lunedì 13 aprile 2015

IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI: MA IL GOVERNO ITALIANO STA CON BERGOGLIO O CON LA TURCHIA?



Chi mi onora della sua attenzione, seguendo questo blog o anche ciò che scrivo su FB, conosce bene la mia valutazione molto negativa su certo acritico e finanche fanatico entusiasmo per l’attuale pontefice, un entusiasmo che pare talora ancor più acceso nella opinione pubblica sedicente laica, e persino in qualche parte della piccola minoranza protestante italiana, che non negli ambienti cattolici. Sa pure che in questo pontificato, fino a questo momento, vedo soprattutto una abile operazione di marketing, vuota di reali e significativi contenuti e senza nessuna di quelle “svolte storiche” che altri sembrano riscontrare pressoché quotidianamente.

Adesso devo però salutare con gioia e anche con gratitudine le ultime dichiarazioni del papa sul genocidio degli armeni, di cui ricorre il centenario e devo riconoscere che hanno, queste sì, una vera portata storica. Innanzitutto, perché Bergoglio è il primo papa a usare francamente il termine “genocidio” (Giovanni Paolo II, che pure aveva detto cose significative, aveva usato il termine “annientamento”, se non vado errato); si tratta infatti veramente del primo genocidio del Novecento, che, come dirò, fu anche sinistro laboratorio di sperimentazione della Shoah.

In tal modo, non solo il papa ha messo fine a un silenzio aberrante della chiesa romana sullo sterminio di uno dei più antichi popoli della cristianità, ma ha anche indirettamente sbugiardato e smascherato l’imbarazzo o la netta reticenza di tanti governi – compreso quello italiano – sul massacro degli armeni. E non ha avuto timore – anche qui a differenza dei governi – delle immancabili e violente proteste della Turchia.

Sono quegli stessi governi che sono oggi ipersensibili nei confronti di ogni accenno di “negazionismo” della Shoah da parte di sedicenti storici – e rispondono con misure legislative sbagliate a questa forma di negazionismo - e che sono invece ciechi di fronte al ben più grave negazionismo di stato del governo turco, di tutti i governi turchi da un secolo a questa parte, nei confronti dell’olocausto degli armeni.

Quella di Bergoglio è invece una operazione di verità che non riguarda solo una pagina atroce della storia, ma ha anche e soprattutto importanti implicazioni per la più stretta attualità. L’uso improprio, equivoco o deviante della parole è infatti molto pericoloso, perché apre la strada alla mistificazione e alla strumentalizzazione della realtà. E quando si tratta di una parola così gravemente importante, come è la parola “genocidio”, le conseguenze possono essere devastanti. Ebbene, proprio questa parola specie negli ultimi tempi è sottoposta a questi usi pericolosi. Infatti, viene adottata a sproposito per definire qualunque azione militare compiuta dal proprio “nemico” e non viene invece usata quando un sistematico e “scientifico” sterminio etnico-religioso viene perpetrato da soggetti con i quali segretamente si simpatizza, magari soltanto perché sembrano essere nemici del proprio nemico.

Si è così parlato, in modo indecente, di genocidio per la vicenda di Gaza di questa estate, laddove si trattava di una operazione militare, quella condotta da Israele, certamente criticabile, ma che nulla aveva a che vedere con il genocidio e che peraltro rispondeva ad un’aggressione militare subita da Israele e dalla sua popolazione civile. Uso davvero indecente, perché attribuiva falsamente la responsabilità di un tale sommo crimine allo Stato costituito da quel popolo che è vittima per eccellenza di tale aberrazione della storia. E’ difficile non scorgere in un tale fanatico e fazioso accanimento anti israeliano – che spesso neanche distingue le responsabilità del governo di Israele da quelle dei suoi cittadini e addirittura da quelle di ogni ebreo che viva nel mondo - un latente retaggio di secolari sentimenti e pregiudizi antigiudaici.

D’altra parte, la parola genocidio non viene usata, laddove invece ciò andrebbe fatto, laddove il nuovo genocidio andrebbe chiaramente denunciato, senza alcun timore o riserva: mi riferisco evidentemente allo sterminio delle minoranza cristiane, sciite o di altra religione da parte del totalitarismo islamista.

Le parole di Bergoglio sono importanti anche per questo, perché legano la strage di un secolo fa a quella di cui sono vittima nuovamente dei cristiani, in una vasta area del mondo, dal Pakistan alla Nigeria.

Un uso appropriato delle parole, e in particolare del termine genocidio, non ha quindi solo a che fare con la padronanza della lingua (comunque auspicabile!), ma è imposto da ragioni di responsabilità etica e civile. Quello del 1915 fu sicuramente un genocidio, perché si trattò precisamente dello sterminio sistematico e deliberato di una intera etnia e del tentativo, per poco fallito, di cancellare ogni traccia di quel popolo. Già per questo, il confronto con Auschwitz, che è implausibile sul piano storico e indegno sul piano morale in altri casi, come le azioni di guerra di Israele, è qui del tutto fondato.

Poche notizie: il 15 settembre del 1915 il Ministro degli interni turco, Taalat Pashà, telegrafò un ordine al prefetto di Aleppo (allora ancora provincia ottomana), informandolo della decisione del governo di eliminare completamente gli armeni: “devono cessare di esistere, per quanto tragiche le misure da intraprendere, senza riguardo alcuno per età o sesso, né scrupoli di coscienza” (citato dal grande corrispondente di guerra britannico Robert Fisk, giornalista dell’Indipendent, che nel suo bellissimo Cronache mediorientali, dedica un intero e lungo capitolo a “Il primo Olocausto”). E’ una terrificante anticipazione della “soluzione finale” nazista del 1942.

Nello sterminio degli armeni vi fu anche l’aspetto peculiare del genocidio moderno: l’agghiacciante applicazione di soluzioni tecnologiche tese a massimizzare i profitti – ossia il numero delle persone eliminate – minimizzando i costi economici. Ovviamente, si trattò delle rudimentali soluzioni tecnologiche di cui poteva disporre un paese arretrato da questo punto di vista come era l’Impero Ottomano di allora, ma il genio maligno del moderno olocausto vi era già tutto. Si sfruttarono, ad esempio, le grotte e le grandi cavità naturali presenti sul territorio, per ammassarvi dentro decine, spesso centinaia di armeni. L’ingresso della grotta veniva poi ulteriormente ristretto  da massi e all’imboccatura veniva acceso un fuoco, sicché quelli che erano all’interno morivano asfissiati. Si trattava di una primitiva camera a gas e ciò che rende più agghiacciante il racconto è che ad assistere e anche a collaborare allo sterminio vi erano anche ufficiali e soldati tedeschi – la Germania e la Turchia erano alleate durante la Prima guerra mondiale. Alcuni di loro, anni dopo, sarebbero divenuti nazisti e avrebbero avuto responsabilità primarie nella Shoah: un certo Rudolf Hoess, ad esempio, si arruolò poco più che adolescente nelle truppe tedesche distaccate in Turchia; nel 1940 fu nominato comandante di Auschwitz e nel 1944 divenne viceispettore di tutti i campi di concentramento nazisti.

Un altro sistema teso a ottimizzare il rapporto costi/benefici consisteva nel portare una moltitudine di persone, spesso l’intera popolazione di un villaggio, sulle rive di un fiume dalle acque profonde e dalla corrente impetuosa, legando tutti a una corda. Il primo veniva poi ucciso con un colpo di rivoltella e spinto a cadere nel fiume; in tal modo trascinava dietro di sé a morire tutti gli altri: con lo “spreco” di una sola pallottola si eliminava l’intera popolazione di un villaggio.

Durante la guerra, poche notizie filtrarono in Europa e in America, ma alcuni giornali americani riuscirono comunque a scoprire e a denunciare il genocidio: in particolare il New York Times pubblicò un coraggioso reportage.

La commozione e l’indignazione durarono però ben poco: a guerra finita ci si dimenticò degli armeni. Negli USA Wilson, che sembrava disponibile alla costituzione di uno stato armeno, non fu rieletto e nei governi europei prevalse la realpolitik: la nuova Turchia era considerata un bastione contro la minaccia costituita dalla neonata Unione Sovietica e non era il caso di inimicarsela. Così, non ci fu alcun “processo di Norimberga” per i responsabili, non nacque nessun libero stato di Armenia e del genocidio praticamente non si parlò più. Oltre agli armeni furono delusi anche i curdi, che pure credevano di essersi guadagnati dei titoli di benemerenza agli occhi del governo turco. Come scrive Fisk, uno dei pochissimi a rompere quest’altra cortina di silenzio, se i turchi furono i mandanti del genocidio, i curdi furono i suoi più feroci esecutori, anche per la rivalità etnico-religiosa con gli armeni.

E’ questa una responsabilità che, Fisk a parte, si guardano bene dal ricordare tanti giornalisti, intellettuali e politici di sinistra, impegnati a celebrare la positiva diversità dell’eroico, laico, rivoluzionario popolo curdo. Non esistono, invece, popoli “buoni” – come non ne esistono di “cattivi” – e le vittime di oggi, possono anche essere stati i carnefici di ieri, per cui un sano e disincantato spirito laico non è mai di troppo.

Spirito laico e onestà intellettuale servono soprattutto a valutare e denunciare le responsabilità e le connivenze del proprio governo, visto che i governi democratici dovrebbero rispondere ai cittadini e i cittadini dovrebbero quindi esercitare una costante vigilanza critica nei loro confronti. In questo caso, sono macroscopiche le responsabilità e le connivenze dell’attuale governo italiano e della classe politica in genere: una classe politica che è sempre pronta a osannare ogni minima affermazione del papa, stavolta, dinanzi alle sue parole, è rimasta in silenzio e dinanzi alle violente proteste diplomatiche turche non ha battuto ciglio e non ha espresso la benché minima solidarietà al pontefice. E c’è di più: il presidente dell’Armenia in viaggio in Italia, non è stato onorato di alcuna accoglienza ufficiale e l’Italia non parteciperà in nessun modo alle manifestazioni che si svolgeranno nei prossimi giorni in Armenia per il centenario del genocidio.

C’è solo da indignarsi e da vergognarsi.

martedì 7 aprile 2015

Were you there... terza puntata: la dimensione politica della Passione di Cristo



Gesù fu condannato a morte dal prefetto di Roma, Ponzio Pilato: questo fatto, già citato da Tacito in una notizia brevissima, è indiscutibile anche per la storiografia moderna.

I Vangeli non lo negano di certo, ma tendono ad attenuare la colpa di Pilato, che sarebbe stato sobillato dalle autorità giudaiche e, specie in Matteo, anche dalla folla, e avrebbe acconsentito alla condanna, pur convinto dell’innocenza di Gesù, con il celebre gesto del lavarsi le mani. Il problema è che i Vangeli sono stati scritti qualche decennio dopo i fatti, negli anni che precedono di pochissimo (Marco) o seguono (Matteo, Luca e infine Giovanni) la fallita rivolta antiromana e la distruzione del Tempio, nel 70 e.v.. I giudeo-cristiani di Palestina non avevano preso parte a quella rivolta ed erano stati quindi accusati finanche di “tradimento” della “causa nazionale” dagli zeloti e dai più accesi “patrioti” ebraici. Così, da un lato si andava approfondendo anche per questo motivo politico la distanza fra il giudeo-cristianesimo e il giudaismo rabbinico, fino ad arrivare allo scontro aperto fra la chiesa e la sinagoga, dall’altro lato, da parte dei cristiani, vi era – dato che pure la parousia, il ritorno in gloria di Cristo, tardava a manifestarsi – l’esigenza di una pacifica convivenza con l’Impero e dentro l’Impero. L’opera di Luca (Vangelo e Atti) tende anche a mostrare ai fedeli – e soprattutto a quei pagani simpatizzanti del cristianesimo - che i cristiani possono vivere tranquillamente sotto Roma, senza che la loro fede ne sia minacciata e senza che questa rappresenti un problema per le istituzioni dell’Impero. Il dato di fatto che non può certo  essere ignorato, né occultato, che Cristo sia stato ucciso proprio per ordine del prefetto romano viene quindi controbilanciato nei Vangeli da una enfatizzazione delle responsabilità giudaiche.

Si può dire che questo problema si sia costantemente ripresentato e si presenti ancor oggi: la necessità – ben comprensibile  - di vivere pacificamente entro l’ordine costituito e di convivere con le istituzioni e i poteri di volta in volta dominanti, almeno fino a che il Regno di Dio non si sia pienamente manifestato, deve indurre i cristiani a spostare in secondo piano il dato incontrovertibile che il loro Signore fu vittima innanzitutto del potere del tempo, e questo fino a sterilizzare completamente questo dato di fatto? O, piuttosto, si deve considerare la circostanza per cui Gesù è stato crocefisso per ordine dell’autorità politica come un elemento non accessorio e non contingente, ma centralissimo della confessione di fede, dell’annuncio e della testimonianza dei cristiani? In altre parole, quel “patì sotto Ponzio Pilato”, che si recita nel Credo, è forse solo un elemento di narrazione storica o non è invece il richiamo – che ha un ruolo costitutivo nella confessione di fede e nella dogmatica – a una vicenda umana e terrena di Gesù che culmina precisamente nella condanna  a morte da parte dell’autorità politica?

Ma esaminiamo meglio la questione. Sottolineare la responsabilità decisiva di Pilato non significa, d’altra parte, rimuovere quella delle autorità giudaiche: i Vangeli enfatizzano questa responsabilità, ma non la inventano certo di sana pianta. Potremmo dire, come ha brillantemente riassunto Barbaglio, che il sinedrio ebbe la funzione di pubblico ministero e sostenne l’accusa, Pilato giudicò e condannò. Tuttavia – ed ecco un punto cruciale – a Pilato non si poteva fornire un capo di imputazione di tipo religioso, in quanto egli poteva condannare Gesù solo per un motivo politico. Gesù fu quindi condannato da Pilato per un motivo politico. Questo motivo, del resto, risalta chiaramente nel titulus crucis, che doveva riportare la causa poenae, e che è esplicitamente citato nei Vangeli: “Re dei Giudei”. Gesù fu condannato per la sua pretesa regalità, che metteva in discussione l’autorità romana. La stessa crudele messinscena dei legionari, che lo vestono come un re da operetta per poi oltraggiarlo, conferma questa accusa.

Qui c’è però una seria difficoltà: se nulla lascia credere che Gesù si sia mai dichiarato re di Israele e nemmeno messia, se la sua predicazione non ha avuto nulla a che fare con quella degli zeloti e se egli non ha mai invitato all’insurrezione armata e alla ribellione politica e anzi le ha scoraggiate (da qui, secondo alcuni, la delusione di Giuda Iscariota), se infine non ha mai parlato e agito da ribelle politico, da dove è venuta fuori questa accusa? Secondo la narrazione evangelica, Pilato stesso non sarebbe molto convinto del capo di imputazione formulato dal “pubblico ministero” Caiafa, ma si lascerebbe trascinare, per debolezza, per ignavia, per quieto vivere. Pilato arriverebbe finanche ad acconsentire alla liberazione di un vero e pericoloso ribelle – Barabba – per condannare l’”innocuo” e innocente Gesù!

Evidentemente, già a lume di naso, non è molto credibile che un prefetto romano potesse essere così debole, così inetto e anche politicamente stupido. I dati storici che abbiamo a disposizione, del resto, sembrano proprio smentire questa possibilità: Pilato restò governatore per ben 10 anni – piazzandosi al secondo posto nella graduatoria per durata dei governatori romani della Giudea - e per raggiungere questo record si dovette mostrare ben più abile, ben più deciso, ben più lucido di come lo descrivono i Vangeli.

Non è quindi per nulla convincente, né che egli sia stato sobillato dai giudei o abbia loro ceduto per debolezza, né tantomeno che sia caduto in un colossale equivoco, condannando come preteso re dei Giudei uno che non si era mai sognato di aspirare a questo e che era portatore di tutt’altro annuncio.

Pilato, a mio parere, ha visto giusto, quando ha ritenuto che la predicazione di Gesù minacciasse molto seriamente l’istituzione imperiale, forse più seriamente della stessa lotta armata degli zeloti e di Barabba. Solo che Pilato non aveva evidentemente gli strumenti per comprendere bene il messaggio di Gesù, che era tutto inserito nella tradizione culturale giudaica. Le fonti indicano che il più grave limite di questo personaggio – lo stesso limite che probabilmente mise fine alla sua lunga carriera di governatore della Giudea – sia stata la scarsa attenzione alla sensibilità religiosa del popolo giudaico e la limitata conoscenza delle sue tradizioni e della sua cultura. Fu proprio questo che però lo spinse forse a una stretta e solidale collaborazione con Caiafa, che durò per quasi tutto il tempo del suo governatorato. Non a caso, i due uscirono di scena a brevissima distanza l’uno dall’altro, nel 36.

Caiafa e Pilato sono buoni partner anche nella vicenda di Gesù e non è che il primo plagi il secondo o lo forzi a fare ciò di cui non è convinto. Semmai si può dire che entrambi valutano correttamente, dai rispettivi punti di vista, la minaccia che Gesù rappresenta e la traducono nei rispettivi codici culturali. Pilato interpreta l’annuncio del Regno da parte di Gesù come pretesa di una ordinaria regalità terrena. Si tratta di un fraintendimento, ma non nel senso che si attribuisca a Gesù più di quanto fosse nelle sue intenzioni, ma nel senso opposto: si sottovaluta enormemente la portata “politica” dell’annuncio del Nazareno. Ma anche così ridimensionato, quell’annuncio evidentemente era tale da preoccupare il potere imperiale romano!

Gesù annuncia il Regno di Dio che viene. Lo stesso cristianesimo storico – con questa espressione ci si riferisce al cristianesimo innanzitutto come si è realizzato nella storia ad opera delle istituzioni ecclesiastiche e poi anche al cristianesimo come si è espresso in correnti e movimenti non istituzionali e talvolta anche perseguitati – ha molto spesso gravemente frainteso questo annuncio. “Regno di Dio – basileia toû theoû – è sia il nuovo ordine perfetto – ossia la “nuova creazione” – che Dio alla fine – all’eschaton – instaurerà, sia la signoria, il potere regale che Dio già rivendica e già esercita, anche se questo potere è per ora avversato e contrastato. Il cristianesimo storico ha tenuto conto per lo più solo del primo significato, per cui ha interpretato il Regno, annunciato da Gesù e in seguito dalla chiesa, come la realtà perfetta, che non è di questo mondo, un Regno quindi meramente spirituale, trascendente e collocato in un “al di là” o in un futuro remoto. Taluni movimenti dissidenti – pensiamo agli anabattisti del Cinquecento – hanno invece ritenuto che tale Regno fosse già realizzabile e hanno tentato – solitamente con esiti catastrofici – di renderlo presente. Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di una sostanziale infedeltà alla volontà di Dio espressa attraverso il Figlio: nel primo caso, perché ci si attesta di fatto in posizioni di mero e gretto conservatorismo che sono incompatibili con il messaggio cristiano, che è Vangelo, “buona notizia” del novum, del radicalmente nuovo; nel secondo caso, perché si pretende di fare l’opera di Dio, sostituendosi a Lui. Nell’uno e nell’altro caso l’errore nasce dal non aver considerato l’altro significato dell’espressione basileia toû theoû: il Regno futuro è già presente, ma è presente come signoria contrastata di Dio.

Si può capire meglio se si approfondisce il significato del termine “futuro” nell’annuncio cristiano: non si tratta del futurum latino, ossia del futuro come ciò che diviene, che si sviluppa dal passato e dal presente (e diviene poi esso stesso presente per precipitare infine nel passato); si tratta invece del futuro come ad-ventus, ciò che viene, che irrompe. Nell’Apocalisse, Cristo è definito come “Colui che era, che è e che viene”. Ci aspetteremmo al terzo termine, Colui “che sarà” e invece troviamo “che viene”: non il futurum, ma l’adventus! Il futuro annunciato da Cristo, pertanto, non diviene dal passato e dal presente, ma viene al presente (e pure al passato), fa irruzione nel mondo attuale, come la signoria, il potere regale che Dio già rivendica. E tuttavia, in questo presente, in questo mondo, questa rivendicazione è avversata e contrastata, come la croce del Golgota mostra nel modo più crudo. Questa lotta delle potenze del mondo contro la signoria di Dio è però destinata ad una inevitabile sconfitta: questo è il significato della Pasqua. Si tratta, in fin dei conti, della risposta alla domanda fondamentale dell’apocalittica: “a chi appartiene il mondo?”, “a chi appartiene il futuro?”.

Aveva ben ragione, quindi, di preoccuparsi, Pilato, il rappresentante della potenza del mondo per eccellenza, l’Impero di Roma! La rivendicazione di signoria da parte di Dio, annunciata da Gesù, pone in discussione qualunque sovrano del mondo. Nel Nuovo Testamento, chi lo capisce meglio di ogni altro è una giovinetta di tredici anni, Maria di Nazareth:



Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti e ha innalzato gli umili”. (Lc 1, 51-52)



Si badi bene: nel testo greco i verbi non sono affatto al futuro; non sono nemmeno al presente – con valore di azione continuativa; sono all’aoristo: l’azione di Dio è certa ed è già compiuta. E’ solo la sua manifestazione che non è ancora visibile.



Allora, venendo finalmente alla nostra domanda fondamentale, che cosa significa, per i cristiani o per tutti coloro che comunque vedono in Gesù un tipo umano esemplare, stare con Gesù, nella scena della Passione, e non con Pilato? Che cosa significa prendere in questa contesa le parti di Gesù, piuttosto che “lavarsi le mani”? Significa, innanzitutto – e ciò è indubitabile – riconoscere che Gesù fu messo a morte dal potere politico e per un motivo politico e significa quindi non rimuovere e non edulcorare la portata e la dimensione “politica” dell’annuncio cristiano. Ciò evidentemente non implica che il cristiano debba necessariamente riconoscersi in un determinato orientamento politico. Si può dire che sono legittimi tutti gli indirizzi politici, da quello rivoluzionario, purché non pretenda di svolgere l’opera di Dio e realizzare il suo Regno qui ed ora, a quello conservatore e finanche reazionario - purché non si risolva in una ottusa difesa dello status quo - passando per tutta la gamma degli indirizzi “riformisti”. Tutti orientamenti legittimi, a due condizioni: che ci si proponga di dare testimonianza autentica del Regno di Dio che viene, coerentemente con l’insegnamento di Cristo; che si mantenga una distanza critica dalle autorità del mondo e si porti nel mondo del potere una istanza critica. Possiamo dirlo ancora con le parole di Calvino, che pure era tutt’altro che un rivoluzionario e partiva dall’idea tradizionale e dominante secondo cui si deve obbedienza all’autorità in quanto istituita da Dio:



“Nel concetto di obbedienza che è dovuta ai superiori esiste però sempre un limite o, più esattamente una norma che deve essere eseguita in ogni cosa: tale obbedienza non ci deve distogliere dall’obbedire a colui alla cui volontà tutti gli editti regi devono attenersi, al cui volere tutti i decreti devono cedere il passo e sotto la cui maestà deve essere abbassata e umiliata ogni potenza”



E ancora



“Il Signore è dunque il re dei re, a lui, non appena apre la bocca, dobbiamo ubbidienza fra tutti, su tutti, per tutti. In forma derivata dobbiamo essere soggetti agli uomini che hanno preminenza su di noi, non diversamente però che a lui. E se costoro ordinano qualcosa contro Dio non si debbono tenere in alcuna considerazione”.



Quindi Calvino cita la risposta che Pietro e gli altri apostoli danno al Sinedrio che voleva loro imporre di non annunciare più il Vangelo di Cristo: “Bisogna obbedire a Dio, anziché agli uomini”.

Per non cadere in un diffuso ma grossolano equivoco, sarà bene precisare che la rivendicazione della assoluta signoria divina, che è il tratto specifico della confessione riformata – ossia calvinista – lungi dall’essere incompatibile con la libertà umana è storicamente fondativa proprio di questa libertà come l’ha intesa il mondo moderno, in quanto diviene elemento di relativizzazione e ridimensionamento dell’autorità terrena, la sottopone a limiti e vincoli e, quando è il caso, ne contesta la legittimità.

Qui, si tratta, infatti, per Calvino, di un punto di arrivo. Ma sarà un punto di partenza per il calvinismo successivo, nel cui seno si svilupperà il moderno pensiero liberale e democratico e che contribuirà anche potentemente alle rivoluzioni moderne.



Aveva dunque ben ragione Pilato a rimanere inquieto dinanzi all’annuncio di quel profeta venuto dalla selvatica Galilea!

sabato 4 aprile 2015

Were you there... seconda puntata. Gesù al Tempio: un maestro del politicamente scorretto!



Avevo preannunciato una “seconda puntata” dedicata all’altro e decisivo uccisore di Gesù: Pilato, per conto del potere dell’Impero Romano. Mi rendo però conto che la prima puntata non può dirsi nemmeno sommariamente esaurita senza chiarire il motivo dello scontro fra Gesù e il potere sacerdotale. In caso contrario, si finirebbe per accreditare l’idea così diffusa secondo cui l’accusa a Gesù sia stata del tutto pretestuosa. Bisogna invece ammettere che, nell’ottica della religione ufficiale e istituzionale del tempo, questa accusa era probabilmente ben fondata.

Qui, però, occorre distinguere due diverse prospettive: quella dei narratori evangelici e quella della cosiddetta ricerca sul “Gesù storico” (che non va equiparata, tuttavia, a una ordinaria ricerca storiografica, perché mantiene, come vedremo, una fondamentale motivazione teologica). Per i Vangeli, il motivo della condanna è chiaro: Gesù, in modo più o meno diretto ed esplicito, si è proclamato Messia e Figlio di Dio e lo ha fatto anche alla fine, dinanzi a Caiafa. Qui, però, i narratori evangelici mettono nella testa e sulle labbra del Nazereno niente altro che la confessione di fede della chiesa post-pasquale. Naturalmente, questa versione è di fondamentale importanza per i credenti, visto che si tratta del fondamento stesso della loro fede. Un credente che non sia del tutto sprovveduto sul piano teologico e della critica biblica può però accettare tranquillamente il fatto che questa piena consapevolezza della sua identità divina– la si definisce “autocoscienza messianica”, nel linguaggio specialistico  - Gesù probabilmente non l’abbia mai avuta e che i narratori biblici vogliano qui esprimere una verità teologica e non una verità storica. Allo stesso modo, i non credenti che non si arrestino a una visione atea fondata su basi epistemologicamente grossolane, gli atei “critici” se così li posso definire, potranno comprendere che questa distinzione fra verità storica e verità teologica  non ha nulla a che vedere con una presunta confutazione della fede e nemmeno ne rappresenta un elemento di debolezza.

In questo momento ci interessa più l’altra prospettiva, quella della “ricerca sul Gesù storico”. Per sgombrare il campo da fatali equivoci, dirò subito che la moderna ricerca sul Gesù storico, non ha nulla a che vedere con le operazioni di divulgazione pseudo-colta,  tipo Corrado Augias o documentari di National Geografic Channel. Nella migliore delle ipotesi questo tipo di divulgazione, oggi così popolare, risponde alla primissima fase della ricerca teologica sul Gesù storico, quella illuministica e settecentesca di Reimarus e altri. Si tratterebbe di evidenziare, con l’aria di chi ha fatto chissà quali grandi scoperte, le incongruenze  del racconto biblico per cercare di risalire alla “vera storia” di Gesù. A un livello più alto dei Corrado Augias attuali, l’operazione tendeva a mostrare la discontinuità fra il Gesù storico e il Gesù della dogmatica per criticare o demolire quest’ultima e aprire magari la strada alla ricezione del Nazareno come maestro di vita e modello morale, come tipo esemplare di umanità (questa è la migliore prospettiva illuministica, alla Kant, ed è la prospettiva del protestantesimo “liberale” dell’Ottocento). Questa linea di ricerca è però completamente naufragata, alla fine dell’Ottocento, per motivi di vario genere e che ora sarebbe troppo lungo riassumere. Qualche tempo dopo si è però aperta una “seconda ricerca sul Gesù storico” (peraltro, oggi siamo già da tempo alla “terza ricerca sul Gesù storico”!), con tutt’altro indirizzo e fondamento. Qui si tratta, con una metodologia tutt’altro che ingenua sul piano scientifico, di accertare quali parole e quali atti si possano  attribuire, con un livello più o meno accettabile di probabilità, a Gesù di Nazareth, ossia al Gesù-uomo. In tal modo emergono certamente, come nel nostro caso specifico, delle differenze significative fra il Gesù “storico” e il Cristo della fede, ma l’obiettivo non è più quello di dimostrare la discontinuità fra le due figure, bensì quello precisamente opposto di coglierne la continuità (qui il discorso richiede un minimo di raffinatezza intellettuale che Augias non possiede, a dispetto dei suoi modi signorili, ma che certamente è patrimonio dei miei pochi lettori!). Si tratta, cioè, di capire che il Cristo della fede non è una figura disincarnata, astratta da ogni contesto storico, calata dal cielo e lì tornata dopo una breve parentesi terrena, ma ha come suo retroterra e fondamento un uomo storico, nato in un luogo preciso e in un tempo preciso, che ha fatto e detto determinate cose in un ben determinato contesto storico e sociale, che infine ha subito nella sua carne mortale il supplizio della croce. Con ciò non si intendono soddisfare primariamente le esigenze della scienza o della storiografia, ma proprio quelle della dogmatica. Il dogma di Calcedonia (451), infatti, confessa Gesù Cristo, “vero Dio” e “vero uomo”, integralmente Dio, ma anche integralmente uomo, mentre l’idea di un Cristo spirituale e disincarnato e solo “apparentemente” uomo mortale appartiene precisamente all’”eresia” docetista, quella che i padri della chiesa combatterono più accanitamente (beninteso, combattere le eresie allora non significava ancora accendere roghi, ma intraprendere battaglie culturali e polemiche intellettuali).

Tornando finalmente al nostro problema: se non è stata l’autoproclamazione messianica, che cosa allora ha portato i sadducei ad accusare Gesù? Se non è troppo ardito pretendere di riassumere in poche righe un dibattito vastissimo, dirò che la tesi più accreditata è che l’elemento o gli elementi decisivi di conflitto vadano ricercati non tanto nella predicazione in Galilea, ma in ciò che Gesù ha fatto e ha detto a Gerusalemme, negli ultimi giorni, quelli fra la “Domenica delle Palme” e il “Venerdì santo”. Alcuni studiosi ritengono che non si debba pensare ad un unico episodio determinante, ma ad una pluralità di fattori. Altri ritengono, invece, che il fatto cruciale sia l’irruzione di Gesù nel Tempio, che è comunque fondamentale anche per i primi. Questo episodio è quasi certamente “storico” e anche i dettagli del racconto sono altamente attendibili. Rileggiamolo nel racconto di Marco (11, 15-18):



 Vennero a Gerusalemme e Gesù, entrato nel tempio, si mise a scacciare coloro che vendevano e compravano nel tempio; rovesciò le tavole dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi; e non permetteva a nessuno di portare oggetti attraverso il tempio. E insegnava, dicendo loro: «Non è scritto: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti?" Ma voi ne avete fatto un covo di ladroni».

I capi dei sacerdoti e gli scribi udirono queste cose e cercavano il modo di farlo morire. Infatti avevano paura di lui, perché tutta la folla era piena d'ammirazione per il suo insegnamento.



Una volta stabilito che questo episodio è quello che convince definitivamente l’elite del Tempio a procedere contro Gesù non siamo però neanche in vista del traguardo: occorre interpretare, occorre capire il motivo e lo scopo dell’azione di Gesù!

Secondo la tesi un tempo dominante tra gli studiosi e oggi ancora largamente diffusa, ma sempre più contrastata, Gesù sarebbe stato mosso dall’intento di “purificare” il Tempio e la sua sarebbe stata un’azione di denuncia della corruzione del culto, delle sue deviazioni, in linea in fondo con quella di taluni profeti antico-testamentari.

 Questa tesi è penetrata nell’immaginario collettivo che ricorda la vicenda come la cacciata dei mercanti dal Tempio e ne ha ricavato anche un detto assai comune. Del resto, sono molti – la grande maggioranza credo – quelli che, oggi come in passato, ritengono che il fondamentale, se non l’unico problema, della chiesa, della pratica e della istituzione religiosa, sia la corruzione e che tutto ciò che occorra sia una rigenerazione morale. Ecco allora che si celebrano – fino ai pericolosissimi confini dell’idolatria - le figure di uomini di chiesa e soprattutto di pontefici – ogni riferimento a fatti o persone dell’attualità è puramente voluto! – che sembrano rispondere a questi criteri di riforma morale.

E’ assai dubbio, però, che i grandi riformatori e le grandi svolte nella storia della cristianità siano stati mossi e determinate esclusivamente o principalmente da questa finalità di ordine morale o moraleggiante. Lutero, per esempio, non scrisse le “95 Tesi” per denunciare lo scandalo “morale” nel mercimonio delle indulgenze – sebbene questo aspetto pure lo indignasse oltremodo – ma per motivi di ordine teologico.

Nemmeno Gesù, in effetti, sembra sia qui mosso primariamente da questa preoccupazione.  Io seguo la tesi che è stata profilata con molta forza ed efficacia da Sanders e accettata, più o meno largamente, da vari altri studiosi.

Naturalmente non si tratta solo della valutazione di un singolo episodio, per quanto molto importante, ma è in gioco la comprensione complessiva del cristianesimo. In altri termini: il messaggio cristiano ha una portata primariamente morale o primariamente escatologica? Dal mio punto di vista non c’è dubbio: la seconda che ho detto! Attenzione: ciò non significa affatto negare e neanche svalutare l’aspetto etico della fede cristiana, ma collocare questo fondamentale elemento nel suo autentico orizzonte escatologico. In caso diverso, verrebbe meno la fondamentale peculiarità dell’annuncio cristiano e il cristianesimo sarebbe solo una delle tante apprezzabili dottrine etico-religiose che sono comparse sul palcoscenico della storia. Naturalmente, questo mio punto di vista non deriva da un gradimento personale: non è che l’escatologia mi piaccia più della morale ( e se anche così fosse sarebbe del tutto irrilevante)! Deriva da quello che mi pare di capire della figura di Gesù e del significato di ciò che ha detto e di ciò che ha fatto, come ci viene testimoniato dal Nuovo Testamento.

Una premessa importante: esistono molteplici prove – non appesantisco ulteriormente il discorso con citazioni e riferimenti puntuali – che mostrano come Gesù non abbia mai inteso negare la legittimità del Tempio e del culto che in esso si amministrava. Questo culto consisteva innanzitutto in una pratica sacrificale, minuziosamente regolamentata e codificata. Ma se così è, non si capisce allora che senso abbia una denuncia della corruzione morale e della degenerazione del culto che consiste nel rovesciare i banchi dei cambiavaluta e le sedie dei venditori di colombe, visto che le colombe erano essenziali nei sacrifici – e proprio per i più poveri che non si potevano permettere agnelli o buoi - e i cambiavalute erano necessari ai forestieri che arrivavano con le loro monete e dovevano acquistare gli animali da sacrificare nella valuta corrente. E allora, se nessun altro episodio della vita di Gesù mostra che egli intendesse contestare la pratica sacrificale del Tempio e al contrario sono numerosi i casi in cui egli questa pratica la osserva correttamente, che senso ha quel gesto? La spiegazione di Sanders è che Gesù riconosca la legittimità storica del Tempio, ma voglia mostrare con un gesto eclatante che il suo annuncio consiste in una rottura apocalittica della storia. Egli, infatti, annuncia il Regno di Dio e non lo annuncia in un indeterminato tempo futuro; dice che “il Regno di Dio si è fatto vicino”; annuncia quindi l’irruzione escatologica della signoria di Dio nel mondo e nella storia. Il Tempio diviene allora figura del mondo che passa e il suo annuncio è invece figura del mondo che viene.

Questa interpretazione è convincente anche perché si lega ai detti – ai loghoi – di Gesù sulla distruzione del Tempio, anche questi riportati in tutti i Vangeli e molto probabilmente “storici”. Questi detti, anzi, rappresenterebbero la chiave di lettura dell’azione di Gesù al Tempio. L’irruzione violenta di Gesù al Tempio rappresenta così l’irruzione del Regno di Dio nel mondo, che ha una portata dirompente per la pratica religiosa ordinaria. Ciò che è rimasto più impresso dell’episodio, come si diceva, è l’atto di cacciare i mercanti, ma ciò è conforme alla lettura moraleggiante. Nella lettura apocalittica, il gesto decisivo è un altro: il rovesciamento di banchi e sedie. E’ un’azione in se stessa non strettamente necessaria: non bastava cacciare i venditori e i cambiavalute e disperdere le colombe? Che bisogna c’era di rovesciare anche gli oggetti? Forse che Gesù si lascia prendere la mano dall’ira? No, di certo. Si tratta di un gesto simbolico, evidentemente: il rovesciamento dei tavoli allude al rovesciamento, ossia alla distruzione del Tempio.

In conclusione, che cosa accade quando proviamo a trasportare questo episodio nel nostro tempo? Si manifesta e si conferma anche qui la dirompente tensione fra l’annuncio di Gesù, che poi diviene la fede dei suoi discepoli, di allora e di oggi, e la pratica religiosa ordinaria, corrente, istituzionale. Si mostra che, se è vero che noi non possiamo vivere nella imminente attesa apocalittica – e questo ce lo dice la Scrittura stessa – tuttavia non  dobbiamo dimenticare che questo orizzonte apocalittico ed escatologico è assolutamente essenziale nel cristianesimo, perché, come dice un teologo sui cui libri ho speso un po’ di mesi della mia vita: “il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine e non solo in appendice”. Pertanto, alla chiesa, alle sue istituzioni e innanzitutto a noi stessi noi dobbiamo chiedere non una semplice, e magari retorica, azione di rinnovamento morale, ma una tensione escatologica nell’annuncio e nella testimonianza che poi dà alla stessa azione morale la sua giusta e autentica qualità.

A chi pensa – e sono tanti – che i cristiani debbano essere “moderati” negli atti e nelle parole, nell’orientamento e nell’indirizzo, sarebbe il caso di ricordare qualche volta le parole e i gesti di Gesù al Tempio, che non sono propriamente quelli di un moderato! A chi sostiene – e sono tantissimi – che le critiche vanno bene, sono lecite (e ci mancherebbe pure!), ma che devono essere sempre “costruttive”, vale la pena di opporre questa bella critica “distruttiva” di Gesù e di obiettare che se il cristianesimo vuole mantenere la sua sostanza di messaggio escatologico, di messaggio apocalittico di rottura della storia (e proprio questo è poi la Pasqua, una rottura apocalittica della storia) non si può lasciare imbrigliare dal ricatto della critica “costruttiva”. Infine, ai pedanti sacerdoti e alle austere sacerdotesse del “politically correct”, vorremmo presentare, con un sorriso e attraverso questo episodio così decisivo, questo nostro Maestro, questo nostro rabbì – del politicamente scorretto: Gesù di Nazareth!