martedì 7 aprile 2015

Were you there... terza puntata: la dimensione politica della Passione di Cristo



Gesù fu condannato a morte dal prefetto di Roma, Ponzio Pilato: questo fatto, già citato da Tacito in una notizia brevissima, è indiscutibile anche per la storiografia moderna.

I Vangeli non lo negano di certo, ma tendono ad attenuare la colpa di Pilato, che sarebbe stato sobillato dalle autorità giudaiche e, specie in Matteo, anche dalla folla, e avrebbe acconsentito alla condanna, pur convinto dell’innocenza di Gesù, con il celebre gesto del lavarsi le mani. Il problema è che i Vangeli sono stati scritti qualche decennio dopo i fatti, negli anni che precedono di pochissimo (Marco) o seguono (Matteo, Luca e infine Giovanni) la fallita rivolta antiromana e la distruzione del Tempio, nel 70 e.v.. I giudeo-cristiani di Palestina non avevano preso parte a quella rivolta ed erano stati quindi accusati finanche di “tradimento” della “causa nazionale” dagli zeloti e dai più accesi “patrioti” ebraici. Così, da un lato si andava approfondendo anche per questo motivo politico la distanza fra il giudeo-cristianesimo e il giudaismo rabbinico, fino ad arrivare allo scontro aperto fra la chiesa e la sinagoga, dall’altro lato, da parte dei cristiani, vi era – dato che pure la parousia, il ritorno in gloria di Cristo, tardava a manifestarsi – l’esigenza di una pacifica convivenza con l’Impero e dentro l’Impero. L’opera di Luca (Vangelo e Atti) tende anche a mostrare ai fedeli – e soprattutto a quei pagani simpatizzanti del cristianesimo - che i cristiani possono vivere tranquillamente sotto Roma, senza che la loro fede ne sia minacciata e senza che questa rappresenti un problema per le istituzioni dell’Impero. Il dato di fatto che non può certo  essere ignorato, né occultato, che Cristo sia stato ucciso proprio per ordine del prefetto romano viene quindi controbilanciato nei Vangeli da una enfatizzazione delle responsabilità giudaiche.

Si può dire che questo problema si sia costantemente ripresentato e si presenti ancor oggi: la necessità – ben comprensibile  - di vivere pacificamente entro l’ordine costituito e di convivere con le istituzioni e i poteri di volta in volta dominanti, almeno fino a che il Regno di Dio non si sia pienamente manifestato, deve indurre i cristiani a spostare in secondo piano il dato incontrovertibile che il loro Signore fu vittima innanzitutto del potere del tempo, e questo fino a sterilizzare completamente questo dato di fatto? O, piuttosto, si deve considerare la circostanza per cui Gesù è stato crocefisso per ordine dell’autorità politica come un elemento non accessorio e non contingente, ma centralissimo della confessione di fede, dell’annuncio e della testimonianza dei cristiani? In altre parole, quel “patì sotto Ponzio Pilato”, che si recita nel Credo, è forse solo un elemento di narrazione storica o non è invece il richiamo – che ha un ruolo costitutivo nella confessione di fede e nella dogmatica – a una vicenda umana e terrena di Gesù che culmina precisamente nella condanna  a morte da parte dell’autorità politica?

Ma esaminiamo meglio la questione. Sottolineare la responsabilità decisiva di Pilato non significa, d’altra parte, rimuovere quella delle autorità giudaiche: i Vangeli enfatizzano questa responsabilità, ma non la inventano certo di sana pianta. Potremmo dire, come ha brillantemente riassunto Barbaglio, che il sinedrio ebbe la funzione di pubblico ministero e sostenne l’accusa, Pilato giudicò e condannò. Tuttavia – ed ecco un punto cruciale – a Pilato non si poteva fornire un capo di imputazione di tipo religioso, in quanto egli poteva condannare Gesù solo per un motivo politico. Gesù fu quindi condannato da Pilato per un motivo politico. Questo motivo, del resto, risalta chiaramente nel titulus crucis, che doveva riportare la causa poenae, e che è esplicitamente citato nei Vangeli: “Re dei Giudei”. Gesù fu condannato per la sua pretesa regalità, che metteva in discussione l’autorità romana. La stessa crudele messinscena dei legionari, che lo vestono come un re da operetta per poi oltraggiarlo, conferma questa accusa.

Qui c’è però una seria difficoltà: se nulla lascia credere che Gesù si sia mai dichiarato re di Israele e nemmeno messia, se la sua predicazione non ha avuto nulla a che fare con quella degli zeloti e se egli non ha mai invitato all’insurrezione armata e alla ribellione politica e anzi le ha scoraggiate (da qui, secondo alcuni, la delusione di Giuda Iscariota), se infine non ha mai parlato e agito da ribelle politico, da dove è venuta fuori questa accusa? Secondo la narrazione evangelica, Pilato stesso non sarebbe molto convinto del capo di imputazione formulato dal “pubblico ministero” Caiafa, ma si lascerebbe trascinare, per debolezza, per ignavia, per quieto vivere. Pilato arriverebbe finanche ad acconsentire alla liberazione di un vero e pericoloso ribelle – Barabba – per condannare l’”innocuo” e innocente Gesù!

Evidentemente, già a lume di naso, non è molto credibile che un prefetto romano potesse essere così debole, così inetto e anche politicamente stupido. I dati storici che abbiamo a disposizione, del resto, sembrano proprio smentire questa possibilità: Pilato restò governatore per ben 10 anni – piazzandosi al secondo posto nella graduatoria per durata dei governatori romani della Giudea - e per raggiungere questo record si dovette mostrare ben più abile, ben più deciso, ben più lucido di come lo descrivono i Vangeli.

Non è quindi per nulla convincente, né che egli sia stato sobillato dai giudei o abbia loro ceduto per debolezza, né tantomeno che sia caduto in un colossale equivoco, condannando come preteso re dei Giudei uno che non si era mai sognato di aspirare a questo e che era portatore di tutt’altro annuncio.

Pilato, a mio parere, ha visto giusto, quando ha ritenuto che la predicazione di Gesù minacciasse molto seriamente l’istituzione imperiale, forse più seriamente della stessa lotta armata degli zeloti e di Barabba. Solo che Pilato non aveva evidentemente gli strumenti per comprendere bene il messaggio di Gesù, che era tutto inserito nella tradizione culturale giudaica. Le fonti indicano che il più grave limite di questo personaggio – lo stesso limite che probabilmente mise fine alla sua lunga carriera di governatore della Giudea – sia stata la scarsa attenzione alla sensibilità religiosa del popolo giudaico e la limitata conoscenza delle sue tradizioni e della sua cultura. Fu proprio questo che però lo spinse forse a una stretta e solidale collaborazione con Caiafa, che durò per quasi tutto il tempo del suo governatorato. Non a caso, i due uscirono di scena a brevissima distanza l’uno dall’altro, nel 36.

Caiafa e Pilato sono buoni partner anche nella vicenda di Gesù e non è che il primo plagi il secondo o lo forzi a fare ciò di cui non è convinto. Semmai si può dire che entrambi valutano correttamente, dai rispettivi punti di vista, la minaccia che Gesù rappresenta e la traducono nei rispettivi codici culturali. Pilato interpreta l’annuncio del Regno da parte di Gesù come pretesa di una ordinaria regalità terrena. Si tratta di un fraintendimento, ma non nel senso che si attribuisca a Gesù più di quanto fosse nelle sue intenzioni, ma nel senso opposto: si sottovaluta enormemente la portata “politica” dell’annuncio del Nazareno. Ma anche così ridimensionato, quell’annuncio evidentemente era tale da preoccupare il potere imperiale romano!

Gesù annuncia il Regno di Dio che viene. Lo stesso cristianesimo storico – con questa espressione ci si riferisce al cristianesimo innanzitutto come si è realizzato nella storia ad opera delle istituzioni ecclesiastiche e poi anche al cristianesimo come si è espresso in correnti e movimenti non istituzionali e talvolta anche perseguitati – ha molto spesso gravemente frainteso questo annuncio. “Regno di Dio – basileia toû theoû – è sia il nuovo ordine perfetto – ossia la “nuova creazione” – che Dio alla fine – all’eschaton – instaurerà, sia la signoria, il potere regale che Dio già rivendica e già esercita, anche se questo potere è per ora avversato e contrastato. Il cristianesimo storico ha tenuto conto per lo più solo del primo significato, per cui ha interpretato il Regno, annunciato da Gesù e in seguito dalla chiesa, come la realtà perfetta, che non è di questo mondo, un Regno quindi meramente spirituale, trascendente e collocato in un “al di là” o in un futuro remoto. Taluni movimenti dissidenti – pensiamo agli anabattisti del Cinquecento – hanno invece ritenuto che tale Regno fosse già realizzabile e hanno tentato – solitamente con esiti catastrofici – di renderlo presente. Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di una sostanziale infedeltà alla volontà di Dio espressa attraverso il Figlio: nel primo caso, perché ci si attesta di fatto in posizioni di mero e gretto conservatorismo che sono incompatibili con il messaggio cristiano, che è Vangelo, “buona notizia” del novum, del radicalmente nuovo; nel secondo caso, perché si pretende di fare l’opera di Dio, sostituendosi a Lui. Nell’uno e nell’altro caso l’errore nasce dal non aver considerato l’altro significato dell’espressione basileia toû theoû: il Regno futuro è già presente, ma è presente come signoria contrastata di Dio.

Si può capire meglio se si approfondisce il significato del termine “futuro” nell’annuncio cristiano: non si tratta del futurum latino, ossia del futuro come ciò che diviene, che si sviluppa dal passato e dal presente (e diviene poi esso stesso presente per precipitare infine nel passato); si tratta invece del futuro come ad-ventus, ciò che viene, che irrompe. Nell’Apocalisse, Cristo è definito come “Colui che era, che è e che viene”. Ci aspetteremmo al terzo termine, Colui “che sarà” e invece troviamo “che viene”: non il futurum, ma l’adventus! Il futuro annunciato da Cristo, pertanto, non diviene dal passato e dal presente, ma viene al presente (e pure al passato), fa irruzione nel mondo attuale, come la signoria, il potere regale che Dio già rivendica. E tuttavia, in questo presente, in questo mondo, questa rivendicazione è avversata e contrastata, come la croce del Golgota mostra nel modo più crudo. Questa lotta delle potenze del mondo contro la signoria di Dio è però destinata ad una inevitabile sconfitta: questo è il significato della Pasqua. Si tratta, in fin dei conti, della risposta alla domanda fondamentale dell’apocalittica: “a chi appartiene il mondo?”, “a chi appartiene il futuro?”.

Aveva ben ragione, quindi, di preoccuparsi, Pilato, il rappresentante della potenza del mondo per eccellenza, l’Impero di Roma! La rivendicazione di signoria da parte di Dio, annunciata da Gesù, pone in discussione qualunque sovrano del mondo. Nel Nuovo Testamento, chi lo capisce meglio di ogni altro è una giovinetta di tredici anni, Maria di Nazareth:



Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti e ha innalzato gli umili”. (Lc 1, 51-52)



Si badi bene: nel testo greco i verbi non sono affatto al futuro; non sono nemmeno al presente – con valore di azione continuativa; sono all’aoristo: l’azione di Dio è certa ed è già compiuta. E’ solo la sua manifestazione che non è ancora visibile.



Allora, venendo finalmente alla nostra domanda fondamentale, che cosa significa, per i cristiani o per tutti coloro che comunque vedono in Gesù un tipo umano esemplare, stare con Gesù, nella scena della Passione, e non con Pilato? Che cosa significa prendere in questa contesa le parti di Gesù, piuttosto che “lavarsi le mani”? Significa, innanzitutto – e ciò è indubitabile – riconoscere che Gesù fu messo a morte dal potere politico e per un motivo politico e significa quindi non rimuovere e non edulcorare la portata e la dimensione “politica” dell’annuncio cristiano. Ciò evidentemente non implica che il cristiano debba necessariamente riconoscersi in un determinato orientamento politico. Si può dire che sono legittimi tutti gli indirizzi politici, da quello rivoluzionario, purché non pretenda di svolgere l’opera di Dio e realizzare il suo Regno qui ed ora, a quello conservatore e finanche reazionario - purché non si risolva in una ottusa difesa dello status quo - passando per tutta la gamma degli indirizzi “riformisti”. Tutti orientamenti legittimi, a due condizioni: che ci si proponga di dare testimonianza autentica del Regno di Dio che viene, coerentemente con l’insegnamento di Cristo; che si mantenga una distanza critica dalle autorità del mondo e si porti nel mondo del potere una istanza critica. Possiamo dirlo ancora con le parole di Calvino, che pure era tutt’altro che un rivoluzionario e partiva dall’idea tradizionale e dominante secondo cui si deve obbedienza all’autorità in quanto istituita da Dio:



“Nel concetto di obbedienza che è dovuta ai superiori esiste però sempre un limite o, più esattamente una norma che deve essere eseguita in ogni cosa: tale obbedienza non ci deve distogliere dall’obbedire a colui alla cui volontà tutti gli editti regi devono attenersi, al cui volere tutti i decreti devono cedere il passo e sotto la cui maestà deve essere abbassata e umiliata ogni potenza”



E ancora



“Il Signore è dunque il re dei re, a lui, non appena apre la bocca, dobbiamo ubbidienza fra tutti, su tutti, per tutti. In forma derivata dobbiamo essere soggetti agli uomini che hanno preminenza su di noi, non diversamente però che a lui. E se costoro ordinano qualcosa contro Dio non si debbono tenere in alcuna considerazione”.



Quindi Calvino cita la risposta che Pietro e gli altri apostoli danno al Sinedrio che voleva loro imporre di non annunciare più il Vangelo di Cristo: “Bisogna obbedire a Dio, anziché agli uomini”.

Per non cadere in un diffuso ma grossolano equivoco, sarà bene precisare che la rivendicazione della assoluta signoria divina, che è il tratto specifico della confessione riformata – ossia calvinista – lungi dall’essere incompatibile con la libertà umana è storicamente fondativa proprio di questa libertà come l’ha intesa il mondo moderno, in quanto diviene elemento di relativizzazione e ridimensionamento dell’autorità terrena, la sottopone a limiti e vincoli e, quando è il caso, ne contesta la legittimità.

Qui, si tratta, infatti, per Calvino, di un punto di arrivo. Ma sarà un punto di partenza per il calvinismo successivo, nel cui seno si svilupperà il moderno pensiero liberale e democratico e che contribuirà anche potentemente alle rivoluzioni moderne.



Aveva dunque ben ragione Pilato a rimanere inquieto dinanzi all’annuncio di quel profeta venuto dalla selvatica Galilea!

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