sabato 25 marzo 2017

PER RAGIONARE SUI POPULISMI: 2. LA SFIDA CULTURALE DEI "POPULISMI" EUROPEI




Il fenomeno Trump ha indubbiamente aspetti che sono specificamente americani e che sono legati alla “diversità” o addirittura alla “unicità” statunitense, come del resto lo stesso suo inquadramento dentro la corrente politica jacksoniana fa immediatamente intuire. Tuttavia, la «rivolta jacksoniana» che ha prodotto Trump è, come si è visto, la reazione a fenomeni globali e a un ordine mondiale che si è cercato di imporre e che si cerca di salvaguardare. In tal senso, questa rivolta ha importanti punti in comune con i cosiddetti «populismi» europei, nonostante le differenze insopprimibili fra le due sponde dell’Oceano e nonostante le differenze, talora assai rilevanti, che intercorrono pure fra questi stessi populismi. Vediamo, allora, alcuni di questi punti in comune, anche per capire quali forze politiche si possano considerare espressione di un «jacksonismo europeo» - guardando per il momento soprattutto alla scena italiana. In secondo luogo, cercheremo di capire quale potrebbe essere una risposta politica adeguata ai problemi posti dal nuovo disordine mondiale – risposta che per il momento non si riscontra da nessuna parte – anche per superare l’attuale contrapposizione, che poi in Italia costringe a scegliere fra il PD e il M5S o fra il PD e Salvini o ancora fra il M5S e Salvini (tutte alternative, bisogna dirlo, alquanto deprimenti).
Una prima considerazione può riguardare il M5S, ossia quella che, allo stato attuale, è – numericamente – la principale forza politica che dichiara di opporsi allo stato delle cose e che viene ascritta da molti al fronte dei cosiddetti populisti. Ebbene, risalta subito l’irriducibile diversità ed anzi contrapposizione fra il M5S e il populismo americano, ossia il jacksonismo, di cui è espressione Trump. Su alcune questioni emblematiche, che caratterizzano e definiscono questa corrente politica, e pensiamo innanzitutto al problema dell’immigrazione e a quello delle armi e della «legittima difesa», la posizione del M5S resta non definita, ambigua o oscillante. Lo stesso può dirsi sul problema della sovranità monetaria, che negli USA non si pone, ma che si deve ragionevolmente supporre dovrebbe essere al centro del programma di un movimento jacksoniano europeo. Un movimento populistico-jacksoniano deve in sostanza esprimere una posizione netta su tali questioni, come accade nel caso della Lega e di Fratelli d’Italia e come invece non si riscontra nel M5S.
Una proposta centrale del programma dei 5S, quella sul reddito di cittadinanza, è poi quanto di più lontano ed anche opposto al jacksonismo si possa concepire. La mentalità jacksoniana porta ad esaltare il self-made man, a fare affidamento su intraprendenza e capacità individuali e a non appoggiarsi in nessun caso a sussidi e sovvenzioni statali, che anzi vengono considerati un grave fattore di inquinamento della libera competizione fra gli individui e soprattutto della loro eguaglianza e pari dignità (un po’ il contrario di ciò che siamo abituati spesso a pensare da quest’altra parte dell’Oceano, dove si ritiene che questi sussidi siano dovuti, proprio per ristabilire uguaglianza e pari dignità fra i singoli e fra le diverse fasce sociali).
L’accesa campagna anti-casta e anti-corruzione del M5S potrebbe invece considerarsi un suo tratto jacksoniano. A ben vedere, però, non è così. E’ interessante una considerazione che fa Russel Mead: i jacksoniani non si indignano molto per la «corruzione», ritenendo che essa non sia estirpabile dalla politica, ma non tollerano che un ceto politico si serva della propria posizione per opprimere il popolo piuttosto che proteggerlo, il che è precisamente ciò che ritengono sia avvenuto negli ultimi anni. In sostanza, la protesta «anti-casta» alla 5S potrebbe sembrare un tratto comune, ma in realtà le motivazioni e le finalità di questa protesta sono completamente diversi. Agli elettori di Trump non interessa molto sapere se questi ha evaso le tasse e non li turberebbe eccessivamente neanche scoprire – per mera ipotesi – che ha corrotto qualche pubblico ufficiale per fare gli interessi della propria azienda, né costituiscono un problema la sua ricchezza e il suo stile di vita; ciò che conta è che i suoi comportamenti, i suoi privilegi e la difesa dei suoi interessi e dei profitti delle sue aziende non entrino in conflitto con gli interessi della popolazione. Un ipotetico trumpiano italico non approverebbe certo i vitalizi dei parlamentari o dei consiglieri regionali, ma considererebbe molto più censurabile un ceto politico che, per tutelare se stesso, lascia esposte le piccole imprese alla concorrenza cinese, asseconda le delocalizzazioni delle grandi imprese che fanno perdere il lavoro a migliaia di operai, riempie le strade di immigrati che aggravano la piaga della microcriminalità e accentuano il pericolo terroristico, fa leggi che mandano dinanzi al tribunale un cittadino che spara a un ladro che gli è entrato in casa nel cuore della notte. Un trumpiano nostrano condannerebbe senza dubbio le «mazzette», ma non tanto per motivi «morali», ma perché inquinano il libero mercato.
Il fatto che nel nostro paese la rivolta anti-sistema abbia finora premiato un movimento che ha poco o nulla a che vedere con il «populismo» americano è comunque molto significativo e segnala i limiti che può incontrare la diffusione del fenomeno jacksoniano in Italia. Questi limiti sono segnati da due importanti fattori, che sono poi gli stessi fattori che fanno la fortuna del M5S. Il primo elemento peculiare della situazione italiana è quella che, per brevità, definisco la «sindrome mani pulite» che, pur avendo un retroterra negli anni precedenti – penso alla famosa intervista di Berlinguer a Scalfari sulla «questione morale» - è esplosa a partire da Tangentopoli. Si tratta, in sintesi, della confusione deleteria fra morale privata ed etica pubblica (nel paese di Machiavelli!), di quella ancora più catastrofica fra responsabilità politiche e responsabilità penali, del ruolo direttamente o indirettamente politico che ha acquisito la magistratura o del quale è stata investita. Sono cose che si possono anche ragionevolmente considerare legate alla grande anomalia italiana, ossia al tasso di corruzione altissimo e intollerabile per un paese occidentale, ma che in realtà non correggono affatto questa anomalia e semmai la aggravano (come del resto la storia recente ha ormai ampiamente dimostrato), perché mancano i veri bersagli.
Il secondo fattore, che ostacola la crescita di un jacksonismo italico, è il vizio storico, alimentato dalle classi dirigenti, ma ben radicato nella mentalità comune, dell’assistenzialismo statale, per cui è difficile prendere sul serio le «rivoluzioni liberali» o le «riforme» volte a eliminare proprio questo vizio, che puntualmente vengono annunciate da chi conquista il governo. In ogni caso queste riforme o rivoluzioni provocano immediate reazioni di rigetto.
I 5S sono il frutto di entrambi questi fattori e, in tal senso, sono un movimento anti-populista, se il populismo è quello statunitense ed è quello di Trump.
E, tuttavia, un certo spazio per la crescita di un jacksonismo italiano esiste, in quanto i vizi o le mentalità di cui sopra non coinvolgono – per fortuna – tutti gli italiani e non sono neanche ugualmente diffusi in tutte le aree del paese. Questo spazio negli ultimi tempi si è anzi notevolmente accentuato, come mostra il fatto che i movimenti politici italiani più schiettamente jacksoniani – la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni – sono ormai accreditati di almeno un 20% dei voti e considerando che la potenziale area di consenso al jacksonismo è presumibilmente ben più vasta, in quanto molti meridionali – ed anche molti elettori toscani o emiliani del PD, come hanno mostrato recenti inchieste televisive - non voterebbero mai Salvini, sebbene pensino e dicano cose molto simili a quelle che dice lui sull’Europa e sugli immigrati e spesso riconoscano che “in parte ha ragione”, così come molti elettori di “sinistra” non prendono neanche in considerazione la possibilità di votare la Meloni, per mero pregiudizio ideologico nei suoi confronti e nei confronti del simbolo che troveranno sulla scheda elettorale.
La questione delle armi e quella dell’immigrazione mostrano quanto vasta è la potenziale area di consenso di un jacksonismo italiano. Sul primo punto, il parallelo con gli USA deve ovviamente tener conto che il diritto al possesso di un’arma in Europa non ha il retroterra storico-culturale che ha negli USA, ove è garantito addirittura dalla Costituzione (secondo emendamento) e si fonda sul principio, affermato fin dalla dichiarazione di Indipendenza del 1776, secondo cui il possesso di un’arma deve essere garantito come estrema risorsa di un popolo libero per difendersi dalla tirannia. Molti elettori di Trump, però, pensano semplicemente di avere il diritto – che ritengono fondato su una necessità pratica, più che su una storia e su una Costituzione - di proteggere la propria famiglia e i propri beni, senza dover fare affidamento sullo Stato. In questo, non sono diversi dal ristoratore lodigiano e dai compaesani che si sono stretti intorno a lui.
I liberal nostrani commettono l’ennesimo errore di valutazione, quando ritengono che certe reazioni siano frutto solo dell’impulso irrazionale a rispondere alla violenza con la violenza e che chi le giustifica fomenta semplicemente un clima da vendetta tribale. Anche in questo caso, sfugge loro proprio il problema culturale, nonostante le loro pretese di superiore razionalità. Si tratta, infatti, non delle reazioni di singoli “pistoleri”, ma di reazioni comunitarie, come tutti i servizi di cronaca mostrano ampiamente, di comunità che non intendono solo difendere affetti familiari e beni materiali, cose che ovviamente vogliono ben tutelare (e ci mancherebbe altro), ma che vogliono resistere a una spoliazione di identità, identità di cui famiglia e beni – frutto del proprio lavoro – sono espressione. Per questo non serve a nulla citare i dati del Ministero degli Interni, secondo i quali i furti e le rapine sarebbero in diminuzione! Questi dati, anzi, confermano proprio quanto si è appena detto: il fenomeno, materialmente e numericamente, non è più grave che negli anni passati, ma l’insofferenza, la preoccupazione e la paura nei suoi confronti sono decisamente più forti e questo non per una irrazionale psicosi - magari fomentata da Salvini! - ma perché oggi, a differenza degli anni scorsi, si vede messa in pericolo la propria identità e quando questo accade, è stato sempre così nella storia, una comunità si stringe ancor più a protezione di ciò che materialmente e simbolicamente rappresenta quella identità – la famiglia, la casa, i beni frutto del proprio lavoro e segno della propria posizione sociale – e reagisce con forza a chi minaccia queste cose.
La questione delle armi, peraltro, da noi è spesso solo un aspetto della più vasta e ancor più grave questione della immigrazione, un altro punto forte del jacksonismo odierno. Anche in questo caso, come nota anche Russel Mead, c’è un colossale equivoco da parte dell’area liberal-politically correct. Razzismo, xenofobia e islamofobia non c’entrano un bel niente, perché la paura diffusa – e avere paura non è affatto indice di sottosviluppo mentale, né le paure sono sempre irrazionali, sarebbe il caso di ricordarlo ogni tanto – non è nei confronti di una razza in quanto tale, dello straniero in quanto tale e neanche dell’islamico in quanto tale, ma nei riguardi di un pericolo di marginalizzazione della propria identità.
Ciò è senz’altro vero negli USA, ma ci sono importanti elementi che segnalano come sia vero, almeno in parte, anche in Europa e in Italia. Se pure questa paura fosse infondata, non sarebbe saggio sottovalutarla o addirittura ridicolizzarla. Ma ci sono dati oggettivi che indicano come del tutto infondata non sia. Anzitutto, manca visibilmente qualsiasi seria politica di integrazione delle masse umane che arrivano nel nostro paese e tutto si limita ad una «accoglienza» che si risolve ormai in un grande business (l’ultimo inquietante elemento di questo business riguarda il ruolo delle ONG che schierano i propri mezzi al largo delle coste libiche, per “soccorrere” i barconi e in realtà  alimentandone il traffico, e i finanziamenti misteriosi che ricevono: lo ha ricordato il procuratore della Repubblica di Catania giorni fa). In secondo luogo, gran parte delle persone che arrivano – e qui certo che il problema è l’islam! – non vogliono affatto integrarsi, pretendono spesso non solo di conservare i loro stili di vita, anche quando essi sono in conflitto con i principi costituzionali e con i valori consolidati delle nostre società, ma che questi stili di vita vengano tutelati e legittimati dallo Stato italiano. Alcuni, una comunque significativa minoranza, questi comportamenti – fondati sulla legge islamica – vorrebbero addirittura imporli a noi. In terzo luogo, i numeri del movimento migratorio rendono più che legittimo definirlo una «invasione». Cito i dati ufficiali contenuti nel Documento di programmazione economica e finanziaria del governo Renzi per il 2017. Per i prossimi quindici anni si prevedono inizialmente oltre 300.000 nuovi arrivi all’anno, con un afflusso via via crescente. I primi dati del 2017 (nei primi due mesi un incremento del 60% rispetto al 2016) mostrano, peraltro, che questa previsione è sottostimata. Ma anche così, si può dedurre che, fra quindici anni, aggiungendo gli arrivi previsti agli immigrati già presenti, tenendo conto dell’altissimo tasso di natalità tra di loro e pure considerando una certa quota di espulsioni o di persone che si saranno dirette in altri paesi europei (cosa peraltro sempre più difficile, senza una politica comune dell’accoglienza che neanche si intravede) la composizione etnica e religiosa del nostro paese sarà sensibilmente mutata.
Ciò non potrà non suscitare importanti reazioni, visto che l’idea di una società multiculturale è soltanto una fantasia ideologica e che, allo stato attuale, non abbiamo alcun serio modello di integrazione. Per costruirne uno, sarebbe urgentissimo un serio dibattito innanzitutto sulla nostra identità culturale, dibattito che è invece assolutamente assente. Si oscilla soltanto fra opposti luoghi comuni ed estremismi ideologici. A voler proprio nobilitare le rispettive posizioni, potremmo dire che vi è da un lato chi lega questa identità a radici religiose che poi, nel nostro paese, sono identificate con il cattolicesimo e che trasformano il crocefisso o il presepe in marcatori di territorio; dall’altro lato, vi è una posizione laicista, che innalza invece a marcatori di identità cose come i matrimoni gay o l’eutanasia. Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, lo scontro con l’immigrazione islamica sarebbe inevitabile e catastrofico (anche se i laicisti progressisti stranamente continuano a non capirlo): altro che pacifica convivenza multietnica!
Bisognerebbe, invece, pensare la nostra identità in una diversa direzione, che tenga conto della particula veritatis contenuta finanche nelle due posizioni suddette. L’identità occidentale ha certamente radici “religiose”, non cattoliche bensì ebraico-cristiane, ma nello stesso tempo l’Occidente moderno nasce dalla secolarizzazione di questa tradizione ebraico-cristiana. Sottolineare solo una cosa o solo l’altra è deleterio. Il conflitto con l’islam, peraltro, nasce molto più che dalle nostre radici religiose dalla loro secolarizzazione moderna, sconosciuta al mondo islamico.
Pensare a fondo la nostra identità è l’inevitabile presupposto per decidere una buona volta chi possiamo permetterci di integrare nelle nostre società senza condannarle alla disgregazione e come possiamo integrarlo. L’integrazione non è mai stata, infatti, la giustapposizione di identità diverse o la loro magica fusione – come pretendono gli ideologi del multiculturalismo – ma è sempre avvenuta a partire da un’identità forte, se non dominante: proprio gli USA sono l’esempio più eloquente di questo e proprio per questo è partita da lì, o almeno è lì che ha avuto il suo primo grande successo – la reazione alle idiozie multiculti. Integrare a partire da una identità dominante non significa necessariamente discriminare, sottomettere e opprimere chi parte da una identità diversa, né cancellare questa diversa identità. O almeno non significa questo, quando l’identità dominante è quella della tradizione liberale occidentale (ben diverso sarebbe il discorso se fossimo noi a doverci integrare nelle società islamiche), che ha tutti gli strumenti per riconoscere diritti e garanzie agli immigrati, a patto che si decida quanti ne possiamo accogliere che cosa possiamo offrire loro – quale lavoro e quali servizi sociali - e che cosa dobbiamo legittimamente pretendere da loro per poterli accogliere e integrare, senza far saltare tutto per aria, senza distruggere quegli stessi ordinamenti che garantiscono proprio loro e non solo noi.
Se il problema non viene affrontato, se non viene affrontato nella sua dimensione culturale, che cosa accadrà? Alcuni miei amici pensano, con raccapriccio, a una invasione che porterà all’ islamizzazione e alla «sottomissione» delle nostre società. Altri, più rari ormai fra i miei amici presenti, pensano invece che i flussi migratori siano inarrestabili e che porteranno a cambiamenti positivi delle nostre società. A mio avviso sbagliano gli uni e gli altri. Con i secondi non riesco francamente neanche a trovare un terreno di dialogo, perché – certamente per  mia ottusità – non riesco proprio a vedere quale «risorsa» sia insita in un fenomeno migratorio che si presenta con le caratteristiche attuali (lasciamo stare, per favore, sia i riferimenti del tutto fuorvianti ad altre epoche storiche, che quelli a scenari futuristici e fantascientifici multiculti).
Mi interessa, invece, discutere con i primi: non credo affatto che sia realistica l’islamizzazione delle nostre società, ma pavento uno scenario non meno preoccupante. Beninteso, una certa sottomissione, una «dhimmitudine» culturale già c’è ed è più che evidente: il politically correct è già dhimmitudine! Non ci potrà mai essere però una sottomissione politica e giuridica basata sulla mera potenza demografica e sui flussi migratori, per quanto miopi e anche stupide possano essere le classi dirigenti dei nostri paesi. Non si è mai vista, infatti, una civiltà che crolla e viene conquistata e sottomessa pur godendo ancora di un indiscutibile strapotere militare e di una superiorità tecnologica. E’ stato invece costantemente vero il contrario: minoranze demografiche sono riuscite a sottomettere popolazioni molto più numerose, grazie alla forza militare (decisiva a conquistare queste popolazioni, anche se non sufficiente poi a governarle). Oggi si pensa, erroneamente, che la crescita demografica sia un fattore di potenza, liquidando troppo in fretta l’evidenza storica che vuole lo sviluppo moderno delle nazioni legato invece all’abbassamento dei tassi di natalità.
E allora, se non affronteremo il problema, ecco che cosa accadrà: non appena non ci sarà più da parte delle oligarchie economico-finanziarie la convenienza ad accogliere masse di migranti  (convenienza che adesso esiste e che contribuisce a spiegare il fenomeno migratorio, perché queste masse, come avrebbe detto un certo Marx – non propriamente un Salvini del XIX secolo – costituiscono un grande «esercito industriale di riserva», che consente di attaccare più facilmente salari, diritti e garanzie dei lavoratori occidentali) andrà al potere in occidente una classe di governo veramente disposta a trasformare il “conflitto” di civiltà in una “guerra” di civiltà, pur di fermare l’invasione non più sostenibile e fronteggiare le pretese islamiche di dominio. Ciò potrebbe portare se non proprio ad una guerra aperta, ad una militarizzazione di tipo israeliano delle nostre società – che dubito siamo in grado di reggere come la regge Israele – e nello stesso tempo ad una loro libanizzazione, con una guerra civile strisciante o aperta fra diversi gruppi etnico-religiosi e una divisione del territorio e del potere politico-amministrativo fra loro. Di tutto ciò approfitterebbe sicuramente la terza grande civiltà in campo, che si sta muovendo nel proprio disegno egemonico in modo ben più accorto e discreto, rispetto all’islam: la Cina. Non corriamo forse il rischio di morire islamici, ma di morire cinesi sì. Ed io francamente vorrei morire occidentale, senza che questo desiderio sia considerato indice di xenofobia.
Si tratta comunque di scenari che nessuno può auspicare. Proprio per questo sarebbe necessario affrontare seriamente i problemi. La vittoria di Trump, l’avanzata in Europa dei vari Wilders, Le Pen, Orban, Salvini e di tutti i cosiddetti «populismi» sono una sfida che offre una grande occasione di elaborazione culturale (malgrado il modesto spessore intellettuale dei leader politici in questione, Le Pen esclusa). Non cogliere questa occasione, insistere nelle caricature o nelle demonizzazioni di personaggi e fenomeni significa soltanto avvicinare gli scenari peggiori.

giovedì 23 marzo 2017

PER RAGIONARE SUI "POPULISMI": 1. TRUMP E IL JACKSONISMO AMERICANO




Confesso di aver ingenuamente sperato che con l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump e l’inizio della sua effettiva azione di governo si sarebbe, se non ricomposta, perlomeno drasticamente ridotta la schizofrenica frattura fra pensiero e realtà che si era manifestata in quei settori liberal-progressisti e radical-chic– dominanti sui mass media, ma minoritari nella società – durante le primarie, nel corso della campagna elettorale e persino dopo il risultato di novembre. Pia illusione. La rappresentazione caricaturale o demonizzante del nuovo Presidente degli USA continua ad imperversare, utilizzando la consueta e ormai consolidata metodologia: si enfatizzano manifestazioni di piazza che si svolgono solo in determinate e ben circoscritte aree sociali e geografiche degli USA – non certo quelle ove Trump ha costruito la sua vittoria – e si minimizzano i sondaggi che mostrano come la maggioranza degli americani, oltre la stessa percentuale di cittadini che lo aveva votato il 5 novembre, approva la sua politica, a cominciare dal bando all’immigrazione clandestina o dalle restrizioni agli ingressi da determinati paesi islamici; si estrapolano delle frasi dal contesto delle sue dichiarazioni e dei suoi discorsi e si costruiscono con queste delle fake-news e dei titoli cubitali (a volte si estrapolano anche dei gesti, come nel caso surreale della notizia sulla mancata stretta di mano alla Merkel, uno “sgarbo” che in realtà non c’è mai stato); si ignora il fatto che Trump – comunque si voglia giudicare il suo programma elettorale – lo sta coerentemente attuando, oppure addirittura gli si ritorce contro proprio questa coerenza, come se una volta insediatosi alla Casa Bianca dovesse rispondere non ai suoi elettori, ma a Madonna o a Beppe Severgnini o a Furio Colombo. Certamente, questa perdurante campagna mediatica diffamatoria ha un fondamento: nessun Presidente americano neoeletto è stato mai così duramente avversato e anche boicottato da significativi settori dell’establishment politico (non solo democratico, ma anche repubblicano), giudiziario e di intelligence, oltre che naturalmente dal potere mediatico. Ciò, però, non fa altro che confermare il carattere «straordinario» del personaggio nella storia politica americana.

 Riprendendo allora il filo di un serio tentativo di analisi – incentrato innanzitutto sulla politica estera, che in fin dei conti è l’aspetto che dovrebbe interessarci di più e che siamo meno inadeguati a valutare – ci rivolgiamo nuovamente a un grande studioso, Walter Russel Mead. Chi segue questo blog forse ricorderà che, prima delle elezioni, avevo utilizzato proprio un saggio scritto diversi anni fa, nel 2001, da questo autore (Special Providence, poi tradotto in italiano con il fantasioso titolo di Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America) per tentare un’interpretazione del fenomeno Trump e azzardare una previsione che poi si è rivelata fondata. Russel Mead, nelle scorse settimane, ha pubblicato un interessante articolo sulla rivista «Foreign Affairs» sulla «rivolta jacksoniana», a cui Trump ha dato voce, e sulla contrapposizione fra «populismo americano» e «ordine liberal». Cercherò di riassumerne i punti a mio avviso più importanti, non solo per continuare questo tentativo di analisi del fenomeno Trump, ma anche per capire se nella stessa Europa, fatte salve le imprescindibili differenze, non sia in atto, dietro la facciata dei cosiddetti «populismi», una sorta di «rivolta jacksoniana» contro l’ordine, o meglio il regime, liberal-progressista e politically correct (scusandomi con i miei lettori più avvertiti, preciso, per inciso, che il termine liberal nel linguaggio politico statunitense non ha niente a che vedere con il termine «liberale», in uso nel Vecchio Continente e che oggi si tratta anzi di due campi politici largamente contrapposti).
Russel Mead esordisce, affermando che gli americani hanno eletto per la prima volta da settant’anni a questa parte un presidente che «disprezza le politiche, le idee e le istituzioni che sono state il cuore della politica estera americana dopo la seconda guerra mondiale» (e questo è il primo elemento della «rivolta»). Infatti, dalla seconda guerra mondiale, la strategia americana è stata dominata da due correnti di pensiero, entrambe volte alla costruzione di un sistema internazione stabile con al centro gli USA. Secondo gli hamiltoniani era nell’interesse degli USA sostituire l’Impero Britannico come potenza globale egemone e «giroscopio del mondo», innanzitutto sul piano economico. Una prospettiva simile è stata adottata dai wilsoniani, sebbene essi ragionassero più in termini di valori – promozione di diritti umani, democrazia e legalità - che di economia. Alla fine della guerra fredda, i wilsoniani si sono poi divisi in una corrente che ha continuato a puntare sulle istituzioni internazionali e su una politica “multilaterale”, con il coinvolgimento degli alleati e la ricerca del più vasto consenso internazionale, e un’altra corrente, quella neoconservative, che notoriamente ha influenzato e anche diretto la politica di Bush figlio, che ha invece privilegiato le azioni unilaterali, con il sostegno solo di alleati scelti (le coalizioni di «volenterosi»).
Aggiungo, da parte mia, soltanto due considerazioni: con Obama la politica dell’amministrazione americana è tornata nelle mani dei wilsoniani del primo tipo, in continuità sotto questo profilo, con gli otto anni di Bill Clinton; inoltre, quasi tutte le iniziative belliche statunitensi di questi settant’anni sono state il risultato del dominio wilsoniano - soprattutto quelle più sciagurate, dalla guerra in Vietnam a quella in Kosovo alla seconda guerra all’Iraq – o hamiltoniano – la prima guerra all’Iraq di Bush padre. E’ quindi davvero surreale pensare che Trump, che, come stiamo per vedere, è l’espressione di una rivolta contro questa politica, possa costituire una minaccia alla pace più di tutti i suoi predecessori!
L’evidente fallimento dell’approccio wilsoniano, in entrambe le sue versioni, che si è evidenziato soprattutto negli ultimi anni, ha provocato una crisi di sfiducia e un malcontento che hanno ridato forza alle altre due tradizionali correnti politiche, i jeffersoniani e i jacksoniani. I primi sostengono una politica marcatamente «isolazionista», ritenendo che occorra definire in termini molto stretti l’interesse statunitense e, di conseguenza, il raggio d’azione degli USA nel mondo, riducendo così i costi e i rischi della politica estera. In questo campo si schierano i cosiddetti «realisti» (Luttwak, molto noto al pubblico italiano, ne è un buon esempio), parecchi conservative (ad esempio il rivale di Trump alle primarie, Ted Cruz) e si registra pure una singolare convergenza fra libertarians, di ‘destra’, e settori radical, di ‘sinistra’, ad esempio sulla riduzione delle spese militari e sulla critica alle iniziative belliche delle precedenti amministrazioni.
Russel Mead rileva che Trump ha però fiutato qualcosa che è invece sfuggito ai suoi concorrenti politici e che lo ha portato poi alla Casa Bianca: la forza emergente nello scenario politico americano non è l’isolazionismo o «minimalismo» jeffersoniano, ma è il «nazionalismo populistico» jacksoniano.
Che cosa caratterizza i jacksoniani e li distingue dalle altre correnti politiche? I jacksoniani non vedono negli USA una entità politica fondata su una serie di principi ideali derivati dall’Illuminismo e conseguentemente orientata a una missione universale, ma in primo luogo il focolare nazionale del popolo americano, il cui leader ha il compito di promuovere e tutelare sicurezza e benessere di questo popolo, nel proprio territorio, interferendo il meno possibile con le libertà individuali e con il principio della uguale dignità di tutti i cittadini, che sono il cardine della «unicità» americana, nella prospettiva jacksoniana.
E’ questa, a mio avviso, la corretta e proficua chiave di lettura non solo del successo di Trump, ma ormai dei suoi atti politici – compresi quelli più noti, controversi e contestati. Se invece si leggono queste iniziative nella lente deformante dei pregiudizi correnti e della ideologia liberal e politically correct si perpetua soltanto quella schizofrenica frattura fra la realtà e il proprio pensiero che ha già prodotto valutazioni e previsioni fallimentari.
Russel Mead – ed è questo un punto centrale della sua analisi sul quale concordo pienamente – non legge il fenomeno del rimontante jacksonismo a partire da fattori di ordine economico-sociale – disoccupazione e stagnazione economica, emarginazione, ecc.. Ritiene, invece, che sia decisivo il piano culturale (in senso lato): il popolo in rivolta – formato sia da classi lavoratrici che da ceti medi - ritiene che i valori fondanti della propria comunità e la sua stessa identità siano minacciati; di conseguenza è disposto ad appoggiare i personaggi e le politiche che sembrano rispondere efficacemente a questa minaccia, a fronte di altri personaggi e altre politiche che addirittura ne disconoscono l’esistenza. Seguendo il modello di Huntington – che essendo scomparso da diversi anni non può più darci la sua opinione sulla situazione attuale – si potrebbe forse dire che la «rivolta jacksoniana» dipende molto più dal «conflitto di civiltà» che dagli effetti negativi della globalizzazione economica – fatto salvo l’ovvio intreccio fra i due piani. Ciò che mobilita e galvanizza la «comunità jacksoniana» è la percezione di essere sotto attacco, o meglio l’idea che la propria identità sia in pericolo -  sia che si tratti di una minaccia esterna, sia che si tratti di ‘nemici’ interni.
Nell’ottica jacksoniana è del tutto falsa la contrapposizione su cui si fonda l’attuale visione del mondo delle oligarchie progressiste e liberal fra la loro posizione, che sarebbe universalistica, inclusiva e umanitaria, e quella angustamente e ottusamente identitaria, e quindi nazionalistica, se non addirittura xenofoba e razzista, attribuita ai cosiddetti «populisti». Si tratta di una enorme mistificazione, perché lo scontro in realtà è solo fra chi difende la propria identità storico-culturale e chi, invece, favorisce e privilegia altre identità. La rivolta jacksoniana è stata infatti suscitata anche da politiche che negli anni scorsi hanno privilegiato tutte le identità «minoritarie», fino a renderle di fatto culturalmente egemoni nel discorso pubblico: afro-americani, ispanici, musulmani, femministe, movimento gay LGBTQ, nativi americani. E’ stata invece considerata retriva e addirittura pericolosa ed è divenuta quasi un tabù qualsiasi rivendicazione identitaria di tipo wasp (white-anglosaxon-protestant) o legata alle vecchie comunità provenienti dall’Europa cattolica– ad esempio quella italo-americana o quella irlandese - che sono poi le componenti che hanno storicamente fondato la pluralità culturale statunitense. In sostanza, una parte consistente dell’elettorato bianco ha reagito con indignazione ad una società liberal che rimarca di continuo l’importanza della diversità e quindi, inevitabilmente, della specifica identità etnico-linguistico-religiosa, che tutela tutte le identità - offrendo loro nuovi e inusitati diritti, protezione sociale e benefici economici – esclusa proprio la loro, esclusa l’identità storicamente fondativa degli USA e ancora maggioritaria.
Anche se Russel Mead non lo dice esplicitamente, mi pare che la sua analisi colga un punto centralissimo: ogni discorso che si pone come universalistico e inclusivo e che talora pretende di mirare a un orizzonte di società multiculturale, per una sua intrinseca logica, non fa altro che rimarcare l’importanza delle identità, dei valori che caratterizzano le diverse comunità. La contrapposizione fra universalismo e ‘arroccamento identitario’, fra integrazione e ‘xenofobia’, fra società aperta muti etnica e società chiusa identitaria è quindi una classica mistificazione ideologica. Se si vuole davvero integrare e non limitarsi a far coesistere le une accanto alle altre – sperando nel miracolo di una convivenza pacifica – le diverse identità, bisogna scegliere in base a quali valori e secondo quali norme e regole queste diverse identità debbano integrarsi. E ciò ancora una volta significa operare delle scelte fra di loro, privilegiandone inevitabilmente una o alcune rispetto ad altre. Ed è proprio ciò che hanno cercato di fare, in fin dei conti, i liberal-progressisti politicamente corretti, tolleranti e inclusivi con tutte le identità e comunità, tranne la propria, le cui rivendicazioni vengono, invece, istericamente e sistematicamente bollate come razziste, fasciste, islamofobe, omofobe, xenofobe, degne in sostanza non di esseri ragionevoli ma di scimmie urlanti, furiose e spaventate (questo sono agli occhi di tanti radical-chic quelli che essi chiamano «populisti»). Si tratta, in fin dei conti, della arrogante intolleranza di chi coltiva l’inossidabile fede nella propria superiorità intellettuale, mascherata dietro il buonismo e il dichiarato anti-razzismo! Il jacksonismo ha almeno l’inestimabile merito di smascherare tutto questo.
E’ partire da questi dati che bisognerebbe interpretare l’America first! di Donald Trump, invece di ridurlo a un riflesso, a un conato quasi, sciovinistico e xenofobo.
Che cosa significhi tutto ciò, concretamente, sul piano della politica estera, per Russel Mead, resta ancora largamente da vedere. Può darsi che Trump, come tanti suoi predecessori, dovrà modificare sostanzialmente le sue idee e i suoi programmi, nel confronto con la complessità dello scenario internazionale. Chi, però, valutasse alla stregua di un “fallimento” o di una “sconfitta” questi eventuali aggiustamenti, cadrebbe ancora una volta in errore. Il personaggio non è mosso da una “ideologia”, anzi è eminentemente anti-ideologico e anche in questo è in piena sintonia con la sua base elettorale, essendo la «comunità jacksoniana» a sua volta anti-ideologica. I trattati commerciali che Trump ha incominciato a stracciare non sono avversati, ad esempio, per motivi di principio, ma perché si ha l’impressione che non corrispondano agli interessi statunitensi. Se questa percezione dovesse cambiare, cambierebbe anche la valutazione di questi trattati e della attualmente auspicata politica protezionistica.
Il punto centrale non riguarda, quindi, le specifiche iniziative di politica estera – e in fondo neanche quelle di politica interna – ma lo scontro fra due diverse e ormai largamente opposte visioni del mondo, incarnate da due diverse leadership, di cui Obama e Trump possono considerarsi rappresentanti emblematici.
Nell’ultimo quarto di secolo, scrive Russel Mead, la classe dirigente occidentale si è infatuata di alcune idee, pericolosamente semplicistiche. Ha ritenuto che il capitalismo fosse stato «addomesticato», tanto da non provocare più sconvolgimenti economici, sociali o politici. E’ stata considerata marginale, strumentale e comunque senza futuro la contestazione del modello che si riteneva sbrigativamente vincente, frutto dell’azione di «cattivi perdenti» (l’espressione è stata usata proprio da Obama) che cercavano solo di sfogare le loro frustrazioni, senza avere alcuna speranza di mobilitare le masse al loro seguito. Ciò che poi è realmente accaduto - dall’11 settembre, alla crisi finanziaria, al nuovo terrorismo islamista, alla crescita dei «populismi» - è stato accolto come un’amara sorpresa. Un imprevisto «disordine mondiale» ha preso il posto del «liberal order» che le «magnifiche sorti e progressive» avrebbero dovuto immancabilmente realizzare.
In questo grande disordine, emerge soprattutto un dato: non si può più negare il potere delle politiche «identitarie». Le elites occidentali hanno creduto che nel XXI secolo cosmopolitismo e globalismo avrebbero trionfato su queste politiche, ritenute retaggio di atavismo e «fedeltà tribali». Nulla di più errato! Queste elites, il cui più eminente rappresentante è stato negli anni scorsi proprio Barack Obama, non hanno capito, in definitiva, che i processi economici e sociali legati a  cosmopolitismo e globalizzazione avrebbero suscitato turbolenze e opposizioni e che i popoli avrebbero reagito innanzitutto con una domanda di «protezione» e con il tentativo di rinsaldare legami identitari e appartenenze comunitarie. Si tratta, per usare i classici termini della sociologia novecentesca, di una rivolta della Gemeinschaft contro la Gesellschaft. Trump è attualmente la più potente incarnazione di questa rivolta.
Occorre ora capire in che misura e in che termini questa insurrezione contro l’ordine liberal e le elites che lo sostengono (non disinteressatamente) coinvolga anche quest’altra sponda dell’Oceano e quali forze politiche ne siano l’espressione, abbandonando finalmente le rappresentazioni ideologiche e i pregiudizi a cui è invece davvero difficile sfuggire, se le proprie fonti di informazione restano soltanto quei mass-media che quelle stesse elites controllano e se non si esercita un minimo di controllo critico di queste stesse fonti.