martedì 26 luglio 2016

IL TRANSCULTURALISMO, IL FATTORE-RELIGIONE, I LONGOBARDI E KARL MARX ...



Rispondo senza indugio al prezioso intervento di Carlo Crescitelli, ospitato ieri su questo blog. Il dialogo può essere proficuo – e rinnovo l’invito ad altri amici a dare il loro contributo – proprio perché io e Carlo abbiamo competenze professionali differenti. Carlo Crescitelli ha una formazione politologica, io ho una formazione storica. Carlo adotta quindi modelli generalizzanti – il trans culturalismo in tal caso. I modelli generalizzanti sono peraltro imprescindibili anche per lo storico, come ha mostrato un autore che non mi stancherò mai di citare e che è Max Weber, risolvendo positivamente il dibattito tardo ottocentesco che contrapponeva scienze naturali e scienze dello spirito, o meglio “storico-sociali”. Allo storico, tuttavia, tocca poi sottolineare la peculiarità e la specificità dei fenomeni indagati. In questo caso si tratta, oltre che naturalmente della specificità e peculiarità della situazione odierna, soprattutto della specificità e della peculiarità dell’islam. Perché sarebbe ipocrita negare che il problema di dialogo, di convivenza e di incontro/scontro l’Occidente non ce l’ha con i cinesi – che pure sono numerosi ormai nelle nostre città – e nemmeno con gli africani di religione cristiana, ma con gli immigrati islamici, innanzitutto arabi o maghrebini, ma anche di altra etnia.
Si può richiamare la imprescindibile individualità della situazione storica anche restando al richiamo molto suggestivo che Carlo Crescitelli ha fatto a quella grandiosa operazione “transculturale”, l’incontro fra la civiltà romana e quella dei popoli germanici, da cui nacquero un medioevo tutt’altro che barbarico e la stessa identità europea. Che cosa, però, consentì quell’incontro e quella sintesi? Il maestro insuperato di ogni medievista, Gioacchino Volpe, usava una formula lapidaria ed efficace, superando la sterile controversia fra “romanisti” e “germanisti”: il Medio Evo, diceva (e quindi l’Europa stessa), nasce da una grande sintesi romano-germanico-cristiana. Mi permetterei di precisare ancor meglio la definizione del maestro, dicendo che il Medio Evo e l’Europa sono il risultato di una sintesi romano-germanica su base cristiana. Ed oggi, superando il retaggio antigiudaico che purtroppo imperversò anche nell’ambito di questa operazione transculturale, dovremmo tutti riconoscere che il cristianesimo è a sua volta, almeno sul piano storico, una corrente giudaica, una corrente giudaica di successo potremmo dire. Per cui la formula più adeguata a definire l’operazione transculturale che porta alla formazione dell’identità europea mi pare in definitiva la seguente: una grande sintesi romano-germanica su base ebraico-cristiana.
Fu quindi il cristianesimo l’elemento che rese possibile l’incontro, la sintesi, l’operazione transculturale. Questo lascia già emergere la drammaticità della situazione odierna, visto che la religione è oggi non già fattore di incontro, ma, all’opposto, di lacerante divisione.
Restando al riferimento storico adottato, si può osservare che esiste però un importante caso di una popolazione germanica che ebbe, almeno inizialmente, nei confronti della civiltà romana e della popolazione autoctona, un atteggiamento molto simile a quello che hanno oggi il jihadismo e il fondamentalismo islamico nei confronti dell’Occidente: questa popolazione non pensava affatto ad integrare o ad integrarsi, ma solo a conquistare, dominare e sottomettere. Sto parlando dei Longobardi, evidentemente. A differenza di altre popolazioni germaniche, i Longobardi, prima della loro discesa in Italia, avevano avuto solo sporadici contatti con l’Impero e con la civiltà romana: non avevano dato soldati e tantomeno generali all’Impero, non avevano contribuito ad eleggere e a deporre imperatori, non si erano insediati all’interno dei suoi confini, non ne avevano avuto terre. Erano entrati in contatto con i Romani, probabilmente fin dai tempi di Tiberio e poi durante le spedizioni di Marco Aurelio, solo per combatterli ed esserne combattuti. Una condizione diametralmente opposta, quindi, a quella, ad esempio, degli Ostrogoti, che fu invece la base del grande progetto politico di Teodorico. Inoltre – ma è l’elemento decisivo – a differenza di tutte le altre popolazioni germaniche, quando scendono in Italia i Longobardi, o almeno la gran parte di loro, non hanno sposato il cristianesimo, nemmeno nella variante ariana, e seguono ancora un culto pagano.
Per molto tempo, è stata diffusa una “leggenda storiografica”, secondo cui, nei primi decenni di dominazione longobarda, l’intera popolazione della penisola – o almeno di quella parte di essa che fu oggetto della conquista longobarda - sarebbe stata ridotta addirittura in condizione di schiavitù. Nessuno oggi sostiene più questa tesi, non fosse altro per la difficoltà da parte di un popolo invasore di centomila individui o poco più di tenere assoggettata in regime di schiavitù una popolazione indigena molto più numerosa. E’ però certo che per alcuni decenni la condizione di vita della popolazione romana fu durissima e non vi fu alcun incontro, né multi, né trans-culturale con i dominatori germanici. Poi la scena cambia radicalmente. Quando e perché? A partire dal 598, circa 30 anni dopo la conquista, quando inizia la conversione dei Longobardi al cristianesimo niceno, per iniziativa di papa Gregorio Magno e con il sostegno della regina Teodolinda, sposa di Agilulfo. Il processo certamente non fu istantaneo, né rapido, ma portò progressivamente all’avvicinamento tra le due popolazioni, grazie anche al fattore decisivo di ogni operazione transculturale, che è dato dai matrimoni misti, ora divenuti possibili.
Va notato un interessante aspetto specifico di questa grande operazione transculturale: a facilitare la conversione di un popolo che aveva costitutivamente costumi guerrieri fu il culto dell’Arcangelo Michele. Una figura, quella dell’Arcangelo con la spada, capo delle schiere celesti, che evidentemente poteva colpire favorevolmente l’immaginazione religiosa dei Longobardi, come testimoniano del resto i tanti siti – grotte e chiese romaniche – legati a tale culto e risalenti all’epoca longobarda, che troviamo nel Mezzogiorno interno e nell’area appenninica.
La situazione storica suggerita da Carlo e, in essa, la vicenda specifica che mi sono permesso di segnalare mostrano ciò che risulterebbe chiaro da qualsiasi altro esempio storico: la religione è fattore primario e decisivo nei rapporti di incontro/scontro fra civiltà diverse ed è alla base delle civiltà stesse. Tutte le maggiori civiltà sono fondate su una grande religione. Purtroppo, questo dato è disconosciuto e mistificato da molti occidentali. Certamente, questo disconoscimento del ruolo della religione è un effetto collaterale della secolarizzazione, un elemento costitutivo dell’identità occidentale moderna. Si tratta, però, di un colossale equivoco: la secolarizzazione stessa ha origine dalla storia della religione e nasce nell’ambito del cristianesimo. Più specificamente è frutto della Riforma protestante. Negare, quindi, l’importanza decisiva della religione nelle dinamiche attuali dell’occidente, dell’islam e dei loro rapporti sarebbe come negare l’importanza del latino nella genesi della lingua italiana e affermare che con l’italiano “il latino non c’entra nulla”! Dato che ho l’abitudine di dire le cose in modo diretto, aggiungerò che questa idea della irrilevanza o rilevanza marginale del fattore religioso è frutto solo di grande ignoranza.
E’ proprio questo, allora, che rende così problematica la questione del rapporto fra Occidente e Islam: da un lato, il fondamentale fattore all’origine dell’incontro e della sintesi fra culture diverse agisce oggi come elemento drammaticamente divisivo; dall’altro, questo fattore viene disconosciuto da molti, il che non aiuta affatto, evidentemente, a operare una corretta analisi della situazione.
Potremmo chiederci: è comunque possibile un processo transculturale senza una fusione religiosa, senza conversioni di massa, nel rispetto delle reciproche fedi? Temo che proprio questa domanda sia tutta interna alla civiltà occidentale e sia invece largamente estranea – la domanda stessa, non la risposta!  - a quella islamica. Una operazione del genere comporterebbe l’acquisizione di una visione laica del mondo o, quantomeno, dei rapporti fra sfera religiosa e sfera civile, legge morale o religiosa e legislazione civile, luoghi pubblici e luoghi della fede, stato e istituzioni religiose (che siano la chiesa, la sinagoga o la moschea).
Ma è proprio questo il cuore del “problema-islam”, come cerco di dire fin dalle prime pagine di questo blog, da oltre due anni e dai tempi di Charlie Hebdo: l’inesistenza o l’assoluta marginalità di una cultura laica nel mondo islamico. Agli islamici “moderati” o “pacifici” bisognerebbe chiedere non già la formale dissociazione dal “terrorismo” – un rituale ormai stucchevole ed ipocrita – ma una autentica professione di laicità, da mostrare nei comportamenti e nelle pratiche. Anzi, questa professione di laicità bisognerebbe non chiederla, ma pretenderla, come requisito essenziale di cittadinanza. Ma prima ancora di arrivare a questo, bisognerebbe fare i conti con il deficit di laicità che esiste nella stessa opinione pubblica italiana e anche nella scuola pubblica, che poi dovrebbe educare alla laicità italiani e immigrati. Molti connazionali scambiano, infatti, l’essere laico con il non aderire a nessuna confessione religiosa: quale fatale equivoco! Come si diceva, il concetto stesso di laicità nasce nell’ambito di una confessione religiosa. Essere laico presuppone non già una presa di distanza dalla religione, ma una presa di distanza dalle ideologie, religiose o civili che siano, da una visione rigidamente prefabbricata e integralista della realtà. Non conosco personalmente nessun integralista islamico ma conosco, e ho conosciuto, migliaia di integralisti occidentali, specie tra le fila della cosiddetta “sinistra”! Spesso si tratta di rozzi manipolatori del marxismo, marxisti all’insaputa di Marx! E non mi meraviglia quindi la sotterranea corrente di simpatia di costoro nei confronti del fondamentalismo islamico.
E a proposito di Marx, la conclusione del tutto provvisoria, fortunatamente, di questo ragionamento -  che Carlo e altri spero vorranno proseguire ed eventualmente integrare o contestare – è che se non si riesce a trovare un terreno di incontro fra Occidente e Islam, a prescindere dalla religione – visto che sulla religione mi pare che sia impossibile allo stato attuale costruire un positivo dialogo inter-trans o multi-culturale – a latere della religione e quindi nell’ambito di una concezione laica della società, allora sarà il caso di adattare allo scontro di civiltà l’idea che il vecchio di Treviri aveva sulla dinamica della lotta di classe: quando due forze si fronteggiano e sono irriducibili, l’una dominante e l’altra emergente, allora si potrà avere solo o una “trasformazione rivoluzionaria” della società ad opera della forza emergente (nel nostro caso si tratterebbe dell’Islam e di una “rivoluzione retrograda”) o la comune rovina delle classi/civiltà in lotta. Che il Signore ci aiuti! Detto laicamente.

lunedì 25 luglio 2016

ALTRO CHE MULTICULTURALISMO... E' ALLE PORTE IL TRANSCULTURALISMO di Carlo Crescitelli



Sono oggi veramente lieto di ospitare nel blog un interessantissimo intervento dell’amico Carlo Crescitelli su “multiculturalismo e transculturalismo”. Io e Carlo ci conosciamo dai tempi del liceo, ma negli ultimi tempi ci siamo resi conto, vorrei dire con sollievo dato che di questi tempi non è cosa tanto comune, di condividere non solo analoghe preoccupazioni, ma anche, in buona parte, un medesimo punto di vista. Cosa tutt’altro che scontata, dicevo, specie considerando che questo punto di vista, a quanto pare, è lontano, diverso e per molti versi anche opposto a quello più diffuso nell’ambiente politico-culturale nel quale io e Carlo ci siamo sicuramente formati e abbiamo anche vissuto, talora “militato”, nella nostra ormai non tanto breve vita. Dopo episodici ma frequenti scambi di battute sul social network, Carlo ha preso la bella iniziativa di mandarmi questa sua riflessione, che pubblico nel blog, non certo come semplice gesto di amicizia e di ospitalità (stavo per dire “accoglienza”!), e nemmeno soltanto perché è di per sé acuta e interessante, ma soprattutto perché ha il merito di intervenire nel merito dell’analisi che da qualche tempo mi sforzo di condurre. Altre osservazioni che ricevo, infatti, al di là di ogni valutazione e senza assolutamente pretendere che siano meno sensate o meno vere delle mie, restano purtroppo esterne al discorso che cerco di svolgere, di fatto non ne tengono conto, e in tal modo chiudono la possibilità di un vero confronto. Al contrario, Carlo parte proprio dalla questione che a me pare centrale: come si gestisce il rapporto, che appare sempre più oggettivamente conflittuale, fra culture o civiltà diverse, nel nostro mondo occidentale? Carlo rigetta, come me, con argomentazioni a mio avviso profondamente giuste e anche garbatamente e piacevolmente ironiche, la mistificazione del “multiculturalismo” e propone un diverso modello di analisi che è quello del “transculturalismo”. Nei prossimi giorni, cercherò, a mia volta, di operare qualche riflessione su questo punto, sperando che sia l’inizio di un confronto a cui spero che anche altre voci vorranno unirsi.
Per il momento, consegno e raccomando ai lettori del blog l’intervento di Carlo Crescitelli.

Altro che multiculturalismo…
è alle porte il transculturalismo
di Carlo Crescitelli *

Il recente, massiccio ingresso nel nostro quotidiano, di popolazioni, culture e problematiche fino a poco tempo fa lontane e non solo geograficamente distanti dalle nostre, pone sempre più pressante il problema di un corretto ed equilibrato rapporto con esse.
 Si invoca da più parti il “multiculturalismo” come risposta, quando questo approccio mostra invece sempre più la sua obsolescenza e i suoi limiti. Vediamo come e perché.
 Anzitutto, che cosa vuol dire esattamente “multiculturale”? Si intendono ad oggi come azioni multiculturali tutte quegli atteggiamenti e comportamenti tesi ad apprezzare ed includere all’interno dei nostri circuiti di relazione nuove filosofie esistenziali, stili di vita ed eventi appartenenti a differenti patrimoni etnici. Questo tipo di mentalità, aperta e ricettiva per eccellenza, è classicamente appannaggio delle fasce socialmente agiate, istruite e progressiste delle nostre società, quale naturale risultato delle loro articolate, variate e complesse esperienze familiari, di lavoro, di viaggio etc. Facciamo qualche esempio: potremmo pensare a giovani manager che mangiano sushi, ascoltano reggae, arredano feng shui e via dicendo. Ovviamente il più delle volte si tratta di versioni edulcorate e trendizzate rispetto al modello culturale di riferimento, e dunque snaturate al punto di renderle da esso irriconoscibili, ma proprio per questo frullabili e appetibili da parte del soggetto che ne fruisce. Per il quale tutto deve finire in un elegante calderone di tendenze che esprime il suo stesso sofisticato modo di essere.
 Ben diverso il discorso per le classi collocate alla base della piramide sociale, che invece sperimentano duramente in prima persona le tensioni e le frizioni del duro e pericoloso rapporto senza filtri con la vera realtà di tali differenti culture, e con tutti i quotidiani affanni e rischi che essa comporta: ostilità, violenze, risse, furti, stupri etc, in un contesto in cui il razzismo pregiudiziale generato dall’ignoranza e impreparazione al rapporto si nutre da ambo le parti delle ripetute esperienze dei fallimenti nella gestione del suo quotidiano sviluppo.
 Perché il povero, tanto il nostro come quello giunto di là dal mare, è per sua stessa definizione “transculturale” anziché “multiculturale”. Prendo a prestito questa espressione da un bello studio di storia medievale di Hubert Houben, che la utilizza per connotare l’approccio delle tribù barbariche alle prese con il loro percorso di integrazione all’interno delle fatiscenti strutture del caduto e decaduto impero romano d’occidente.
 Questi popoli, infatti, si erano convertiti al cristianesimo in modalità sincretica con i loro antichi culti, parlavano latino quale patente diplomatica, e utilizzavano alcuni schemi giuridici romanistici combinandoli con il diritto consuetudinario di stampo sassone; insomma si riferivano a se stessi come attori del  disegno divino al pari della nobiltà di sangue latina con la quale si interfacciavano, ma che li considerava ovviamente alla stregua di ridicoli, imbarazzanti, minacciosi parvenu.
 Alla lunga però questo loro modo di essere, transculturale per eccellenza in quanto punto di arrivo unitario e opportunistico di diversi stimoli riassunti e unificati anziché semplice rispettosa sommatoria di linguaggi alieni e incompatibili, ha generato quella che oggi noi definiamo identità europea, ben distinta dalle glorie e dalle reminiscenze della Roma antica, eppur con essa in qualche modo inscindibilmente fusa, a definire la precisa immagine storica dell’Europa contemporanea.  
 E’ precisamente quello che succederà con i migranti di oggi, quando l’approfondirsi del loro veloce processo di inserimento nelle nostre società europee le avrà cambiate per sempre, trasformandole in qualcosa di diverso, un futuro ibrido all’interno del quale non troveranno certo spazio snobistiche valenze multiculturali, ma un corpus unico e coerente che interpreterà in maniera estremamente reattiva le contigenze del prossimo domani.
 Meglio o peggio di ora e di ieri? Probabilmente se lo chiedevano allo stesso modo anche tutti i nostalgici custodi del blasone di Roma antica; fatto sta che ci troviamo, oggi come allora, di fronte ad un mondo che muore ed uno che nasce, e che non può più essere classificato sulla base di modelli statici riferiti alle sue singole componenti etniche, ma deve essere anzi visto come la loro magmatica convergente  evoluzione, e si badi bene non sempre e non necessariamente in direzione illuminata. Perché un medioevo, checché se ne dica, non è altro che un momento di transizione da un’epoca all’altra, e se lo si immagina buio è solo perché  le nostre superate categorie non riescono a illuminarlo e a metterlo a fuoco a sufficienza.
 Se sono preoccupato? Certo che sì, ma non solo per le obiettive, incalzanti minacce alle nostre conquiste e convenzioni. Lo sono anche e soprattutto per la miopia per non dire cecità con la quale le nostre classi dirigenti barattano secoli di progresso in cambio di generiche posizioni antirazziste di facciata, le quali poi in realtà non fanno che favorire e accelerare l’iter di transculturalizzazione che le spazzerà via, dopo di averle strumentalmente utilizzate per accedere ai processi decisionali.
  Cupio dissolvi. Lo scriveva in qualche modo già Paolo di Tarso, meglio e dopo di lui Tertulliano, e, data la situazione, possiamo oggi ben dirlo anche noi. Il mondo di allora in qualche modo è sopravvissuto mutando profondamente pelle, e noi faremo lo stesso. Ma intanto però lasciateci almeno il sacrosanto diritto di rimpiangere l’età d’oro cha andiamo di giorno in giorno perdendo. E che Dio ce la mandi buona.

* Dottore di ricerca in Filosofia e teoria giuridica, sociale  e politica


domenica 24 luglio 2016

2+2=5: ORWELL A MONACO DI BAVIERA

“Quasi incoscientemente egli scrisse con le dita sulla polvere del tavolo: 2+2 = 5”.  Qualcuno forse riconoscerà la citazione: è tratta da “1984” di George Orwell ed è l’apice drammatico della vicenda, quando il protagonista Winston Smith sta per arrendersi definitivamente al condizionamento totalitario e incomincia  a ripetere gli slogan del regime del Grande Fratello, come non fosse più padrone della propria volontà e della propria intelligenza. Sono le frasi che ostentano la più sfacciata manipolazione della realtà: “2+2 fa 5”, “la libertà è schiavitù”, “la guerra è pace”.  Perché questa memoria letteraria? Perché da un paio di giorni mi pare che siamo entrati tutti quanti nelle pagine della grande opera di Orwell. Tuttavia, dato che non amo ancora il Grande Fratello, ho deciso di parlare.
Che cosa è realmente accaduto venerdi sera a Monaco di Baviera? Secondo la ricostruzione ufficiale tutto è ormai molto chiaro ed è anche tragicamente banale: un ragazzino psicolabile, per vendicarsi dei maltrattamenti bullistici subiti per anni, ha ucciso nove persone e ne ha ferite un’altra ventina. A me pare, tuttavia, che questa versione ufficiale equivalga a farci credere che due più due fa cinque…
Partiamo da una semplice cronologia, secondo i migliori criteri metodologici. Non appena si incomincia a diffondere la notizia si parla di più uomini che hanno sparato e si sono dati alla fuga. Non è una chiacchiera da social network: è la polizia stessa che parla di “almeno tre killer”, precisando che sono armati con “armi lunghe”. Quasi immediatamente viene diffuso un filmato, dove si vede un uomo, armato di pistola, che spara sulla gente dinanzi al Mc Donald, o comunque per strada. Solo successivamente verrà diffuso e rilanciato infinite volte l’altro video, quello dove il presunto killer sta su un tetto e ha un diverbio con un uomo che sta sul balcone di un altro edificio. La polizia non si pronuncia sulla matrice dell’attacco, ma a un certo punto, parla di “grave situazione terroristica”. La CNN riporta anche la testimonianza di una donna, musulmana, che avrebbe incrociato il killer all’uscita dei gabinetti, dove sarebbe andato a caricare la pistola, e lo avrebbe poi visto mentre incominciava a sparare, urlando “Allah Akbar”.
Poi, a un tratto, la scena cambia bruscamente: per la polizia l’attentatore diventa uno solo, che si sarebbe già ucciso: un diciottenne iraniano nato in Germania, con problemi psichici. Avrebbe agito da solo, per vendicarsi degli episodi di bullismo e cercando di emulare Breivik. E’ escluso ogni carattere terroristico della sua azione: il movente è “personale”.
Che cosa non convince? Innanzitutto, il fatto che la polizia abbia smentito se stessa! E’ intervenuto qualcosa o qualcuno che l’ha indotta a modificare versione? Ricordiamo, peraltro, a proposito della affidabilità della la polizia tedesca, che per una settimana si cercò di occultare il grave episodio di Colonia, dove a Capodanno decine di donne furono molestate pesantemente da immigrati maghrebini e che, quando la cosa iniziò a trapelare – per le denunce delle donne stesse – si cercò di minimizzare e manipolare la realtà dell’accaduto. Solo di recente, le autorità hanno ammesso ufficialmente che i responsabili delle violenze erano tutti immigrati nordafricani.
Ma passiamo ai dati di fatto e ai riscontri oggettivi. Il diciottenne iraniano, Ali Sonboli, ha compiuto la strage con una pistola Glock 9 mm., con matricola abrasa; nello zaino aveva circa 300 proiettili. Prime domande: dove e come un diciottenne “tranquillo”, senza cattive compagnie e tantomeno legami con organizzazioni criminali o terroristiche, ma in cura psichiatrica, si è potuto procurare un arma di quel tipo – la matricola abrasa porta ad escludere che l’abbia acquistata in una armeria  -  e i 300 proiettili? Dove ha poi imparato a usarla, visto che a detta degli esperti si tratta di una pistola non facile da maneggiare e visto che il giovane ha invece mostrato una terribile perizia?
Si è poi venuto a sapere – ma per la verità la notizia era trapelata subito e stranamente non era stata adeguatamente apprezzata dai commentatori e dagli analisti, tutti ansiosi di escludere una matrice islamica dell’attentato - che nelle ore precedenti, dal profilo Facebook di una certa Selima Akim – il nome non fa pensare a una neonazista e forse per questo non si è dato peso alla cosa – era partito l’invito a recarsi al Mc Donald, dove poi sarebbe avvenuta la strage, con la falsa notizia di una “offerta gratuita di cibo”. Il Ministro degli interni in persona, il giorno dopo, ha detto che si trattava di una trappola per far accorrere più gente possibile nel luogo dell’attentato e che il profilo di questa Selima Akim era stato “hackerato”, “si presume” dallo stesso Ali Sonboli. Un diciottenne psicolabile che però si rivela non solo esperto tiratore di rivoltella, ma anche abile pirata informatico…
Ma veniamo ai due filmati, che sono in palese contraddizione fra loro. Nel primo, quello dove l’attentatore spara per strada, chi filma mostra una sconcertante freddezza e alla fine, con voce incredibilmente calma, dice alla gente di scappare. Il filmato, inoltre, è stato diffuso quasi immediatamente. Chi ha filmato e come mai ha mostrato una tale tranquillità e tempestività?
Ed eccoci al video più “famoso”, ed anche molto più equivoco, quello del tetto. Lasciamo perdere lo scambio di battute, piuttosto delirante; sorvoliamo anche sul fatto che il deficiente sul balcone, ora assurto a una sorta di eroe, pensava a filmare e a insultare il presunto killer, invece di usare più utilmente il cellulare per chiamare la polizia. Soffermiamoci sulle immagini, sui gesti del presunto killer e sul sonoro al di là dell’alterco fra i due. Intanto, va subito rilevato che l’uomo sul tetto e quello che spara in strada sono vestiti in modo diverso. In secondo luogo, se si fa attenzione si vede che verso la fine del “dialogo” si sentono degli spari (qualcuno li ha identificati come colpi di fucile e non di rivoltella) e immediatamente le urla della gente e le sirene di polizia o ambulanze. Ma il killer è ancora sul tetto! Solo una volta fa il gesto di sparare in basso e poi torna tranquillamente a battibeccare con il deficiente del balcone! Se 2 più 2 fa 4 e non fa 5, la deduzione è solo una: c’è almeno un’altra persona che spara, mentre si svolge il surreale dialogo fra tetto e balcone.
Infine, è stata completamente silenziata la testimonianza, raccolta non da una fonte qualsiasi ma dalla CNN, della donna musulmana che sostiene di aver sentito il killer che gridava “Allah Akbar”. Nulla è dato di sapere, infine, sulla appartenenza religiosa del giovane: è sciita, come fa presumere l’origine iraniana? E se è sciita, sebbene non praticante, perché non si è usato questo dato decisivo per escludere radicalmente il coinvolgimento dell’Isis? E perché l’Isis ha cercato di intestarsi l’attentato di uno sciita? Qualcuno sostiene, non so su quali basi, che il giovane sarebbe invece turcomanno o siro-iraniano e quindi sunnita. La cosa non può essere esclusa apriori, perché in Iran esistono varie minoranze etniche (ci sono anche i curdi, per esempio) e gli iraniani emigrati all’estero spesso appartengono proprio a queste minoranze. Perché non si fa chiarezza almeno su questo punto?
Quel che è certo è che credere alla versione ufficiale significa lasciarsi convincere che 2 più due fa 5. Ed è sconcertante e avvilente che a scrivere quasi inconsapevolmente sulla terra, come fa Winston Smith la cui mente è ormai asservita al Grande Fratello, che 2 più 2 fa 5, siano oggi tutti i media e tantissimi cittadini.
Stando agli elementi oggettivi che abbiamo sommariamente ricordato credere alla versione ufficiale significa infatti credere a questo, pressappoco:
Un ragazzino psicolabile progetta per mesi un attentato per vendicarsi degli atti di bullismo subiti. Si procura una impegnativa pistola e 300 proiettili al mercato clandestino delle armi. Impara a usarla con destrezza. Diventa anche un abile hacker. Si reca sul luogo della strage, entra in bagno e carica la pistola. Esce e comincia a sparare, prendendo di mira soprattutto ragazzini di aspetto mediorientale o balcanico. Poi si rifugia sul tetto (quando avviene l’alterco con l’uomo del balcone, la strage doveva infatti essere già iniziata, altrimenti non si capirebbero la concitazione dei due e il tenore delle loro battute). Intanto però si è cambiato di abito, o almeno ha indossato o svestito qualche altro indumento. Mentre racconta all’altro deficiente la storia della sua vita, avendo evidentemente anche il dono dell’ubiquità si materializza giù in strada, perché mentre sta ancora sul tetto si sentono contemporaneamente gli spari, le urla e le sirene! Il suo cadavere è stato poi ritrovato a un chilometro di distanza e si deve quindi infine presumere che, benché fosse tenuto d’occhio dall’uomo del balcone e a quanto pare anche da altri “spettatori”, benché fosse già in atto un parapiglia di polizia e di ambulanze, sia riuscito ad allontanarsi indisturbato, percorrendo un chilometro. Evidentemente non gli sembrava elegante suicidarsi sul posto dove aveva compiuto la strage.
E’ avvilente che nessun organo di informazione abbia rilevato almeno qualcuna di queste clamorose incongruenze. E’ inquietante il fondato sospetto che le autorità tedesche stiano occultando qualcosa e manipolando l’accaduto. Perché?
Verrebbe da dire: per escludere una eventuale matrice islamista del gesto. Troppo semplice, a mio avviso, e troppo rischioso: la verità verrebbe facilmente a galla. Se fosse così facile un’operazione di tal genere, certamente le autorità francesi avrebbero provato a farci credere che l’attentatore di Nizza era solo un depresso che, imbottito di psicofarmaci, ha perso il controllo del camion, causando involontariamente una strage…
 La parola chiave mi pare, invece, non tanto “islam”, ma “Turchia”, “turchi”. Il killer del tetto, a un certo punto, inveisce contro i turchi e secondo qualche ricostruzione il falso annuncio partito dal profilo di quella tale Selima Akim (a proposito di che nazionalità è? E’ turca?), era rivolto proprio ad attirare dei turchi nel Mc Donald. Almeno cinque delle nove vittime, inoltre, erano turche (tre) o potevano essere facilmente scambiate per turche (un greco, un kosovaro). Un coinvolgimento della comunità turca tedesca nell’attuale conflitto – in quella che si deve francamente chiamare “guerra civile planetaria” – sarebbe di una inaudita gravità per il governo della Merkel. La comunità turca in Germania, come è noto, è estremamente numerosa, è formata soprattutto da individui e nuclei familiari immigrati già da diverse generazioni, è generalmente ben integrata e ha abitudini e mentalità del tutto secolarizzate. Basta fare un giro a Kreuzberg, un importante quartiere di Berlino quasi interamente abitato da turchi: è molto difficile vedere donne col velo. In sostanza, la comunità turca tedesca è ancor oggi come era la Turchia prima di Erdogan. Una radicalizzazione anche solo marginale di questa comunità, per emulazione o per reazione al radicalismo islamico sunnita o sciita, sarebbe una catastrofe per la Germania e in particolare per la politica dell’immigrazione e dell’integrazione della Merkel. Oltre al problema interno, c’è un evidente problema internazionale, visti i rapporti dell’UE, con in testa il governo tedesco, con la Turchia di Erdogan, gli accordi sul controllo dell’immigrazione e i recenti e noti sviluppi del golpe e contro-golpe, con le preoccupanti ambizioni internazionali che questi sviluppi lasciano intravedere nel “sultano” di Ankara.
E’ un’ipotesi. Quel che è certo è che credere alla versione ufficiale è come credere alla cicogna che porta i bambini. Quel che è probabile è che i turchi e la Turchia abbiano qualcosa a che vedere con l’operazione di occultamento. Quel che è doveroso, come sempre, è far funzionare il cervello, per non svegliarsi un giorno scoprendo di amare il Grande Fratello.

martedì 19 luglio 2016

"PROCESSO PER STUPRO" NELL'EPOCA "MULTICULTURALE" , LA POLIZIA "RAZZISTA E IL PROGRESSISMO POSTRAZZISTA: SOLO UN SARTORI POTRA' SALVARCI!



A quelli della mia generazione, che si sono formati anche su “Processo per stupro” – o almeno a quelli che non se ne sono dimenticati – fa una certa impressione registrare certe reazioni agli episodi di cronaca che vedono extracomunitari, solitamente di origine araba e nordafricana, nelle vesti di violentatori (certo, presunti, fino a condanna) e donne italiane nelle vesti di vittime. “Processo per stupro” lo ricordo ai più giovani o ai più smemorati, fu il titolo di un epocale documentario, mandato in onda dalla Rai, nel 1979. La parte lesa, una giovane di 18 anni, era difesa dall’avvocato (una femminista storica che però non mi risulta abbia mai preteso di essere appellata “avvocatessa”) Tina Lagostena Bassi. Gli imputati sostenevano che la ragazza fosse consenziente e di aver pattuito con lei un compenso in denaro che poi non le avrebbero dato, perché non erano rimasti soddisfatti dalle sue prestazioni. Ciò fu dimostrato come falso, ma gli imputati furono condannati comunque a pene lievi e beneficiarono della condizionale. Ciò che impressionò gli spettatori fu soprattutto il modo in cui gli avvocati difensori infierivano sulla vittima, con domande morbose (“c’è stata fellatio cum eiaculatio in ore”?) e con allusioni alla sua condotta di vita ”leggera” e alla sua disponibilità sessuale. La parte lesa si trasformava così in accusata e gli imputati quasi in vittime! Il film-documentario, con l’eco che produsse, simboleggiò un grande mutamento del costume, una vera rivoluzione culturale, oltre che una profonda revisione dei costumi giudiziari.
Lascia sgomenti rilevare come oggi tutto ciò che era stato faticosamente conquistato – dalle donne - e acquisito – da noi maschi, o almeno da molti di noi – sia letteralmente azzerato, quando gli episodi di cronaca riguardano maschi extracomunitari, generalmente arabi o neri e di religione islamica, e donne italiane. Non parlo del singolo caso e dei suoi risvolti giudiziari: potrebbe anche darsi che nell’ultimo episodio, quello avvenuto a Roma l’altro giorno, la denunciante si sia inventata tutto, magari per coprire la sua fuga da casa. Questa possibilità, la possibilità che la violenza non fosse davvero avvenuta, esisteva ovviamente anche al tempo di “Processo per stupro”. Ciò che però è radicalmente mutato, ed è di questo che intendo parlare, sono le reazioni dell’opinione pubblica, nei due distinti settori che per comodità definiamo “progressista” e “conservatore”. Le parti si sono ormai rovesciate. Oggi sono i ”progressisti”, comprese le post-femministe, a mostrare reticenza e imbarazzo di fronte a queste notizie: non se ne parla affatto, si minimizzano, si avverte che non bisogna “soffiare sul fuoco”, che bisogna fare attenzione a non alimentare razzismo e xenofobia, che gli italiani violentano le donne come e più degli arabi o africani, che anzi il sessismo sarebbe addirittura una prerogativa delle società occidentali (!). Quando arriva eventualmente la notizia che le perizie non hanno riscontrato segni evidenti di violenza essa viene accolta quasi con sollievo. Ma come? Ma non avevamo faticosamente imparato (parlo di noi maschi), proprio attraverso il caso emblematico di “Processo per stupro”, che se una donna non si difende a urla e a calci, e quindi non viene picchiata, non è detto che sia consenziente, ma può essere semplicemente atterrita? E che certi rapporti sessuali non è detto che lascino segni oggettivi e riscontrabili attraverso una perizia medica? Ora pare che tutto questo non conti più se i presunti violentatori sono immigrati. E non conta neanche la differenza di età, 16 anni la vittima, 28 e 30 anni gli imputati, nell’ultimo caso. E’ paradossale che la difesa delle donne, della loro libertà e del loro corpo, sia lasciata – ecco il sorprendente rovesciamento – a quegli ambienti conservatori che una volta si trinceravano dietro il “quella ci stava”, “quella se l’è cercata”. Difesa spesso strumentale, certo, ma meglio che niente.
E’ un caso di quello che io definisco post-razzismo (un razzismo alla rovescia).
Un altro caso, sempre tratto dalla cronaca di questi giorni, è quello delle tensioni americane fra polizia e neri. La “narrazione” dominante, sempre nei settori “progressisti” è, più o meno questa: una polizia bianca fa una sorta di tiro a bersaglio su poveri neri, che magari sono anche piccoli criminali ma per povertà, emarginazione sociale, ecc. ecc. Poi, certo, capita che uno squilibrato si diverta a sua volta a fare il tiro a bersaglio sui poliziotti, ma è una reazione prevedibile, se non comprensibile. E comunque i morti sono uguali, vittime sono i neri e i vittime sono i poliziotti di Dallas e ora della Louisiana, così come assassini sono i poliziotti e assassino è il cecchino.
Posso dire che trovo non solo mistificante, ma orripilante questa “narrazione”? Anzitutto, qualche cifra per smascherare la mistificazione. La polizia americana non è affatto “bianca”: la percentuale di poliziotti neri è esattamente pari alla percentuale di neri nella popolazione complessiva. In secondo luogo, non è affatto vero che la polizia colpisca solo e neanche principalmente i neri: il 30% circa delle persone uccise dopo essere state fermate da qualche agente sono nere, ma il 70% non lo sono. E questa percentuale è esattamente uguale a quella del tasso di criminalità: il 30% circa dei reati vengono commessi da neri. Dato che le “vittime della polizia” sono quasi sempre pregiudicati, se ne può dedurre che il razzismo non c’entra un bel nulla: un nero ha esattamente le stesse probabilità di un bianco di incappare in un incidente del genere. Per giunta, questi episodi sono in calo rispetto al passato, anche se oggi hanno una maggiore risonanza mediatica.
Ciò che rende, però, non solo mistificante, ma francamente disgustosa la narrazione è il pareggiamento fra le vittime e soprattutto fra gli assassini, operato non solo dai rappresentanti di gruppi come “Black lives matter”, ma anche dai commentatori “progressisti”. Come è possibile rendere simili un poliziotto, che certamente ha sbagliato gravemente e va punito in termini di legge, ma che ha fermato un pregiudicato e a cui sono saltati, colpevolmente, i nervi perché questo non ha alzato le mani o ha cominciato a muovere le mani in modo da far temere che cercasse una pistola, e un cecchino che appostato sui tetti ha fatto il tiro a segno contro poliziotti, che oltretutto stavano scortando proprio un corteo di protesta contro questi episodi? Come è possibile attaccare ferocemente il presidente degli USA (chi mi tocca difendere!) perché ha partecipato ai funerali degli agenti di Dallas, uccisi proditoriamente mentre compivano il loro dovere di servitori dello stato, e non è intervenuto a ogni funerale di un pregiudicato nero rimasto ucciso in uno degli episodi suddetti? Sono uguali questi morti? Io ho rispetto e pietà degli uni e degli altri, ma non li considero affatto uguali e non certo per il colore della pelle! Certamente non sono uguali i responsabili di omicidio: è persino indecente sostenere che siano uguali i poliziotti coinvolti negli episodi in questione e il cecchino di Dallas.
Rincuoriamoci, però, con il grandioso e liberatorio intervento di un lucidissimo e caustico novantaduenne.
Intervistatore: “immigrazione, Islam, Europa. Professore su queste parole si gioca il nostro futuro”. Il politologo Giovanni Sartori: “Su queste parole si dicono molte sciocchezze”.
Anche lei parla come la destra? «Non mi importa nulla di destra e sinistra, a me importa il buonsenso. Io parlo per esperienza delle cose, perché studio questi argomenti da tanti anni, perché provo a capire i meccanismi politici, etici e economici che regolano i rapporti tra Islam e Europa, per proporre soluzioni al disastro in cui ci siamo cacciati»
Quale disastro? «Illudersi che si possa integrare pacificamente un'ampia comunità musulmana, fedele a un monoteismo teocratico che non accetta di distinguere il potere politico da quello religioso, con la società occidentale democratica. Su questo equivoco si è scatenata la guerra in cui siamo».
Sta dicendo che l'integrazione per l'islamico è impossibile?«Sto dicendo che dal 630 d.C. in avanti la Storia non ricorda casi in cui l'integrazione di islamici all'interno di società non-islamiche sia riuscita. Pensi all'India o all'Indonesia».
«Quindi se nei loro Paesi i musulmani vivono sotto la sovranità di Allah va tutto bene, se invece l'immigrato arriva da noi e continua ad accettare tale principio e a rifiutare i nostri valori etico-politici significa che non potrà mai integrarsi. Infatti in Inghilterra e Francia ci ritroviamo una terza generazione di giovani islamici più fanatici e incattiviti che mai».
Ma il multiculturalismo… «Cos'è il multiculturalismo? Cosa significa? Il multiculturalismo non esiste. La sinistra che brandisce la parola multiculturalismo non sa cosa sia l'Islam, fa discorsi da ignoranti. Ci pensi. I cinesi continuano a essere cinesi anche dopo duemila anni, e convivono tranquillamente con le loro tradizioni e usanze nelle nostre città. Così gli ebrei. Ma i musulmani no. Nel privato possono e devono continuare a professare la propria religione, ma politicamente devono accettare la nostra regola della sovranità popolare, altrimenti devono andarsene».
Se la sente un benpensante di sinistra le dà dello xenofobo. «La sinistra è vergognosa. Non ha il coraggio di affrontare il problema. Ha perso la sua ideologia e per fare la sua bella figura progressista si aggrappa alla causa deleteria delle porte aperte a tutti. La solidarietà va bene. Ma non basta».
Cosa serve? «Regole. L'immigrazione verso l'Europa ha numeri insostenibili. Chi entra, chiunque sia, deve avere un visto, documenti regolari, un'identità certa. I clandestini, come persone che vivono in un Paese illegalmente, devono essere espulsi. E chi rimane non può avere diritto di voto, altrimenti i musulmani fondano un partito politico e con i loro tassi di natalità micidiali fra 30 anni hanno la maggioranza assoluta. E noi ci troviamo a vivere sotto la legge di Allah. Ho vissuto trent'anni negli Usa. Avevo tutti i diritti, non quello di voto. E stavo benissimo».
E gli sbarchi massicci di immigrati sulle nostre coste? «Ogni emergenza ha diversi stadi di crisi. Ora siamo all'ultimo, lo stadio della guerra - noi siamo gli aggrediti, sia chiaro - e in guerra ci si difende con tutte le armi a disposizione, dai droni ai siluramenti».
Cosa sta dicendo? «Sto dicendo che nello stadio di guerra non si rispettano le acque territoriali. Si mandano gli aerei verso le coste libiche e si affondano i barconi prima che partano. Ovviamente senza la gente sopra. È l'unico deterrente all'assalto all'Europa. Due-tre affondamenti e rinunceranno. Così se vogliono entrare in Europa saranno costretti a cercare altre vie ordinarie, più controllabili».
Se la sente uno di quegli intellettuali per i quali la colpa è sempre dell'Occidente… «Intellettuali stupidi e autolesionisti. Lo so anch'io che l'Inquisizione è stata un orrore. Ma quella fase di fanatismo l'Occidente l'ha superata da secoli. L'Islam no. L'Islam non ha capacità di evoluzione. È, e sarà sempre, ciò che era dieci secoli fa. È un mondo immobile, che non è mai entrato nella società industriale. Neppure i Paesi più ricchi, come l'Arabia Saudita. Hanno il petrolio e tantissimi soldi, ma non fabbricano nulla, acquistano da fuori qualsiasi prodotto finito. Il simbolo della loro civiltà, infatti, non è l'industria, ma il mercato, il suq».
Si dice che il contatto tra civiltà diverse sia un arricchimento per entrambe. «Se c'è rispetto reciproco e la volontà di convivere sì. Altrimenti non è un arricchimento, è una guerra. Guerra dove l'arma più potente è quella demografica, tutta a loro favore».
E l'Europa cosa fa? «L'Europa non esiste. Non si è mai visto un edificio politico più stupido di questa Europa. È un mostro. Non è neppure in grado di fermare l'immigrazione di persone che lavorano al 10 per cento del costo della manodopera europea, devastando l'economia continentale. Non è questa la mia Europa».
Sto applaudendo da ieri sera, quando ho letto l’intervista. E non ho intenzione di smettere.