venerdì 3 aprile 2015

Were you there when they crucifige my Lord? Per una lettura non addomesticata del racconto della Passione



Were you there when they crucifige my Lord?: è un noto spiritual composto dai neri d’America nel XIX secolo. E’ forse da questa domanda che bisognerebbe partire per provare a fare una lettura non scontata, non retorica, non distratta, non addomesticata della Passione di Cristo. Una domanda che dovrebbe interpellare ogni cristiano e magari anche quei tantissimi non cristiani – atei, agnostici, credenti di altre fedi – che comunque considerano Gesù di Nazareth una figura esemplare della storia dell’umanità, un modello etico o religioso, un maestro di saggezza, un profeta o magari “il primo socialista della storia”, come dicevano tanti socialisti – sia pure con una notevole forzatura storica – ai tempi di mio nonno (sto parlando dell’inizio del Novecento…).

Una domanda che andrebbe ancor meglio articolata:  eravamo lì noi, mentre crocifiggevano il Signore? E con chi eravamo, da che parte stavamo? Dalla sua parte o da quella dei suoi aguzzini? E, in questo caso, di quali aguzzini, visto che, come vedremo, vari soggetti partecipano al delitto? O eravamo con la gente che si limitava ad assistere e a schernirlo? O magari eravamo con i suoi discepoli, subito fuggiti via? O, infine, non c’eravamo proprio; e perché allora non c’eravamo e dove eravamo?

Dovremmo quindi portare noi stessi e il nostro mondo attuale sulla scena della Gerusalemme di allora, e capire la nostra collocazione e il nostro ruolo su quella scena. E poi dovremmo anche fare l’operazione mentale inversa: portare quella scena, quella vicenda nel nostro tempo, in mezzo a noi e provare a capire chi sono oggi i crocefissi della storia, chi sono i loro carnefici, chi sono i vari attori della vicenda… Dovremmo portare il nostro mondo nel racconto biblico e poi il racconto biblico nel nostro mondo e lasciarci interpellare e inquietare dalla Bibbia. Cosa che la Bibbia, quando glielo si lascia fare, sa fare benissimo.

Ma, innanzitutto, dobbiamo chiederci chi si nasconda dietro quel pronome – they – chi siano i vari soggetti che hanno portato Gesù sulla croce. Perché dobbiamo verificare se noi che confessiamo la nostra fede in Cristo o che apprezziamo così tanto la figura umana di Gesù di Nazareth non finiamo poi per essere complici diretti o indiretti dei suoi uccisori e dei carnefici dei tantissimi crocefissi della storia. Perché dobbiamo capire se noi dinanzi al sinedrio e dinanzi a Pilato, lungo le stazioni della via crucis e infine sul Golgota, stiamo veramente con lui o stiamo da qualche altra parte e con qualcun altro.

Cominciamo da quelli che sono i primi – almeno nel racconto evangelico – ma non certo gli unici, uccisori di Cristo: si tratta dell’elite del Tempio, della casta sacerdotale. Gesù, infatti, viene arrestato su mandato  dei “capi dei sacerdoti, scribi e anziani”, secondo Marco (Mc 14,43); dei “capi dei sacerdoti e anziani del popolo”, secondo Matteo (Mt, 26,47); dei “capi dei sacerdoti, capitani del tempio e anziani del popolo”, secondo Luca (Lc 22,52). E viene poi condotto dinanzi al sinedrio, supremo organo religioso del giudaismo del tempo, interrogato e processato dal Sommo Sacerdote Caiafa e dai soggetti già citati: “capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio”, secondo Marco e Matteo,  “gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti e gli scribi”, secondo Luca, che usa sempre una maggiore precisione nel suo racconto.

L’arresto e la condanna di Gesù, in contrasto con lo stereotipo antigiudaico diffuso per secoli, non è quindi opera del “popolo ebraico” o degli “ebrei”, genericamente intesi – e d’altra parte Gesù stesso e tutti i suoi discepoli erano ebrei! – ma di una ben individuata e circoscritta aristocrazia sacerdotale, quella dei cosiddetti “sadducei”, che esprimevano i capi dei sacerdoti e lo stesso Sommo Sacerdote, ed erano affiancati dagli “scribi”, dottori e maestri della Torah, la Legge mosaica, e figure essenziali per la gestione del culto al Tempio. Questa elite, al contrario della corrente dei farisei, con la quale Gesù ebbe vivaci polemiche ma anche una certa affinità di posizioni (i racconti evangelici enfatizzano solo i contrasti, in quanto sono redatti in un’epoca successiva, nella quale si era ormai profilata la rottura fra i cristiani e il giudaismo rabbinico, erede della corrente farisaica), aveva scarso seguito tra il popolo, anzi era persino impopolare (è la “casta” di quel tempo!) ed era apertamente e violentemente contestata da altre correnti religiose giudaiche, come gli esseni e gli stessi farisei. Tuttavia, i sadducei controllavano e gestivano il Tempio di Gerusalemme, da tempo divenuto centro unico della religione e della vita civile giudaica, e dunque rappresentavano l’istituzione religiosa e civile, legittimata peraltro dal dominio romano. Dopo il processo dinanzi al sinedrio, Gesù sarà consegnato proprio al governatore romano, Ponzio Pilato, per ricevere quella condanna a morte che il Sommo Sacerdote e il sinedrio non avevano il potere di comminare.

Possiamo allora dire che Gesù viene condotto sulla croce innanzitutto dall’elite religiosa del tempo. Gesù viene crocefisso dall’istituzione religiosa, Gesù è vittima della religione! E’ questa la prima dirompente verità che emerge dal racconto della Passione, se non lo addomestichiamo, come accade quando pensiamo che sì questo è vero, ma che si tratta di una religione e di una istituzione religiosa che appartengono al passato, di una religione e di una istituzione religiosa che si sono rivelate come “false” e arbitrarie. Il pregiudizio antigiudaico è servito anche ad accreditare questo addomesticamento del Vangelo e a rassicurare la chiesa nelle sue certezze - queste sì arbitrarie. Dobbiamo, invece, pensare che il racconto biblico chiami in causa la religione e le istituzioni religiose di ogni tempo, a cominciare da quelle del nostro tempo.

Quali conseguenze ne dobbiamo trarre? Non si tratta di prendere le distanze da qualsiasi religione, di disconoscerne le istituzioni, di abbandonare la chiesa nella quale ci si trova, se se ne ha una. Certo, Bonhoeffer osservava che la religione non è una dimensione strutturale dell’esperienza umana, ma una semplice forma storica assunta anche dal cristianesimo. E che tale forma storica è ormai al tramonto nel mondo divenuto “adulto”;  E scriveva, nella sua cella e poco prima di essere impiccato dai nazisti, verrà un giorno “in cui degli uomini saranno chiamati nuovamente a pronunciare la Parola di Dio in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non-religioso, ma capace di liberare e di redimere come il linguaggio di Gesù…”. Tuttavia, questa straordinaria intuizione di Bonhoeffer di un linguaggio della fede completamente non-religioso, non ha fatto in tempo, per le note e tragiche circostanze biografiche, a tradursi in un programma e attende ancora di essere sviluppata. E Bonhoeffer, peraltro, era comunque un uomo di chiesa e continuò ad esserlo fino al giorno della morte. Se non di questo, se non ancora di questo, si tratta, però, certamente, di comprendere che tra fede e religione vi è una differenza che può essere anche radicale e si tratta di mantenere un certo disincanto e una costante vigilanza critica nei confronti delle manifestazioni religiose, delle istituzioni ecclesiastiche e della chiesa stessa (ovviamente si parla qui della chiesa, o meglio delle chiese, “visibili” e storiche, non della chiesa “invisibile” che è presso Dio e con la quale nessuna chiesa visibile può pretendere di identificarsi compiutamente). Se non ancora all’ultimo Bonhoeffer, bisogna riferirsi almeno a Barth, che fin dall’Epistola ai Romani, pone in contrapposizione fede e religione: essendo quest’ultima una costruzione umana e una proiezione dell’umano, si trova appunto contrapposta alla fede, che non può invece identificarsi con nessuna esperienza umana. Feuerbach aveva certamente ragione in questo e la sua critica è anzi una vera pietra d’inciampo di ogni teologia che pretenda di innalzare una scala verso il cielo, di risalire dall’uomo a Dio. Tuttavia, questa critica lascia aperta, oltre naturalmente a quella – pienamente legittima - dell’ateismo, anche un’altra possibilità, parimenti legittima: che l’uomo possa essere raggiunto da Dio, precisamente in quella esperienza che noi chiamiamo “fede”, e che non coincide certamente con un rapimento mistico, ma porta al contrario ad articolare quel discorso razionale che chiamiamo teologia (“fides quaerens intellectum).

Nessuna religione – e nessuna chiesa – può quindi portarci alla fede, mentre è storicamente accertato - e si mostra innanzitutto proprio nel racconto della Passione – che religioni e chiese possono accusare, condannare, imprigionare, torturare e crocefiggere non la fede, ma certamente gli uomini di fede. Ma, del resto, neanche quando mostrano il loro volto migliore religioni e chiese possono portare alla fede, in quanto la fede è sempre un inizio assoluto e non è mai la tappa di un percorso biografico o storico. Religione e fede, chiesa e fede restano quindi quantomeno in tensione reciproca. Perché allora – si chiede Barth - non concludere con una bella polemica antireligiosa, perché non terminare denunciando nella religione, come pretesa dell’uomo di protendersi fino a Dio, il vero peccato originario? Barth esclude questa possibilità, ritenendo invece che la religione sia un momento dialettico intrinsecamente necessario alla fede stessa: occorre vivere fino in fondo lo scacco delle pretese umane di elevarsi a Dio, perché ci si possa lasciar raggiungere da Dio stesso. Ciò che Barth osserva a partire dal sesto capitolo della Lettera ai Romani di Paolo, lo possiamo riscontrare anche nel racconto della Passione di Cristo e nel modo più radicale ed estremo. La religione che condanna Cristo e il potere sacerdotale che lo consegna alla croce aprono poi la strada, loro malgrado, al risuscitamento da parte di Dio Padre e alla fede nel Risorto che fonda il cristianesimo.

Il racconto della Passione indica quindi ai cristiani la necessità di stare criticamente nella chiesa e ai non cristiani quella di non confondere la religione, le sue istituzioni e il suo potere con la fede dei credenti.

L’uccisione di Gesù ha però altri attori protagonisti dei quali dobbiamo ancora occuparci: Pilato, il popolo, i soldati e -  perché no? – forse anche i suoi discepoli (e non mi riferisco ovviamente a Giuda soltanto).

Ma ne parleremo nelle prossime puntate!
















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