martedì 24 novembre 2015

L'APPASSIONATA DENUNCIA DI UNO DEI MAGGIORI ESPONENTI CONTEMPORANEI DELLA CULTURA EBRAICA

Dopo i fatti di gennaio a Parigi, segnalai l'intervento di rav Laras come il più lucido commento, a mio avviso, su quella tragica vicenda. Nei giorni scorsi dopo le nuove stragi, rav Laras è intervenuto di nuovo, con una appassionata e preoccupatissima denuncia.
Rav Giuseppe Laras è presidente emerito e onorario dell'Assemblea rabbinica italiana. Dal 1980 al 2005 è stato capo della comunità ebraica di Milano ed è oggi presidente del tribunale rabbinico del Centro.Nord Italia. E' una delle massime autorità rabbiniche contemporanee, in Italia e in Europa.
 Il suo parere andrebbe quantomeno ascoltato quanto si ascolta quello di un Moni Ovadia, che non è né uno storico, né uno studioso di geopolitica, né un islamista e neanche viaggia in Medio Oriente per guardare la realtà dei fatti, come invece fanno alcuni bravi giornalisti, ma si limita a ripetere i luoghi comuni più scontati, triti e retriti di una certa sinistra radicale, ormai quasi estinta (per propria colpa e non per un complotto dell'imperialismo guerrafondaio).
"Lutto e dolore accompagnano una guerra difficile e lunga", scrive Laras, "combattuta anche con la dissimulazione e la strategia della confusione. Alleati dell’Islam jihadista (Isis, Fratelli Musulmani, Hamas, Al Qaeda, Hezbollah e Iran) sono quei politici, pensatori, storici e religiosi che hanno distorto la pace in pacifismo, la tolleranza e l’inclusione in laissez-faire, la forza della verità in debolezza dell’opinione arbitraria, il dialogo in liceità di ogni espressione, il sano dissenso in intollerante conformismo politically correct. Questi occidentali “odiatori di sé” sono complici.Hanno svenduto alla sottomissione la libertà per cui mai personalmente lottarono o pagarono. Questa è la triste fotografia dell’inadeguatezza politica e culturale di molti europei "Il dramma", scrive ancora Giuseppe Laras, " è che, con cieca ignoranza, la cultura laicista considera, semplificandolo, l’Islam politico realtà consimile e analoga a cristianesimo ed ebraismo e alle loro storie, anch’esse non prive di ombre. Le cose non stanno così. Finiamola con il mantra buonista, esorcistico dei problemi nell’immediato ma amplificante gli stessi nel tempo, della “religione di pace”. Si vedano le piazze dei Paesi Islamici giubilanti per i fatti parigini, come per Charlie, per i morti ebrei, per le Twin Towers. Che dire dei Bhuddah monumentali abbattuti dai talebani? Non insultiamo l’intelligenza con “questo non è Islam”. Basta con sensi di colpa anacronistici per crociate e colonialismo: la city di Londra, mezza Parigi e i nuovi grattacieli milanesi sono oggi di proprietà islamica"
"L’Europa potrebbe in un futuro risultare inospitale per gli ebrei (in Francia è già realtà). Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti. Se così dovesse essere, l’Europa diverrà un territorio desolato e inospitale per tutti coloro che amano e difendono la propria e l’altrui libertà. E non ci sarà nemmeno spazio per i musulmani onesti e pacifici (ahimé troppo silenti). Per fronteggiare il presente, occorrono saldo spirito razionale, energia e coraggio. L’alternativa è tra libertà e sottomissione (ai Fratelli Musulmani, Hamas, Isis, Al Qaeda, Iran, Hezbollah et similia). Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà.
Circa gli autori dei massacri, i loro compagni e chi applaude loro, come si può pensare che l’Unico e Onnipotente, buono e giusto, tolleri o gradisca questa furia omicida e le sofferenze ingiuste e blasfeme inflitte alle Sue creature?" 


Ecco il link per leggere, integralmente, l'articolo di Giuseppe Laras:
http://www.mosaico-cem.it/articoli/primopiano/laras-occidentali-complici-basta-col-buonismo-ritrovate-coraggio-e-energia 



lunedì 23 novembre 2015

IL CONSENSO ALLO STATO TOTALITARIO ISLAMICO E LA CECITA' DELL'OCCIDENTE



Veniamo al problema, centralissimo, del "consenso" allo Stato islamico. Infatti, come i precedenti e funestissimi regimi totalitari, anche l'IS non si regge solo sul terrore e la violenza. E' evidente che il consenso di cui si parla è ampiamente e spesso totalmente manipolato dal condizionamento propagandistico, dalla pressione sociale e dallo stesso terrore. Questo però nulla toglie ed anzi molto aggiunge alla sua efficacia come strumento di sostegno e di potenza dell'IS. È opportuno qui distinguere, esattamente come nel caso del fascismo e del nazismo, tra il consenso di quella limitata ma assai significativa percentuale di veri e propri militanti, ossia i jihadisti propriamente detti, e il consenso più o meno diretto, più o meno esplicito, ma altrettanto decisivo, di un'area ben più vasta della popolazione musulmana. Renzo De Felice, il noto storico del fascismo,  parlerebbe rispettivamente di "consenso attivo", nel primo caso, e di "consenso passivo", nel secondo. La terminologia non è forse felicissima, ma la distinzione resta importante.

La psicologia e l'antropologia dei jihadisti - partiamo quindi dall'area del "consenso attivo", resta largamente misteriosa, ma non del tutto indecifrabile. Propongo di utilizzare in questo caso la brillante analisi di Hannah Arendt svolta ne Le origini del totalitarismo. La Arendt partiva dal fenomeno della disintegrazione e dell'atomizzazione che caratterizzano la società di massa novecentesca. Risultano distrutte le tradizionali relazioni comunitarie, personali e dirette, in favore di moderni rapporti sociali, impersonali e indiretti, che però non includono ancora ampi strati sociali. Si può dire, utilizzando stavolta le note categorie di un classico della sociologia, quello di Tonnies (Gemeinschaft und Gesellschaf, 1887), che molti individui risultano sradicati dalla Gemeinschaft (comunità), senza ancora integrarsi nella Gesellschaft (società). E' il tipo dell'uomo-massa, come lo chiama la Arendt, isolato da ogni relazione sociale istituzionalizzata o formalizzata e da ogni appartenenza di gruppo: non è iscritto a partiti o a sindacati e neanche a società, organizzazioni, club di altro tipo (professionale, ricreativo, solidaristico, spirituale), ove si condividano idee o interessi. Nell'uomo- massa, disdegnato dalle organizzazioni politiche e sindacali moderne prime fra tutte quelle della sinistra, i regimi totalitari, e soprattutto il nazismo, seppero invece vedere una formidabile e ampissima base di proselitismo e reclutamento. I totalitarismi - ieri il fascismo, oggi lo Stato islamico - offrono a questa massa sradicata un fortissimo legame comunitario, imperniato, come si è visto, su una ideologia totalizzante, un organizzazione militare o militaresca, un leader carismatico, una pianificazione capillare della propria esistenza che abbatte anche il confine tra pubblico e privato.
Questa analisi, qui solo rapidamente accennata, è utile a mio avviso a comprendere almeno il contesto iniziale di reclutamento,  o come si ama dire di "radicalizzazione", dei giovani jihadisti. Il modello interpretativo ha tra l’altro il merito di spiegare come mai il proselitismo dell'Is sembri riscuotere i  maggiori successi tra individui residenti nei paesi dell'Europa occidentale, spesso immigrati di seconda generazione. Sono proprio questi, infatti, che si trovano nel limbo di quella situazione di sradicamento dalle tradizionali relazioni comunitarie e di non integrazione nelle relazioni sociali del paese d'adozione. È su di loro che agisce più potentemente il richiamo dell'integrazione comunitaria islamista. Questa, sia chiaro, non è la "causa" della loro scelta jihadista, ma il terreno e il contesto su cui e in cui essa avviene. Confondere il contesto e le condizioni con la causa è un grave errore concettuale, che non solo pregiudica la corretta analisi del fenomeno, ma apre la porta a più o meno latenti teorie "giustificazioniste" e vittimistiche. Va anche precisato che lo sradicamento di cui qui si parla non necessariamente coincide con uno stato di povertà o di emarginazione sociale conclamata. Spesso anzi si tratta di persone con un reddito dignitoso e talora con un titolo di studio e un lavoro. Inoltre, lo specifico - tragico - della massa militante dello Stato islamico, rispetto a quella dei precedenti totalitarismi, è la disponibilità a "sacrificarsi" per la causa, non se e quando le circostanze esterne lo richiedessero, ma in modo deliberato e pianificato. Da qui le azioni suicide. Questa specificità dipende dalla particolare ideologia che è alla base del totalitarismo islamico. Ancora una volta, il fattore religioso si rivela quindi determinante.

Passiamo ora al secondo livello del consenso, quello non attivo, non militante, non fanatico, ma che coinvolge un’area molto più vasta della popolazione. Questo secondo livello è decisivo: un regime totalitario non sopravvivrebbe a lungo se dovesse fondarsi solo sul terrore e la repressione violenta, ma nemmeno potrebbe reggersi sul consenso della sola e ristretta base militante. Il sostegno di questa ben più ampia area della popolazione, una sorta di “palude” o zona grigia, ha però tratti ben diversi: è sfaccettato, per certi versi ambiguo, ha elementi contraddittori ed è certamente meno solido rispetto al consenso militante. Di solito dura finché dura il successo del regime. Esso però è essenziale alla politica del regime e all’azione dell’area militante: la metafora dei pesci che hanno bisogno dell’acqua per nuotare – anche se l’acqua è la condizione, ma non la causa efficiente del loro movimento – è molto efficace e torneremo ad utilizzarla a breve.
Le forme in cui si manifesta pubblicamente questo consenso, chiamiamolo pure “passivo” in mancanza di una migliore terminologia, sono assai varie: si va dalle manifestazioni di giubilo per gli attentati di Parigi, che abbiamo rivisto nelle città palestinesi a lugubre ripetizione di analoghe manifestazioni seguite all’11 settembre 2001, alla reticenza assoluta a prendere qualunque posizione, ad una condanna generica del terrorismo, ma con la precisazione che l’islam non ha niente a che vedere con esso.
Per capire meglio, è forse utile il riferimento ad una situazione storica che ci è meglio nota, quella del regime fascista. Durante il Ventennio, i fascisti convinti, i veri e propri attivisti erano certamente una ristretta minoranza, così come una piccola minoranza erano gli antifascisti convinti e militanti. In mezzo, la gran parte della popolazione non era certo antifascista – ci riferiamo al periodo che precedette la guerra e alla primissima fase di questa – ma neanche si poteva definire fascista, in quanto condivideva in modo convinto soltanto alcuni elementi della politica e dell’ideologia fascista, era disincantata su altre cose e perfino diffidente o silenziosamente avversa ad altre ancora. Una situazione analoga mi pare che si possa fondatamente ipotizzare nei rapporti fra le masse islamiche e l’Is, certamente riguardo alla popolazione che vive nei territori direttamente controllati da questo, ma anche per una parte rilevantissima degli altri musulmani, quelli che vivono in altri paesi arabi e in Europa.
Va notato che questa area del “consenso passivo” è un’area per definizione “moderata”: erano moderati, infatti, gli italiani di cui parlavamo, quelli che non erano né antifascisti, né propriamente fascisti. Da ciò si capisce che è proprio un non senso la contrapposizione fra il jihadismo e il cosiddetto islam moderato, in quanto quest’ultimo, nella misura in cui esiste, può in buona parte ricadere in quell’area grigia che, sia pure in modo parziale, passivo, indiretto e ambiguo fornisce un supporto allo Stato islamico e  alle sue iniziative criminali.
Gli elementi strutturali del consenso allo Stato islamico in questa area del consenso passivo sono sicuramente molteplici. Vorrei limitarmi a sottolinearne tre, forse i più misconosciuti dall’opinione pubblica occidentale. Il primo, che riguarda le popolazioni islamiche che vivono in territori controllati dall’Is, è quella sorta di welfare state di cui si parlava nel precedente articolo: l’Is provvede a bisogni essenziali della popolazione, in aree che hanno conosciuto parecchi anni di devastazione della vita civile.
Il secondo elemento è l’uso del terrore, delle esecuzioni capitali e degli attentati, non solo a fine repressivo o militare, ma anche a scopo propagandistico e di proselitismo: i filmati sugli sgozzamenti così come gli attacchi terroristici di Parigi hanno purtroppo questa duplice valenza. Il tragico messaggio non è rivolto solo a noi occidentali, ma anche ai musulmani e tende ad essere in direzione di questi ultimi una rassicurante esibizione di potenza e un elemento di galvanizzazione, di mobilitazione e persino di riscatto.
Il terzo elemento è la proclamazione del califfato e agisce su tutto il mondo islamico, in special modo arabo, ben oltre gli incerti e mutevoli confini dello Stato islamico. Si questo terzo punto il discorso deve essere necessariamente un po’ più articolato.
Noi occidentali non riusciamo a capire che cosa significhi per un arabo la rinascita di questa istituzione e tendiamo a ridurre ad una iniziativa propagandistica o addirittura meramente folkloristica l’annuncio di Al-Baghdadi del giugno 2014. E’ un altro grave errore di sottovalutazione.
Il califfato – mi scuso con chi troverà scontate queste scarne annotazioni – è un mito fondativo che ha però una solida base storica. L’istituzione risale al periodo immediatamente successivo alla morte di Maometto; califfo fu già proclamato il primo successore del Profeta e la parola araba del resto significa proprio successore o luogotenente: successore di Maometto, ma anche e soprattutto luogotenente e rappresentante di Allah in terra. Il califfato rappresenta la umma, ossia l’unità politica della comunità islamica. Esso passa attraverso le dinastie degli Omayyadi e degli Abbasidi per poi restare saldamente nella mani del Sultano turco, fino al crollo definitivo dell’Impero Ottomano, che segnerà, nel 1924, l’abolizione della plurisecolare istituzione.  La delusione storica è cocente, non solo per le masse islamiche turche, ma anche e soprattutto per quelle arabe, che si erano illuse di riprendere nelle loro mani il califfato (e la politica britannica durante la Grande Guerra, per fomentare la rivolta araba contro gli Ottomani, aveva alimentato questa loro illusione). E’ proprio come reazione a questa delusione che nasce il primo gruppo fondamentalista dell’epoca contemporanea – i Fratelli musulmani, in Egitto– il quale si propone proprio la restaurazione del califfato. L’indipendenza presto raggiunta dagli stati arabi e poi l’affermazione del nazionalismo laico e modernizzante sembravano però aver definitivamente relegato nella soffitta della storia questi sogni di restaurazione. Essi cominciano a riprendere una qualche consistenza con Al Qaeda: l’idea che Bin Laden punti a una tale restaurazione comincia ad essere profilata, ma pare smentita da quelle poche notizie attendibili e dalle valutazioni che si possono fare dei suoi probabili progetti. Bin Laden mira essenzialmente a un rovesciamento dei regimi arabi moderati, a cominciare da quello del suo paese, l’Arabia Saudita. L’attacco all’Occidente in fondo non è il fine, ma il mezzo per raggiungere questo obiettivo e solo ad obiettivo raggiunto, eventualmente, si potrebbe ipotizzare per lui la proclamazione del Califfato. Bin Laden, alla fine, è un fanatico estremista riguardo ai mezzi utilizzati nella sua lotta politica, ma ha obiettivi circoscritti e una strategia che prevede una gradualità nell’azione e anche una certa prudenza e accortezza (abbiamo accennato al rifiuto di attaccare gli sciiti), che sono quasi da leader secolarizzato. L’Is ha invece un progetto totalitario di dominio globale: la successione dei vari passaggi si inverte e la proclamazione del califfato diventa la prima e non l’ultima tappa.
Nel contempo, la visione propagandistica dell’Is è decisamente superiore a quella di Al Qaeda: il semplice annuncio della rinascita del califfato ha un fortissimo impatto sulle masse arabe, come racconta egregiamente Maurizio Molinari.

Un quarto fattore di consenso, questo invece notissimo in Occidente ed anzi rilanciato da settori della stessa opinione pubblica occidentale, ma catastroficamente equivocato, è il risentimento contro le reali o presunte colpe dell’Occidente stesso, in quello che si potrebbe definire un processo di vittimizzazione delle masse arabe. Questo processo è sicuramente un potente fattore di consenso e di mobilitazione ed è forse il più rilevante elemento dello stesso “consenso passivo”: tantissimi musulmani, singolarmente presi del tutto pacifici, sono riluttanti a condannare il terrorismo o lo fanno in modo reticente e con mille riserve, proprio perché ritengono che esso sia una risposta, magari sbagliata, ai soprusi subiti. L’equivoco catastrofico di tanti occidentali sta però nel non capire che si tratta di una ricostruzione mitologica a uso propagandistico, perché, sebbene le vecchie potenze coloniali e gli USA abbiano gravi responsabilità nella gestione della situazione mediorientale ed abbiano commesso pesanti errori, queste responsabilità e questi errori non sono all’origine dell’integralismo islamico e tantomeno del jihadismo – che partono principalmente da fattori endogeni alle società arabe -  ma hanno solo contribuito ad alimentarlo e a diffonderlo. Questo non serve ad assolvere dai loro errori i governi occidentali, ma dovrebbe servire a prevenirne altri di errori: una diagnosi errata porta fatalmente a una terapia inefficace se non dannosa.
Il processo di vittimizzazione delle masse islamiche va piuttosto visto come una costruzione ideologica, fondata certamente su alcuni dati storicamente reali che vengono però ampiamente manipolati, di cui si servono i leader e i predicatori islamisti a fine propagandistico. Ha la stessa funzione che ebbero, nel fascismo e nel nazismo, la denuncia del pericolo (inesistente) di una imminente rivoluzione bolscevica da cui fascismo e nazismo avrebbero salvato i rispettivi paesi, o l’enfasi del nazionalismo italiano sui presunti soprusi subiti alla fine della Grande guerra (il mito della “vittoria mutilata”), per non parlare del famigerato complotto giudaico o “pluto-giudaico-massonico”. Prendere integralmente per buona la costruzione ideologica che alimenta il jihadismo e addirittura rilanciarla è forse la più tragica manifestazione dell’instupidimento collettivo dell’Occidente.

Questo abbozzo di analisi, dovrebbe portare ad alcune immediate conseguenze pratiche. Anzitutto, permette di comprendere molto meglio la natura dello Stato islamico e dunque i suoi reali obiettivi. La restaurazione del Califfato ha come primissimo scopo la reintegrazione della umma nei suoi confini storici. Essa si articolava in tre macro-regioni: lo Sham (Levante), che comprendeva l’area mesopotamica attuale Iraq e gli attuali territori di Giordania, Siria, Libano, Palestina, Israele; il Maghreb (Nord-Africa), dall’Egitto al Marocco, con i territori conquistati sull’altra sponda del Mediterraneo (Sicilia, penisola iberica…); l’Hegiaz (penisola arabica).
Di conseguenza, il neo-proclamato califfato rinnega i confini venuti fuori dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano e dalla decolonizzazione in Africa e intende restaurare questa articolazione della umma. Il primo passo è stato proprio la costituzione dell’Isis (acronimo di “Stato islamico del Levante). Era quindi prevedibile che dal nucleo originario in Iraq, l’Is, approfittando della guerra civile, si espandesse in Siria, ed è altrettanto prevedibile che esso utilizzerà ogni occasione favorevole, magari creata improvvidamente dalle potenze occidentali, per espandersi nelle altre regioni dello Sham (tra le quali, piccolo particolare, c’è anche Israele).
Altrettanto prevedibile era l’espansione nel Maghreb: l’Egitto è stato aggirato, salvo la penisola del Sinai che è stata solidamente occupata, in quanto è forse l’unico paese arabo seriamente impegnato a fronteggiare la minaccia – dopo il fallimento della “primavera araba” e la liquidazione del governo islamista dei “Fratelli musulmani”; l’Is è così sbarcato in Libia. Non si riesce a immaginare un esito più scontato, eppure dopo la disastrosa operazione contro il regime di Gheddafi, non si è fatto nulla per evitarlo. L’Hegiaz per il momento non viene toccato, se non altro perché da qui provengono i finanziamenti al Califfato.
Il progetto espansionistico dello Stato islamico non si limita a questo, purtroppo, data la sua essenza totalitaria sulla base dell’ideologia coranica. Tale ideologia coranica divide il mondo in due: dar al-islam, casa dell’islam, che coincide con la umma, e dar al-harb, casa della guerra, che è il territorio abitato e governato dagli “infedeli”. Il progetto è totalitario e globale perché prevede esplicitamente la progressiva conquista della “casa della guerra”, ossia delle nostre nazioni e delle nostre città. E’ totalitario perché non punta solo, e neanche in primo luogo, al dominio politico e militare, ma alla islamizzazione della società e delle coscienze, con la repressione e sottomissione o l’eliminazione fisica di ogni diversità culturale e religiosa, e l’estensione della sharia al mondo intero. Quali siano le effettive possibilità di realizzazione del progetto non è il primo punto da discutere, come non era il primo punto da discutere la possibilità concreta di realizzazione del sogno di dominio planetario del Terzo Reich. Il primo punto è la presa di coscienza del reale proposito dello Stato islamico. Un proposito che è già in atto, tragicamente, nei territori controllati, ove è in atto la pulizia etnica delle minoranze considerate idolatre e la persecuzione dei cristiani: va precisato che il regime del dhimmi, a cui sono sottoposti per esempio i cristiani caldei, poteva essere relativamente tollerante nel Medioevo, ma va oggi considerato una vera e propria persecuzione religiosa: chi non vuole o non può pagare la tassa può solo scegliere tra la fuga e il martirio. Chi paga la tassa vede limitate comunque quelle libertà e quei diritti che la nostra civiltà considera inviolabili, compresa la libertà religiosa: le chiese distrutte non si possono ricostruire, non se ne possono costruire di nuove e quelle esistenti non possono essere ampliate o ristrutturate; il culto non può essere pubblico, ma è di fatto semiclandestino, non si può svolgere alcuna attività di evangelizzazione.
Il fatto che le chiese cristiane occidentali parlino così poco di questa persecuzione ai danni dei cristiani del Medio Oriente – ove sono alcune delle comunità più antiche del cristianesimo – mentre denuncino di continuo il presunto pericolo dell’islamofobia nelle nostre società tolleranti e nel nostro stato di diritto, merita una sola parola di commento: indecente.
Va poi sottolineato con forza che oggi, diversamente dai secoli scorsi, la umma è diffusa anche nella “casa della guerra”, ossia in mezzo a noi, e l’operazione di conquista totalitaria si serve di essa, puntando a trasformare gli immigrati islamici in reclute del terrorismo jihadista o comunque suoi collaboratori. Non prendere atto di questo disegno, nemmeno dopo i tragici attentati di Parigi, è davvero sconcertante. Occorre anche registrare il fatto che almeno tre dei nove attentatori di Parigi hanno seguito la rotta dei migranti lungo la Turchia, la Grecia e i Balcani, rotta che si è aperta questa estate, e si può facilmente ipotizzare che lo Stato islamico abbia contribuito a dirottare il flusso dei migranti su quella via e ad enfatizzare strumentalmente l’emergenza stessa, con la complicità di sicuro di tutte le mafie che lucrano sui migranti. La presa d’atto non può portare a reazioni semplicistiche – né l’impossibile chiusura delle frontiere alla Salvini, né l’accoglienza “senza se e senza ma” della Boldrini – ma richiede risposte serie.

La seconda conseguenza pratica di questo abbozzo di analisi riguarda il problema del consenso all’islamismo jihadista. Occorre certamente agire sull’area del consenso attivo e militante, cosa che si fa ancora poco e male, ma occorre anche porsi il problema della ben più vasta area del consenso “passivo”, cosa che invece non si fa per nulla, continuando a negare e ad esorcizzare il problema dietro lo schermo di slogan e formulette retoriche. Ne è un buon esempio il caso delle manifestazioni islamiche contro il terrorismo dell’altro giorno. Annunciate e presentate come la dimostrazione che l’islam non ha niente a che vedere con il terrorismo e che la stragrande maggioranza degli islamici che vivono in Italia, per non dire la quasi totalità, non sono neanche minimamente coinvolti nel retroterra del jihadismo, hanno avuto un esito a dir poco sconfortante: meno di 1000 persone a Roma, meno di 400 a Milano (su quasi 2 milioni di musulmani che vivono in Italia) e in questi numeri sono compresi parecchi militanti dell'estrema sinistra italiana scesi in piazza per denunciare non il terrorismo ma la vendita delle armi e magari l’imperialismo occidentale e “sionista”, nonché gli amici del deputato PD marocchino che ha fatto il suo comizio e un manipolo di politici e sindacalisti in cerca di visibilità e consensi (da Fassina a Casini alla Camusso). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo; l'"islam è pace"; "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri cittadini israeliani, intenti ad aspettare un bus o a pregare, smentivano in diretta gli stessi slogan. Due ragazzine col velo – la foto è stata riportata da tutti i giornali e siti web – imbracciavano un cartello con su scritto “not in my name”, ma una delle due indossava una maglietta inneggiante all’Intifada e ad Hamas. Il sorriso sornione stampato sui loro volti diceva tutto.
Ma soprattutto, da queste manifestazioni e dalle dichiarazioni degli esponenti islamici dopo le stragi di Parigi non è giunto alcun aiuto  a capire la genesi del fenomeno dall’interno dell’islam stesso, che è un fatto indubitabile. Neanche una Rossana Rossanda islamica che abbia perlomeno riconosciuto che i terroristi “fanno parte del nostro album di famiglia”.
Una sola denuncia di una cellula o di un singolo militante jihadista da parte di qualche membro della comunità islamica – una sola denuncia – sarebbe molto più eloquente di altre mille manifestazioni come quelle di sabato scorso nel dare sostanza a quegli slogan. Ma questa denuncia, purtroppo, non mi risulta che ci sia ancora mai stata.
Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano, e nessuno a quanto pare ha voglia di toglierla. Anzi, non ci si pone neanche il problema, il che è ancora più preoccupante. Casini). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla. Casini). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla.

venerdì 20 novembre 2015

STATO ISLAMICO TOTALITARIO



Se si vuole veramente contrastare la tragica offensiva terroristica, occorre partire da una corretta analisi del fenomeno Isis: è una verità tanto elementare che fa specie doverla ricordare. Chi non è interessato ad analizzare un fenomeno, evidentemente non è neanche veramente interessato a combatterlo e, quando si tratta di una realtà così barbarica e criminale,  rischia anche, più o meno involontariamente, di rendersene complice o comunque di facilitarne il gioco. L’idea ad esempio, così diffusa in certi settori dell’opinione pubblica occidentale,  che l’offensiva terroristica sia in fondo una reazione a soprusi subiti in varia forma e in vari momenti dal mondo occidentale rafforza la convinzione delle reclute jihadiste di star conducendo una guerra santa difensiva, in quanto tale legittimata dal loro libro sacro. Il Corano, infatti, prescrive di attaccare solo se si viene attaccati. E’ così che tanti occidentali contribuiscono alla legittimazione dei terroristi, anche se amano definirsi pacifisti.
In questo abbozzo di analisi ci serviremo delle fonti finora più informate e attendibili. Non meraviglierà il fatto che si tratta essenzialmente di giornalisti che ancora si preoccupano, a loro rischio e pericolo, di osservare direttamente la realtà di cui scrivono e non si accontentano di attingere notizie in rete. Mi riferisco, innanzitutto, fra i libri facilmente accessibili, a quelli scritti negli ultimi mesi da Patrick Cockburn, Maurizio Molinari e Domenico Quirico.
Tanto per cominciare a impostare un’analisi corretta, occorre dire che l’Isis non va considerato un “sedicente stato”,  ma uno stato a pieno titolo. Semplificando al massimo il discorso, si può dire che il Califfato esercita tutte quelle funzioni e ha tutte quelle prerogative che definiscono lo Stato. Innanzitutto, nei territori che controlla, ha il monopolio dell’uso della forza, sia attraverso un vero e proprio esercito, ormai fornito anche di carri armati, artiglieria pesante e missili, sia attraverso una forza di polizia, la polizia religiosa detta Al-Hesbah . Questa prerogativa essenziale della statualità – il monopolio dell’uso della forza - appartiene, anzi, all’Isis molto più che ai regimi iracheno ed afghano, al governo siriano di Assad e a quelli libici di Tripoli e Tobruk.
L’Isis ha un’amministrazione, una struttura burocratica, a quanto pare più efficiente di quella dei regimi suddetti: non appena conquista un territorio – ad esempio l’importante città di Mosul – l’Isis ripristina i servizi essenziali – di solito devastati dalla guerra: l’elettricità, gli acquedotti, i servizi postali, la scuola, i servizi sanitari (vaccinazione obbligatoria dei bambini). In tal senso, è uno Stato, con elementi anche di Welfare State. Questa amministrazione tra l’altro emana bandi ed editti pubblici, emette documenti, lasciapassare e passaporti.
Lo Stato islamico batte moneta e riscuote le tasse. Tra queste ultime  la jizya, l’imposta a cui sono sottoposti coloro che vivono in regimi di dhimmi, ossia i cristiani che rifiutano di convertirsi, o almeno i sopravvissuti alle stragi.
Lo Stato islamico ha ovviamente una legge, la legge coranica o sharia, ha dei tribunali e un sistema penale. E su questo ci torneremo parlando tra poco del carattere totalitario di questa organizzazione statale.
Naturalmente, lo Stato islamico, attraverso questi strumenti, ha il pieno controllo di un territorio: non è come molti si ostinano a credere una entità evanescente che si concretizza solo nel web e nelle diverse cellule terroristiche sparse nel mondo. Lo Stato islamico non è Al-Qaeda, è profondamente diverso da Al Qaeda proprio perché non è una organizzazione terroristica clandestina, ma uno stato. Continuare ad ignorare questa differenza significa, come ha detto Quirico con la sua efficace battuta, scambiare il gatto con il serpente ed esporsi al morso velenoso di quest’ultimo.
Alcuni forse sono riluttanti ad attribuire all’Isis la piena valenza di stato a causa della discontinuità territoriale. Questa discontinuità è reale e si è persino accentuata ultimamente, proprio perché purtroppo lo Stato islamico si è diffuso. Oggi non si può parlare di un’entità che controlla solo una fascia di territorio, pur essa peraltro alquanto frammentata, a cavallo fra la Siria e l’Iraq, in quanto almeno altre due regioni sono cadute nelle mani dell’Isis: una parte della Libia, con la città di Sirte, e gran parte del Sinai. Poi ci sono le “filiali” dell’Isis nel mondo, tra cui la ben nota Boko Haram in Nigeria e ora anche l’organizzazione islamista del Mali. Ebbene, la discontinuità e la frammentazione del territorio non sono affatto elementi escludenti la piena statualità. Mi limito a citare due esempi di istituzioni politiche a cui nessuno negherebbe il pieno riconoscimento di stato: sono la maggiore potenza economica dell’età medioevale e la maggiore potenza economica moderna, Venezia e l’Impero Britannico. Nell’uno e nell’altro caso ci troviamo di fronte a un territorio non compatto. Nei documenti veneziani del tempo, la Repubblica di San Marco viene spessa chiamata stato da mar, in quanto l’elemento di continuità del suo territorio – formato da isole, porti, mercati, città costiere - era dato proprio dal mare, piuttosto che dalla terraferma. L’impero britannico giunse poi a controllare – direttamente o meno – circa un terzo delle terre emerse sull’intero pianeta, con una interruzione di continuità fra le sue singole parti e fra queste e la Madrepatria che, come tutti sappiamo, è un’isola. A veneziani e inglesi bastò il controllo dei mari per mantenere la coesione dei loro stati. Per lo Stato islamico e nei tempi attuali nemmeno questo è indispensabile: basta l’uso adeguato del web.
Riconoscere la dimensione statuale dell’Isis è essenziale, ma non basta ancora. Occorre capire la natura schiettamente totalitaria di questo stato. Le parole non andrebbero mai usate a caso e soprattutto quando ci si sforza di orientarsi in questioni così drammatiche, dovrebbe essere obbligatorio l’uso responsabile e quindi appropriato del linguaggio. E’ preoccupante che proprio coloro che sono pronti ad usare con tanta leggerezza, e in modo così volgarmente infondato ed eticamente indecente, termini tragicamente impegnativi come “genocidio” e “nazismo” (o “fascismo”), quando si tratta degli USA o di Israele, siano poi così riluttanti a usare i termini giusti, quando invece si tratta dell’islamismo. La definizione di Stato totalitario islamico appartiene, invece, a mio avviso, proprio ad un uso responsabile del linguaggio.
Nella vasta letteratura sul totalitarismo, spicca il saggio ormai classico di Adorno e Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy. Per i due studiosi punto chiave è la conquista del “consenso”  (elemento messo in evidenza già nell’altro studio classico sul tema, il volume di Hanna Arendt su Le origini del totalitarismo). I regimi totalitari contemporanei, infatti, si differenziano dai regimi autoritari tradizionali o dalle monarchie assolute di un tempo o da altre forme di dittature e dispotismi proprio perché si fondano sulla ricerca sistematica del consenso e sul suo mantenimento. Non si accontentano di imporre determinati comportamenti e di vietarne altri, di controllare e di reprimere la circolazione delle idee, ma vogliono l’attivo coinvolgimento delle masse, la loro mobilitazione: hanno un obiettivo molto più ambizioso di quello delle comuni dittature perché vogliono conquistare il cuore e le coscienze delle persone. Lo Stato islamico fa proprio questo: non bisogna credere che appena conquistato un territorio i miliziani dell’Isis facciano prima di tutto stragi e violenze, promulghino la sharia e terrorizzino la popolazione. Tutto questo accade, ma come ha scritto Molinari è in fondo la seconda cosa che accade. La prima è quella a cui già accennavamo: il ripristino dei servizi essenziali, di forme di assistenza per i bisognosi (tetto massimo per gli affitti, finanziamenti per le prime case), la vaccinazione dei bambini e la creazione di scuole di regime. Tutto ciò tende appunto a conquistare un consenso. Lo stesso terrore, come vedremo, prima ancora di essere uno strumento di guerra e di repressione violenta o di vendetta, è uno strumento di proselitismo e di consenso, per quanto ciò possa suonare strano e anche atroce alle nostre educate orecchie.
Ma lasciamo da parte per il momento il tema del consenso e andiamo a verificare se, in base alla tipologia delineata nello studio di Adorno e Brzezinski, lo Stato islamico si possa o meno definire uno stato “totalitario”. Secondo i due studiosi, sei sono le caratteristiche fondamentali di uno stato totalitario:
1)     Un’ideologia ufficiale che abbraccia tutti gli aspetti dell’esistenza, che fornisce risposte e soluzioni ad ogni questione, un’ideologia, appunto, totalizzante. L’ideologia si fonda sul pensiero di uno o più autori e si trova esposta in uno o più testi fondamentali di riferimento. Questa ideologia è inoltre orientata verso uno stadio finale e perfetto, ha quindi una portata escatologica e si propone tipicamente la costruzione di un “uomo nuovo”.
2)     Un partito unico di massa guidato tipicamente da un uomo solo, che esercita una leadership carismatica (anche carismatica). Questo partito è formato da una percentuale relativamente piccola della popolazione.
3)     Un sistema di terrore, sia fisico che psichico, esercitato sia attraverso la polizia che attraverso la pressione sociale e diretto verso i nemici del regime e dell’ideologia, non solo singolarmente, ma anche spesso come classi o gruppi di individui.
4)     Un monopolio dei mass-media
5)     Un monopolio delle armi e degli strumenti di offesa
6)     Un controllo centralizzato e pianificato dell’economia.
Ebbene, lo Stato islamico possiede pienamente tutte e sei queste caratteristiche. A quanto già detto, basterà aggiungere poche note delucidative.
1)     L’ideologia totalizzante è ovviamente l’islamismo, il libro di riferimento è il Corano, l’autore, almeno nelle pretese degli adepti, è un personaggio un po’ più importante di Marx, Lenin o Hitler, dato che si tratta di Allah in persona. Il progetto di costruzione dell’uomo nuovo, in questo caso del “musulmano nuovo”, contrapposto al musulmano corrotto dei regimi arabi cosiddetti moderati, è tipicamente presente nella cura dell’istruzione dei fanciulli che è molto spiccata nello Stato islamico. Istruzione scolastica, con una riorganizzazione e un rigido controllo dei programmi di studio, che ha portato all’eliminazione di materie “degenerate” come la filosofia, l’arte e la musica, alla riscrittura dei programmi di storia, ma anche alla cura per le discipline scientifiche e per lo studio dell’inglese. Istruzione militare e istruzione alla jihad, come documentano certi abominevoli filmati diffusi via web.
L’importanza di questo primo punto porta già alla corretta definizione dell’Isis: non solo stato, non solo stato totalitario, ma stato totalitario islamico.
2)     L’organizzazione jihadista segue i modello dei partiti di massa occidentali e, all’estero, delle organizzazioni politiche clandestine. Va notato che la lettura dello studio di Adorno e Brzezinski demolisce la stolta argomentazione di tanti, secondo cui il numero esiguo dei veri e propri jihadisti rispetto alla grande maggioranza dei musulmani che jihadisti non sono dimostrerebbe la scarsa consistenza del fenomeno e il carattere pacifico della religione islamica e della quasi totalità dei suoi fedeli. Ebbene, anche nella Germania nazista o nell’URSS di Stalin, i militanti e gli attivisti di partito erano in numero esiguo rispetto alla totalità degli abitanti, ma nessuno storico, anzi nessuna persona di buon senso, ne dedurrebbe l’irrilevanza del nazismo o dello stalinismo e l’estraneità o addirittura la refrattarietà della gran parte dei tedeschi e dei russi dell’epoca all’ideologia nazista o comunista. Il punto centrale è quindi quello del consenso all’organizzazione militante e non quello della sua consistenza numerica.
Il capo unico con funzione anche carismatica è il Califfo Al-Baghdadi – ritorneremo sulla straordinaria importanza nel mondo musulmano del ripristino di questa storica istituzione – ma può essere considerato anche il Profeta o Allah stesso, trattandosi di uno stato totalitario teocratico. Restando sulla figura del neo-proclamato califfo, va sottolineato come sia pericoloso ritenerlo un rozzo e fanatico esaltato. L’operazione di proclamazione del califfato è politicamente sapiente e rivela persino  un uso raffinato della simbologia. Il califfo, che sceglie di chiamarsi Ibrahim Abu Bakr Al-Baghdadi, usa innanzitutto il nome di Abramo, con un voluto e significativo riferimento alle origini e alle radici dell’Islam, in funzione di legittimazione del suo potere. In secondo luogo, il nome Abu Bakr, che è quello del successore di Maometto e infine Al-Baghdadi, che fa riferimento non solo al radicamento iracheno, ma anche alla capitale del califfato nel periodo più splendido della sua storia.
3)     Il sistema di terrore instaurato dallo Stato islamico dovrebbe essere noto a tutti. E’ però opportuno fornire qualche dettaglio. Esemplare è il caso degli hudud, le “punizioni coraniche”, che si trasformano in eventi pubblici, con la popolazione civile, bambini compresi, che assiste riunita in grandi cerchi all’umiliazione delle vittime e all’esecuzione delle condanne. Qualche norma penale: il reato di blasfemia è punito con la morte; l’adultera sposata è uccisa tramite lapidazione; l’omosessualità – cosa da segnalare a quegli omofili occidentali prontissimi a condannare l’imperialismo americano o israeliano e così timidi nella condanna dell’islamismo – è ugualmente punita con la morte. Ai ladri viene amputata la mano, mentre 60 frustrate sono comminate per il consumo di alcol. La corruzione è punita con il taglio di mano e piede sui lati opposti. Un fatto che non si è abbastanza sottolineato è la reintroduzione della schiavitù, per le donne delle popolazioni sottomesse (gli uomini vengono semplicemente soppressi).
Le categorie di popolazioni colpite e sistematicamente sterminate, come gli ebrei o i kulaki di un tempo, sono gli sciiti e gli yazidi, ritenuti “eretici” i primi, “idolatri” i secondi. Anche in questo risalta una differenza con Al Qaeda: Bin Laden, per motivi di strategia politica, evitò di autorizzare stragi di sciiti.
4)     5) e 6) Non mi sembrano necessarie ulteriori delucidazioni su questi punti, che sono più che evidenti. Vale la pena di sottolineare che il controllo dell’economia significa controllo  di quelle che al momento sembrano i tre fattori fondamentali della ricchezza dell’Isis: i giacimenti petroliferi, il mercato dei tesori artistici e archeologici, i finanziamenti provenienti da altri paesi arabi (soprattutto Arabia Saudita e Qatar). E’ chiaro che l’economia per l’Isis è un mezzo e non è assolutamente un fine, cosa che sembra invece non entrare mai nella testa di tanti occidentali che valutano con il metro di misura della società capitalistica occidentale qualunque altra società e qualunque regime. Del resto, anche nei totalitarismi europei, l’economia era assolutamente un mezzo.
Ecco, tanto si è detto per ricominciare a restituire il loro giusto nome alle cose e, parafrasando Quirico, per non chiamare “gatto”, la tigre.
So bene, peraltro, che queste note, se anche le leggessero, non convincerebbero quelli del partito “la religione non c’entra”. Sono convinto che molte persone persino di fronte a un jihadista che - Dio non voglia - si appresta a sgozzarle al grido di "Allah u' akbar" penserebbero fino all'ultimo istante che la religione non c'entra, che i veri motivi sono economici, che la colpa è delle politiche occidentali. Un po' come Don Ferrante che nei Promessi Sposi, nel suo delirio ideologico, nega la peste, nega il contagio, non prende nessuna precauzione e muore "eroicamente", prendendosela con le congiunture astrali sfavorevoli.
Altri, poi continueranno imperterriti a denunciare il “vero” pericolo, che a loro avviso non è tanto il jihadismo, ma l”islamofobia”. Ci si è messo pure il Corriere della Sera, che ha pubblicato un sondaggio davvero sorprendente: udite! Dopo l'attacco alle torri gemelle pare sia aumentato notevolmente il numero degli americani con un'opinione sfavorevole sui musulmani e, fatto ancor più sorprendente, pare che in Francia stia accadendom ora la stessa cosa! Questo strano fenomeno, così imprevedibile, il giornale più diffuso d'Italia lo definisce "islamofobia". È come se dopo la strage di Marzabotto qualcuno avesse registrato un aumento delle opinioni negative sui tedeschi parlando di un fenomeno di "germanofobia"!
Tant’è: il Signore acceca quelli che vuole perdere.