Il
fenomeno Trump ha indubbiamente aspetti che sono specificamente americani e che
sono legati alla “diversità” o addirittura alla “unicità” statunitense, come
del resto lo stesso suo inquadramento dentro la corrente politica jacksoniana
fa immediatamente intuire. Tuttavia, la «rivolta jacksoniana» che ha prodotto
Trump è, come si è visto, la reazione a fenomeni globali e a un ordine mondiale
che si è cercato di imporre e che si cerca di salvaguardare. In tal senso, questa
rivolta ha importanti punti in comune con i cosiddetti «populismi» europei,
nonostante le differenze insopprimibili fra le due sponde dell’Oceano e
nonostante le differenze, talora assai rilevanti, che intercorrono pure fra
questi stessi populismi. Vediamo, allora, alcuni di questi punti in comune,
anche per capire quali forze politiche
si possano considerare espressione di un «jacksonismo europeo» - guardando per
il momento soprattutto alla scena italiana. In secondo luogo, cercheremo di
capire quale potrebbe essere una
risposta politica adeguata ai problemi posti dal nuovo disordine mondiale –
risposta che per il momento non si riscontra da nessuna parte – anche per
superare l’attuale contrapposizione, che poi in Italia costringe a scegliere
fra il PD e il M5S o fra il PD e Salvini o ancora fra il M5S e Salvini (tutte alternative,
bisogna dirlo, alquanto deprimenti).
Una
prima considerazione può riguardare il
M5S, ossia quella che, allo stato attuale, è – numericamente – la
principale forza politica che dichiara di opporsi allo stato delle cose e che
viene ascritta da molti al fronte dei cosiddetti populisti. Ebbene, risalta subito l’irriducibile diversità ed
anzi contrapposizione fra il M5S e il populismo americano, ossia il
jacksonismo, di cui è espressione Trump. Su alcune questioni emblematiche,
che caratterizzano e definiscono questa corrente politica, e pensiamo
innanzitutto al problema
dell’immigrazione e a quello delle armi e della «legittima difesa», la
posizione del M5S resta non definita, ambigua o oscillante. Lo stesso può dirsi
sul problema della sovranità monetaria,
che negli USA non si pone, ma che si deve ragionevolmente supporre dovrebbe
essere al centro del programma di un movimento jacksoniano europeo. Un movimento populistico-jacksoniano deve
in sostanza esprimere una posizione netta su tali questioni, come accade nel
caso della Lega e di Fratelli d’Italia e come invece non si riscontra nel M5S.
Una
proposta centrale del programma dei 5S, quella sul reddito di cittadinanza, è poi quanto di più lontano ed anche opposto al jacksonismo si possa
concepire. La mentalità jacksoniana porta ad esaltare il self-made man, a fare affidamento su
intraprendenza e capacità individuali e a non appoggiarsi in nessun caso a
sussidi e sovvenzioni statali, che anzi vengono considerati un grave fattore di
inquinamento della libera competizione fra gli individui e soprattutto della
loro eguaglianza e pari dignità (un po’ il contrario di ciò che siamo abituati
spesso a pensare da quest’altra parte dell’Oceano, dove si ritiene che questi
sussidi siano dovuti, proprio per ristabilire uguaglianza e pari dignità fra i
singoli e fra le diverse fasce sociali).
L’accesa
campagna anti-casta e anti-corruzione
del M5S potrebbe invece considerarsi un suo tratto jacksoniano. A ben
vedere, però, non è così. E’ interessante una considerazione che fa Russel
Mead: i jacksoniani non si indignano molto per la «corruzione», ritenendo che
essa non sia estirpabile dalla politica, ma non tollerano che un ceto politico
si serva della propria posizione per opprimere il popolo piuttosto che
proteggerlo, il che è precisamente ciò che ritengono sia avvenuto negli ultimi
anni. In sostanza, la protesta «anti-casta» alla 5S potrebbe sembrare un tratto
comune, ma in realtà le motivazioni e le finalità di questa protesta sono
completamente diversi. Agli elettori di Trump non interessa molto sapere se questi
ha evaso le tasse e non li turberebbe eccessivamente neanche scoprire – per
mera ipotesi – che ha corrotto qualche pubblico ufficiale per fare gli
interessi della propria azienda, né costituiscono un problema la sua ricchezza
e il suo stile di vita; ciò che conta è che i suoi comportamenti, i suoi
privilegi e la difesa dei suoi interessi e dei profitti delle sue aziende non
entrino in conflitto con gli interessi della popolazione. Un ipotetico
trumpiano italico non approverebbe certo i vitalizi dei parlamentari o dei
consiglieri regionali, ma considererebbe molto più censurabile un ceto politico
che, per tutelare se stesso, lascia esposte le piccole imprese alla concorrenza
cinese, asseconda le delocalizzazioni delle grandi imprese che fanno perdere il
lavoro a migliaia di operai, riempie le strade di immigrati che aggravano la
piaga della microcriminalità e accentuano il pericolo terroristico, fa leggi
che mandano dinanzi al tribunale un cittadino che spara a un ladro che gli è
entrato in casa nel cuore della notte. Un trumpiano nostrano condannerebbe
senza dubbio le «mazzette», ma non tanto per motivi «morali», ma perché
inquinano il libero mercato.
Il
fatto che nel nostro paese la rivolta anti-sistema abbia finora premiato un
movimento che ha poco o nulla a che vedere con il «populismo» americano è
comunque molto significativo e segnala i
limiti che può incontrare la diffusione del fenomeno jacksoniano in Italia.
Questi limiti sono segnati da due
importanti fattori, che sono poi gli stessi fattori che fanno la fortuna
del M5S. Il primo elemento peculiare della situazione italiana è quella che,
per brevità, definisco la «sindrome mani
pulite» che, pur avendo un retroterra negli anni precedenti – penso alla
famosa intervista di Berlinguer a Scalfari sulla «questione morale» - è esplosa
a partire da Tangentopoli. Si tratta, in sintesi, della confusione deleteria
fra morale privata ed etica pubblica (nel paese di Machiavelli!), di quella
ancora più catastrofica fra responsabilità politiche e responsabilità penali,
del ruolo direttamente o indirettamente politico che ha acquisito la
magistratura o del quale è stata investita. Sono cose che si possono anche ragionevolmente
considerare legate alla grande anomalia italiana, ossia al tasso di corruzione
altissimo e intollerabile per un paese occidentale, ma che in realtà non
correggono affatto questa anomalia e semmai la aggravano (come del resto la
storia recente ha ormai ampiamente dimostrato), perché mancano i veri bersagli.
Il
secondo fattore, che ostacola la crescita di un jacksonismo italico, è il vizio
storico, alimentato dalle classi dirigenti, ma ben radicato nella mentalità
comune, dell’assistenzialismo statale,
per cui è difficile prendere sul serio le «rivoluzioni liberali» o le «riforme»
volte a eliminare proprio questo vizio, che puntualmente vengono annunciate da
chi conquista il governo. In ogni caso queste riforme o rivoluzioni provocano
immediate reazioni di rigetto.
I 5S sono il frutto di
entrambi questi fattori e, in tal senso, sono un movimento
anti-populista, se il populismo è quello statunitense ed è quello di Trump.
E,
tuttavia, un certo spazio per la
crescita di un jacksonismo italiano esiste, in quanto i vizi o le mentalità
di cui sopra non coinvolgono – per fortuna – tutti gli italiani e non sono neanche
ugualmente diffusi in tutte le aree del paese. Questo spazio negli ultimi tempi
si è anzi notevolmente accentuato, come mostra il fatto che i movimenti
politici italiani più schiettamente jacksoniani – la Lega di Salvini e Fratelli
d’Italia della Meloni – sono ormai accreditati di almeno un 20% dei voti e
considerando che la potenziale area di consenso al jacksonismo è
presumibilmente ben più vasta, in quanto molti meridionali – ed anche molti
elettori toscani o emiliani del PD, come hanno mostrato recenti inchieste
televisive - non voterebbero mai Salvini, sebbene pensino e dicano cose molto
simili a quelle che dice lui sull’Europa e sugli immigrati e spesso riconoscano
che “in parte ha ragione”, così come molti elettori di “sinistra” non prendono
neanche in considerazione la possibilità di votare la Meloni, per mero
pregiudizio ideologico nei suoi confronti e nei confronti del simbolo che
troveranno sulla scheda elettorale.
La questione delle armi
e quella dell’immigrazione mostrano quanto vasta è la potenziale area di
consenso di un jacksonismo italiano. Sul primo punto, il
parallelo con gli USA deve ovviamente tener conto che il diritto al possesso di
un’arma in Europa non ha il retroterra storico-culturale che ha negli USA, ove
è garantito addirittura dalla Costituzione (secondo emendamento) e si fonda sul
principio, affermato fin dalla dichiarazione di Indipendenza del 1776, secondo
cui il possesso di un’arma deve essere garantito come estrema risorsa di un
popolo libero per difendersi dalla tirannia. Molti elettori di Trump, però,
pensano semplicemente di avere il diritto – che ritengono fondato su una
necessità pratica, più che su una storia e su una Costituzione - di proteggere
la propria famiglia e i propri beni, senza dover fare affidamento sullo Stato.
In questo, non sono diversi dal ristoratore lodigiano e dai compaesani che si
sono stretti intorno a lui.
I liberal nostrani commettono l’ennesimo errore di valutazione,
quando ritengono che certe reazioni siano frutto solo dell’impulso irrazionale a
rispondere alla violenza con la violenza e che chi le giustifica fomenta
semplicemente un clima da vendetta tribale. Anche in questo caso, sfugge loro proprio il problema culturale,
nonostante le loro pretese di superiore razionalità. Si tratta, infatti, non
delle reazioni di singoli “pistoleri”, ma di reazioni comunitarie, come tutti i
servizi di cronaca mostrano ampiamente, di comunità che non intendono solo
difendere affetti familiari e beni materiali, cose che ovviamente vogliono ben
tutelare (e ci mancherebbe altro), ma che vogliono resistere a una spoliazione
di identità, identità di cui famiglia e beni – frutto del proprio lavoro – sono
espressione. Per questo non serve a nulla citare i dati del Ministero degli
Interni, secondo i quali i furti e le rapine sarebbero in diminuzione! Questi
dati, anzi, confermano proprio quanto si è appena detto: il fenomeno,
materialmente e numericamente, non è più grave che negli anni passati, ma
l’insofferenza, la preoccupazione e la paura nei suoi confronti sono
decisamente più forti e questo non per una irrazionale psicosi - magari
fomentata da Salvini! - ma perché oggi,
a differenza degli anni scorsi, si vede messa in pericolo la propria identità e
quando questo accade, è stato sempre così nella storia, una comunità si stringe
ancor più a protezione di ciò che materialmente e simbolicamente rappresenta
quella identità – la famiglia, la casa, i beni frutto del proprio lavoro e
segno della propria posizione sociale – e reagisce con forza a chi minaccia
queste cose.
La
questione delle armi, peraltro, da noi è spesso solo un aspetto della più vasta
e ancor più grave questione della immigrazione,
un altro punto forte del jacksonismo odierno. Anche in questo caso, come nota
anche Russel Mead, c’è un colossale equivoco da parte dell’area liberal-politically correct. Razzismo, xenofobia e islamofobia non
c’entrano un bel niente, perché la paura diffusa – e avere paura non è
affatto indice di sottosviluppo mentale, né le paure sono sempre irrazionali,
sarebbe il caso di ricordarlo ogni tanto – non è nei confronti di una razza in
quanto tale, dello straniero in quanto tale e neanche dell’islamico in quanto
tale, ma nei riguardi di un pericolo di
marginalizzazione della propria identità.
Ciò
è senz’altro vero negli USA, ma ci sono importanti elementi che segnalano come
sia vero, almeno in parte, anche in Europa e in Italia. Se pure questa paura
fosse infondata, non sarebbe saggio sottovalutarla o addirittura
ridicolizzarla. Ma ci sono dati oggettivi che indicano come del tutto infondata
non sia. Anzitutto, manca visibilmente
qualsiasi seria politica di integrazione delle masse umane che arrivano nel
nostro paese e tutto si limita ad una «accoglienza» che si risolve ormai in un
grande business (l’ultimo inquietante
elemento di questo business riguarda
il ruolo delle ONG che schierano i propri mezzi al largo delle coste libiche,
per “soccorrere” i barconi e in realtà alimentandone
il traffico, e i finanziamenti misteriosi che ricevono: lo ha ricordato il
procuratore della Repubblica di Catania giorni fa). In secondo luogo, gran
parte delle persone che arrivano – e qui certo che il problema è l’islam! – non vogliono affatto integrarsi,
pretendono spesso non solo di conservare i loro stili di vita, anche quando
essi sono in conflitto con i principi costituzionali e con i valori consolidati
delle nostre società, ma che questi stili di vita vengano tutelati e
legittimati dallo Stato italiano. Alcuni, una comunque significativa minoranza,
questi comportamenti – fondati sulla legge islamica – vorrebbero addirittura
imporli a noi. In terzo luogo, i numeri
del movimento migratorio rendono più che legittimo definirlo una «invasione».
Cito i dati ufficiali contenuti nel Documento di programmazione economica e
finanziaria del governo Renzi per il 2017. Per i prossimi quindici anni si
prevedono inizialmente oltre 300.000 nuovi arrivi all’anno, con un afflusso via
via crescente. I primi dati del 2017 (nei primi due mesi un incremento del 60%
rispetto al 2016) mostrano, peraltro, che questa previsione è sottostimata. Ma
anche così, si può dedurre che, fra quindici anni, aggiungendo gli arrivi
previsti agli immigrati già presenti, tenendo conto dell’altissimo tasso di
natalità tra di loro e pure considerando una certa quota di espulsioni o di
persone che si saranno dirette in altri paesi europei (cosa peraltro sempre più
difficile, senza una politica comune dell’accoglienza che neanche si intravede)
la composizione etnica e religiosa del
nostro paese sarà sensibilmente mutata.
Ciò
non potrà non suscitare importanti reazioni, visto che l’idea di una società
multiculturale è soltanto una fantasia ideologica e che, allo stato attuale, non abbiamo alcun serio modello di
integrazione. Per costruirne uno, sarebbe
urgentissimo un serio dibattito innanzitutto sulla nostra identità culturale, dibattito che è invece assolutamente
assente. Si oscilla soltanto fra opposti luoghi comuni ed estremismi ideologici.
A voler proprio nobilitare le rispettive posizioni, potremmo dire che vi è da
un lato chi lega questa identità a radici religiose che poi, nel nostro paese,
sono identificate con il cattolicesimo e che trasformano il crocefisso o il presepe
in marcatori di territorio; dall’altro lato, vi è una posizione laicista, che
innalza invece a marcatori di identità cose come i matrimoni gay o l’eutanasia.
Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, lo scontro con l’immigrazione islamica
sarebbe inevitabile e catastrofico (anche se i laicisti progressisti
stranamente continuano a non capirlo): altro che pacifica convivenza
multietnica!
Bisognerebbe,
invece, pensare la nostra identità in una diversa direzione, che tenga conto
della particula veritatis contenuta finanche nelle due posizioni suddette.
L’identità occidentale ha certamente radici “religiose”, non cattoliche bensì
ebraico-cristiane, ma nello stesso tempo l’Occidente
moderno nasce dalla secolarizzazione
di questa tradizione ebraico-cristiana. Sottolineare solo una cosa o solo
l’altra è deleterio. Il conflitto con l’islam, peraltro, nasce molto più che
dalle nostre radici religiose dalla loro secolarizzazione moderna, sconosciuta
al mondo islamico.
Pensare a fondo la
nostra identità è l’inevitabile presupposto per decidere una buona volta chi possiamo
permetterci di integrare nelle nostre società senza condannarle alla
disgregazione e come possiamo integrarlo. L’integrazione
non è mai stata, infatti, la giustapposizione di identità diverse o la loro
magica fusione – come pretendono gli ideologi del multiculturalismo – ma è sempre avvenuta a partire da un’identità
forte, se non dominante: proprio gli USA sono l’esempio più eloquente di
questo e proprio per questo è partita da lì, o almeno è lì che ha avuto il suo
primo grande successo – la reazione alle idiozie multiculti. Integrare a
partire da una identità dominante non significa necessariamente discriminare,
sottomettere e opprimere chi parte da una identità diversa, né cancellare
questa diversa identità. O almeno non significa questo, quando l’identità
dominante è quella della tradizione liberale occidentale (ben diverso sarebbe
il discorso se fossimo noi a doverci integrare nelle società islamiche), che ha
tutti gli strumenti per riconoscere diritti e garanzie agli immigrati, a patto
che si decida quanti ne possiamo accogliere che cosa possiamo offrire loro –
quale lavoro e quali servizi sociali - e che cosa dobbiamo legittimamente
pretendere da loro per poterli accogliere e integrare, senza far saltare tutto
per aria, senza distruggere quegli stessi ordinamenti che garantiscono proprio
loro e non solo noi.
Se
il problema non viene affrontato, se non viene affrontato nella sua dimensione
culturale, che cosa accadrà? Alcuni miei amici pensano, con raccapriccio, a una
invasione che porterà all’ islamizzazione e alla «sottomissione» delle nostre
società. Altri, più rari ormai fra i miei amici presenti, pensano invece che i
flussi migratori siano inarrestabili e che porteranno a cambiamenti positivi
delle nostre società. A mio avviso sbagliano gli uni e gli altri. Con i secondi
non riesco francamente neanche a trovare un terreno di dialogo, perché –
certamente per mia ottusità – non riesco
proprio a vedere quale «risorsa» sia insita in un fenomeno migratorio che si
presenta con le caratteristiche attuali (lasciamo stare, per favore, sia i
riferimenti del tutto fuorvianti ad altre epoche storiche, che quelli a scenari
futuristici e fantascientifici multiculti).
Mi
interessa, invece, discutere con i primi: non credo affatto che sia realistica
l’islamizzazione delle nostre società, ma pavento uno scenario non meno
preoccupante. Beninteso, una certa sottomissione, una «dhimmitudine» culturale
già c’è ed è più che evidente: il politically correct è già dhimmitudine! Non
ci potrà mai essere però una sottomissione politica e giuridica basata sulla
mera potenza demografica e sui flussi migratori, per quanto miopi e anche
stupide possano essere le classi dirigenti dei nostri paesi. Non si è mai
vista, infatti, una civiltà che crolla e viene conquistata e sottomessa pur
godendo ancora di un indiscutibile strapotere militare e di una superiorità
tecnologica. E’ stato invece costantemente vero il contrario: minoranze
demografiche sono riuscite a sottomettere popolazioni molto più numerose,
grazie alla forza militare (decisiva a conquistare queste popolazioni, anche se
non sufficiente poi a governarle). Oggi si pensa, erroneamente, che la crescita
demografica sia un fattore di potenza, liquidando troppo in fretta l’evidenza
storica che vuole lo sviluppo moderno delle nazioni legato invece all’abbassamento
dei tassi di natalità.
E
allora, se non affronteremo il problema, ecco che cosa accadrà: non appena non
ci sarà più da parte delle oligarchie economico-finanziarie la convenienza ad
accogliere masse di migranti (convenienza
che adesso esiste e che contribuisce a spiegare il fenomeno migratorio, perché
queste masse, come avrebbe detto un certo Marx – non propriamente un Salvini
del XIX secolo – costituiscono un grande «esercito industriale di riserva», che
consente di attaccare più facilmente salari, diritti e garanzie dei lavoratori
occidentali) andrà al potere in occidente una classe di governo veramente disposta
a trasformare il “conflitto” di civiltà in una “guerra” di civiltà, pur di fermare
l’invasione non più sostenibile e fronteggiare le pretese islamiche di dominio.
Ciò potrebbe portare se non proprio ad una guerra aperta, ad una
militarizzazione di tipo israeliano delle nostre società – che dubito siamo in
grado di reggere come la regge Israele – e nello stesso tempo ad una loro
libanizzazione, con una guerra civile strisciante o aperta fra diversi gruppi
etnico-religiosi e una divisione del territorio e del potere
politico-amministrativo fra loro. Di tutto ciò approfitterebbe sicuramente la
terza grande civiltà in campo, che si sta muovendo nel proprio disegno
egemonico in modo ben più accorto e discreto, rispetto all’islam: la Cina. Non
corriamo forse il rischio di morire islamici, ma di morire cinesi sì. Ed io
francamente vorrei morire occidentale, senza che questo desiderio sia
considerato indice di xenofobia.
Si
tratta comunque di scenari che nessuno può auspicare. Proprio per questo
sarebbe necessario affrontare seriamente i problemi. La vittoria di Trump,
l’avanzata in Europa dei vari Wilders, Le Pen, Orban, Salvini e di tutti i
cosiddetti «populismi» sono una sfida che offre una grande occasione di
elaborazione culturale (malgrado il modesto spessore intellettuale dei leader
politici in questione, Le Pen esclusa). Non cogliere questa occasione, insistere
nelle caricature o nelle demonizzazioni di personaggi e fenomeni significa
soltanto avvicinare gli scenari peggiori.