Ho pensato oggi di
ricordare e a raccontare a me stesso e a chi vorrà leggermi una vecchia storia,
una storia nota a pochissimi e sepolta nell’inferno della prima
Repubblica, una storia che – oltre ad illuminare sul nostro recente passato – potrebbe
avere inquietanti aspetti di attualità.
Ho pensato di farlo
dopo il 25 aprile, quando a Roma vi sono state due distinte manifestazioni:
quella dell’Anpi, con le solite bandiere palestinesi – che nulla hanno a che
vedere con la Resistenza - e con i soliti slogan anti israeliani. E quella
della Brigata Ebraica, che invece con la Resistenza ha moltissimo a che fare.
Mi sono convinto
definitivamente dopo la notizia che alcuni deputati del Parlamento italiano –
provenienti da Sel – avevano aderito alle manifestazioni di solidarietà nei
confronti dei “detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane” – in
realtà terroristi, spesso pluriomicidi – bevendo simbolicamente bicchieri di
acqua e sale.
Non ho voluto
raccontare, come tanti meritoriamente già fanno, come occorre fare sempre di
nuovo e ripetutamente, la vera storia della cosiddetta “occupazione” israeliana
dei cosiddetti “territori palestinesi” e neanche quella – anch’essa giustamente
rievocata nei giorni scorsi – del Gran Muftì di Palestina e della sua alleanza
con i nazisti, a fronte del’eroico contributo della Brigata ebraica alla
Resistenza.
Ho voluto ricordare e
raccontare una storia diversa, ma che pure potrebbe portare i non ciechi e non
faziosi a capire che cosa veramente stanno sventolando quando agitano una
bandiera “palestinese” e con chi solidarizzano quando solidarizzano con la "resistenza" palestinese. E soprattutto potrebbe aprire gravi e inquietanti
interrogativi sul presente, ammesso che certe domande scomode qualcuno voglia
porsele e porle.
La
strage di Bologna: una ferita perenne
E’ la vicenda del “lodo
Moro”, dei rapporti di governi e servizi italiani con il terrorismo palestinese
e potrebbe essere anche quella della più terribile fra le stragi della
storia italiana, quella della stazione di Bologna.
Una strage, quella del
2 agosto 1980, che oltre che per le sue terribili dimensioni (85 morti e 200
feriti), anche per altri motivi costituisce una ferita nel nostro animo che non
può rimarginarsi. Perché è una strage fuori tempo massimo, visto che la
“strategia della tensione” era finita già da alcuni anni; perché è una strage
che, a differenza di altre, non è rimasta impunita, ma ha trovato un esito
giudiziario assai poco convincente, con dei condannati – Fioravanti e Mambro –
che continuano a dichiararsi innocenti, pur non avendo più alcun motivo per
mentire, visto che si sono meritati già vari ergastoli per altri delitti, delitti
che invece hanno sempre rivendicato; perché, infine, quella strage si consumò
in un luogo che è familiare a gran parte di noi: tutti prima o poi siamo
passati per quella stazione e parecchi lo hanno fatto o dovevano farlo proprio
quell’estate, in quei giorni, alcuni addirittura quella stessa mattina. In tal
senso, siamo tutti dei sopravvissuti e ci portiamo dietro la condanna alla
memoria e al rimorso che appartiene ai sopravvissuti. E il dovere di
capire.
Un libro molto ben
documentato e pubblicato nei mesi scorsi aiuterebbe a capire. E’ quello scritto
da Valerio Cutolilli e Rosario Priore (il magistrato di Ustica) (I segreti di Bologna, edito da
Chiarelettere). Se non che, questo volume, dopo le sciatte e doveroso
recensioni, è stato subito dimenticato. Lo segnalo a chi non lo avesse letto e
provo a farne una personalissima sintesi.
I
missili terra-aria di Ortona, tre autonomi e uno strano studente palestinese
Priore e Cutolilli
iniziano efficacemente la loro narrazione con un fatto – apparentemente banale
– avvenuto nella notte fra il 7 e l’8 novembre 1979, ad Ortona, sul litorale
abruzzese. Una pattuglia di carabinieri ferma un furgone con tre giovani
romani. I tre dichiarano di essere turisti diretti alle Tremiti. Motivazione
plausibile della loro presenza a Ortona, se non fosse che a novembre sono
sospesi i collegamenti marittimi fra il porto abruzzese e le Tremiti. Gli accertamenti
rivelano subito che i tre appartengono all’Autonomia Operaia e la perquisizione
del furgone fa scoprire, nascosti in una cassa di legno, addirittura tre
missili terra-aria. Si tratta degli Strela, o Sam-7, di fabbricazione
sovietica, capaci di centrare un obiettivo in volo all’altezza di 2000 metri.
L’URSS li fornisce a paesi e movimenti politici amici, ma non si tratta certo
di armi usate dagli autonomi e nemmeno dalle BR.
Il mistero comincia a
squarciarsi, grazie a un numero telefonico – un’utenza bolognese - trovato
addosso a uno dei tre giovani. E’ lo stesso numero che qualcuno ha chiamato
poche ore prima dall’agenzia marittima Fratino. E questo qualcuno è un
trafficante di armi, un siriano appena giunto ad Ortona, con l’imbarcazione
libanese Sidon. Ma a chi appartiene
l’utenza bolognese, che collega il trafficante di armi ai tre autonomi trovati
in possesso dei missili? Si tratta di uno “studente” palestinese, Abu Anzeh
Saleh, residente da nove anni a Bologna. Di esami ne ha dato uno solo, ma nei
suoi confronti sono stati emanati più volte decreti di espulsione, poi
regolarmente ritrattati o disattesi. Sembra che qualcuno si muova per
proteggerlo e consentirgli di restare in Italia. Saleh è un militante del
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), capeggiato da George
Habash, una formazione marxista, che propugna la lotta armata e organizza
azioni terroristiche, che critica “da sinistra” Arafat, ma che comunque fa
parte dell’O.L.P.. Saleh finisce in carcere, stavolta, insieme ai tre giovani
autonomi.
L’episodio passa
pressoché inosservato, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, ma manda in
fibrillazione il servizio segreto militare. In realtà, eravamo di fronte a un
drammatico crocevia della nostra storia, che segnava la fine del cosiddetto
“lodo Moro” e preparava – forse – la terribile strage dell’estate successiva.
“Stefano
d’Arabia”, la “diplomazia parallela” in Medio Oriente e le origini del ”lodo
Moro”
Dall’agenda di Saleh
risultano i suoi contatti con un certo “Stefano”. Si tratta del colonnello
Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut. Da quasi dieci anni,
Giovannone è il referente di una “diplomazia parallela e segreta” in Medio Oriente,
il che gli è valso il soprannome di “Stefano d’Arabia”. E’ l’anello di contatto
fra servizi segreti e politica ed è stato l’uomo di fiducia di Aldo Moro, che
nelle sue lettere dal carcere delle BR ne aveva invocato l’intervento. Giovannone
è a Beirut dal 1972 e da quel momento
risponde da un lato a Moro e dall’altro direttamente al capo del Sid, Vito
Miceli, scavalcando, sia nel rapporto politico che in quello spionistico,
qualunque altro soggetto, compreso l’ambasciatore italiano in Libano.
E’ però nell’anno
successivo, il 1973, che questa “diplomazia parallela e segreta” trova il suo
sbocco nel cosiddetto “lodo Moro”. Il 5 settembre 1973 vengono arrestati ad
Ostia cinque fedayyin palestinesi e vengono scoperti dei missili Strela, simili
a quelli che anni dopo saranno trovati ad Ortona. L’arresto dei terroristi, che
pare stessero progettando un attacco all’aereo della premier israeliana Golda
Meir, provoca la reazione furiosa dell’OLP che minaccia azioni di rappresaglia
contro l’Italia. Il governo Rumor accoglie la proposta avanzata dall’OLP in una
riunione segreta al Cairo: liberazione dei detenuti in cambio della sospensione
delle azioni terroristiche sul territorio italiano. Per scarcerare i detenuti,
come in altre occasioni, ci si servirà della cosiddetta “legge Valpreda”, che
concede agli imputati la libertà provvisoria. I primi due fedayyin vengono così
ricondotti in Libia, ai primi di novembre del 1973, a bordo di un aereo
dell’aeronautica italiana, usato anche da Gladio, l’Argo 16.
Qualche settimana dopo,
l’Argo 16 precipita con i quattro
uomini dell’equipaggio. Ufficialmente si parla di incidente e il processo a
carico di Asa Leven, all’epoca responsabile del Mossad a Roma, si concluderà
con un’assoluzione. Tuttavia, sia Cossiga che Paolo Emilio Taviani hanno alluso
a un sabotaggio organizzato dagli israeliani, in risposta alla liberazione dei
terroristi palestinesi e come avvertimento all’Italia per la politica
filoaraba.
Reazioni – e ancora più
gravi – ci sono anche nel mondo del terrorismo palestinese. Il gruppo
dissidente di Ahmed Abdel Ghaffour per sabotare l’accordo fra Italia e OLP
organizza il 17 dicembre 1973 – proprio mentre si stanno processando gli altri
membri del commando di Ostia - l’attacco
di Fiumicino a un Boeing della Pan Am e il dirottamento di un aereo della
Lufthansa. Ci sono 34 morti, tra cui 6 italiani. Si è poi scoperto che il
mandante dell’azione era Gheddafi, capofila del cosiddetto “fronte del rifiuto”
e deciso ad appoggiare i gruppi estremisti palestinesi e a sabotare il dialogo
fra Arafat e l’Europa. In realtà, Arafat conduce una sorta di doppio gioco: da
un lato, veste un abito moderato per stringere rapporti con l’Italia e con
altre nazioni europee, per accreditarsi all’ONU (si prepara il discorso alle
Nazioni Unite del 13 novembre 1974) e presso ambienti politici statunitensi;
dall’altro lato, si guarda bene dallo sconfessare o combattere la dissidenza
interna, a cominciare dal FPLP, che continua a far parte dell’OLP e che
comunque torna utile al gioco spregiudicato del leader di Al Fatah.
Dopo l’attentato di
Fiumicino, i tre fedayn rimasti in carcere vengono rilasciati e consegnati a
Gheddafi, nel massimo riserbo. Soprattutto, si stringe un accordo complessivo
che durerà per anni e che farà effettivamente cessare le azioni del terrorismo
palestinese in Italia. In cambio, l’Italia sarà utilizzata come base logistica
per il traffico di armi, per il movimento di uomini e per le azioni
terroristiche in altri paesi. Quando qualche terrorista verrà
“malauguratamente” fermato dalle forze di polizia saranno usati gli strumenti
legali, come la legge Valpreda o l’istituto della grazia, per lasciarlo andare.
Come
funzionava e che cosa era il “lodo Moro”
Un caso esemplare di
applicazione del patto è quello del marzo 1976: tre terroristi arabi vengono
perquisiti a Fiumicino. Sono trovati con pistole e con una bomba a mano.
Vengono condannati per direttissima a sette anni per detenzione, introduzione
abusiva e porto illegale di armi. “Stranamente” rinunciano all’appello, sicché
la sentenza passa subito in giudicato. In tal modo il Presidente Leone può
intervenire, concedendo la grazia ai tre, che abbandonano il paese su un
velivolo militare.
Fino ai fatti di Ortona, nulla trapelerà e
nulla si metterà di traverso all’accordo. Per questo, ufficialmente il “lodo
Moro” non è mai esistito.
Non bisogna dare,
peraltro, una lettura riduttiva del “lodo Moro”. Non si tratta solo di
opportunismo, ma dello sbocco di una tendenza filoaraba ben radicata nella
politica italiana, che ha degli illustri precedenti in Mattei, La Pira,
Gronchi, che è da sempre presente e dominante nella sinistra democristiana e che
dopo la guerra dei Sei Giorni ha coinvolto anche il PCI e il PSI. Nel Sid il
“partito arabo” fa capo proprio a Miceli, uomo di fiducia di Moro. Questa
corrente si rafforza ulteriormente dopo lo choc petrolifero del 1973 e con la
crescente dipendenza italiana dal petrolio libico e dal gas algerino.
Se questi fossero i
termini della questione e non vi fossero altre gravissime implicazioni, in
fondo il lodo Moro si potrebbe anche ricondurre a una spregiudicata ma accorta
espressione della ragion di stato e alla traduzione a livello di intelligence
di una determinata strategia politica, anche questa lucida per quanto
discutibile.
Disgraziatamente, anche
prima del tragico e ancora oscuro epilogo della strage di Bologna e pur senza
voler considerare ciò che eticamente non si può invece ignorare – ossia il
prezzo in vite umane pagato da altri paesi, vittima di attentati che
utilizzavano l’Italia come base logistica – il lodo Moro ha avuto risvolti
inquietanti e francamente inammissibili, da qualunque punto di vista, anche per
la vita civile della nostra nazione e nel periodo nel quale esso “funzionò”
(1974-79).
I
rapporti fra terrorismo palestinese e BR: la nemesi del lodo Moro
Proprio il rapimento a
via Fani del promotore politico del patto lascia emergere questi risvolti,
che si traducono poi in una nemesi di
cui cade vittima lo stesso Aldo Moro. I servizi italiani, nell'imminenza dell'azione di via Fani, avevano ricevuto,
attraverso il solito Giovannone, una soffiata proveniente dal FPLP su una
gravissima azione terroristica che era in preparazione e che era stata definita
in una non precisata località europea, durante un summit fra diversi gruppi
terroristici. Il fatto è che il FPLP opera in sinergia con altri gruppi
terroristici di estrema sinistra, fra cui le “nostre” BR, e che però con questa
“soffiata” – che non avrà purtroppo risultati pratici – intende ribadire la
propria “fedeltà” al lodo Moro. E’ per questo che il leader DC – che nella sua
prigionia, contrariamente a quanto si dice da più parti, resta lucidissimo –
chiede l’intervento di Giovannone: sa bene che i fedayyin palestinesi possono
fare da mediatori con i loro compagni delle BR. L’intervento palestinese, come
riferisce tra l’altro Oreste Scalzone, leader dell’Autonomia Operaia, ci
sarebbe stato effettivamente, ma si sarebbe arenato dietro il fermo rifiuto
delle BR stesse.
Il caso Moro lascia
così trapelare i rapporti organici esistenti fra terrorismo palestinese e
terrorismo “rosso” italiano, con scambio di informazioni e di armi e con una
complessiva sinergia organizzativa e logistica. Tutto ciò sarà confermato e
provato più tardi grazie alle rivelazioni di Patrizio Peci, il “pentito” delle
BR. Peci, nel 1980, dichiara che due mesi prima dei fatti di Ortona, da cui
siamo partiti, le BR hanno fatto sbarcare in Italia l’arsenale ricevuto dai
fedayyin palestinesi in Libano. Moretti in persona ha effettuato il viaggio,
caricando esplosivi, bombe a mano, fucili e mitragliatori. Le armi sarebbero
state divise fra BR e OLP (ma in seguito si scoprirà che parte di esse erano
destinate anche ad altri gruppi terroristici europei). In seguito a queste
rivelazioni, sarà scoperto in Barbagia uno dei depositi di armi.
Ma, a questo punto, la
questione del “lodo Moro” acquista una ben diversa portata: agevolando il
terrorismo palestinese, dal 1974 al delitto Moro, e credendo di preservare così
il proprio territorio, l’Italia – o almeno i settori politici e militari che
promuovono e poi salvaguardano il patto – finiscono indirettamente per
agevolare anche le azioni delle BR. L’impunità concessa ai palestinesi ha
finito per armare le BR. E si noti che è proprio nel periodo in questione che
si assiste alla crescita esponenziale della capacità d’azione della lotta
armata di matrice “rossa”.
Il
nuovo scenario internazionale e la crisi del lodo Moro
Il lodo Moro va in
crisi per il mutare dello scenario internazionale che si verifica nel 1979 e
per i riflessi di questo cambiamento sulla scena politica italiana. Negli anni
precedenti, gli USA – con amministrazioni indebolite dal Vietnam e dal
Watergate e alle prese con l’instabilità economica e monetaria che subentra ai
“trenta gloriosi anni” del boom del dopoguerra – hanno lasciato all’Italia
inusitati margini di manovra nello scacchiere Mediterraneo. Alla fine del
decennio, tuttavia, gli USA e la Nato tornano attivamente in campo, intesi a
contrastare e neutralizzare la superiorità strategica militare dell’URSS in
Europa e la sua crescente influenza politica in Medio Oriente. L’Italia è
chiamata a un brusco cambio di rotta: la questione su cui si gioca la partita
della superiorità strategica in Europa è quella degli euromissili, che dovranno
essere dislocati proprio in Italia, e l’uomo che deve realizzare la svolta è
Francesco Cossiga, tornato al governo come primo ministro dopo la momentanea
crisi della sua carriera politica conseguente all’uccisione di Moro. Nel mirino
degli americani non c’è solo l’URSS, ma ci sono soprattutto i suoi alleati
arabi, a cominciare da Gheddafi che si è pericolosamente avvicinato a Mosca e
che ovviamente continua a sostenere i gruppi armati palestinesi, specie quelli
più radicali come il FPLP, a sua volta finanziato e armato dai sovietici.
Questo contesto
internazionale pone le premesse per la fine del lodo Moro; i fatti di Ortona,
richiamati all’inizio, acquistano così una portata cruciale, perché da un lato
rivelano l’esistenza del patto, dall’altro ne segnano la fine. Dopo l’arresto
di Saleh, uomo di punta del FPLP in Italia, i palestinesi si muovono come di
consueto, senza percepire il mutamento del clima. Il 12 gennaio 1980, visto che
la detenzione del loro uomo si prolunga e i missili non vengono restituiti, Abu
Sharif, dirigente del FPLP e “addetto stampa” in Italia, rilascia un’intervista
a “Paese sera”, nella quale ricorda o rivela che da anni il territorio italiano
viene usato per il trasporto di armi, chiede la restituzione delle stesse e
minaccia rappresaglie in caso contrario. Riceverà, però, la risposta più
autorevole possibile: lo stesso giorno una nota ufficiale della Presidenza del
Consiglio nega qualsiasi accordo fra l’Italia e il terrorismo palestinese per
il trasporto di armi, afferma addirittura che l’Italia non avrebbe alcun
rapporto con il FPLP e ipotizza che i missili di Ortona stessero entrando in
Italia, piuttosto che lasciare il territorio nazionale, il che aggraverebbe la
posizione di Saleh. Il lodo Moro viene così sconfessato agli occhi di chi ne
era partecipe o ne era al corrente, mentre a tutti gli altri si dichiara che
non è mai esistito.
Dieci giorni dopo gli
imputati di Ortona vengono condannati. Il vecchio capo del Sid, Vito Miceli,
esce allora allo scoperto, con una intervista all’Espresso, nella quale
autorizza il giornalista a porre tra virgolette l’esistenza dell’accordo con i
fedayn per scongiurare il rischio di attentati. Il suo tentativo non serve a nulla, se non a
confermare l’esistenza del patto: Cossiga è irremovibile. Tuttavia, questi non
ha ancora vinto la sua partita, destinata a riportare l’Italia saldamente nel
campo occidentale e filoamericano, perché deve ancora affrontare un duro scontro
politico in occasione del congresso del suo partito. La sua linea politica è contestata all’interno della DC, sia sul
piano internazionale che su quello delle alleanze nazionali, da uno
schieramento che comprende sia Andreotti che la sinistra di De Mita e
Zaccagnini. Questo schieramento vuole il proseguimento della politica filoaraba
e, sul piano interno, la ripresa dell’intesa con il PCI, a scapito del PSI di
Craxi, che invece Cossiga considera alleato privilegiato. Con Cossiga si
schierano invece sia Forlani che Donat-Cattin, le cui mozioni convergono su un
“preambolo” che contiene una conventio ad
excludendum dei comunisti e allude quindi anche al riallineamento
internazionale. L’adesione al preambolo dei dorotei risulta decisiva:
Zaccagnini è costretto a dimettersi, Piccoli e Forlani diventano segretario e
presidente del partito e Cossiga può formare un secondo governo, più forte del
primo. Parallelamente anche Craxi può così conservare la segreteria e
rafforzare la sua linea politica.
La
rottura del lodo Moro e le reazioni di Gheddafi e dei palestinesi
Il secondo governo
Cossiga (DC-PSI-PRI), nato nell’aprile del 1980, prende decisamente le distanze
da Gheddafi e conferma la rottura del lodo Moro con i palestinesi. Giovannone è
allarmato: avverte che il FPLP ha intenzione di compiere un attentato
dimostrativo che resterà senza rivendicazione, ma che dovrà giungere al governo
italiano come un inequivocabile segnale. L’assenza di rivendicazione è volta a
evitare che l’iniziativa venga bloccata da Arafat (impossibile ipotizzare che
egli resti all’oscuro di quanto si prepara), il quale non potrebbe consentire
una azione sanguinaria contro l’Italia esplicitamente riconducibile a una
qualche frazione dell’OLP, in quanto ciò rischierebbe di compromettere la sua
linea diplomatica (ricordo che la strage di Bologna non è mai stata
rivendicata). D’altra parte, Arafat tiene all’unità palestinese anche più che
alle sue manovre diplomatiche. La non rivendicazione rappresenta dunque la
linea di compromesso fra il FPLP e il capo di Al Fatah.
Habash, leader del
FPLP, non perde tempo e contatta il più noto terrorista internazionale, il
venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come “Carlos, lo sciacallo”.
Poco più di un mese
prima della strage della stazione di Bologna, l’Italia è funestata da un’altra
tragedia, quella di Ustica. A distanza di tanti anni, la spiegazione più
plausibile è che quella notte si volesse abbattere l’aereo che trasportava il
leader libico e che il DC9 sia stato fatalmente colpito in un’azione volta a
neutralizzare i due caccia libici che avrebbero dovuto scortare l’aereo di
Gheddafi. I velivoli libici, d’altra parte, sembrano ancora in grado di
utilizzare i “corridoi segreti” che l’Italia aveva loro lasciato negli anni
precedenti. Il DC9 di Ustica è così vittima paradossalmente tanto del lodo Moro
che della sua rottura.
Dopo la strage di
Ustica, nel luglio del 1980, è altissimo nei servizi segreti l’allarme per un
imminente grave attentato che a questo punto sarebbe insieme avvertimento per
la denuncia del lodo Moro e rappresaglia per la tentata liquidazione di
Gheddafi. L’11 luglio è il capo della polizia in persona ad avvertire del
pericolo, come mostra un documento pubblicato nel libro di Priore e Cutonilli. Una
nota del Sismi rivela poi che il servizio segreto si aspetta un’azione imminente
del FPLP, mentre Silvio Di Napoli, un dirigente del Sismi stesso, rivelerà al
giudice Mastelloni di essere venuto a conoscenza a suo tempo di un incontro fra
il FPLP e Carlos per dare attuazione alla rappresaglia contro l’Italia.
L’enigma
della strage
Questo scenario rende
quindi plausibile la pista palestinese nella strage di Bologna. Mancano,
tuttavia, gli elementi fattuali di prova. A questo punto, infatti, l’attenta e
puntuale ricostruzione di Priore e Cutolilli deve necessariamente perdersi nei
mille meandri misteriosi che vengono fuori dall’indagine giudiziaria: dai
soliti e molteplici depistaggi, agli svariati elementi enigmatici, che non si
risolvono né accettando le spiegazioni ufficiali dei protagonisti o dei
soggetti comunque coinvolti, né provando a darne una lettura opposta che possa
avvalorare una pista diversa. Ne cito solo uno fra i tanti, che vale per tutti,
e rimando per il resto all’ultimo capitolo del libro citato.
Nel 2000 Carlos, in
un’intervista al “Messaggero”, fa una sibillina allusione alla strage di
Bologna: la mattina del 2 agosto 1980 nel capoluogo emiliano ci sarebbe stato
un suo uomo – secondo quanto asserisce, non autore dell’attentato alla stazione, ma destinato a
organizzarne altri. Sarebbe sceso da un treno in corsa, sapendosi pedinato, e senza
valigia avrebbe lasciato la stazione poco prima dell’esplosione. La rivelazione
di Carlos pare, in realtà, un messaggio cifrato e forse un avvertimento. Nulla
di più se ne riesce a ricavare, finché nel 2005, attraverso un percorso
tortuoso, salta fuori l’identità dell’”uomo senza valigia”: si tratterebbe di
Thomas Kram, che nelle carte della Stasi, il servizio segreto della DDR,
risulta da anni militante del gruppo terroristico di Carlos e, in particolare,
esperto di esplosivi. Kram, la sera del 1° agosto, ha preso alloggio all’hotel Centrale di Bologna. Interrogato, dà questa ricostruzione dei suoi movimenti:
giunto a Chiasso quello stesso giorno, poco dopo mezzogiorno, precisamente alle
12.08, come risulta anche dagli atti della commissione Mitrokhin, sarebbe stato
trattenuto per ore dalla polizia di frontiera, fino a giungere con molto
ritardo a Milano dove aveva un appuntamento con una ragazza austriaca, che lo
aveva invitato in Italia; così, non era più riuscito a rintracciare la donna.
Naufragata l’avventura amorosa, aveva deciso di proseguire per Firenze per andare a trovare dei suoi amici. Temendo però di arrivare troppo tardi e di
non riuscire a trovare un albergo, aveva deciso, a tarda sera, di scendere a Bologna e pernottare lì. La sua spiegazione della presenza nel capoluogo emiliano il giorno della
strage, sebbene legata a una serie di circostanze piuttosto singolari, sembra
reggere. Sono due blogger, però, a scoprire una falla decisiva in questa
ricostruzione, dovuta a un errore contenuto nella stessa relazione Mitrokhin:
Kram, in realtà, è giunto a Chiasso alle 10.30 e non a mezzogiorno ed è stato
trattenuto poco tempo dalla polizia di frontiera. L’orario delle 12.08 non si
riferisce al suo arrivo a Chiasso, ma è l’orario del treno per Milano su cui è
salito. A Milano, Kram ci è arrivato alle 14 e non in serata, per cui, anche
dopo il mancato appuntamento con la ragazza, avrebbe avuto a disposizione
diverse ore per giungere a Firenze. L’alibi non tiene più. Lo stesso Kram
successivamente cambia la sua versione, dichiarando al magistrato di essersi
registrato all’Hotel Centrale di Bologna nel pomeriggio e non a tarda notte. Ma
qui il mistero si infittisce, perché la magistratura nel 1980 ordinò subito di
controllare i registri degli alberghi per verificare se qualche sospetto fosse
giunto in città nei giorni precedenti. Il nome di Kram non saltò fuori perché
nei registri dell’albergo il suo arrivo, come poi si è scoperto, risulta
annotato a penna dopo la mezzanotte e quindi inserito tra quelli del 2 agosto.
A questo punto, o Kram ha mentito nella sua seconda versione e resta il mistero
su perché lo abbia fatto, o qualcuno ha manomesso il registro. Vi sono ancora altre
falle nel suo racconto e ne cito solo due: gli amici che doveva raggiungere a
Firenze sono rimasti sempre sconosciuti. Egli poi sostiene di aver raggiunto il
capoluogo toscano, il 2 agosto, a bordo di un bus, perché la stazione
ferroviaria era ovviamente inutilizzabile, ma si dà il caso che non vi fossero
collegamenti di pullman fra Bologna e Firenze.
Un altro mistero è
questo: Kram era un soggetto noto alla nostra polizia e doveva essere pedinato
sul suolo italiano, ma di questo pedinamento – a cui peraltro allude anche Carlos,
come abbiamo visto – non si è mai saputo nulla.
E tuttavia, se il suo
alibi fa acqua da tutte le parti e la sua ricostruzione è ben poco plausibile e
vistosamente contraddittoria, altrettanto poco plausibile è anche l’ipotesi del
suo coinvolgimento nella strage. E’ singolare, infatti, che un terrorista in
procinto di compiere un simile attentato si registri tranquillamente in albergo
con il suo nome, essendo peraltro anche esperto nella fabbricazione di
documenti falsi.
conclusione
L’enigma della strage
di Bologna resta dunque irrisolto, mentre è invece chiaro il contesto storico
immediatamente precedente, con la stipula del patto definito “lodo Moro”, verso
il 1973, e la sua rottura pochi mesi prima delle stragi di Ustica e di Bologna.
Chiari sono anche significati e implicazioni del “lodo Moro”.
Tanto dovrebbe bastare
a porsi qualche domanda anche sull’attuale fenomeno terroristico e sulle
connivenze o coperture che da qualche parte potrebbe aver trovato, senza
peraltro commettere il gravissimo errore di considerarlo per questo
eterodiretto, scivolando in ipotesi complottistiche. Neanche le BR erano
eterodirette, né la storia degli anni di piombo si può ridurre a complotto. Si
tratta, piuttosto, di sapere che la ragion di stato a volte si avviluppa su se
stessa, cade nella palude delle proprie ambiguità e così espone a rischi
altissimi proprio coloro che se ne servono in modo altamente spregiudicato e
soprattutto, cosa ancor più dolorosa, mette in pericolo i cittadini stessi che,
salvaguardando lo Stato, dovrebbe tutelare.
Ma naturalmente siamo
tutti contenti che l’Italia e l’Italia soltanto, fra i paesi oggettivamente nel
mirino del jihadismo, sia rimasta finora immune da gravi attentati. Sarà il ben
noto “stellone” che protegge il nostro paese…