Gesù
fu condannato a morte dal prefetto di Roma, Ponzio Pilato: questo fatto, già
citato da Tacito in una notizia brevissima, è indiscutibile anche per la
storiografia moderna.
I
Vangeli non lo negano di certo, ma tendono ad attenuare la colpa di Pilato, che
sarebbe stato sobillato dalle autorità giudaiche e, specie in Matteo, anche
dalla folla, e avrebbe acconsentito alla condanna, pur convinto dell’innocenza
di Gesù, con il celebre gesto del lavarsi le mani. Il problema è che i Vangeli
sono stati scritti qualche decennio dopo i fatti, negli anni che precedono di
pochissimo (Marco) o seguono (Matteo, Luca e infine Giovanni) la fallita
rivolta antiromana e la distruzione del Tempio, nel 70 e.v.. I giudeo-cristiani
di Palestina non avevano preso parte a quella rivolta ed erano stati quindi
accusati finanche di “tradimento” della “causa nazionale” dagli zeloti e dai
più accesi “patrioti” ebraici. Così, da un lato si andava approfondendo anche
per questo motivo politico la distanza fra il giudeo-cristianesimo e il
giudaismo rabbinico, fino ad arrivare allo scontro aperto fra la chiesa e la
sinagoga, dall’altro lato, da parte dei cristiani, vi era – dato che pure la parousia, il ritorno in gloria di
Cristo, tardava a manifestarsi – l’esigenza di una pacifica convivenza con
l’Impero e dentro l’Impero. L’opera di Luca (Vangelo e Atti) tende anche a
mostrare ai fedeli – e soprattutto a quei pagani simpatizzanti del
cristianesimo - che i cristiani possono vivere tranquillamente sotto Roma,
senza che la loro fede ne sia minacciata e senza che questa rappresenti un
problema per le istituzioni dell’Impero. Il dato di fatto che non può certo essere ignorato, né occultato, che Cristo sia
stato ucciso proprio per ordine del prefetto romano viene quindi
controbilanciato nei Vangeli da una enfatizzazione delle responsabilità
giudaiche.
Si
può dire che questo problema si sia costantemente ripresentato e si presenti
ancor oggi: la necessità – ben comprensibile
- di vivere pacificamente entro l’ordine costituito e di convivere con
le istituzioni e i poteri di volta in volta dominanti, almeno fino a che il
Regno di Dio non si sia pienamente manifestato, deve indurre i cristiani a
spostare in secondo piano il dato incontrovertibile che il loro Signore fu vittima
innanzitutto del potere del tempo, e questo fino a sterilizzare completamente
questo dato di fatto? O, piuttosto, si deve considerare la circostanza per cui
Gesù è stato crocefisso per ordine dell’autorità politica come un elemento non
accessorio e non contingente, ma centralissimo della confessione di fede,
dell’annuncio e della testimonianza dei cristiani? In altre parole, quel “patì
sotto Ponzio Pilato”, che si recita nel Credo, è forse solo un elemento di
narrazione storica o non è invece il richiamo – che ha un ruolo costitutivo
nella confessione di fede e nella dogmatica – a una vicenda umana e terrena di
Gesù che culmina precisamente nella condanna
a morte da parte dell’autorità politica?
Ma
esaminiamo meglio la questione. Sottolineare la responsabilità decisiva di
Pilato non significa, d’altra parte, rimuovere quella delle autorità giudaiche:
i Vangeli enfatizzano questa responsabilità, ma non la inventano certo di sana
pianta. Potremmo dire, come ha brillantemente riassunto Barbaglio, che il
sinedrio ebbe la funzione di pubblico ministero e sostenne l’accusa, Pilato
giudicò e condannò. Tuttavia – ed ecco un punto cruciale – a Pilato non si
poteva fornire un capo di imputazione di tipo religioso, in quanto egli poteva
condannare Gesù solo per un motivo politico. Gesù fu quindi condannato da
Pilato per un motivo politico. Questo
motivo, del resto, risalta chiaramente nel titulus
crucis, che doveva riportare la causa
poenae, e che è esplicitamente citato nei Vangeli: “Re dei Giudei”. Gesù fu
condannato per la sua pretesa regalità, che metteva in discussione l’autorità
romana. La stessa crudele messinscena dei legionari, che lo vestono come un re
da operetta per poi oltraggiarlo, conferma questa accusa.
Qui
c’è però una seria difficoltà: se nulla lascia credere che Gesù si sia mai
dichiarato re di Israele e nemmeno messia, se la sua predicazione non ha avuto
nulla a che fare con quella degli zeloti e se egli non ha mai invitato
all’insurrezione armata e alla ribellione politica e anzi le ha scoraggiate (da
qui, secondo alcuni, la delusione di Giuda Iscariota), se infine non ha mai
parlato e agito da ribelle politico, da dove è venuta fuori questa accusa?
Secondo la narrazione evangelica, Pilato stesso non sarebbe molto convinto del
capo di imputazione formulato dal “pubblico ministero” Caiafa, ma si lascerebbe
trascinare, per debolezza, per ignavia, per quieto vivere. Pilato arriverebbe
finanche ad acconsentire alla liberazione di un vero e pericoloso ribelle –
Barabba – per condannare l’”innocuo” e innocente Gesù!
Evidentemente,
già a lume di naso, non è molto credibile che un prefetto romano potesse essere
così debole, così inetto e anche politicamente stupido. I dati storici che
abbiamo a disposizione, del resto, sembrano proprio smentire questa
possibilità: Pilato restò governatore per ben 10 anni – piazzandosi al secondo
posto nella graduatoria per durata dei governatori romani della Giudea - e per
raggiungere questo record si dovette mostrare ben più abile, ben più deciso,
ben più lucido di come lo descrivono i Vangeli.
Non
è quindi per nulla convincente, né che egli sia stato sobillato dai giudei o
abbia loro ceduto per debolezza, né tantomeno che sia caduto in un colossale
equivoco, condannando come preteso re dei Giudei uno che non si era mai sognato
di aspirare a questo e che era portatore di tutt’altro annuncio.
Pilato,
a mio parere, ha visto giusto, quando ha ritenuto che la predicazione di Gesù
minacciasse molto seriamente l’istituzione imperiale, forse più seriamente
della stessa lotta armata degli zeloti e di Barabba. Solo che Pilato non aveva
evidentemente gli strumenti per comprendere bene il messaggio di Gesù, che era
tutto inserito nella tradizione culturale giudaica. Le fonti indicano che il
più grave limite di questo personaggio – lo stesso limite che probabilmente
mise fine alla sua lunga carriera di governatore della Giudea – sia stata la
scarsa attenzione alla sensibilità religiosa del popolo giudaico e la limitata
conoscenza delle sue tradizioni e della sua cultura. Fu proprio questo che però
lo spinse forse a una stretta e solidale collaborazione con Caiafa, che durò
per quasi tutto il tempo del suo governatorato. Non a caso, i due uscirono di
scena a brevissima distanza l’uno dall’altro, nel 36.
Caiafa
e Pilato sono buoni partner anche nella vicenda di Gesù e non è che il primo
plagi il secondo o lo forzi a fare ciò di cui non è convinto. Semmai si può
dire che entrambi valutano correttamente, dai rispettivi punti di vista, la
minaccia che Gesù rappresenta e la traducono nei rispettivi codici culturali. Pilato
interpreta l’annuncio del Regno da parte di Gesù come pretesa di una ordinaria
regalità terrena. Si tratta di un fraintendimento, ma non nel senso che si
attribuisca a Gesù più di quanto fosse nelle sue intenzioni, ma nel senso
opposto: si sottovaluta enormemente la portata “politica” dell’annuncio del
Nazareno. Ma anche così ridimensionato, quell’annuncio evidentemente era tale
da preoccupare il potere imperiale romano!
Gesù
annuncia il Regno di Dio che viene. Lo stesso cristianesimo storico – con
questa espressione ci si riferisce al cristianesimo innanzitutto come si è
realizzato nella storia ad opera delle istituzioni ecclesiastiche e poi anche
al cristianesimo come si è espresso in correnti e movimenti non istituzionali e
talvolta anche perseguitati – ha molto spesso gravemente frainteso questo
annuncio. “Regno di Dio – basileia toû
theoû – è sia il nuovo ordine perfetto – ossia la “nuova creazione” – che Dio
alla fine – all’eschaton –
instaurerà, sia la signoria, il
potere regale che Dio già rivendica e già esercita, anche se questo potere è per
ora avversato e contrastato. Il cristianesimo storico ha tenuto conto per lo
più solo del primo significato, per cui ha interpretato il Regno, annunciato da
Gesù e in seguito dalla chiesa, come la realtà perfetta, che non è di questo
mondo, un Regno quindi meramente spirituale, trascendente e collocato in un “al
di là” o in un futuro remoto. Taluni movimenti dissidenti – pensiamo agli
anabattisti del Cinquecento – hanno invece ritenuto che tale Regno fosse già realizzabile
e hanno tentato – solitamente con esiti catastrofici – di renderlo presente. Si
tratta, nell’uno e nell’altro caso, di una sostanziale infedeltà alla volontà
di Dio espressa attraverso il Figlio: nel primo caso, perché ci si attesta di
fatto in posizioni di mero e gretto conservatorismo che sono incompatibili con
il messaggio cristiano, che è Vangelo, “buona notizia” del novum, del radicalmente nuovo; nel secondo caso, perché si pretende
di fare l’opera di Dio, sostituendosi a Lui. Nell’uno e nell’altro caso l’errore
nasce dal non aver considerato l’altro significato dell’espressione basileia toû theoû: il Regno futuro è
già presente, ma è presente come signoria contrastata di Dio.
Si
può capire meglio se si approfondisce il significato del termine “futuro” nell’annuncio
cristiano: non si tratta del futurum latino,
ossia del futuro come ciò che diviene, che
si sviluppa dal passato e dal presente (e diviene poi esso stesso presente per
precipitare infine nel passato); si tratta invece del futuro come ad-ventus, ciò che viene, che irrompe. Nell’Apocalisse,
Cristo è definito come “Colui che era, che è e che viene”. Ci aspetteremmo al
terzo termine, Colui “che sarà” e invece troviamo “che viene”: non il futurum, ma l’adventus! Il futuro annunciato da Cristo, pertanto, non diviene dal passato e dal presente, ma viene al presente (e pure al passato),
fa irruzione nel mondo attuale, come la signoria, il potere regale che Dio già
rivendica. E tuttavia, in questo presente, in questo mondo, questa
rivendicazione è avversata e contrastata, come la croce del Golgota mostra nel
modo più crudo. Questa lotta delle potenze del mondo contro la signoria di Dio
è però destinata ad una inevitabile sconfitta: questo è il significato della
Pasqua. Si tratta, in fin dei conti, della risposta alla domanda fondamentale
dell’apocalittica: “a chi appartiene il mondo?”, “a chi appartiene il futuro?”.
Aveva ben
ragione, quindi, di preoccuparsi, Pilato, il rappresentante della potenza del
mondo per eccellenza, l’Impero di Roma! La rivendicazione di signoria da parte
di Dio, annunciata da Gesù, pone in discussione qualunque sovrano del mondo.
Nel Nuovo Testamento, chi lo capisce meglio di ogni altro è una giovinetta di
tredici anni, Maria di Nazareth:
“Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che
erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti e ha
innalzato gli umili”. (Lc 1, 51-52)
Si badi bene: nel testo greco i verbi non sono affatto al futuro; non sono
nemmeno al presente – con valore di azione continuativa; sono all’aoristo: l’azione
di Dio è certa ed è già compiuta. E’ solo la sua manifestazione che non è
ancora visibile.
Allora, venendo finalmente alla nostra domanda fondamentale, che cosa
significa, per i cristiani o per tutti coloro che comunque vedono in Gesù un
tipo umano esemplare, stare con Gesù, nella scena della Passione, e non con
Pilato? Che cosa significa prendere in questa contesa le parti di Gesù,
piuttosto che “lavarsi le mani”? Significa, innanzitutto – e ciò è indubitabile
– riconoscere che Gesù fu messo a morte dal potere politico e per un motivo
politico e significa quindi non rimuovere e non edulcorare la portata e la
dimensione “politica” dell’annuncio cristiano. Ciò evidentemente non implica
che il cristiano debba necessariamente riconoscersi in un determinato
orientamento politico. Si può dire che sono legittimi tutti gli indirizzi politici,
da quello rivoluzionario, purché non pretenda di svolgere l’opera di Dio e
realizzare il suo Regno qui ed ora, a quello conservatore e finanche
reazionario - purché non si risolva in una ottusa difesa dello status quo - passando per tutta la gamma
degli indirizzi “riformisti”. Tutti orientamenti legittimi, a due condizioni:
che ci si proponga di dare testimonianza autentica del Regno di Dio che viene, coerentemente
con l’insegnamento di Cristo; che si mantenga una distanza critica dalle
autorità del mondo e si porti nel mondo del potere una istanza critica.
Possiamo dirlo ancora con le parole di Calvino, che pure era tutt’altro che un
rivoluzionario e partiva dall’idea tradizionale e dominante secondo cui si deve
obbedienza all’autorità in quanto istituita da Dio:
“Nel concetto di obbedienza che è dovuta ai
superiori esiste però sempre un limite o, più esattamente una norma che deve
essere eseguita in ogni cosa: tale obbedienza non ci deve distogliere
dall’obbedire a colui alla cui volontà tutti gli editti regi devono attenersi,
al cui volere tutti i decreti devono cedere il passo e sotto la cui maestà deve
essere abbassata e umiliata ogni potenza”
E ancora
“Il Signore è dunque il re dei re, a lui, non appena
apre la bocca, dobbiamo ubbidienza fra tutti, su tutti, per tutti. In forma
derivata dobbiamo essere soggetti agli uomini che hanno preminenza su di noi,
non diversamente però che a lui. E se costoro ordinano qualcosa contro Dio non
si debbono tenere in alcuna considerazione”.
Quindi Calvino
cita la risposta che Pietro e gli altri apostoli danno al Sinedrio che voleva loro
imporre di non annunciare più il Vangelo di Cristo: “Bisogna obbedire a Dio,
anziché agli uomini”.
Per non cadere
in un diffuso ma grossolano equivoco, sarà bene precisare che la rivendicazione
della assoluta signoria divina, che è il tratto specifico della confessione
riformata – ossia calvinista – lungi dall’essere incompatibile con la libertà
umana è storicamente fondativa proprio di questa libertà come l’ha intesa il
mondo moderno, in quanto diviene elemento di relativizzazione e ridimensionamento dell’autorità
terrena, la sottopone a limiti e vincoli e, quando è il caso, ne contesta la legittimità.
Qui, si
tratta, infatti, per Calvino, di un punto di arrivo. Ma sarà un punto di
partenza per il calvinismo successivo, nel cui seno si svilupperà il moderno
pensiero liberale e democratico e che contribuirà anche potentemente alle
rivoluzioni moderne.
Aveva dunque ben
ragione Pilato a rimanere inquieto dinanzi all’annuncio di quel profeta venuto
dalla selvatica Galilea!
Nessun commento:
Posta un commento