giovedì 10 dicembre 2015

RAV LARAS: UN PUNTO DI VISTA BIBLICO SUL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA



Il rabbino Giuseppe Laras - presidente dell’assemblea rabbinica italiana, per 25 anni a capo della comunità ebraica milanese e figura-chiave del dialogo ebraico-cristiano - è stato intervistato ieri dal giornale “La Stampa” sul giubileo cattolico appena apertosi. Al giornalista che gli chiedeva se la misericordia non fosse più importante del giudizio, citando le parole del papa – “anteporre la misericordia al giudizio” – rav Laras ha risposto che misericordia e giudizio devono essere “contestuali”. La giustizia “deve partire da una posizione di rispetto e di benevolenza”, per non rischiare di risolversi in “espressione di vendetta, violenza e odio”, D’altra parte, la misericordia “non può prescindere dalla giustizia, perché se non siamo giusti con noi e con gli altri, una società si può ammalare”. Rav Laras sottolinea anche come non abbia alcun fondamento l’idea di un ebraismo tutto incentrato sulla giustizia e poco sull’amore e ricorda che la massima “amerai il prossimo come te stesso” si trova nella Torah prima che nei Vangeli.
Non ci sono allora differenze fra ebraismo e cristianesimo – o forse sarebbe meglio dire fra la Torah, che poi è il Pentateuco delle Bibbie cristiane, e il Nuovo Testamento - riguardo al rapporto fra giustizia e misericordia? Karl Barth, in quella luminosissima opera che è “Introduzione alla teologia evangelica”, parlava di giustizia e misericordia - “Legge” ed “Evangelo”, secondo l’espressione cara ai Riformatori - come del “no” e del “si” di Dio agli uomini. E le paragonava alla “luce” e all’”ombra”. Sono quindi necessarie entrambe le cose, perché evidentemente se c’è luce, c’è anche l’ombra, ma la luce e l’ombra, il si e il no di Dio  non stanno in equilibrio, ma piuttosto “in un sommo squilibrio” e “la teologia non può vedere la luce all’interno dell’ombra invece che l’ombra all’interno della luce”.
Fra le frasi di Barth e quelle di Laras non mi pare che ci sia una differenza di sostanza, ma al massimo di accentuazione (e tali accentuazioni dipendono forse anche dai periodi storici ben diversi in cui sono state pensate ed espresse: i primi anni Sessanta e i giorni d’oggi). Anche e soprattutto la Bibbia ebraica conosce infatti questa somma sproporzione fra giustizia e misericordia. La conosce e la esprime nella Torah, a cominciare dalle tavole della Legge date a Mosè sul Sinai, le dieci parole di Dio, i dieci comandamenti dei catechismi cristiani: “Non avere altri dèi oltre a me. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra.  Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”. Il giudizio di Dio è fino alla terza e quarta generazione, la sua misericordia fino alla millesima. I numeri, che nella Bibbia ebraica hanno spesso una forte valenza simbolica, vogliono qui esprimere proprio quel “sommo squilibrio” di cui parlava Barth.
La Bibbia ebraica conosce ed esprime la somma sproporzione fra giudizio e misericordia anche nei Profeti – come è ovvio visto che i profeti richiamano il popolo all’osservanza della Torah -  ove si mostra ripetutamente come il giudizio nei confronti di Israele, per quanto severissimo, sia sempre in funzione della salvezza e della benedizione e quindi della misericordia.
Analogamente, nel Nuovo Testamento, la parola d’amore di Dio presuppone sempre la parola di giudizio, sebbene la sopravanzi grandemente, e questo sia nella predicazione dello stesso Gesù, sia soprattutto nell’azione che Dio compie su, in e con Gesù stesso, a favore degli uomini, fino al momento culminante della croce e della resurrezione.
Le parole di rav Laras, devono quindi essere considerate, a mio modestissimo avviso, non solo un “punto di vista ebraico” sul giubileo della misericordia e sul rapporto giustizia/misericordia, ma un punto di vista semplicemente e autenticamente biblico, che interpella i cristiani non solo in quanto affratellati agli ebrei, ma anche in quanto cristiani. Le parole di rav Laras hanno forse il merito di ricordarci che la giusta accentuazione della misericordia e dell’amore di Dio non può portarci a reprimere ogni istanza critica, né a dimenticare o a rimuovere la realtà del peccato. Laras chiarisce, infatti, che per giustizia non si deve intendere solo “condanna”, ma anche capacità di dare un giudizio. Non è biblico, e dunque non è nemmeno cristiano, confondere giustizia come condanna e giustizia come capacità di dare un giudizio e attaccare, come spesso fanno  i santoni del politically correct purtroppo presenti anche nel mondo cristiano, chiunque formuli un giudizio critico su determinati temi, facendolo passare per uno che emette sentenze di condanna. Inoltre, rav Laras ci ricorda che “non si può, insomma, semplicemente amare con pietà senza dire all’altro se sbaglia o se ha peccato”, interpellandoci così su un altro grave rischio che corriamo, un’altra possibile e catastrofica infedeltà alla Bibbia: trasformare l’annuncio della giustificazione del peccatore in un annuncio di giustificazione del peccato.

sabato 5 dicembre 2015

"QUI DINANZI A NOI CI SONO DEI FASCISTI..."



In attesa  di riprendere, a breve, l’ abbozzo di analisi dello Stato totalitario islamico, ecco una selezione di fatti significativi degli ultimi giorni.
Giovedi sera mi è capitato di ascoltare da un tg le prime informazioni sulla strage di San Bernardino. Ebbene, la leggiadra giornalista ha usato un double standard veramente emblematico della nostra tristissima condizione culturale. Ha riferito che le indagini seguivano due piste, ma la prima – ha detto – era da prendere con ogni cautela, con beneficio di inventario. E questo lo ha ripetuto tre volte, prima di informarci finalmente sul sospetto, e quando lo ha fatto, quando ha finalmente detto che si trattava di un arabo, un certo Farouk, lo ha detto con la velocità con cui nella pubblicità dei farmaci e dei prodotti parafarmaceutici si avverte delle possibili conseguenze indesiderate. Poi, con espressione rinfrancata che testimoniava del superamento di un serio imbarazzo, è passata alla seconda pista, quella dei “suprematisti bianchi”; e qui, invece, non si è accontentata di scandire bene e di ripetere tre volte la cosa, ma ha spiegato doviziosamente chi fossero i suprematisti bianchi e di quali crimini si fossero già macchiati. Del resto, la giornalista non faceva altro che riflettere una corrente dominante di pensiero – e vedete dove va a cacciarsi certe volte il “pensiero” – dato che nello stesso stato della California, nella prestigiosa università di Berkeley, ove ebbe inizio quella contestazione studentesca che solo anni dopo giunse a Parigi e in Europa, oggi si organizzano master in islamofobia.
Come ormai tutti sanno, il colpevole era invece proprio Farouk che, con la moglie araba, ha agito in nome e per conto dell’Is, che subito si è attribuito la paternità della strage. Che i due criminali non facessero parte di una cellula organizzata rende solo più inquietante la vicenda, dato che hanno comunque inteso raccogliere un invito che lo Stato islamico ha chiaramente lanciato a tutti i musulmani che vivono “tra gli infedeli”.
La vicenda è significativa anche perché demolisce ancora una volta la narrazione del politicamente corretto. Il killer  era laureato in salute ambientale, lavorava come ispettore nel dipartimento della Sanità locale e guadagnava 71.230 dollari all'anno (facciamo 4500- 5000 euro al mese, all'incirca). Viveva con la moglie, più estremista di lui a quanto pare, e con la loro bambina di soli sei mesi, in una villetta con giardino. La favola bella del terrorismo che nascerebbe da povertà ed emarginazione sociale è ripetutamente smentita dai fatti; eppure non c'è speranza: chi è accecato dal pregiudizio ideologico continuerà a recitarla come un mantra.  
Passiamo invece a due buone notizie: si è almeno un po’ incrinato il muro di reticenza sulla matrice islamica del terrorismo che appariva, e purtroppo ancora appare, così granitico in due diversi campi: quello delle chiese e quello della sedicente e autoproclamata sinistra.
Molto più importante, ovviamente, il primo campo. Ad associare finalmente la parola “terrorismo” all’aggettivo “islamista” pare sia stato il cardinale Scola. La riluttanza delle chiese a riconoscere la matrice islamica del fenomeno è pure comprensibile: si teme di offendere il mondo islamico e di compromettere il dialogo inter-religioso e si teme anche di alimentare reazioni di diffidenza e odio per l’islamico tout court. E tuttavia, se queste pur motivate preoccupazioni continuassero a rendere così timida e talora equivoca la testimonianza delle chiese di fronte all’orrore del jihadismo, le chiese stesse cadrebbero in una gravissima colpa di omissione. Le chiese non hanno solo il compito di prevenire eventuali mali futuri, ma hanno il dovere ancor più stringente di denunciare con parole chiare e forti i mali già in atto, soprattutto se assomigliano inquietantemente a un Male assoluto che abbiamo già sperimentato e di fronte al quale le chiese, con limitate se pur nobilissime eccezioni, hanno taciuto o sono addirittura scese a compromessi. Né l’esistenza, purtroppo ben nota, di altri mali causati dall’uomo, di altre guerre, di altra violenza può indurre a relativizzare il Male assoluto. Tale è infatti un disegno che mira solo al genocidio fisico e culturale di chi non faccia parte della razza ritenuta superiore o della religione ritenuta l’unica veritiera. Speriamo, quindi, che le parole di Scola abbiano aperto una breccia e che sia la chiesa cattolica che le altre chiese continuino a scavare per abbattere un muro di reticenza o almeno di malintesa prudenza, che non ha alcuna giustificazione e che contraddice amaramente l’evangelo.
Certo, non possiamo aspettarci, ahimé, che dalle chiese cristiane giungano parole nette, alte, vigorose come quelle che ha scritto recentemente il rabbino Laras e che voglio ancora ricordare:
L’Europa potrebbe in un futuro risultare inospitale per gli ebrei (in Francia è già realtà). Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti. Se così dovesse essere, l’Europa diverrà un territorio desolato e inospitale per tutti coloro che amano e difendono la propria e l’altrui libertà. E non ci sarà nemmeno spazio per i musulmani onesti e pacifici (ahimé troppo silenti). Per fronteggiare il presente, occorrono saldo spirito razionale, energia e coraggio. L’alternativa è tra libertà e sottomissione (ai Fratelli Musulmani, Hamas, Isis, Al Qaeda, Iran, Hezbollah et similia). Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà.
Circa gli autori dei massacri, i loro compagni e chi applaude loro, come si può pensare che l’Unico e Onnipotente, buono e giusto, tolleri o gradisca questa furia omicida e le sofferenze ingiuste e blasfeme inflitte alle Sue creature?
La sedicente e autoproclamata sinistra italiana, a differenza delle chiese (in qualche caso limitato, tuttavia, i due campi si sovrappongono) non ha invece alcuna motivazione: il suo è solo un tragico regresso culturale e, oserei dire, logico-cognitivo, che è ormai in atto da tempo, e che la spinge ad aderire alla melassa diabetogena del politicamente corretto, sposando le cause più improbabili, dimenticando e contraddicendo senza neanche averne consapevolezza i fondamentali stessi del pensiero marxista o socialdemocratico (accade ad esempio sulla questione dei migranti: a nessuno ormai viene in mente che essi rientrano perfettamente nella dimenticata o rimossa categoria marxiana dell’”esercito industriale di riserva”). E’ quindi sorprendente che proprio sulla rivista d’elezione della autoproclamata elite di questa sedicente sinistra compaia un articolo che, pur con riserve e contraddizioni, comincia a fissare qualche punto di verità. Lo firma Michele Martelli, che dopo aver pagato dazio alla narrazione di maniera - le manifestazioni islamiche dell’altra settimana sarebbero addirittura una svolta e avrebbero segnato una dissociazione netta ed inequivocabile dal terrorismo a smentita della campagna di stampa degli “islamofobi fallaciani” (ecco, non mi resta che fare outing e proclamarmi “islamofobo fallaciano”!) – aggiunge: “l’Islam religione di pace? Il Corano libro di pace? Sì, ma purtroppo anche il contrario”. E’ già qualcosa, rispetto al mantra a senso unico. Ma soprattutto Martelli, pur senza andare molto al di là del titolo dell’argomento, individua il punto cruciale: il rapporto fra l’islam e la laicità:
in che cosa consiste la laicità delle moderne democrazie? In due principî fondamentali e complementari, a cui l’Islam arabo ed extraeuropeo è rimasto quasi ovunque estraneo e/o ostile: a) la separazione tra Stato e religione; b) l’uguaglianza dei diritti umani e civili. Se l’Islam è religione di Stato, unica o privilegiata che sia, è evidente che chi non è musulmano (l’altrimenti credente o il non credente) o non gode della cittadinanza o è un cittadino di serie b; e perciò o è privo di diritti o i suoi diritti sono limitati e ristretti.
Martelli ricorda anche come
la “Carta araba dei diritti dell’uomo” sottoscritta dalla Lega araba nel 2004 e modellata sulla Dichiarazione del 1948 dell’Onu, è rimasta pressoché lettera morta, mera dichiarazione di intenti. Perché? Perché incompatibile con molti aspetti, regole, divieti e prescrizioni della sharia (che prevede l’inferiorità della donna, la lapidazione dell’adultera, la pena di morte per l’apostasia e la blasfemia, la condanna dell’omosessualità, l’esclusione e la repressione del pensiero critico, ecc.).
e conclude:

Molti credenti dell’Islam d’Italia, compresi imam e altre autorità religiose, hanno in questi giorni affermato pubblicamente di essere e sentirsi senza contraddizione musulmani e cittadini laici, rispettosi della Costituzione. Mi chiedo se ciò sia possibile senza dissociarsi dalla lettura, interpretazione e applicazione acritica (e talvolta distorsiva) del Corano e della sharia, che è tipica dell’estremismo terroristico, ma anche dell’integralismo religioso premoderno di tanta parte del mondo musulmano.
Si tratterebbe, però, di stabilire se la lettura del Corano e della sharia del jihadismo sia così “acritica” e “distorsiva”, ma questo non fa altro che ricondurre al tema fondamentale: come disse, dopo i fatti di Parigi di gennaio, il solito rav Laras, la domanda da porre all’islam riguarda il suo rapporto con la laicità e la risposta dovrebbe venire essenzialmente sul piano teologico. Riprendo le parole di allora di Laras, che ho già riportato su questo blog, e che purtroppo sono rimaste in questi mesi del tutto inascoltate, affogate come sono state nella melassa di cui sopra:
è possibile per l’Islàm, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica, anziché quello di cittadinanza religiosa, confliggente quest’ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche, che, in qualità di minoranze sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Se sì, come diffondere questa interpretazione e come radicarla oggi in seno alle comunità islamiche? A questa domanda deve seguire necessariamente la “reciprocità” nei Paesi islamici della piena libertà di espressione, di stampa e di culto.
La notizia più confortante degli ultimi giorni – e volutamente l’ho tenuta per ultima – è però il grande discorso di un esponente del Labour Party. No, non si tratta di Jeremy Corbyn, che l’autoproclamata sinistra nostrana – formata da reduci di tutte le sconfitte – sta cercando da qualche mese di eleggere a nuova icona – dopo la morte di Chavez e il misero fallimento di Tsipras. Si tratta, invece, del Ministro degli Esteri del “governo ombra”, Hilary Benn. Benn, nel recente dibattito sull’adesione britannica alla missione in Siria, ha votato a favore, con altri 66 deputati laburisti. Corbyn, che invece è decisamente contrario, ha cercato inutilmente di evitare che il Ministro degli Esteri del “suo” governo ombra prendesse la parola. Alla fine si è dovuto rassegnare e le parole di Benn – questo il giudizio più diffuso sulla stampa britannica e non – hanno fatto riecheggiare nell’aula di Westminster quelle dei grandi discorsi di Winston Churchill.
Benn ha innanzitutto chiarito la piena legittimità dell’operazione in Siria, in base alle risoluzioni dell’ONU;
C’è una risoluzione dell’Onu chiara e senza ambiguità, la 2249, paragrafo 5, che chiede specificatamente agli stati membri di adottare tutte le misure necessarie per raddoppiare e coordinare gli sforzi in modo da prevenire e sopprimere atti terroristici commessi dallo Stato islamico, e per sradicare le roccaforti che Daesh ha creato in molte parti dell’Iraq e della Siria.
Le Nazioni Unite ci chiedono di fare qualcosa. E ci chiedono di farlo ora. Ci chiedono di operare in Siria come già facciamo in Iraq. E fu un governo laburista che contribuì alla fondazione delle Nazioni Unite alla fine della Seconda guerra mondiale. Perché lo facemmo? Perché volevamo che i paesi di tutto il mondo, lavorando assieme, potessero gestire le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale – e Daesh è senza dubbio questa minaccia.
Visto che le Nazioni Unite hanno adottato questa risoluzione, visto che tale azione sarebbe legale sotto l’articolo 51 dello statuto dell’Onu – perché ogni stato ha il diritto di difendere se stesso – perché non dovremmo seguire la volontà stabilita dall’Onu, soprattutto nel momento in cui c’è un sostegno nella regione, compreso l’Iraq? Siamo parte di una coalizione di 60 paesi che lavorano assieme spalla a spalla per opporsi all’ideologia e alla brutalità di Daesh.
Quindi ha rapidamente, ma molto efficacemente tratteggiato la minaccia barbarica che viene dall’Is/Daesh:
Ora Mr Speaker, nessuno in questo dibattito parlamentare mette in dubbio la minaccia seria di Daesh e delle sue azioni, anche se a volte ci risulta difficile convivere con questa realtà. Sappiamo che in giugno quattro omosessuali sono stati buttati giù dal quinto piano di un palazzo a Deir ez-Zor, in Siria. Sappiamo che in agosto l’ottantaduenne direttore del sito archeologico di Palmira, il professore Khaled al Assad, è stato decapitato, e il suo corpo senza testa è stato appeso a un semaforo. Sappiamo che nelle ultime settimane è stata scoperta una fossa comune a Sinjar, vicino a Mosul, con i corpi delle donne yazide più anziane uccise da Daesh perché erano troppo vecchie per essere vendute come schiave del sesso. Sappiamo che hanno ucciso 30 turisti inglesi in Tunisia, 224 vacanzieri russi su un aereo, 178 persone in attentati suicidi a Beirut, Ankara e Suruç, 130 persone a Parigi compresi i ragazzi al Bataclan che Daesh, per giustificare il massacro sanguinoso, ha definito “infedeli dediti alla prostituzione e al vizio”. Se fosse accaduto qui, quelli sarebbero stati i nostri figli. E sappiamo che Daesh sta organizzando nuovi attacchi.
E quindi la conclusione, memorabile:
Ora Mr Speaker, spero che la Camera mi conceda ancora un attimo, perché vorrei parlare direttamente ai colleghi del mio schieramento. Come partito ci siamo sempre caratterizzati per il nostro internazionalismo. Siamo convinti di avere responsabilità uno verso l’altro. Non abbiamo mai voluto né dovuto andare dall’altra parte della strada.
E qui di fronte a noi ci sono dei fascisti. Non c’è solo la loro brutalità calcolata, ma la loro convinzione di essere superiori a ognuno di noi qui stasera e alle persone che rappresentiamo. Ci disprezzano. Disprezzano i nostri valori. Disprezzano la nostra fiducia nella tolleranza e nella dignità. Disprezzano la nostra democrazia, questi strumenti stessi che usiamo stasera per prendere una decisione. E se c’è una cosa che sappiamo dei fascisti è che devono essere battuti. E’ il motivo per cui questa sera qualcuno ha ricordato che i sindacalisti e altri si unirono alla Brigata internazionale contro Franco negli anni Trenta. E’ il motivo per cui questa intera Camera si oppose a Hitler e a Mussolini. E’ il motivo per cui il nostro partito è sempre stato contro chi nega i diritti umani e la giustizia. E io penso, Mr Speaker, che dobbiamo affrontare questo Male. E’ il momento di fare la nostra parte in Siria. Così chiedo ai miei colleghi di votare per la mozione, questa sera.
Benn si è rivolto direttamente ai suoi colleghi del Labour Party, ma il suo messaggio dovrebbe essere ascoltato da tutti coloro che nel mondo si definiscono di sinistra ed anzi da tutti coloro che si riconoscono nei valori universali di umanità e di civiltà. Vogliamo illuderci che anche i più prevenuti, che anche i più ottenebrati da pregiudizi e luoghi comuni, ascoltino e meditino le sue parole:
“Qui di fronte a noi ci sono dei fascisti… e se una cosa sappiamo dei fascisti è che devono essere battuti… dobbiamo affrontare questo Male”






giovedì 3 dicembre 2015

L'IS A 400 MIGLIA DALLA SICILIA



In attesa di approfondire il discorso sui fattori geopolitici che hanno favorito la nascita e l’ascesa dello Stato islamico e sulle risposte che è quindi possibile dare, un’anticipazione su una questione specifica, ma che ci riguarda molto, ma molto da vicino.

Secondo notizie riportate prima dal New York Times e poi anche da Maurizio Molinari su "La Stampa", lo Stato islamico starebbe rafforzando il suo presidio di Sirte in Libia,  trasferendovi tra l'altro una parte della sua leadership politico-militare. Si tratta, in particolare,  di alcuni colonnelli delle forze armate di Saddam Hussein, tra cui Abu Nabil al-Anbari, comandante nella battaglia di Falluja, una delle rarissime sconfitte militari, forse l'unica, subita dagli americani nella guerra irachena. Questi movimenti, insieme con una campagna propagandistica all'insegna dello slogan "non saremo meno di Raqqa", fanno supporre a fonti dell'intelligence l'intenzione di fare di Sirte una seconda capitale del Califfato.
Certamente ciò è dovuto a elementari ragioni di ordine strategico-militare: la coalizione anti-Isis pare intenzionata a intensificare l'offensiva contro Raqqa, la cui eventuale caduta segnerebbe uno scacco anche simbolicamente significativo per lo Stato islamico. Da qui forse il progetto di costituire a Sirte un secondo centro operativo e direttivo. La storia del Califfato del resto ha conosciuto vari trasferimenti della capitale - da Damasco a Baghdad a Istanbul - e l'Is potrebbe così reagire al possibile smacco militare con una controffensiva anche propagandistica.
D'altra parte, l'articolazione storica del Califfato prevedeva una regione del Maghreb distinta da quella dello Sham (Levante): Sirte diventerebbe dunque la capitale del Maghreb così come Raqqa - o un'altra citta siriana o irachena se Raqqa dovesse cadere - sarebbe capitale dello Sham.
C'è però da chiedersi se alla base del progetto non vi siano altre e più inquietanti motivazioni, come la volontà di costituire una capitale più vicina ai luoghi delle attuali e future offensive strategiche. Il primo di questi luoghi, per vicinanza geografica alla Libia, è la Tunisia. Non è un mistero che, dopo il recente attentato a Tunisi, la propaganda di al-Baghdadi abbia affermato che proprio la Tunisia dovrà essere la prossima conquista.
Il secondo luogo dell'offensiva strategica islamista, in ordine di vicinanza alla Libia, è però, disgraziatamente, l'Europa e più precisamente l'Italia. Sirte si trova a 400 miglia dalla Sicilia e non si tratta neanche solo di Sirte, perché,  come ha ricordato il New York Times, l'Is controlla ormai un tratto di costa, sull'omonimo golfo, di circa 150 miglia. Ciò conferma purtroppo che si preparano altri attentati in Europa,  che stavolta potrebbero avvenire anche nel nostro paese. Non può sfuggire la sincronia tra queste manovre dello Stato islamico e l'apertura del giubileo di papa Francesco. Un'azione terroristica a Roma, nel corso dell'anno santo, sarebbe per l'Is un successo simbolico ben più clamoroso degli stessi tragici attentati di Parigi.
In definitiva, sarebbe proprio da irresponsabili pensare che lo Stato islamico va combattuto solo in Siria e in Iraq, che in Europa bastino azioni di intelligence o limitarsi alle solite recriminazioni sulla dissennatissima operazione bellica che ha portato alla caduta di Gheddafi. Oltretutto, per sradicare lo Stato islamico da Sirte non occorre inviare truppe e neanche agire con bombardamenti inutili sul piano militare e devastanti per la popolazione civile. C'è già chi è pronto a "mettere gli scarponi sul terreno" per conto nostro ed è una forza ben più grande e affidabile dei curdi o delle milizie islamiche siriane non jihadiste: l'Egitto di al-Sisi. Uno dei due governi libici, quello di Tobruk, è sostanzialmente un'emanazione del regime militare egiziano, ma conta anche su vecchi esponenti del regime gheddafiano e su personalità ben note ai servizi segreti occidentali. 
Khalifa Belqasim Haftar, ad esempio, attuale uomo forte del governo di Tobruk, ha una storia molto interessante: partito come comandante del regime di Gheddafi, nella guerra contro il Ciad, fu preso prigioniero nel 1987 e passò sull’altro fronte: si arruolò nel contingente anti-libico organizzato dagli americani. Ha vissuto per venti anni negli USA, prendendo anche la cittadinanza di quel paese. Nel 2011 è tornato in Libia per organizzare l’insurrezione contro Gheddafi e pochi mesi fa è stato nominato dal governo di Tobruk Ministro della Difesa e capo di Stato maggiore, con lo specifico incarico di combattere le milizie islamiste. Evidentemente, non è quel che si dice un galantuomo, ma se l’Occidente vuole fronteggiare il jihadismo, senza tornare a una diretta occupazione coloniale dei paesi arabi, che nessuno vuole, che sarebbe anacronistica e probabilmente controproducente, non può che contare su uomini di questo tipo. Torna alla mente la celebre risposta che un giorno Franklin Delano Roosevelt, di sicuro uno dei presidenti meno cinici e più autenticamente democratici nella storia degli USA, dette a un suo consigliere. Si parlava dell’eventuale sostegno a uno dei tanti dittatorelli del Centro America e il consigliere di Roosevelt, sorpreso dalla disponibilità del Presidente, esclamò: “but, he’s a son of bitch!”. E Roosevelt, di rimando: “Yes, I know, but he is our son of bitch”. Se poi si trovasse un galantuomo capace di tenere a bada l’islamismo, sarebbe molto meglio, ma vista l’esperienza delle cosiddette “primavere arabe”, che sono state come vedremo più avanti uno dei fattori di esplosione del jihadismo, sarebbe meglio non farsi troppe illusioni.
Tutto ciò perché, quando pure si riuscisse a sradicare l’islamismo dalla Libia sul piano militare, occorrerebbe, però, avere le idee chiare anche sul dopo, sull'assetto politico della Libia futura. Occorrerà superare il dualismo fra i due governi, che ha consentito all'Is di radicarsi nella zona intermedia, e questo lo si può fare o favorendo una riconciliazione,  ossia un compromesso,  se sarà possibile, o semplicemente abbandonando al suo destino il governo di Tripoli.
 Del resto, se si vuole combattere l'Is non contro, ma insieme all'Islam - moderato o meno che lo si voglia definire - come si dice e come è certamente necessario - che cosa c'è di meglio dell'Egitto di al-Sisi, unico non ambiguo nemico islamico sunnita dello Stato islamico e partner di fatto anche di Israele?
Certamente, occorrerà la nascita di un regime libico, stretto alleato dell'Egitto e possibilmente anche della Tunisia, ma guidato da uomini capaci di gestire la complessa geografia antropologica e politica delle tribù e dei clan, come Gheddafi ha fatto per decenni. A quest' uomo o a questi uomini si potrà e si dovrà chiedere di non essere dei tiranni sanguinari, ma, come dicevamo, non ci si può aspettare che siano leader democratici. Al momento c'è una certa incompatibilità fra il mondo arabo-islamico e la democrazia, almeno questo dovremmo averlo imparato.
Infine, trattandosi della Libia e non di Siria o Iraq, il premier Renzi non potrà permettersi di fare ancora il pesce in barile: meglio prepararsi ad accogliere a Roma, nel suo improvvisato accampamento beduino, il futuro uomo forte libico che vedersi arrivare i kamikaze dello Stato islamico.