Inizio
del Vangelo di Gesù Cristo: questo è l’incipit della narrazione di Marco. L’evangelista, quindi, ci
presenta immediatamente il tema del suo racconto e usa una ben nota tecnica
narrativa: rivela subito al lettore quello che i protagonisti della vicenda
ignorano e ignoreranno fino alla fine, che Gesù è “il Cristo”, il Messia regale
atteso da Israele. Difatti, tutta la storia si dipana in un certo senso intorno
a un interrogativo di fondo: “Chi è costui?” o, nell’ottica di Gesù, “chi
credete che io sia?”.
A riconoscere nell’uomo
di Nazareth il Cristo, inizialmente saranno solo i demoni, ai quali Gesù
imporrà il silenzio. Dovremo aspettare l’ottavo capitolo per trovare una prima
confessione di fede cristologica, sulla bocca di Pietro; tuttavia, l’apostolo
cadrà in un gravissimo equivoco, meritandosi il duro rimprovero di Gesù.
Pertanto, il primo uomo che confesserà Gesù come Figlio di Dio lo troveremo veramente
solo alla fine della storia e sorprendentemente non sarà un discepolo di Gesù,
ma un pagano e un avversario, il centurione di guardia alla croce. Già queste
note sommarie lasciano intuire la profondità e la complessità della narrazione
di Marco.
L’equivoco è parte
fondante di questa narrazione e ciò è vero fin da questo primo versetto che
mentre sembra chiarire già tutto, si presta in realtà a più interpretazioni. Tradotta
la questione sul piano grammaticale, si tratta di stabilire se ci troviamo di
fronte a un genitivo soggettivo o a un genitivo oggettivo. Marco – questa è la
domanda - si appresta forse a parlarci del Vangelo di Gesù, ossia del Vangelo
che Gesù ha annunciato, come saremmo indotti a pensare e come pensano anche gli
autori di molti commentari? O piuttosto la storia che vuole raccontarci ha per
vero tema il Vangelo che Gesù stesso è, il Vangelo che Gesù incarna? Se lasciamo
aperta la questione e non scartiamo nessuna delle due possibilità, ci troviamo
di fronte a niente di meno che alla sintesi, in un solo versetto, della storia
delle origini del cristianesimo o quantomeno del passaggio cruciale di questa storia, che si
compie all’alba di Pasqua. E’ la svolta nella quale il Vangelo annunciato da
Gesù diventa il Vangelo che Gesù stesso è, annunciato ormai dai discepoli,
tanto che l’annunciante diviene l’annunciato e la fede di Gesù nel Padre diviene la fede in Gesù resuscitato dal Padre.
Ma che cosa poi è
questo Vangelo? Non dovremo aspettare molto per saperlo, perché Marco, con
un’altra sintesi mirabile e con altrettanta semplicità, ce lo dirà molto presto
e anche in questo caso in un singolo versetto. Perciò, lasciando da parte per
il momento i pur fondamentali episodi che sono interposti fra il primo versetto
e quello a cui ci riferiamo, corriamo subito a quest’ultimo, che è quello che
chiarisce i significato del Vangelo. E’ il versetto 15 di questo primo
capitolo, nel quale Gesù inizia la sua predicazione con le seguenti parole:
“Il tempo è compiuto e il Regno di Dio si è fatto vicino: convertitevi e
credete al Vangelo”.
Si tratta della frase
che inaugura la predicazione di Gesù ed è quindi una vera e propria dichiarazione
programmatica. Ha la stessa funzione che nel Vangelo di Matteo ha il Sermone
della Montagna (Mt., 5-7) e nel Vangelo di Luca ha l’episodio in cui Gesù
spiega le Scritture nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 16-30).
Il
tempo è compiuto: a prima vista questa sembra
un’espressione chiaramente apocalittica. Gesù pare annunciare – come appunto
era proprio della tradizione apocalittica – una rottura della storia. Questa
rottura è certo segnata dall’irruzione del Regno di Dio e l’irruzione del Regno
di Dio è certo un evento di carattere apocalittico. Non bisogna però giungere a
conclusioni affrettate e occorre analizzare meglio le parole di Gesù, nella testimonianza
di Marco, occorre capire meglio. Ed è indispensabile risalire al testo
originario, al testo greco.
Anzitutto, quale tempo è compiuto, di quale tempo si parla qui? Il greco, a
differenza dell’italiano ha due diverse parole
per designare il tempo e i due termini hanno significati ben diversi tra loro.
Ciò che noi chiamiamo solitamente tempo corrisponde al greco chronos. E’ il tempo storico, il tempo
sequenziale, il tempo “spazializzato”, come lo definisce un filosofo contemporaneo
– Bergson. Questo tempo si può infatti rappresentare nello spazio e dividere in
segmenti spaziali, come accade nei vecchi orologi con le lancette; è il tempo
ove ogni istante passa e non torna più, ove ogni cosa presente precipita e si
dissolve nel passato. Non a caso, nella mitologia greca, Chronos è il dio che
divora i suoi figli.
Se l’espressione “il
tempo è compiuto”, in questo versetto di Marco, si riferisse al tempo come chronos, annuncerebbe l’eschaton, il momento finale, culminante
e definitivo della storia e quindi la fine stessa della storia, del mondo e del
tempo. Dato, però, che sono trascorsi quasi due millenni da quell’annuncio e il
mondo pare che sia ancora qui, dovremmo proprio pensare che Gesù abbia preso un
clamoroso abbaglio, come tanti pseudo-profeti apocalittici o millenaristici che
lo hanno seguito a distanza di secoli! Ma non è così. Marco usa infatti l’altro
termine greco, che fa riferimento al tempo in una accezione completamente
diversa. Si tratta del tempo come kairòs.
E’ un termine che è decisamente problematico tradurre bene in italiano. Ha
genericamente il significato di “tempo favorevole”, tempo opportuno per fare,
dire, incominciare, cessare qualcosa, tempo che offre un’occasione che bisogna
saper cogliere. Il significato preciso dipende, tuttavia, dal soggetto che
dispone del kairòs; è questo soggetto
che lo qualifica. Qui il soggetto è evidentemente Dio. Ciò è confermato
inequivocabilmente da un’altra osservazione grammaticale: il verbo è al
passivo. Qui devo davvero scusarmi se sembro pedante, ma è assolutamente
necessario sapere, se si vuole interpretare correttamente la Bibbia, che nel
Nuovo Testamento il verbo al passivo corrisponde molto spesso ad un’azione
compiuta da Dio, anche se questi non è direttamente citato! Difatti, viene
chiamato “passivo divino”.
E’ dunque il kairòs di Dio che è compiuto, che è
giunto “a pienezza”, che si è “riempito”, se vogliamo tradurre in modo più
aderente al testo. Ed il tempo, il kairòs
di Dio, è evidentemente il tempo favorevole alla salvezza, il tempo che offre
all’uomo l’opportunità della salvezza.
Una volta precisato
tutto questo abbiamo la chiave per interpretare correttamente anche le parole
che seguono (e tutte le parole di questo versetto hanno un profondo e
importante significato!). Il Regno di Dio
è vicino o piuttosto, come è meglio tradurre, si è fatto vicino, si è avvicinato. Se traduciamo nel primo modo,
infatti, non teniamo conto di quanto appena detto sul tempo che è compiuto,
sulla qualità di questo tempo che è
compiuto, e cadiamo in un equivoco fatale. Siamo infatti portati a pensare che
il Regno di Dio è vicino, nel senso che è in viaggio e sta arrivando. Ma in tal
modo interpretiamo di nuovo il tempo come chronos,
come tempo storico e spazializzato. L’equivoco è davvero fatale, perché ogni
cosa che viaggia nel tempo “cronologico” è condannata alla morte, alla
distruzione. Viene infatti dal futuro per sostare brevemente nel presente e
annegare per sempre nel passato. Se il Regno di Dio si stesse avvicinando a noi
nel tempo cronologico, finirebbe certo per arrivare, ma ineluttabilmente
sarebbe destinato anche a passare. Il tempo come kairòs si situa, invece,
su un piano completamente diverso e anticipa il tempo escatologico. E’ questa
però una riflessione filosoficamente impegnativa e che richiede spazio
adeguato, per cui ne parleremo specificamente e dettagliatamente in un capitolo
a parte.
Qui occorre piuttosto
porre l’accento su un altro decisivo elemento grammaticale: il verbo di cui è
soggetto “il Regno di Dio” è al perfetto (è
vicino), esattamente come il verbo di cui è soggetto “il tempo” (è compiuto). Il perfetto indica
un’azione che non è più in corso, che non si sta svolgendo (né nel presente, né
nel passato), ma è ormai compiuta. Rispetto al nostro passato remoto, tuttavia,
questa azione, che pure è già accaduta, continua a manifestare i suoi effetti
nel presente. Dunque, sempre che qualcuno abbia avuto la pazienza di seguire il
discorso, la conclusione è questa: “il Regno di Dio si è fatto vicino”
significa che esso è già stato avvicinato, è già stato posto vicino a noi da
Dio (attraverso Gesù). Questa azione Dio l’ha già fatta ed essa è definitiva,
ma i suoi effetti potenti irrompono nel nostro presente, sono qui ed ora! E per
questo possiamo dire che ci viene offerta questa occasione straordinariamente
favorevole, questa incomparabile opportunità di salvezza! E’ questa la buona
notizia, è questo il Vangelo di Gesù (genitivo
soggettivo e oggettivo)!
Anche l’espressione
“Regno di Dio” dovrebbe essere chiarita. Non mi dilungo, perché avremo
certamente modo di parlarne ancora e mi limito a dire che più che a un mondo
ultraterreno – il “paradiso” – bisogna intenderla come il potere, la signoria
di Dio sul mondo, sulla natura, sulla storia, sugli uomini.
Il concetto di kairòs implica però, come si diceva,
un’occasione da cogliere e quindi delle condizioni che consentono di coglierla.
Difatti, Gesù aggiunge: ravvedetevi e
credete al vangelo. Il primo verbo potreste trovarlo tradotto anche in
altro modo: convertitevi, pentitevi…In
questo caso, non è affatto facile risalire all’intenzione autentica
dell’evangelista e quindi al significato della sua testimonianza sulla
predicazione di Gesù. Gesù, infatti, parlava in aramaico, lingua affine
all’ebraico, mentre Marco scrive in greco. Il passaggio dall’una all’altra
lingua in molti casi è arduo, perché l’orizzonte culturale e di pensiero che le
due lingue esprimono è molto diverso. Qui certo si tratta di un invito alla
“conversione”. Ma in che consiste concretamente questa conversione? Che cosa
chiede Gesù ai suoi discepoli? Nell’antico Israele, la conversione consisteva
soprattutto in azioni, pratiche, comportamenti e l’ebraico ha appunto questa
coloritura attiva, operativa, pratica. Il greco, invece, ha una connotazione
più cognitiva, teoretica. E difatti il verbo che usa Marco indica precisamente
un cambiamento mentale. E’ come se Gesù dicesse che per cogliere l’occasione
straordinaria offerta da Dio nel vangelo di Gesù occorre prima di tutto un
cambiamento di pensiero, un cambiamento di prospettiva. Tuttavia, valutando
solo il singolo termine o il singolo versetto non possiamo sbilanciarci in
senso troppo favorevole a questa interpretazione: è anche possibile che Marco
abbia semplicemente usato il vocabolo che in greco traduceva abitualmente il
concetto ebraico di conversione, senza troppo badare al significativo slittamento
semantico che la traduzione comporta. Dobbiamo lasciare aperta la questione e
aspettare che sia tutta la vicenda narrata dall’evangelista a chiarirla.
Certamente, con la
conversione e per la conversione, è indispensabile la fede nel vangelo, come
Gesù subito chiarisce. Credete nel vangelo, qui non va però inteso come se si
trattasse di convincersi, magari in modo irrazionale e acritico, della verità
di una qualche dottrina o visione del mondo, ma significa piuttosto: abbiate fiducia nel Vangelo, ossia nella buona
notizia che vi è annunciata! Ed è questo il cambiamento mentale che certamente
è richiesto: orientare la propria mente e la propria vita sulla base della
fede, della fiducia nell’annuncio del vangelo. Si tratta certamente di operare
una rivoluzione rispetto al comune modo di pensare e rispetto al modo abituale
di vivere!