sabato 5 settembre 2015

"IL TEMPO E' COMPIUTO"!



Inizio del Vangelo di Gesù Cristo: questo è l’incipit della narrazione di Marco. L’evangelista, quindi, ci presenta immediatamente il tema del suo racconto e usa una ben nota tecnica narrativa: rivela subito al lettore quello che i protagonisti della vicenda ignorano e ignoreranno fino alla fine, che Gesù è “il Cristo”, il Messia regale atteso da Israele. Difatti, tutta la storia si dipana in un certo senso intorno a un interrogativo di fondo: “Chi è costui?” o, nell’ottica di Gesù, “chi credete che io sia?”.

A riconoscere nell’uomo di Nazareth il Cristo, inizialmente saranno solo i demoni, ai quali Gesù imporrà il silenzio. Dovremo aspettare l’ottavo capitolo per trovare una prima confessione di fede cristologica, sulla bocca di Pietro; tuttavia, l’apostolo cadrà in un gravissimo equivoco, meritandosi il duro rimprovero di Gesù. Pertanto, il primo uomo che confesserà Gesù come Figlio di Dio lo troveremo veramente solo alla fine della storia e sorprendentemente non sarà un discepolo di Gesù, ma un pagano e un avversario, il centurione di guardia alla croce. Già queste note sommarie lasciano intuire la profondità e la complessità della narrazione di Marco.

L’equivoco è parte fondante di questa narrazione e ciò è vero fin da questo primo versetto che mentre sembra chiarire già tutto, si presta in realtà a più interpretazioni. Tradotta la questione sul piano grammaticale, si tratta di stabilire se ci troviamo di fronte a un genitivo soggettivo o a un genitivo oggettivo. Marco – questa è la domanda - si appresta forse a parlarci del Vangelo di Gesù, ossia del Vangelo che Gesù ha annunciato, come saremmo indotti a pensare e come pensano anche gli autori di molti commentari? O piuttosto la storia che vuole raccontarci ha per vero tema il Vangelo che Gesù stesso è, il Vangelo che Gesù incarna? Se lasciamo aperta la questione e non scartiamo nessuna delle due possibilità, ci troviamo di fronte a niente di meno che alla sintesi, in un solo versetto, della storia delle origini del cristianesimo o quantomeno del  passaggio cruciale di questa storia, che si compie all’alba di Pasqua. E’ la svolta nella quale il Vangelo annunciato da Gesù diventa il Vangelo che Gesù stesso è, annunciato ormai dai discepoli, tanto che l’annunciante diviene l’annunciato e la fede di Gesù nel Padre diviene la fede in Gesù resuscitato dal Padre.

Ma che cosa poi è questo Vangelo? Non dovremo aspettare molto per saperlo, perché Marco, con un’altra sintesi mirabile e con altrettanta semplicità, ce lo dirà molto presto e anche in questo caso in un singolo versetto. Perciò, lasciando da parte per il momento i pur fondamentali episodi che sono interposti fra il primo versetto e quello a cui ci riferiamo, corriamo subito a quest’ultimo, che è quello che chiarisce i significato del Vangelo. E’ il versetto 15 di questo primo capitolo, nel quale Gesù inizia la sua predicazione con le seguenti parole: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio si è fatto vicino: convertitevi e credete al Vangelo”.

Si tratta della frase che inaugura la predicazione di Gesù ed è quindi una vera e propria dichiarazione programmatica. Ha la stessa funzione che nel Vangelo di Matteo ha il Sermone della Montagna (Mt., 5-7) e nel Vangelo di Luca ha l’episodio in cui Gesù spiega le Scritture nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 16-30).

Il tempo è compiuto: a prima vista questa sembra un’espressione chiaramente apocalittica. Gesù pare annunciare – come appunto era proprio della tradizione apocalittica – una rottura della storia. Questa rottura è certo segnata dall’irruzione del Regno di Dio e l’irruzione del Regno di Dio è certo un evento di carattere apocalittico. Non bisogna però giungere a conclusioni affrettate e occorre analizzare meglio le parole di Gesù, nella testimonianza di Marco, occorre capire meglio. Ed è indispensabile risalire al testo originario, al testo greco.

Anzitutto, quale tempo è compiuto, di quale tempo si parla qui? Il greco, a differenza dell’italiano  ha due diverse parole per designare il tempo e i due termini hanno significati ben diversi tra loro. Ciò che noi chiamiamo solitamente tempo corrisponde al greco chronos. E’ il tempo storico, il tempo sequenziale, il tempo “spazializzato”, come lo definisce un filosofo contemporaneo – Bergson. Questo tempo si può infatti rappresentare nello spazio e dividere in segmenti spaziali, come accade nei vecchi orologi con le lancette; è il tempo ove ogni istante passa e non torna più, ove ogni cosa presente precipita e si dissolve nel passato. Non a caso, nella mitologia greca, Chronos è il dio che divora i suoi figli.

Se l’espressione “il tempo è compiuto”, in questo versetto di Marco, si riferisse al tempo come chronos, annuncerebbe l’eschaton, il momento finale, culminante e definitivo della storia e quindi la fine stessa della storia, del mondo e del tempo. Dato, però, che sono trascorsi quasi due millenni da quell’annuncio e il mondo pare che sia ancora qui, dovremmo proprio pensare che Gesù abbia preso un clamoroso abbaglio, come tanti pseudo-profeti apocalittici o millenaristici che lo hanno seguito a distanza di secoli! Ma non è così. Marco usa infatti l’altro termine greco, che fa riferimento al tempo in una accezione completamente diversa. Si tratta del tempo come kairòs. E’ un termine che è decisamente problematico tradurre bene in italiano. Ha genericamente il significato di “tempo favorevole”, tempo opportuno per fare, dire, incominciare, cessare qualcosa, tempo che offre un’occasione che bisogna saper cogliere. Il significato preciso dipende, tuttavia, dal soggetto che dispone del kairòs; è questo soggetto che lo qualifica. Qui il soggetto è evidentemente Dio. Ciò è confermato inequivocabilmente da un’altra osservazione grammaticale: il verbo è al passivo. Qui devo davvero scusarmi se sembro pedante, ma è assolutamente necessario sapere, se si vuole interpretare correttamente la Bibbia, che nel Nuovo Testamento il verbo al passivo corrisponde molto spesso ad un’azione compiuta da Dio, anche se questi non è direttamente citato! Difatti, viene chiamato “passivo divino”.

E’ dunque il kairòs di Dio che è compiuto, che è giunto “a pienezza”, che si è “riempito”, se vogliamo tradurre in modo più aderente al testo. Ed il tempo, il kairòs di Dio, è evidentemente il tempo favorevole alla salvezza, il tempo che offre all’uomo l’opportunità della salvezza.

Una volta precisato tutto questo abbiamo la chiave per interpretare correttamente anche le parole che seguono (e tutte le parole di questo versetto hanno un profondo e importante significato!). Il Regno di Dio è vicino o piuttosto, come è meglio tradurre, si è fatto vicino, si è avvicinato. Se traduciamo nel primo modo, infatti, non teniamo conto di quanto appena detto sul tempo che è compiuto, sulla qualità di questo tempo che è compiuto, e cadiamo in un equivoco fatale. Siamo infatti portati a pensare che il Regno di Dio è vicino, nel senso che è in viaggio e sta arrivando. Ma in tal modo interpretiamo di nuovo il tempo come chronos, come tempo storico e spazializzato. L’equivoco è davvero fatale, perché ogni cosa che viaggia nel tempo “cronologico” è condannata alla morte, alla distruzione. Viene infatti dal futuro per sostare brevemente nel presente e annegare per sempre nel passato. Se il Regno di Dio si stesse avvicinando a noi nel tempo cronologico, finirebbe certo per arrivare, ma ineluttabilmente sarebbe destinato anche a passare. Il tempo come kairòs si situa, invece, su un piano completamente diverso e anticipa il tempo escatologico. E’ questa però una riflessione filosoficamente impegnativa e che richiede spazio adeguato, per cui ne parleremo specificamente e dettagliatamente in un capitolo a parte.

Qui occorre piuttosto porre l’accento su un altro decisivo elemento grammaticale: il verbo di cui è soggetto “il Regno di Dio” è al perfetto (è vicino), esattamente come il verbo di cui è soggetto “il tempo” (è compiuto). Il perfetto indica un’azione che non è più in corso, che non si sta svolgendo (né nel presente, né nel passato), ma è ormai compiuta. Rispetto al nostro passato remoto, tuttavia, questa azione, che pure è già accaduta, continua a manifestare i suoi effetti nel presente. Dunque, sempre che qualcuno abbia avuto la pazienza di seguire il discorso, la conclusione è questa: “il Regno di Dio si è fatto vicino” significa che esso è già stato avvicinato, è già stato posto vicino a noi da Dio (attraverso Gesù). Questa azione Dio l’ha già fatta ed essa è definitiva, ma i suoi effetti potenti irrompono nel nostro presente, sono qui ed ora! E per questo possiamo dire che ci viene offerta questa occasione straordinariamente favorevole, questa incomparabile opportunità di salvezza! E’ questa la buona notizia, è questo il Vangelo di Gesù (genitivo soggettivo e oggettivo)!

Anche l’espressione “Regno di Dio” dovrebbe essere chiarita. Non mi dilungo, perché avremo certamente modo di parlarne ancora e mi limito a dire che più che a un mondo ultraterreno – il “paradiso” – bisogna intenderla come il potere, la signoria di Dio sul mondo, sulla natura, sulla storia, sugli uomini.

Il concetto di kairòs implica però, come si diceva, un’occasione da cogliere e quindi delle condizioni che consentono di coglierla. Difatti, Gesù aggiunge: ravvedetevi e credete al vangelo. Il primo verbo potreste trovarlo tradotto anche in altro modo: convertitevi, pentitevi…In questo caso, non è affatto facile risalire all’intenzione autentica dell’evangelista e quindi al significato della sua testimonianza sulla predicazione di Gesù. Gesù, infatti, parlava in aramaico, lingua affine all’ebraico, mentre Marco scrive in greco. Il passaggio dall’una all’altra lingua in molti casi è arduo, perché l’orizzonte culturale e di pensiero che le due lingue esprimono è molto diverso. Qui certo si tratta di un invito alla “conversione”. Ma in che consiste concretamente questa conversione? Che cosa chiede Gesù ai suoi discepoli? Nell’antico Israele, la conversione consisteva soprattutto in azioni, pratiche, comportamenti e l’ebraico ha appunto questa coloritura attiva, operativa, pratica. Il greco, invece, ha una connotazione più cognitiva, teoretica. E difatti il verbo che usa Marco indica precisamente un cambiamento mentale. E’ come se Gesù dicesse che per cogliere l’occasione straordinaria offerta da Dio nel vangelo di Gesù occorre prima di tutto un cambiamento di pensiero, un cambiamento di prospettiva. Tuttavia, valutando solo il singolo termine o il singolo versetto non possiamo sbilanciarci in senso troppo favorevole a questa interpretazione: è anche possibile che Marco abbia semplicemente usato il vocabolo che in greco traduceva abitualmente il concetto ebraico di conversione, senza troppo badare al significativo slittamento semantico che la traduzione comporta. Dobbiamo lasciare aperta la questione e aspettare che sia tutta la vicenda narrata dall’evangelista a chiarirla.

Certamente, con la conversione e per la conversione, è indispensabile la fede nel vangelo, come Gesù subito chiarisce. Credete nel vangelo, qui non va però inteso come se si trattasse di convincersi, magari in modo irrazionale e acritico, della verità di una qualche dottrina o visione del mondo, ma significa piuttosto: abbiate fiducia nel Vangelo, ossia nella buona notizia che vi è annunciata! Ed è questo il cambiamento mentale che certamente è richiesto: orientare la propria mente e la propria vita sulla base della fede, della fiducia nell’annuncio del vangelo. Si tratta certamente di operare una rivoluzione rispetto al comune modo di pensare e rispetto al modo abituale di vivere!