre a complotto. Si tratta, piuttosto, di sapere che la ragion di stato a volte si avviluppa su se stessa, cade nella palude delle proprie ambiguità e così espone a rischi altissimi proprio coloro che se ne servono in modo altamente spregiudicato e soprattutto, cosa ancor più dolorosa, mette in pericolo i cittadini stessi che, salvaguardando lo Stato, dovrebbe tutelare.
Ma naturalmente siamo tutti contenti che l’Italia e l’Italia soltanto, fra i paesi oggettivamente nel mirino del jihadismo, sia rimasta finora immune da gravi attentati. Sarà il ben noto “stellone” che protegge il nostro paese…