Were you there when
they crucifige my Lord?: è un noto spiritual composto dai neri d’America nel XIX secolo. E’ forse da
questa domanda che bisognerebbe partire per provare a fare una lettura non
scontata, non retorica, non distratta, non addomesticata della Passione di
Cristo. Una domanda che dovrebbe interpellare ogni cristiano e magari anche
quei tantissimi non cristiani – atei, agnostici, credenti di altre fedi – che
comunque considerano Gesù di Nazareth una figura esemplare della storia
dell’umanità, un modello etico o religioso, un maestro di saggezza, un profeta
o magari “il primo socialista della storia”, come dicevano tanti socialisti –
sia pure con una notevole forzatura storica – ai tempi di mio nonno (sto
parlando dell’inizio del Novecento…).
Una
domanda che andrebbe ancor meglio articolata:
eravamo lì noi, mentre crocifiggevano il Signore? E con chi eravamo, da
che parte stavamo? Dalla sua parte o da quella dei suoi aguzzini? E, in questo
caso, di quali aguzzini, visto che, come vedremo, vari soggetti partecipano al
delitto? O eravamo con la gente che si limitava ad assistere e a schernirlo? O
magari eravamo con i suoi discepoli, subito fuggiti via? O, infine, non
c’eravamo proprio; e perché allora non c’eravamo e dove eravamo?
Dovremmo
quindi portare noi stessi e il nostro mondo attuale sulla scena della
Gerusalemme di allora, e capire la nostra collocazione e il nostro ruolo su
quella scena. E poi dovremmo anche fare l’operazione mentale inversa: portare
quella scena, quella vicenda nel nostro tempo, in mezzo a noi e provare a
capire chi sono oggi i crocefissi della storia, chi sono i loro carnefici, chi
sono i vari attori della vicenda… Dovremmo portare il nostro mondo nel racconto
biblico e poi il racconto biblico nel nostro mondo e lasciarci interpellare e
inquietare dalla Bibbia. Cosa che la Bibbia, quando glielo si lascia fare, sa
fare benissimo.
Ma,
innanzitutto, dobbiamo chiederci chi si nasconda dietro quel pronome – they – chi siano i vari soggetti che
hanno portato Gesù sulla croce. Perché dobbiamo verificare se noi che
confessiamo la nostra fede in Cristo o che apprezziamo così tanto la figura umana
di Gesù di Nazareth non finiamo poi per essere complici diretti o indiretti dei
suoi uccisori e dei carnefici dei tantissimi crocefissi della storia. Perché dobbiamo
capire se noi dinanzi al sinedrio e dinanzi a Pilato, lungo le stazioni della
via crucis e infine sul Golgota, stiamo veramente con lui o stiamo da qualche
altra parte e con qualcun altro.
Cominciamo
da quelli che sono i primi – almeno nel racconto evangelico – ma non certo gli
unici, uccisori di Cristo: si tratta dell’elite
del Tempio, della casta sacerdotale. Gesù, infatti, viene arrestato su
mandato dei “capi dei sacerdoti, scribi
e anziani”, secondo Marco (Mc 14,43); dei “capi dei sacerdoti e anziani del
popolo”, secondo Matteo (Mt, 26,47); dei “capi dei sacerdoti, capitani del
tempio e anziani del popolo”, secondo Luca (Lc 22,52). E viene poi condotto
dinanzi al sinedrio, supremo organo religioso del giudaismo del tempo, interrogato
e processato dal Sommo Sacerdote Caiafa e dai soggetti già citati: “capi dei
sacerdoti e tutto il sinedrio”, secondo Marco e Matteo, “gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti
e gli scribi”, secondo Luca, che usa sempre una maggiore precisione nel suo
racconto.
L’arresto
e la condanna di Gesù, in contrasto con lo stereotipo antigiudaico diffuso per
secoli, non è quindi opera del “popolo ebraico” o degli “ebrei”, genericamente intesi
– e d’altra parte Gesù stesso e tutti i suoi discepoli erano ebrei! – ma di una
ben individuata e circoscritta aristocrazia sacerdotale, quella dei cosiddetti “sadducei”,
che esprimevano i capi dei sacerdoti e lo stesso Sommo Sacerdote, ed erano
affiancati dagli “scribi”, dottori e maestri della Torah, la Legge mosaica, e figure essenziali per la gestione del
culto al Tempio. Questa elite, al
contrario della corrente dei farisei, con
la quale Gesù ebbe vivaci polemiche ma anche una certa affinità di posizioni (i
racconti evangelici enfatizzano solo i contrasti, in quanto sono redatti in un’epoca
successiva, nella quale si era ormai profilata la rottura fra i cristiani e il
giudaismo rabbinico, erede della corrente farisaica), aveva scarso seguito tra
il popolo, anzi era persino impopolare (è la “casta” di quel tempo!) ed era
apertamente e violentemente contestata da altre correnti religiose giudaiche,
come gli esseni e gli stessi farisei. Tuttavia, i sadducei controllavano e
gestivano il Tempio di Gerusalemme, da tempo divenuto centro unico della
religione e della vita civile giudaica, e dunque rappresentavano l’istituzione
religiosa e civile, legittimata peraltro dal dominio romano. Dopo il processo
dinanzi al sinedrio, Gesù sarà consegnato proprio al governatore romano, Ponzio
Pilato, per ricevere quella condanna a morte che il Sommo Sacerdote e il sinedrio
non avevano il potere di comminare.
Possiamo
allora dire che Gesù viene condotto sulla croce innanzitutto dall’elite religiosa del tempo. Gesù viene
crocefisso dall’istituzione religiosa, Gesù è vittima della religione! E’
questa la prima dirompente verità che emerge dal racconto della Passione, se
non lo addomestichiamo, come accade quando pensiamo che sì questo è vero, ma
che si tratta di una religione e di una istituzione religiosa che appartengono
al passato, di una religione e di una istituzione religiosa che si sono
rivelate come “false” e arbitrarie. Il pregiudizio antigiudaico è servito anche
ad accreditare questo addomesticamento del Vangelo e a rassicurare la chiesa
nelle sue certezze - queste sì arbitrarie. Dobbiamo, invece, pensare che il
racconto biblico chiami in causa la religione e le istituzioni religiose di
ogni tempo, a cominciare da quelle del nostro tempo.
Quali
conseguenze ne dobbiamo trarre? Non si tratta di prendere le distanze da
qualsiasi religione, di disconoscerne le istituzioni, di abbandonare la chiesa
nella quale ci si trova, se se ne ha una. Certo, Bonhoeffer osservava che la
religione non è una dimensione strutturale dell’esperienza umana, ma una semplice
forma storica assunta anche dal cristianesimo. E che tale forma storica è ormai
al tramonto nel mondo divenuto “adulto”; E scriveva, nella sua cella e poco prima di
essere impiccato dai nazisti, verrà un giorno “in cui degli uomini saranno
chiamati nuovamente a pronunciare la Parola di Dio in modo tale che il mondo ne
sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente
non-religioso, ma capace di liberare e di redimere come il linguaggio di Gesù…”.
Tuttavia, questa straordinaria intuizione di Bonhoeffer di un linguaggio della fede completamente non-religioso, non ha fatto in tempo,
per le note e tragiche circostanze biografiche, a tradursi in un programma e
attende ancora di essere sviluppata. E Bonhoeffer, peraltro, era comunque un
uomo di chiesa e continuò ad esserlo fino al giorno della morte. Se non di
questo, se non ancora di questo, si tratta, però, certamente, di comprendere
che tra fede e religione vi è una differenza che può essere anche radicale e si
tratta di mantenere un certo disincanto e una costante vigilanza critica nei
confronti delle manifestazioni religiose, delle istituzioni ecclesiastiche e
della chiesa stessa (ovviamente si parla qui della chiesa, o meglio delle
chiese, “visibili” e storiche, non della chiesa “invisibile” che è presso Dio e
con la quale nessuna chiesa visibile può pretendere di identificarsi
compiutamente). Se non ancora all’ultimo Bonhoeffer, bisogna riferirsi almeno a
Barth, che fin dall’Epistola ai Romani,
pone in contrapposizione fede e religione: essendo quest’ultima una costruzione
umana e una proiezione dell’umano, si trova appunto contrapposta alla fede, che
non può invece identificarsi con nessuna esperienza umana. Feuerbach aveva
certamente ragione in questo e la sua critica è anzi una vera pietra d’inciampo
di ogni teologia che pretenda di innalzare una scala verso il cielo, di risalire
dall’uomo a Dio. Tuttavia, questa critica lascia aperta, oltre naturalmente a
quella – pienamente legittima - dell’ateismo, anche un’altra possibilità,
parimenti legittima: che l’uomo possa essere raggiunto da Dio, precisamente in
quella esperienza che noi chiamiamo “fede”, e che non coincide certamente con
un rapimento mistico, ma porta al contrario ad articolare quel discorso
razionale che chiamiamo teologia (“fides
quaerens intellectum).
Nessuna
religione – e nessuna chiesa – può quindi portarci alla fede, mentre è
storicamente accertato - e si mostra innanzitutto proprio nel racconto della
Passione – che religioni e chiese possono accusare, condannare, imprigionare,
torturare e crocefiggere non la fede, ma certamente gli uomini di fede. Ma, del
resto, neanche quando mostrano il loro volto migliore religioni e chiese
possono portare alla fede, in quanto la fede è sempre un inizio assoluto e non
è mai la tappa di un percorso biografico o storico. Religione e fede, chiesa e
fede restano quindi quantomeno in tensione reciproca. Perché allora – si chiede
Barth - non concludere con una bella polemica antireligiosa, perché non
terminare denunciando nella religione, come pretesa dell’uomo di protendersi
fino a Dio, il vero peccato originario? Barth esclude questa possibilità,
ritenendo invece che la religione sia un momento dialettico intrinsecamente
necessario alla fede stessa: occorre vivere fino in fondo lo scacco delle
pretese umane di elevarsi a Dio, perché ci si possa lasciar raggiungere da Dio
stesso. Ciò che Barth osserva a partire dal sesto capitolo della Lettera ai
Romani di Paolo, lo possiamo riscontrare anche nel racconto della Passione di
Cristo e nel modo più radicale ed estremo. La religione che condanna Cristo e
il potere sacerdotale che lo consegna alla croce aprono poi la strada, loro
malgrado, al risuscitamento da parte di Dio Padre e alla fede nel Risorto che
fonda il cristianesimo.
Il
racconto della Passione indica quindi ai cristiani la necessità di stare
criticamente nella chiesa e ai non cristiani quella di non confondere la
religione, le sue istituzioni e il suo potere con la fede dei credenti.
L’uccisione
di Gesù ha però altri attori protagonisti dei quali dobbiamo ancora occuparci:
Pilato, il popolo, i soldati e - perché no?
– forse anche i suoi discepoli (e non mi riferisco ovviamente a Giuda
soltanto).
Ma
ne parleremo nelle prossime puntate!
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