“Lo
ricordano tutti come un tipo schivo, molto riservato; però, con le persone
semplici si apriva di più, con loro sapeva stare in compagnia e gli piaceva quella
comitiva. Per questo amava tornare a San Benedetto Belbo. Ha visto che c’e
ancora l’insegna della bottega del suo grande amico di lì, come si chiamava?
Ah, sì…Placido”
“La
licenza….”. “La cenza”, mi corregge Maurizio. Maurizio è il gestore del
ristorante “Al mercato. Da Maurizio”, che sta a Cravanzana, paese dove la Langa
si fa già aspra, dove già incomincia il “Sinai delle colline”, come lo chiama
Fenoglio, il “deserto” che sta subito oltre Mango. Mentre parlava, Maurizio ha
stappato la mezza bottiglia di Nebbiolo di Patrusso, che ho ordinato dietro suo
consiglio, e mi sta versando il dito di vino da assaggiare. La “cenza”, in
dialetto langarolo sta certo per licenza ed erano così che venivano chiamate
quelle botteghe di paese che avevano appunto licenza a vendere un po’ di tutto
e anche a fungere da osteria.
“Però,
a San Benedetto hanno mozzato uno dei due ippocastani…”, dico di rimando, con
vago tono di rimprovero. Annuisce e alza un po’ lo sguardo; il volto gli si
colora di una rassegnazione sconsolata, quella di chi sa da sempre che ciò che
deve avvenire accade, senza che lo si possa evitare. Questa espressione di
schietto fatalismo contadino Maurizio deve certo averla ereditata dalle tante
generazione dei suoi avi, ed essa irrompe per un breve istante a impossessarsi
della sua figura così signorile e civile.
Tra
i due ippocastani secolari, nella piazzetta di San Benedetto Belbo, c’è una
panchina, o meglio una larga traversa di legno (o è forse una pietra piatta?
non ho potuto nemmeno soffermarmi con lo sguardo). Qui dicono che Beppe
Fenoglio venisse a sedersi e a cercare ispirazione, durante le sue
villeggiature estive; qui pare che lo si scorgesse di frequente, con la
macchina da scrivere poggiata sulle ginocchia, mentre lavorava a qualcuno dei
suoi racconti, o forse a quel romanzo della Resistenza, il “libro grosso”, come
lo chiamava quasi con religioso rispetto, che, lui vivo, non doveva mai venir
pubblicato.
Quando
alla fine della mia lunga camminata tra le colline dell’Alta Langa, ero salito
in paese, avevo cercato subito gli ippocastani e la panca, trovando, però,
doppiamente oltraggiato quel posto, che la targa, una delle tante apposte
dall’amministrazione comunale, definisce, a grandi caratteri, “luogo
fenogliano”. Appena girato l’angolo della chiesa e proprio dopo aver notato
l’insegna scolorita della bottega di Placido, a cui alludeva il mio oste, ecco
la triste sorpresa: uno dei due alberi era stato “decapitato” e ne restava solo
il tozzo tronco a fare compagnia all’albero fratello, che invece ancora
lussureggiava di rami e foglie, ma pareva quasi malinconicamente compreso della
sventura toccata all’altro. Volevo avvicinarmi con cauto rispetto agli alberi e
alla panca, forse non avrei nemmeno osato sedermi, ma ecco che venivo preceduto
di pochi istanti da una querula donnona ucraina, o forse polacca, tutta intenta
ad una accanita, concitata conversazione al cellulare. La telefonata era
incominciata con un breve saluto in italiano, per poi proseguire a mozzafiato
nella sua lingua. La donnona, peraltro, senza farsi scrupolo alcuno, si era
pesantemente lasciata cadere sull’asse, tra i due ippocastani. Non fermava
neanche per un attimo la voce, che aveva la stessa ridondanza del suo
corpaccio. Nella piazza – era l’ora di pranzo – non c’era un’anima e nessun
suono si udiva. Salvo quei fonemi slavi, incalzanti e perforanti come un
martello pneumatico. Avevo atteso, cinque, dieci, quindici minuti: niente! La
donnona era sempre lì a sciupare irrimediabilmente il raccoglimento suggerito
dal luogo. Forse neanche sapeva che tanti anni fa da queste parti un canto, il
più famoso di quelli della Resistenza, veniva intonato da cento voci e spesso
non nella sua traduzione italiana, ma nella versione originale, in una lingua
assai simile alla sua. Un canto che peraltro Fenoglio e il suo alter-ego Johnny
non amavano affatto, essendo l’inno quasi ufficiale dei partigiani “rossi”,
quelli tra le cui fila, sia lo scrittore che il suo personaggio, avevano
cominciato la loro esperienza resistenziale, per rendersi però subito conto di
essere capitati, in the wrong part of the
right side; affrettandosi, quindi, alla prima occasione a passare nelle
fila degli altri partigiani, le “formazioni autonome”, gli “azzurri”.
La
conversazione con Maurizio era partita dalla sua domanda, appena avevo preso
posto e mentre mi porgeva il menu: avevo camminato per la langa, quel giorno?
Dove ero stato? A sentire che avevo vagato intorno a San Benedetto Belbo, sulle
tracce di Fenoglio, la sua elegante e professionale compostezza si era
rilassata per un attimo in un sorriso di muta approvazione e di lieve orgoglio.
“E’ strano” avevo detto, per dargli corda, “finché fu in vita fu ben poco
apprezzato, oggi viene celebrato ogni sasso che pare abbia toccato. Più di un
paese si è riempito di targhe che indicano i vari “luoghi fenogliani” e citano
passi dei suoi scritti; gli “itinerari fenogliani” sono divenuti quasi una
attrazione turistica! E’ lui, ora, lo scrittore delle Langhe, non è così?”. E
Maurizio aveva assentito, soddisfatto: sì è lui, perché quell’altro, Pavese,
era più “cittadino”. E sì, ora sì che viene riconosciuto il suo talento. E
aveva cominciato a parlarne, lasciandomi stupito, non come si parla di tanti
personaggi famosi, conosciuti tuttavia solo sui libri, ma come di chi è ancora
ben vivo e presente nella memoria e nei racconti dei più anziani. “Partigiano…”
aveva poi sussurrato, lasciando che la parola librasse in aria, restasse lì
sospesa, con tutto il suo carico di significati, di allusioni, di sottintesi,
di misteri…
Come
primo piatto, in Langa, si pone sempre un impegnativo aut-aut: tajarin o
agnolotti del plin? Sulle uova necessarie all’impasto dei tajarin si
fronteggiano varie scuole di pensiero. La più esigente è quella delle “trenta
uova” (per chilo di farina!) e così li assaggerò all’Osteria della Posta, alle
porte di Monforte d’Alba. Sul condimento non dovrebbero invece esserci dubbi:
ragù (ovviamente non quello campano, ma quello settentrionale, abbastanza
simile alla salsa “bolognese” e quindi con la carne macinata), fegatini di
pollo (se piacciono), burro e tartufo (se è stagione). Gli osti, però, si
sbizzarriscono in proposte diverse e in questo periodo, luglio inoltrato, e con
le abbondanti e frequenti piogge che ci sono state, impazzano i tajarin ai
porcini. Non mi sento di condividere tale abbinamento, in quanto i porcini
richiedono una pasta più spessa, tagliatelle o pappardelle. Maurizio offre,
correttamente, i tajarin al ragout, ma la mia scelta cade invece sugli
agnolotti del plin. Per due motivi. Anzitutto, negli agnolotti più che nei
tajarin si può saggiare la valenza del cuoco, essendo gli agnolotti preparazione
ben più complessa. La sfoglia deve essere sottile fino al punto estremo (oltre
non tratterrebbe il ripieno nella cottura) – sottile “come un velo di sposa”,
dicono qui - e la difficoltà sta nel
prepararla esattamente di questo spessore, né più, né meno. Il ripieno non deve
essere troppo compatto, ma deve restare morbido.
In
Langa, si usano gli agnolotti cosiddetti del plin, ossia del pizzico , perché
una volta preparata la rondella di pasta, la si chiude appunto con un “pizzicotto”.
Sono quindi agnolotti più piccoli di quelli che si mangiano a Torino e in altre
zone del Piemonte e che vengono detti genericamente “piemontesi”. Il ripieno è
sempre di carne mista a verdura (bietola o spinaci solitamente), ma in quelli
piemontesi può essere di sola carne. Questi ultimi, sebbene come per i tajarin
siano invalse le soluzioni di condimento più svariate, andrebbero preparati
rigorosamente “al sugo di arrosto” o, soluzione sontuosa, al sugo “dei tre
arrosti”, ossia con carni di tre tipi (manzo, maiale e gallina o manzo, vitello
e maiale). Per il ripieno va usata la stessa carne da cui si ricava il sugo. I
“puristi” li vogliono invece serviti soltanto con burro e salvia.
Gli agnolotti di Langa, essendo più leggeri,
tollerano una maggiore varietà di soluzioni. Anche qui però non mancano i
“puristi” che addirittura li vorrebbero servire sconditi, e non nel piatto, per
giunta, ma su un canovaccio di canapa, in modo, dicono, da apprezzare appieno l’armonia del ripieno e la
giustezza della sfoglia. Anche qui, sulle uova vi sono diverse scuole di
pensiero: quella delle 8, quella delle 12, quella delle 16… intendendosi sempre
per chilo di farina.
La
proposta “eretica” di Maurizio è però intrigante, ed è questo il secondo motivo
della scelta: agnolotti del plin verdi – ossia non solo con ripieno di sola
verdura, ma con verdura anche nell’impasto - conditi con fonduta di toma di
Murazzano. Sul formaggio di Murazzano si dovrebbe aprire un altro capitolo, ma
restiamo sugli agnolotti per ora! La soluzione mi pare ben equilibrata: un
ripieno di carne con un condimento di fonduta li avrebbe appesantiti troppo.
La
degustazione conferma poi la saggezza della scelta e soprattutto il valore del
cuoco. Il Nebbiolo di Patrusso si rivela eccellente, di buon corpo e spessore,
e superiore, a mio gusto, a quelli di produttori ancora più rinomati.
Partigiano.
“Scrittore e partigiano”, queste sole due parole aveva dettato come epigrafe
sulla sua tomba, quando aveva capito che i suoi bronchi soffrivano di un male
che nemmeno l’aria della collina di Langa, nemmeno l’aura benefica di San
Benedetto Belbo o di Bossolasco poteva guarire. Partigiano, sì, ma lontano da
ogni memoria oleografica e celebrativa, estraneo alla parte vincente, dominante
della Resistenza. Per questo sottilmente, subdolamente, ma spesso anche
apertamente osteggiato. E poi celebrato solo quando si era deciso a morire
anzitempo, perché da morto non poteva più negarsi a chi lo innalzava sul
pantheon ufficiale della Resistenza, come si era negato ai premi e ai circoli
letterali.
No,
non poteva essere apprezzato Fenoglio, negli anni della guerra fredda, e non
solo, caro Maurizio, per il suo carattere schivo: era partigiano, ma
anticomunista; monarchico, ma tutt’altro che conservatore; seriamente
interessato alla rilevanza antropologica della religione, ma assolutamente
laico e forse finanche un po’ anticlericale.
Non
poteva piacere ai custodi dell’ortodossia marxista e neorealista, che governavano
largamente la scena letteraria e artistica, e la tenevano sotto il loro
staliniano pugno di ferro. Convinti come erano di stare in the right part of the
right side, e che anzi non ci fosse alcuno schieramento giusto e alcuna
parte giusta al di fuori del loro schieramento e della loro parte, rabbrividivano
al pensiero che quel Fenoglio potesse diventare il cantore della Resistenza,
che potesse esser lui a scrivere quel “libro grande” sulla Resistenza che
nessuno poteva o voleva scrivere: né Calvino, né Primo Levi, né Pavese e
nemmeno lo stesso Vittorini. Il suo
primo scritto - La paga
del sabato – fu così rifiutato da Vittorini, allora dominus della Einaudi, per conto del PCI. Più tardi, una violenta
stroncatura di Carlo Salinari accolse I
ventitre giorni della città di Alba. Salinari, col tipico moralismo
stalinista, giunse a giudicare l’opera di Fenoglio “una cattiva azione”! La
Einaudi non poté invece rifiutare un romanzo come la Malora, ma più dell’intrinseco valore letterario dell’opera, fu
probabilmente decisivo il fatto che in essa non si parlasse della Resistenza:
quasi un invito implicito a Fenoglio a dedicarsi alla narrazione e alla
rappresentazione del mondo rurale, abbandonando il tema resistenziale. E
comunque La malora venne pubblicato, con
una quarta di copertina di Vittorini fortemente polemica, che suonava come un
drastico ridimensionamento dell’autore e dell’opera. Vittorini intendeva
avvertire questi “giovani autori”, come Fenoglio, del “baratro” in cui
rischiavano di cadere! La stroncatura vera e propria venne invece affidata a
Marcello Venturi, che si fece portavoce della ortodossia stalinista e
neorealista.
Solo
Anna Banti difese energicamente lo scrittore di Alba dallo “stalinismo
culturale”. Ma Anna Banti è l’autrice di quel formidabile romanzo storico sulla
disillusione della generazione rivoluzionaria del Risorgimento, è l’autrice di Noi credevamo, che il bel film di
Martone ha fortunatamente salvato dall’oblio.
Attaccato
o mal tollerato dalla sinistra “ufficiale”, Fenoglio non poteva che risultare
estraneo a cattolici o liberali conservatori. In particolare, non poteva essere
gradito, nel clima di quegli anni, alla grande famiglia politico-culturale
alternativa a quella comunista, la famiglia cattolica. Un prete suo amico
ricorda che egli rifiutava decisamente l’istituzione chiesa, aderendo invece pienamente al messaggio di giustizia sociale
del Vangelo. E difatti, si sposerà solo con rito civile, negli ultimi tempi
della sua breve vita, nonostante insistenze e pressioni in favore del
matrimonio religioso. Alcuni stavano addirittura per organizzare una manifestazione
ostile nel giorno stesso del suo matrimonio! La manifestazione venne impedita solo dall’intercessione della
energica madre dello scrittore, che si recò dal vescovo di Alba, ma il sindaco,
comunque, si rifiutò di officiare, lasciando l’incarico al suo vice.
E’
stato definito, Fenoglio, liberal-socialista o riformatore radicaleggiante, ma
ogni etichetta gli va stretta, in realtà. Nella sua posizione politica vi sono,
però, due opzioni chiarissime e nette, si potrebbe dire quasi istintive,
prepolitiche: l’antifascismo – come è ovvio – e l’anticomunismo. Negli anni
della guerra fredda non potrà quindi restare neutrale fra i due blocchi in
campo e ciò lo indurrà a scelte che immaginiamo molto sofferte. Come quando nel
1953 dichiara di aver votato Psdi, senza essere affatto convinto, per “l’ovvia
ragione della battaglia dei due fronti”. In seguito si avvicinerà al PSI di
Nenni, quando questo prenderà le distanze dal PCI e dall’URSS. La sua posizione
politica gli provocherà incomprensioni persino nei suoi amici più stretti,
nelle persone che meglio lo conoscevano e più lo stimavano. Per anni vi fu
freddezza anche con Pietro Chiodi, grande filosofo e suo professore al Liceo,
il personaggio che, con l’altro professore, Cocito, lo aveva in fondo messo
sulla strada della lotta partigiana. Lo stesso Chiodi ricorderà, però, il loro
successivo chiarimento, concludendo significativamente: “fu così che ci
incamminammo insieme per gli amari sentieri della sinistra non comunista”.
Molti
altri fra i suoi critici più acerrimi di quegli anni riconosceranno poi il loro
errore di valutazione e, cercando di giustificarsi, contribuiranno a
ricostruire un ritratto più veritiero di questa singolare e straordinaria
personalità. Lo stesso personaggio che si era fatto portavoce dell’ortodossia
stalinista, Marcello Venturi, ricorderà il pregiudizio nei confronti di Fenoglio,
che non fece mai parte del “Politecnico”, non cercò mai la collaborazione dei
giornali della sinistra, e perciò appariva loro un isolato, così alieno come
era da gruppi e movimenti ritenuti progressisti, troppo al di sopra delle
parti, inesorabile demolitore dei cliché sulla Resistenza.
Proprio
per questo, per tutto questo, quando ho pensato che fosse necessario risalire
alle origini della attuale deriva, capire cosa fosse andato storto, quando si
fosse imboccata la strada sbagliata o come si fosse persa quella giusta, ho
deciso di venire in Langa e di seguire le tracce del’unico che poteva
raccontarmi la verità sulla Resistenza, senza interessati opportunismi e
studiate reticenze, senza ottusità ideologiche, senza pregiudizi e riflessi
tribali.
Per
proseguire la cena, dribblo la carne e mi dirigo sul dovizioso carrello dei
formaggi, che poi è uno dei fondamentali motivi per cui si viene a mangiare in
questo ristorante. Da buon conoscitore dei suoi avventori e dei formaggi,
Maurizio propone un assaggio misto, di caprini, ovini e vaccini, dai più
freschi ai più stagionati, ma chiede se gradisco anche gli erborinati. No, non
li gradisco. E poi penso che gli erborinati romperebbero l’armonica ascesa dei
sapori dal più fresco al più stagionato e soffocherebbero i pezzi più delicati.
La discussione, mentre mi vengono serviti accuratamente i formaggi, si è ora
spostata dal nostro scrittore agli incidenti aerei che stanno capitando con
inusuale frequenza. E’ un tema che mi interessa molto meno, in tutta
franchezza, ma scoprirò poi che il mio oste si appresta a partire in aereo!
Finalmente i formaggi vengono disposti nel piatto a cerchio completo di 360°.
Sono dodici, come le ore dell’orologio, e Maurizio mi raccomanda di
incominciare dalle ore 6 e proseguire in senso orario. Ad assicurare una buona
varietà di assaggi, in realtà, basterebbe da solo il formaggio DOP di
Murazzano, che può essere solo di pecora o misto a latte vaccino, e che
soprattutto si può consumare fresco (fra i 4 e i 10 giorni), giovane – e
acquista sapore più deciso – o decisamente stagionato (da un mese fino a un
paio di anni, conservato in caratteristici vasi di vetro) e si presenta allora
friabile e piccante. Ricevo una rapida illustrazione dei miei dodici assaggi,
ma purtroppo dimentico subito quasi tutto, proprio come mi accade quando una
persona appena conosciuta mi dice il suo nome: non riesco mai a ritenerlo nella
memoria, forse perché mi soffermo sul volto, sulla gestualità, sulla
intonazione di voce. E così deve accadere con i formaggi di Maurizio: rapito,
prima ancora che dal gusto, dalla loro diversa foggia, non trattengo nella
mente praticamente nulla delle accurate didascalie con cui mi vengono serviti!
La
Resistenza… sono partito alla ricerca della verità sulla Resistenza, come
Milton, il protagonista di Una questione privata,
va alla ricerca della verità su Fulvia, la donna amata.
Dal
lungo incubo del fascismo, dalla catastrofe della guerra, dall’ignominia dell’8
settembre sorgeva inaspettata una opportunità preziosa per provare a riparare a
quelle che Gobetti aveva definite le “tare congenite” dello sviluppo storico
italiano. Un paese che non si era potuto formare alla scuola di libertà, di
responsabilità e di coscienza civile della Riforma protestante, che si era
provato a costruire in un Risorgimento che però era rimasto “rivoluzione
passiva” – per usare le categorie di Vincenzo Cuoco – e aveva visto le masse
popolari estranee, indifferenti, se non diffidenti e ostili. Un paese che aveva
incominciato a formarsi nelle trincee della prima guerra mondiale e in tal modo
ne era risultata una coscienza nazionale perversa, un’idea di patria che doveva
condurre al fascismo. Quel poco che si era mal costruito era poi naufragato l’8
settembre, non solo crollo di un regime, ma “morte della patria”, come si è
detto. Ma quello stesso giorno alla porta San Paolo a Roma e poco dopo a
Cefalonia e per le strade di Napoli e ben presto soprattutto sulle colline e le
montagne del Nord una identità nazionale si era cominciato a ricostruirla, e
l’alba di un secondo, un nuovo, un vero Risorgimento pareva che stesse
finalmente sorgendo. Un processo che attraverso le tappe fondamentali del 25
aprile, del 2 giugno 1946 e del 1° gennaio 1948, con la Liberazione, la
Repubblica e la Costituzione pareva finalmente edificare l’Italia civile, una
nazione costruita e cementata con l’impegno, lo slancio ideale, il sacrificio
materiale di un popolo, fondata su valori, imperniata su un progetto condiviso.
Come in Inghilterra, in America, in Francia…
Che
ne è oggi di tutto questo? Pare che si debba soltanto amaramente constatare che
quel progetto, quello slancio, quell’impegno, quei valori siano stati
patrimonio di una ristretta minoranza – una “rivoluzione passiva”, ancora una
volta – e non abbiano mai messo radici nel tessuto civile, sociale, culturale
del paese. Per cui, scomparsa la generazione della Resistenza, tutto è
naufragato. Dove, allora, si è smarrita la strada? Che cosa c’era di limitato,
di velleitario, di “giacobino” nella Resistenza? Queste domande mi assillano da
tempo, ancor più pressanti per le singolari circostanze della mia storia
familiare e personale: un nonno – quello di cui porto il nome - socialista, del
socialismo primo novecentesco, e con la tessera dell’Internazionale nascosta
sotto una mattonella dissestata per tutto il Ventennio… un altro nonno, quello materno,
deputato all’Assemblea Costituente – in qualche modo padre costituente pure lui
- nonché segretario del partito
repubblicano in una provincia ferocemente monarchica… un padre che si lega alla
famiglia della mia futura madre, allora ancora bambina, proprio al seguito di
mio nonno materno, nell’occasione del referendum istituzionale del 2 giugno… io
che dunque nasco davvero figlio della Repubblica, anche se non pochi anni dopo!
Il mio primo “impiego” dopo la laurea, una borsa di studio all’Istituto di
Storia della Resistenza… persino il mio matrimonio avevo voluto celebrarlo il
25 aprile! E tra i biglietti di auguri ricevuti forse il più bello venne
proprio dall’Istituto di Storia della Resistenza, un augurio di una sola parola,
rivolto ad entrambi: “Resistete!” Ma anche quella privatissima resistenza finì
poi per arenarsi, deviarsi, esaurirsi…
A
Cravanzana alloggio in una vecchia casa sulla strada provinciale, battezzata,
chissà perché, Locanda degli sfizi.
La gestisce una donna di mezza età, simpaticamente ciarliera, nonché
caffeinomane. Dopo avermi offerto il primo caffè di una lunga serie, mi fa
accompagnare in camera, su al secondo piano, da una ragazza, una sua tuttofare,
dicendomi che è delle mie parti (in effetti è originaria di Benevento). La ragazza
beneventana afferra uno dei miei bagagli, l’avverto che è pesante, ma vedo che
lo maneggia con destrezza ed energia: “sono abituata ai bagagli di voi
‘camminatori’!” mi dice, con deliberato sarcasmo. In effetti a Cravanzana ci
sono solo due fondamentali motivi per venire: la “nocciola gentile tonda delle
Langhe”, un’eccellenza mondiale, di cui proprio Cravanzana è la capitale; e i sentieri
– tra cui innanzitutto lo scontato “anello della nocciola” – che percorrono la
zona e si prestano a belle escursioni. Nemmeno la proprietaria della locanda,
tuttavia, sembra apprezzare molto i “camminatori”, nonostante i proventi che
indubbiamente gliene vengono. Capirò presto che li considera una sorta di
specie aliena… Il sottoscritto, poi, deve averlo proprio considerato il più
stravagante, se non folle, esemplare di quella singolare razza. Difatti, la
mattina dopo, essendo la colazione prevista non prima delle 8, sono uscito di
buon ora per fare una corsetta. Sono tornato dopo appena mezz’ora, perché
l’unica possibilità di correre, se non in piano con pendenze accettabili, in
quella zona, era la strada nazionale, piuttosto trafficata. Quella misera
mezz’ora deve essere però parsa un’impresa folle alla signora che mi ha subito
apostrofato al mio ritorno: “complimenti! Siete uscito che non erano ancora le
sette – senza nemmeno prendere un caffè - e tornate ora!” Ho cercato di
spiegarle che non avevo fatto propriamente una maratona, ma mi ha subito
stroncato dicendomi che per quanto la riguarda l’unico esercizio fisico che
pratica e che trova tollerabile è lo schiacciare i pulsanti del telecomando
della Tv. E ha ripetuto con effettiva scioltezza il gesto delle dita…
La
colazione, comunque, è stata un vero inno alla gentile sovrana della zona, la
nocciola: torta di nocciole squisita (non si aggiungono né farina, né uova,
sicché è estremamente friabile, ma conserva tutto il sapore del frutto);
cornetto ripieno alla crema di nocciola, varie creme di nocciola da
spalmare…Tutto questo nel mezzo di due caffè: ho cercato, infatti, di assumere
un’aria più familiare e rassicurante agli occhi della padrona di casa,
accettando il secondo caffè che non ha mancato di propormi.
La
sera, da Maurizio, ho completato la mia full
immersion ordinando, al posto del formaggio, un dessert. Gli ho detto,
sornione, che, scartando decisamente l’insignificante panna cotta, ero indeciso
fra il “mattone alla nocciola” e il “bonet con variazione” (ovviamente la
variazione consisteva nella nocciola in sostituzione dell’amaretto). Ha subito
capito l’antifona e mi ha servito un assaggio di entrambi. Superbi.
Il
giorno dopo non ho potuto che utilizzare la copiosa dose di grassi e
carboidrati come carburante sul “sentiero della nocciola”, che misura tredici
chilometri, con un notevole dislivello, in quanto dai settecento metri di
Cravanzana scende ai due-trecento della Val Bormida per poi risalire nella
“capitale della nocciola”.
Sì,
dovevo andare a Murazzano e a Mombarcaro, i paesi tra i quali era collocato il
comando della I divisione, le “brigate Garibaldi”, tra le cui fila Johnny –
come era capitato allo stesso Fenoglio – incomincia la sua lotta di Liberazione.
Dovevo capire questa storia dei “rossi” e degli “azzurri”. Qualche anno fa
avrei ancora avuto un moto quasi istintivo di perplessità, se non addirittura
una reazione di rigetto, a sentir parlare di uno scrittore, divenuto poi icona
della letteratura resistenziale (suo malgrado), che preferisce i partigiani
badogliani, gli “azzurri” appunto, alle gloriose brigate Garibaldi! E che nel
1946 si schiera con la monarchia (e quale oltraggio questo alla mia stessa
storia familiare e alla mia nascita, si può ben dire, sotto la “stella” della
Repubblica!). Ma oggi, dopo aver percorso, per dirla con Pietro Chiodi, tutto
l’amaro cammino della sinistra libertaria e non comunista, dopo esser divenuto
quasi un esule dalla sinistra tout court,
oggi questa storia volevo proprio approfondirla.
Murazzano
non dista molto da San Benedetto Belbo, ma è proprio alla sua altezza che,
risalendo il Belbo, si vede il fiume allontanarsi
dal poggio dove sorge Murazzano, con una brusca e larga svolta. Come se il
torrente tanto caro a Fenoglio, volesse pure lui evitare il paese dove avvenne
il suo primo “imbandamento”, quello tra i “rossi”. Murazzano, pertanto, fa da
spartiacque tra la valle Belbo e il bacino del Tanaro ed è verso quest’ultimo
che sembra inclini la sommità del borgo, con la sua torre trecentesca e i
ruderi del castello. Murazzano, peraltro, riserva non poche sorprese: risalendo
la stretta e ripida strada che porta al centro storico, si notano palazzi
signorili e architetture quasi nobili, accanto alle rustiche case di pietra di
Langa. Un santuario ai margini dell’abitato conserva addirittura una madonna
fiamminga, del Seicento, donata al paese dagli Spinola, che erano al servizio
del re di Spagna. Il borgo ospita manifestazioni culturali, ha una biblioteca e
la piazza è animata da caffè, osterie e persino veri e propri negozi, cosa del
tutto inconsueta nei paesi dell’Alta Langa. Non a caso, nel libro si legge che Johnny
vorrebbe fare un salto al paese, dalla base partigiana che si trovava più a
valle, per rifornirsi di generi di conforto (sapone da barba, calze,
sigarette…). Il permesso gli viene però negato dall’inflessibile commissario
politico Nemega, con malcelata irrisione per tali rilassatezze borghesi.
Per
una volta, invece, decido di indulgere alle rilassatezze borghesi anche a
pranzo, visto che trovo aperta l’osteria Ra
ca’d baruc. Non ho idea di cosa significhi il nome dialettale, che per me ha
persino vaghe assonanea bibliche, e purtroppo dimentico di farmelo spiegare dai
gestori. L’osteria sta in una casa di pietra di Langa, nel mezzo del centro
storico, una casa bellissima nella sua semplicità. Ma, ecco un’altra delle
insospettabili sorprese di Murazzano, propone un menu che rivisita in modo
creativo la tradizione! E’ tuttavia difficile andare oltre i cinque antipasti:
vitello tonnato senza maionese, crepes di zucchine con fonduta di Murazzano,
polpettine in agrodolce, trota salmonata affumicata in salsa di arancio e
addirittura parmigianina di melanzane!
Non
resta che ritornare verso la base – la nostra base di Cravanzana, non certo
quella del commissario politico Nemega! – prendendo però la strada che fa il
giro largo, seguendo la curva del Belbo, e che passa per Mombarcaro. Inutile
sperare di avvistare qualche rara pecora dell’Alta Langa, razza quanto mai
rustica. Lo scarso pregio della lana, che non ha praticamente mercato, ne rende
poco proficuo l’allevamento. E’ un peccato, visto che il latte, invece, si
presta ad essere trasformato in eccellenti formaggi.
Mombarcaro
sfiora i 900 metri ed è quindi il “tetto delle Langhe”. E’ un paese meno
interessante del precedente, ma con una piazzetta-belvedere che vale da sola
l’ascesa fin quassù. Si può ben immaginare che per quelli della I Divisione, la
“Stella rossa”, le “Brigate Garibaldi” fosse un punto d’orgoglio il controllo
di questo nido d’aquila: da quassù potevano illudersi di dominare non solo il
nemico conclamato, i nazifascisti, ma anche l’antagonista malcelato, le
divisioni “azzurre” dei leggendari comandanti “Lampus” e “Nord”. Tuttavia, è
proprio a Mombarcaro che essi subiranno una grave sconfitta dai fascisti:
Johnny qui perderà, dolosamente, alcuni dei suoi primi compagni di avventura,
ma la rotta gli darà la possibilità di passare tra le fila degli “azzurri”.
La
decisione definitiva era probabilmente maturata per “colpa” di quel commissario
politico Nemega, di cui si diceva. Al’epoca tutte le formazioni partigiane
avevano un “commissario politico”, emanazione dei rispettivi partiti del CLN. I
commissari politici, pur non essendo spesso militari di carriera, erano stati
riconosciuti di pari grado rispetto ai comandanti militari e, tra le fila dei
rossi, avevano di fatto un’autorità anche superiore. Dietro il Nemega in cui si
imbatte Johnny, dietro la sua tracotanza, sta dunque l’ombra del “grande”
partito comunista. Nemega, ben presto, iscrive d’ufficio Johnny al corso di
marxismo (diciamo pure marxismo-leninismo nell’ortodossia staliniana!), corso
che cura personalmente. Johnny si sottrae: queste sono cose delle quali,
eventualmente, ci si dovrà occupare “dopo”. “Dopo” aver sconfitto il
nazifascismo, dopo aver liberato l’Italia, quando le diverse correnti politiche
che si sono unite nella Resistenza si fronteggeranno liberamente, civilmente,
nel regolato conflitto politico democratico. Come avviene nelle grandi
democrazie, negli amati paesi anglosassoni (Johnny, come Fenoglio, è un
anglicista e quasi un ‘anglomane e ogni volta che c’è qualcosa di non effimero
e di non banale da pensare lo pensa in inglese piuttosto che in italiano). Ma
per Nemega, no, non è così: queste cose vanno fatte “prima”, la formazione
ideologica – l’indottrinamento – e
l’inquadramento consapevole nei ranghi del partito – il proselitismo - sono le
condizioni preliminari per la lotta al fascismo. A nulla servirebbe abbattere
il fascismo, se questo non servisse a costruire l’Italia comunista o,
quantomeno, il grande partito comunista capace di porre il suo marchio sul
paese liberato. Per questo, non ci si può certo accontentare di vestire delle
buone divise militari fornite dagli inglesi e di esporre, sobriamente, qualche
bandiera tricolore, come fanno gli “azzurri”: i “rossi” devono distinguersi
dagli altri partigiani, devono avere sul berretto e sull’uniforme la loro bella
stella rossa e marcare il territorio con le loro bandiere con la falce e
martello. Sull’accampamento di Nemega svetta così una gigantesca bandiera
comunista. Una bandiera che si presta all’ironia degli stessi uomini di Nemega
– che in molti casi non sono affatto comunisti e sono lì solo per odio al
fascismo: è così grande – dicono - che arriva a vederla persino Mussolini da
Salò!
Questo
voler marcare il territorio con simboli e bandiere deve proprio esser giunto
fino agli estremi e un po’ ridicoli epigoni odierni di questa grande tradizione
comunista e non può non richiamarmi alla mente l’irritazione che questi ultimi
“cosacchi” mi suscitano da anni, proprio per questa loro mania... Ma non
confondiamo ciò che è stato comunque grandioso nella sua tragicità e nel suo
errore, con ciò che è solo patetico…
Chi
era Nemega nella realtà? A differenza di Nord e Lampus non ho trovato traccia
di lui nella storia reale e non ho saputo se sia caduto in battaglia o abbia
potuto sventolare la sua bandiera rossa il 25 aprile e se abbia proseguito la
sua carriera politica, magari divenendo un deputato del PCI, un membro della
Direzione o addirittura della Segreteria… il personaggio letterario, tuttavia,
riesce a vincere le mie residue diffidenze nei confronti di quegli altri
partigiani, gli “azzurri”: sì, davvero con lui, con Nemega, si era in the wrong part of the right side!
A
Serravalle Langhe non ci vado seguendo le tracce di Fenoglio, o meglio del suo
alter ego Johnny, e in questo momento mi sfugge pure se qui si sia svolta
qualche azione memorabile di quel drammatico periodo. A Serravalle Langhe mi
costringe ad andarci Maurizio che ha conservato questa abitudine “borghese” del
giorno di chiusura! Lì si trova, infatti, un’altra eccellente tavola di Langa.
Da Cravanzana occorre percorrere una strada stretta e ripida che sale sullo
spartiacque che divide la valle Belbo dalla Valle Tanaro. E’ una sera piovosa e
il breve tragitto è piuttosto tormentoso, ma giunti nel borgo, la pioggia cessa
e si svela, tra le nubi basse e la nebbia, l’ennesima bellezza di questa landa.
Intorno al centro storico è stato allestito uno splendido percorso circolare
panoramico che, se il tempo fosse clemente, offrirebbe squarci fino alle Alpi,
lasciando scorgere il Monviso.
La
mia meta è il ristorante La coccinella.
Il nome, piuttosto banale e da agriturismo, un po’ mi sorprende, ma scoprirò
poi che il ristorante è stato rilevato da tre fratelli, che lo hanno messo saldamente sulla buona strada delle materie
prime di qualità, della sapienza e leggerezza delle preparazioni e di una
sobria eleganza, ma hanno preferito mantenere la vecchia insegna. C’è anche un
menu di pesce, perché si dice che da qui, dal circuito panoramico, nelle
giornate terse si possa vedere anche il mar Ligure. Oggi, però, non si vede
neanche l’altro lato della strada e dunque vado senza dubbio alcuno sulla
cucina di terra e di territorio. Anche perché non è di tutti i giorni trovare
una insalata di ovuli, certamente un fungo “regale”. Un mio omaggio al
monarchico Fenoglio! I tajarin ai porcini, dai quali mi sono lasciato tentare
nella giornata piovosa e per comporre un menu monotematico, mi confermano invece
nella mia idea: è un matrimonio difficile, se non proprio mal riuscito. Il
finale è invece degno dell’esordio: un magnifico croccante al gianduia con una
inusitata e preziosa granita al barolo chinato! Ho anche bevuto un ottimo
Arneis. Sì, perché le Langhe non producono solo i grandi rossi che tutti
conoscono, ma anche questo pregevole bianco. Le basse Langhe almeno, e il
Roero, perché da queste parti le viti devono rassegnarsi a cedere il posto ai
noccioleti.
I
“rossi” e gli “azzurri”…ecco la prima verità sulla Resistenza, che Fenoglio e
l’Alta Langa mi disvelano; una verità tutt’altro che eroica e gloriosa e ben
lontana dalla retorica celebrativa.
Due
eserciti che combattono lo stesso nemico, ma restando ben separati l’uno
dall’altro. Che non arrivano ad augurarsi l’insuccesso dell’altro “esercito” –
salvo casi evidentemente patologici – ma gioiscono a denti stretti dei suoi
eventuali successi. Che diffidano e sospettano e si preparano alla resa dei
conti, dopo la Liberazione e, se fosse il caso, anche prima. Cosa che del resto
era accaduta nella guerra civile spagnola, pochi anni prima, con quelli del
POUM – “trotzskisti” ma senza il placet di Trotzsky – e della CNT (gli
anarchici) liquidati, a un tratto anche fisicamente, dagli stalinisti, mentre
si doveva combattere insieme Franco.
Una
resa dei conti che sulle colline di Langa stava anche per accadere; dopo
l’effimera presa di Alba, dell’ottobre del 1944, i nazifascisti scatenano una
terribile controffensiva che si abbatte prima sugli “azzurri” per un mero
accidente geografico e strategico (occupavano le postazioni più vicine alla
città e alla Bassa Langa, mentre i “rossi” stavano più dietro e più in alto).
Gli “azzurri” si sbandano e molti per sfuggire al rastrellamento spietato
“passano il fiume” – il Tanaro. Per qualcuno questo segnerà la fine della
guerra partigiana, ma tanti altri – appena attenuata la morsa dei nemici –
riguaderanno il Tanaro in attesa di riprendere la lotta, alla fine
dell’inverno. I “rossi” guarderanno però con sufficienza e quasi con disprezzo
questi partigiani, accusati di aver ceduto troppo facilmente all’urto nemico
(quando toccherà però a loro reggere l’offensiva nazifascista, resisteranno
soltanto “mezz’ora” come Fenoglio annota, in modo giustamente spietato), e
cercheranno di cogliere l’occasione per disarmarli e finanche imprigionarli. E’
l’unica volta in cui vediamo Johnny abbandonarsi a una violenza gratuita,
picchiando selvaggiamente un partigiano “rosso” che cercava di indurli a
recarsi al suo comando (dove sarebbero stati appunto disarmati e imprigionati).
Anche qui, è difficile non “attualizzare” e non pensare all’ira – per fortuna
non ancora trascesa in violenza – suscitata da certi attuali giovani cosacchi
che pretendono di giudicare la tua “militanza”, le tue “lotte”…
Ho
ormai riguadagnato la mia stanza alla “Locanda degli Sfizi”: è spaziosa, con un
balconcino laterale e una finestra di fronte al letto. Ha un arredamento che
non sarà di antiquariato pregiato, ma sa di antico…La signora starà facendo la
sua ginnastica sul telecomando a quest’ora… pensare, che un caffè l’avrei preso
volentieri! Mi avrebbe aiutato a schiarirmi ancor più le idee su questa storia
dei “rossi” e degli “azzurri”…
Cerco
comunque di imparare ancora qualcosa, sulle tracce di Fenoglio, che certe cose
le ha capite ben prima di me, forse per un suo maggiore acume, forse soltanto
per le esperienze ben più dirompenti che ha vissuto, forse perché prima di me
ha scoperto il mondo anglosassone… In definitiva, quale era la vera differenza
tra i “rossi” e gli “azzurri”? Non si può certo rispondere che si trattasse di
una differenza ideologica e nemmeno di una differenza politica, nel senso forte
del termine: questo sarebbe precisamente un modo di ragionare da “rossi”,
questo significherebbe pensare con la testa del commissario politico Nemega! Me ghenoito!, direbbe qualcuno. Mai non
sia! Comunque, quel che è certo è che tra gli “azzurri”, nelle formazioni
autonome si era almeno liberi dalla peste dei commissari politici: commissari
politici non ne avevano, non ne volevano e non ne tolleravano. E per questo
erano a loro volta mal sopportati dal CLN e dai suoi partiti. Il CLN di Cuneo
si mostrò persino riluttante a riconoscere i gradi militari al comandante Nord
(che pure era un ufficiale di carriera), sostenendo che non lo conoscevano
abbastanza. E Nord, di rimando, rispose che neanche lui aveva saputo granché
del CLN di Cuneo, in tutti quei mesi trascorsi sulle colline a combattere i
fascisti…
I
“rossi” e gli “azzurri” erano diversi, indubbiamente. Si trattava forse di una
differenza di “umanità”? Certo, ci sono svariati indizi in tal senso: quando i
“rossi” ad esempio vorrebbero attendere i fascisti su nel paese, per sfruttare
un vantaggio tattico, cogliendoli di sorpresa, Nord, il grande comandante degli
“azzurri”, si mostra invece disposto a rinunciare a quel vantaggio, per non
esporre gli abitanti del borgo. Anche fuori dal contesto bellico, le ragioni
della “politica”, per i “rossi”, sembra che abbiano sempre avuto più valore
delle preoccupazioni “umanitarie” (“piccolo borghesi”, si sarebbe detto un
tempo).
Ma,
in verità, la differenza sostanziale fra gli uni e gli altri, per Fenoglio, nel
suo disincanto ideologico e forse nel suo tipico understatement anglosassone, sembra ridursi a una diversità di
“stile”: i capi badogliani sono ben più eleganti, civili, gentlemanlike, e anche vagamente anacronistici nei loro modi. Se
non ci fossero motivazioni politiche, il fascismo lo combatterebbero comunque,
per il suo cattivo gusto, per la sua volgarità e grossolanità. Certo, è questa
una pista di riflessione tutt’altro che trascurabile: con l’età e il
disincanto, con il rifiuto di ogni moralismo e bigotteria, la differenza fra
ciò che è condivisibile, se non ammirevole, e ciò che è detestabile, pare anche
a me, tante volte, che sia una differenza estetica, piuttosto che politica o
morale.
Ma
forse c’è anche qualcosa di più profondo, dietro questa cornice estetica, di
ben più profondo degli stessi conflitti politici e ideologici: c’è una diversa
antropologia. E sul piano antropologico, o se si vuole della antropologia
politica, si riscontrano insospettate affinità trasversali: tra comunisti e
fascisti, ad esempio, ma anche, d’altro canto, fra socialisti liberali e
liberali conservatori…E se l’isolato, irregolare, eccentrico Fenoglio avesse
colto o almeno vagamente intravisto prima e meglio di tanti l’essenza di tutto?
Questo
incomincia forse a chiarire le pagine ancora irrisolte di una modesta biografia
individuale, ma illumina ancora così poco la biografia della nazione, della
nostra Repubblica, “nata dalla
Resistenza”.
Molti,
in Italia, conoscono Bra da quando Carlin Petrini vi ha fondato lo slow-food. Inizialmente era una
“costola” della famosa e famigerata ARCI: ARCI-Gola slow food, si chiamava.
Tutto bene, finché nel “partito” si poteva pensare che fosse un modo ulteriore
per fare proselitismo in favore della “causa”, finché si poteva leggere nella
iniziativa la volontà, nel mutare dei tempi, di coprire un'altra branca
dell’associazionismo o di fondare una piccola lobby, quella dei buongustai,
certo non paragonabile alla formidabile lobby dei cacciatori, ma comunque con
una sua ragion d’essere ed utilità. Ma l’equivoco si è chiarito, quando Carlin
Petrini ha preso a spiegare che l’iniziativa non era strumentale alla alta e
grande politica, ma era in se stesso “politica”, perché è politica occuparsi di
terra, di produzione di qualità, di microsistemi ed ecosistemi territoriali, di
“ciclo corto” e di produzione di “prossimità”. E in tal senso c’è più politica,
politica sana, in una buona osteria che non in una riunione del comitato
centrale del partito. Si sono allora succeduti i “commissari Nemega” che hanno
denunciato, allarmati, questo “ritorno al privato” – ormai non si parlava più
di “deviazioni piccolo borghesi” – o che hanno pontificato –
rossanarossandeggiato, bisognerebbe dire, tanto per coniare un neologismo – sul
fatto che queste cose non facevano nemmeno il solletico al “sistema” ed anzi
finivano per essere funzionali alla sua riproduzione. E forse anche Petrini
avrà pensato di essere finito in the
wrong part…
Tutto
ciò, tuttavia, è superato: magari si accendessero ancora dibattiti su cose come
lo slow food! Tanti ne ignorano l’esistenza, tanti altri qualcosa ne
recepiscono, ma come di cosa che è trendy
e fa molto radical-chic. Il povero
Carlin è finito cooptato, suo malgrado, nel politically
correct. E allora a Bra non vado a mangiare dove pure sarebbe ovvio andare
per uno che prese la tessera con la lumachina fin dagli albori
dell’associazione. Non vado in Via della Mendicità Istruita, nei locali della
“osteria moderna” Boccondivino dove lo slow food venne fondato, dove certo si
mangerà ancora benissimo e in piena sintonia con la “filosofia” dello slow
food, ma dove sembrerà di entrare in un museo, rischiando pure di sedere
accanto a una umanità non meno insopportabile di quella dei commissari politici
Nemega. Scelgo “Battaglini”, ristorante storico, di lunga e mai scalfita
tradizione, l’istituzione gastronomica di Bra, prima che qui nascesse lo slow
food.
Non
si può che incominciare con la salsiccia di Bra – una salsiccia fresca che
tuttavia, diversamente dagli usi nostri e di tante altre regioni, non si cuoce
ma si mangia rigorosamente cruda, in modo da gustarne appieno la morbidezza, la
fragranza, la sapidità. Un’altra peculiarità della salsiccia di Bra è che è di
carne bovina, e di pregiate razze autoctone, e non suina! Un immancabile
accostamento è quello con la carne cruda all’albese, carne della pregiata razza
Fassona, battuta al coltello e poi sostanzialmente anche se brevemente marinata
(sicché tanto cruda alla fine non è). Molti hanno pregiudizi del tutto
immotivati – a parte la scelta rispettabile del vegetarianismo – nei confronti
della carne cruda. La minima audacia dell’assaggio demolirebbe certamente
questi loro pregiudizi.
Proseguo
con gli agnolotti, al sugo di arrosto, perché stasera sono in vena di
ortodossia e sarei anche disposto a seguire un corso di Nemega! Il vino è un
degnissimo Barbera d’Alba. A Bra non si può che concludere con il formaggio,
visto che da secoli la città è luogo di smercio dei formaggi prodotti sulle
alture ed ora è centro della iniziativa “cheese”,
sicché una città di pianura quale essa è ha donato il suo nome persino a un
formaggio d’alpeggio, il Bra! L’assaggio prevede il Bra nelle sue due versioni,
“morbido” e “duro”, ossia stagionato, e il Rasera, altra gloria locale, dal
gusto più deciso del Bra.
Per
togliere davvero il velo dinanzi alla Resistenza non basta di certo ciò che
finora abbiamo scoperto e creduto di capire. Bisogna evitare di correre subito
al termine glorioso della vicenda, al 25 aprile e si deve fronteggiare l’orrore
di quell’ultimo interminabile inverno. Prima di sprofondare nell’incubo ci concediamo
ancora un indugio, a Santo Stefano Belbo, quasi come fosse l’ultima sigaretta
prima di affrontare il patibolo.
Santo
Stefano Belbo è attaccato più che alla memoria di Fenoglio a quella
dell’”altro”, di Pavese. Pavese nacque qui, infatti, o meglio sulla provinciale
per Canelli, lo “stradone”. E nell’albergo della Posta, un tempo affacciato
sulla immensa piazza centrale, lo scrittore fa risiedere il protagonista de La luna e i falò (mutando però il nome
dell’albergo). Per Fenoglio, Johnny e i partigiani, il grande borgo della bassa
val Belbo non era però meno importante. Quando ci si arriva, la grande piazza,
l’inconsueta animazione fanno subito capire che questo è da secoli un luogo di
mercato, di scambi e transazioni di ogni tipo, di feste, bagordi e
intrattenimenti che attiravano la popolazione delle campagne e dei più miseri
paesi vicini. Fu così anche durante la guerra e la Resistenza. A Santo Stefano
i partigiani, appena si poteva, scendevano a divertirsi, “rossi” o “azzurri”
che fossero: era “il paese-luna park”. E nel divertimento erano ovviamente
comprese le ragazze. Quelle del posto si sapevano disponibili. Ma qui
ritroviamo inaspettatamente la separazione fra i due “partiti”, sebbene nel suo
aspetto più leggero. Le ragazze, forse ad evitare che scoppiassero litigi fra
gli uni e gli altri, litigi che potevano facilmente e comprensibilmente
degenerare in fatti di sangue, mostravano esplicitamente la loro predilezione,
indossando nei capelli un nastro rosso oppure un nastro azzurro! Tuttavia, non
di rado accadeva che una di loro passasse dal nastro di un colore a quello del
colore opposto e questo finiva comunque per suscitare liti più o meno gravi e
scontri più o meno estesi fra le due fazioni!
Dopo
la caduta di Alba, all’approssimarsi del terribile ultimo inverno, le cose
mutarono anche a Santo Stefano. La città non fu mai occupata stabilmente dai
fascisti, che però stabilirono un fortissimo presidio nella vicina Canelli,
sicché a Santo Stefano si viveva ora nel costante terrore delle incursioni fasciste,
che effettivamente avvenivano di frequente e in modo imprevedibile. Tutto
quindi terminò, il “luna park, i nastri delle ragazze, le liti fra partigiani,
e la cittadina divenne buia, opprimente e minacciosa.
Salgo
a Mango. E’ una tappa principale del mio itinerario fenogliano. A Mango, Johnny
si arruola nelle fila degli “azzurri”, agli ordini di Pietro Ghiacci (“Pierre”,
nel romanzo, perché questo era il suo nome di battaglia). A Mango conosce
Pietro Balbo, il leggendario comandante “Nord” dei badogliani. A Mango per un
certo tempo ci sarà anche un comando partigiano allocato nella grande fortezza
che è ora la sede dell’”Enoteca regionale colline del Moscato”. Da Mango si
parte per le azioni militari, a Mango si torna – anche nel periodo più buio e
dopo che i fascisti l’avranno occupata per un breve tempo - per avere notizie
dalla popolazione circa i loro movimenti, per ascoltare Radio Londra da
“Costantino”, per rifornirsi di generi di necessità. Nei pressi di Mango, alla
Cascina delle Langhe o a Valdivilla, tutto accadrà e tutto avrà la sua
conclusione. Il sindaco, ovviamente, ha piazzato le targhe di ottone che
ricordano Fenoglio in vari punti del paese
e del contado circostante, ha costruito il suo bravo itinerario
fenogliano. Ma nonostante ciò, di quei giorni, di quelle vicende, sembra che
non ci sia più memoria. Mi chiedo inutilmente dove era la farmacia, dove la
bottega, dove la casa di Costantino, l’unico che era riuscito a nascondere un
apparecchio radio, sottraendolo al saccheggio fascista e dove si andava ad
ascoltare Radio Londra. Il paese giace sonnolento nell’ora meridiana; solo una
vecchia signora va e viene dall’uscio della sua casa ristrutturata… Penso alla
“vecchia” di Cascina della Langa (che poi aveva appena superato i cinquanta, ma
nell’universo partigiano, popolato di tanti ragazzi adolescenti o poco più, un
venticinquenne era già più che maturo, un trentenne o era un grande comandante
o si trovava già al limite dell’età per “imbandarsi”, un quarantenne era una
palla al piede e destava finanche sospetto…), la straordinaria vecchia che
ospitava, nutriva, proteggeva i partigiani, con la sua inseparabile
“cagna-lupa”… anche a Cascina della Langa c’è un prima e un dopo: da luogo di
ristoro e sicuro ricovero a luogo spettrale.
Tutto
dunque cambia con la sciagurata occupazione di Alba nell’ottobre del 1944. Chi
volle prendere Alba, causando l’immancabile reazione nazifascista e la
catastrofe che ne sarebbe seguita? Fu un tragico errore di calcolo? Si credeva
davvero di poterla tenere fino alla fine della guerra, si credeva davvero che
questa cittadina eretta a repubblica partigiana avrebbe resistito da sola,
piccola isola di Italia libera, mentre tutta il resto del paese, dalla “linea
gotica” in su, era ancora sotto la morsa nazifascista? O si volle un’azione
“gloriosa”, pur sapendo che non sarebbe durata? O si volle sventolare una
bandiera, pur sapendo che sarebbe stata presto travolta e con essa pure tante
altre bandierine che fino a quel momento si erano innalzate più o meno sicure
sulle colline circostanti e nelle valli Belbo e Bormida? A naso, sembra questo
il tipico e nefasto stile dei “rossi”. Fenoglio, però, non denuncia con nomi e
cognomi i responsabili della disastrosa impresa e si limita a farci sapere che
non appena occupata la città, i comandanti badogliani Nord e Lampus ritornano
subito sulle colline, perché le colline, e non la città, sono importanti, e
vanno difese ad ogni costo.
A
partire da novembre, comincia quindi l’incubo: i fascisti, fortemente
appoggiati dai tedeschi, non si limitano a riprendersi Alba, ma risalgono in
forze le valli Belbo e Bormida, entrano in ogni borgo, rastrellano ogni bosco,
ogni rittano, ogni cascina, in una spaventosa caccia all’uomo. I partigiani
sbandati, restano in gruppetti di quattro o cinque, poi di due o tre, poi, in
molti casi, da soli. Così accadde a Fenoglio e così accade al suo alter ego
Johnny. L’inverno si trascorre nascosti, andando raminghi, nel terrore di
avvistare una pattuglia, con nelle orecchie il suono macabro delle raffiche che
segnalano le fucilazioni sommarie dei catturati, tra una fuga e un’altra, un
rifugio di fortuna che presto non è più sicuro e deve essere rimpiazzato da un
altro, incerti sulla direzione da prendere e consapevoli che quasi certamente
si tratta di scegliere solo “il posto di morte”, se in valle Belbo o in valle
Bormida. Ospitati e scarsamente nutriti da una popolazione civile che ora è
divenuta fredda, scostante, diffidente, comprensibilmente timorosa. Quei
partigiani che prima erano accolti, festeggiati, coccolati come eroi, ora sono
mal sopportati, se non addirittura traditi e venduti dalle spie che spuntano
come funghi dopo la pioggia. E stiamo parlando della zona italiana dove
probabilmente è stato più alto il consenso e il sostegno dei civili alla lotta
partigiana!
E
poi ci sono “loro” – i fascisti e i tedeschi – che appaiono onnipotenti e
onnipresenti, che spadroneggiano ovunque, saccheggiano, devastano, catturano,
torturano, uccidono.
E
i comandanti, Nord che chissà dove va pure lui ramingo; Lampus che è
privilegiato dai lanci degli inglesi e che certo, come dice un personaggio, è
un “buon comandante”, ma buono soprattutto con se stesso, in quanto i
rifornimenti se li tiene per sé (e per le sue truppe, ovviamente).
Già,
gli inglesi, gli Alleati: sono fermi alla “linea gotica” e fanno sapere che non
ci si muoverà se non a primavera, che solo a primavera scatterà l’offensiva
finale e definitiva. E ai partigiani fanno sapere che fino ad allora, per loro
non esisteranno più partigiani, che quindi è bene che si affrettino a
“sbandarsi”, a tornare alla vita civile, in attesa di “reimbandarsi” alla fine
dell’inverno in vista del gran finale. E’ il famoso e tragico “proclama
Alexander” che Johnny ascolta nell’ultima sortita a Mango dalla radio di
Costantino. E che suscita un’ira sacrosanta e feroce in lui e in ogni
partigiano: “sbandarsi”, come se non avessero già provveduto i nazifascisti a
“sbandarli”! Tornare alla vita civile! Già, consegnarsi a quei bravi camerati che
gli stavano dando una caccia spietata, magari dicendo loro: sapete io non ho
risposto alla vostra cartolina di reclutamento, mi sono voluto andare un po’ a
divertire in montagna, ho giocato a fare il partigiano per qualche mese, ma ora
è inverno, fa freddo, e ho deciso di seguire il consiglio del generale
Alexander. Quindi, vi prego, trovatemi un alloggio al calduccio, con un buon
vitto, che poi a primavera tolgo il disturbo, risalgo sulle colline, riprendo a
tirarvi mitragliate e nemici come prima!
Ecco
cosa accadeva su queste colline, nell’ultimo, interminabile, atroce inverno di
guerra. Tutto è stato rimosso, dimenticato o trasfigurato dall’evento della
Liberazione, pochi mesi dopo. Ma nulla si comprende di quell’evento e
soprattutto dell’Italia che ne doveva nascere se non si ha il coraggio di
guardare fino in fondo nel gorgo nero di quell’inverno.
Per
sostenere una così fosca e angosciosa visione, per non fuggire anche io, ho
dovuto lasciare le solitudini delle Alte Langhe e spostarmi in un luogo quasi
mondano, almeno rispetto ai “Deserta Langarum” tra i quali mi aggiravo. La mia
camera all’hotel “Il Grappolo d’oro” ha una magnifica, vasta terrazza che
affaccia proprio sulla piazzetta di Monforte d’Alba. C’è sole, oggi, e
un’animazione quasi turistica. Stranieri soprattutto. Non siamo più nel regno
del nocciolo, ma in quello della vite, a pochissimi chilometri o solo a
centinaia di metri dai regali vigneti di Nebbiolo da cui nasce il Barolo. Anche
Monforte, peraltro, avrebbe le sue storie crudeli da narrare, ma sono molto più
antiche e parlano di un popolo che è stato del tutto cancellato: qui i catari
ormai sono solo il nome di un sentiero o quello di un bed and breakfast.
Appena
sotto la piazza, un sobrio ingresso conduce al fasto dell’albergo-ristorante
“Giardino. Da Felicin”, tra i migliori delle Langhe. L’hotel è caro per le mie
tasche – e poi il “Grappolo d’oro” è già una sistemazione più che dignitosa,
direi! - ma il ristorante, usando qualche accortezza, può essere violato. La
sala è elegante, la clientela, ancora una volta, soprattutto straniera, inglesi
e tedeschi. Felicin è un signore alto e ben piazzato, con due autorevoli baffi,
e porta molto bene i suoi anni. Passa di tavolo in tavolo per accertarsi che i
suoi clienti siano soddisfatti, intrattenendoli brevemente. Lo stesso fa la signora
che poi scopro essere sua moglie, muovendosi agilmente e leziosamente sui
tacchi a spillo. A prendere le ordinazioni, a servire i clienti, sono una
schiera di camerieri e cameriere, né mancano un paio di sommelier. La
premurosità che tutti hanno non sconfina mai nell’invadenza. In attesa del
primo, mi fanno omaggio di una piccola entrèe,
una freschissima zuppetta estiva di pomodori e semi di zucca, sorprendentemente
gustosa. Ho ordinato delle trofie con guanciale,
mandorle e castelmagno, che trovo ordinariamente buone. Sopra ci ho bevuto due
calici di due diversi tipi di Nebbiolo, il primo più fresco – Felicin mi ha
garantito che è il suo Nebbiolo preferito – il secondo più strutturato.
Assolutamente corretti, ma il Nebbiolo di Patrusso (e di Maurizio) resta
superiore! L’eccellenza sarà invece raggiunta con il dessert, la degustazione
di dolci della casa: meringa ai frutti di bosco, gianduiotto al caramello con
colata di cioccolato fondente, bunet, gelato alla nocciola (tanto per non
perdere le buone abitudini!). Un quartetto superbo! E con il caffè arriverà
anche un’ottima piccola pasticceria, preparata, come mi rivela Felicin con una
punta di orgoglio, da sua moglie. Il conto sarà onestissimo.
Sull’amena
terrazza del mio albergo, nella luce del lungo crepuscolo estivo, posso
riprendere il filo dei miei pensieri e quell’indagine sulla Resistenza, sulle
origini dell’Italia repubblicana e democratica, che ormai è giunta al suo punto
cruciale. Se quella ricordata prima era la situazione ancora a Natale del 1944,
anzi, ancora a gennaio e a febbraio del 1945, che cosa bisogna pensare della
primavera di Liberazione che ne seguì? E’ possibile che quei fascisti ancora
così numerosi e tracotanti si siano dissolti nel giro di poche settimane, come
la neve al disgelo? Non si saranno piuttosto mimetizzati, adattati, riciclati,
i molti sopravvissuti almeno? E’ credibile che “loro” non abbiano avuto parte
alcuna, se non nella nascita, nello sviluppo e nella crescita successiva della
Repubblica? E se pure l’Italia antifascista non fosse nata per nulla da “loro”,
ma solo da “noi”, non nasceva forse
questa Italia con la ferita già aperta di rivalità e conflitti, neanche tanto
latenti, e senza quella radicata cultura democratica che avrebbe consentito di
gestirli in modo civile e regolato quei conflitti? Perché, infatti, chi eravamo
“noi”? i “rossi”, gli “azzurri”, ma anche, e soprattutto, i “bianchi”, quei
cattolici meno presenti nella Resistenza (e comunque non assenti) ma che
avrebbero facilmente conquistato una posizione dominante rispetto a tutti gli
altri. Ma i neri da una parte e i rossi, gli azzurri e i bianchi dall’altra
erano pur sempre minoranze che si fronteggiavano. Nel medio e lungo periodo il
carattere dell’Italia non l’avrebbero deciso loro, ma la grande zona grigia
della popolazione civile. E anche in questo caso, quell’inverno era carico di
funesti presagi. Se persino nelle Langhe, tanta parte di questa popolazione si
era intiepidita, se non raggelata del tutto, nei confronti dei partigiani, come
si può pensare che a primavera rinascessero un entusiasmo autentico, un
consenso consapevole, una partecipazione attiva e responsabile, le cose su cui
soltanto si potevano costruire solide fondamenta per la nuova Italia?
No,
seguendo Fenoglio-Johnny fin dentro il suo estremo, gelido, pauroso rifugio di
Cascina della Langa, ponendoci nell’angolo visuale di quell’ultimo inverno, il
“Vento del Nord” che si leverà a primavera non può che sembrarci una tempesta
benefica, ma passeggera ed effimera. La Repubblica Italiana, la Repubblica
democratica e antifascista nascerà da quell’inverno di ghiaccio e di terrore,
molto più che dalle gloriose giornate di aprile.
Chissà
se esiste ancora Cascina delle Langhe. Il pc è sul tavolino del terrazzo,
faccio una ricerca su google, senza troppa speranza. E invece ho un sussulto:
“Cascina delle Langhe, il luogo più famoso di tutte le Langhe…”
Apro
la pagina…ora è un agriturismo, un agriturismo di lusso, con annessa Spa, sauna,
hammam, corsi di yoga e pilates, massaggi “estetici ed etnici”. Che cosa poi
saranno i massaggi “etnici”? Un massaggiatore nero per le donne e una
thailandese per gli uomini?
Meglio
pensarla distrutta dalle bombe degli alleati o dalle cannonate dei tedeschi.
Cascina delle Langhe non c’è più, ripeto fra me e me, è finita come la vecchia
dei partigiani, come la sua adorabile cagna-lupa, come Ettore, l’amico di
Johnny preso dai fascisti, come lo stesso Johnny.
Ora
davvero non c’è altro da fare che accompagnare Johnny – e noi stessi –
all’epilogo di tutto: “la fine”, è il titolo che Fenoglio dà all’ultimo
capitolo del suo capolavoro.
Il
compimento della vicenda, tuttavia, non può dipanarsi dinanzi a me, mentre
ancora sono nelle Langhe, sebbene nella parte più confortevole e gaia della
regione. Sarebbe troppo. Devo mettere chilometri, città, campagne e montagne
tra me e le Langhe. Una sosta ai piedi del Gran San Bernardo, in un pittoresco
villaggio e in un rustico alberghetto e poi la salita e la discesa per il passo
e dinanzi ecco pararsi lo spettacolo dei prati, delle vette, delle case di
legno, di un paese che non ha conosciuto l’orrore della seconda guerra
mondiale. Ma non basta ancora. Indosso gli scarponi da montagna, carico lo
zainetto, impugno i bastoncini da trekking e mi avvio per il sentiero, prima
largo e dolce, tra erba e ghiaia, poi brullo, ripido, aspro, tra il fango e i
massi. Ma la fatica dell’ascesa è direttamente proporzionata al conforto che
cresce nell’animo.
Ora
sono pronto.
Più
di un critico ha notato che i vari personaggi di Fenoglio, i Milton e i Johnny,
muoiono sempre alla vigilia della Liberazione. Egli, è stato scritto, non
riesce proprio a traghettare nessuno di questi suoi alter-ego fino alla sponda
della riconquistata libertà. Un elemento legato all’incompiutezza di questi
scritti di Fenoglio? Un’efficace soluzione letteraria? Dopo quello che mi è
parso di capire mi assale il dubbio che la verità sia più profonda e più amara…
Il
comandante Nord aveva dato appuntamento al poggio della Torretta, per il 31
gennaio. Sarebbe stato il giorno del “reimbandamento”, l’inizio, o almeno il
prologo della riscossa e della offensiva finale. Una data “assurda”, secondo
Johnny, una data ancora nel pieno dell’inverno.
Ecco,
anche io sono là quel mattino, fantasma tra i fantasmi. Siamo tutti là, tutti
noi che ci siamo formati nel mito e nel culto della Resistenza. E’ davvero il
momento della verità.
I
partigiani sono solo poche decine e sono tutti malmessi: le barbe lunghe, i
visi smunti, le scarpe a pezzi, le divise logore e sporche, un lampo di terrore
che attraversa di continuo gli sguardi, i nasi gocciolanti di raffreddore, i
petti scossi così spesso dalla tosse. Anche il bel cappotto inglese di Nord è
sdrucito. Nord, tuttavia, fa un bel discorso, un discorso da vero capo, riesce
a infondere entusiasmo persino in quella turba così malconcia e nei contadini
che accorrono sempre più numerosi e cominciano anche loro ad applaudire e
inneggiare.
Ma
un passaggio è quello che più colpisce:
“Vi vedo legnosi e
intirizziti. Animo, dunque! L’inverno venturo saremo in pace, forse in una
bella camera, calda a 22 gradi, forse in vestaglia, forse in pantofole e forse,
pensateci! Sposati. Pensate che tragedia, che comica!” Tutti ridono. “Scommetto
la testa che ci assalirà allora una barbara nostalgia di questo terribile inverno
e piangeremo sì, piangeremo sulla sua memoria. Quindi: evviva questo inverno!”.
E tra gli hurrà generali, un vicino di Johnny che fa “Ha ragione. Che diamine faremo il prossimo inverno…”
Ecco
una prima traccia per trovare l’uscita dal labirinto… Johnny stesso ci fornisce
la seconda, quando, più tardi, sfumato il breve entusiasmo, raccoglie i suoi
pensieri:
“Johnny si coprì gli
occhi, accecandosi alla miseria della giornata. Quanto aveva sognato il
reimbandamento nei giorni più soli di dicembre e di gennaio, e questo era quel
sognato compire, quel sognato godere? Sognò di essere già con gli inglesi, era
già lontanissimo da questi compagni con cui era ancora a contatto di gomiti e
cosce, a operare per loro e non più con loro. Si risentì orribilmente a sentirsi
gomitare, ma era semplicemente Franco che gli additava la colonna fascista
evacuante Mango…”
Sono
arrivato al lago, 2865 metri indica la targa. E’ incredibilmente blu. Nessun
suono, a parte qualche raro insetto e lo scampanare lontano delle mucche. Bevo
un sorso d’acqua dalla borraccia e resto qualche minuto a contemplare. Il
sentiero per il valico sarà certo più arduo di quello che ho percorso finora.
Presagisco già le vertigini, ma impugno più forte i bastoni da trekking e mi
incammino…
La
località Valdivilla l’avevo cercata davvero, giù da Mango, in direzione del
paese che era un luna park. Ho esaminato ogni vecchia cascina. Non di cascina,
tuttavia, si parla nel libro, ma di case. “Quelle” case. Ho creduto di averle
trovate, una ormai diroccata, le altre due a fianco con un aspetto meno
desolato…
“Pierre disse a Johnny:
‘passa in testa e tira ai dieci all’ora’. Johnny eseguì e in un minuto le sue
gambe già pistonavano freneticamente, con la travolgente sensazione del terreno
che gli sfuggiva sotto i piedi come una guida di velluto. Condusse così per un
paio di chilometri e già era in vista il paese di Valdivilla[…]A sinistra stava
un crocchio di vecchie case intemperiate, appoggiate l’una all’altra come per
mutuo soccorso contro gli elementi della natura e la stregata solitudine
dell’alta collina[… ]Quando una grande complessa scarica dalle case fulminò la
strada e Johnny si tuffò nel fosso a sinistra, nel durare di quella
interminabile salva[…] poi fuoco ed urla esplosero alle sue spalle, certo i compagni
si erano disposti sulla groppa della collina alla sua sinistra, il bren
frullava contro le finestre delle case e l’intonaco saltava come lavoro
d’artificio[…]’debbono arrendersi – gridò Pierre con la bava alla bocca – ora
si arrendono’. E urlò alle case di arrendersi con disperazione. Johnny urlò a
Pierre che era senza munizioni e Pierre se ne inorridì e gli gridò di scappare,
di scivolar lontano e via. Ma dov’era il fucile di Franco?[…] Johnny smise di
cercare il fucile di Franco e tornò carponi verso Pierre. Gridava ai fascisti
di arrendersi e a Johnny di ritirarsi, mentre inseriva nel Mas l’ultimo
caricatore. Ma Johnny non si ritirò, stava tutto stranito, inginocchiato nel
fango, rivolto alle case[…]’Arrendetevi’ urlò Pierre, con voce di pianto[… ]
Ma in quella scoppiò un
fuoco di mortai, lontano e tentativo, ad avvertire i fascisti del relief e i
partigiani della disfatta. Dalle case i fascisti urlarono in trionfo e
vendetta, alla curva ultima del vertice apparve un primo camion, zeppo di fascisti
urlanti e gesticolanti. Pierre bestemmiò per la prima e ultima volta in vita
sua. Si alzò intero e diede il segno della ritirata […] Dalle case non
sparavano più, tanto erano contenti e soddisfatti della liberazione.
Johnny si alzò, col
fucile di Tarzan e il semiautomatico…
Due mesi dopo la guerra
era finita.”
Fine
del libro. Fine di tutto.
Accaldato
e affannato per la salita, mi fermo un attimo. Il sole viene coperto da una
nuvola, il vento freddo gira intorno alla mia nuca, al collo, madidi di sudore.
Sussulto in un brivido, per il vento che mi accarezza o per il pensiero di
ghiaccio che è entrato, con forza implacabile, nella mia mente. Fenoglio non ha
potuto traghettare né Milton, né Johnny, né alcuno dei suoi alter-ego
sull’altra sponda, sulla sponda della Liberazione, dell’Italia nuova. Non ha
potuto, perché quell’altra sponda, nell’ultimo inverno, è sparita nella nebbia
e i sogni, gli ideali e i progetti del futuro sono rimasti in mezzo al livido torrente e qui sono annegati.
Forse
sto solo attribuendo a Fenoglio ciò che io stesso ho creduto di capire e di
scoprire? Può darsi. Pure vi è la chiara, inesorabile, nuda verità di quelle sue
ultime parole, dopo i puntini sospensivi, che coprono pietosamente la fine di
Johnny: Due mesi dopo la guerra era
finita. Non dice: “Due mesi dopo venne la Liberazione”. Non dice nemmeno:
“Due mesi dopo il fascismo era crollato”. Non dice alcuna frase che possa
alludere almeno a un positivo compimento di quella lotta per la quale il suo
partigiano Johnny aveva dato la vita, con tanti altri. Viene solo registrato,
con asettica oggettività, il fatto costituito dalla fine della guerra.
La
mia indagine ha dunque avuto questo esito, paradossale e desolante. L’Italia
“nuova” che doveva nascere dalla Resistenza non è mai realmente nata, o è stata
soffocata nella culla; il “sol dell’avvenire” è tramontato già al primo
baluginare dell’alba. Vane sono allora le recriminazioni sulla Resistenza
“tradita” ed è inutile cercare di capire quando si sia deviata o insabbiata la
corrente benefica della lotta di Liberazione, quando e come si sia esaurita la
sua “spinta propulsiva”, quando l’Italia partigiana sia stata sconfitta; se già
con la caduta del governo Parri alla fine del 1945 o con il trionfo
democristiano del 18 aprile del 1948 o negli “anni di piombo” o ancora nella
cosiddetta “seconda Repubblica”… Se qualcosa del genere è accaduto, se
tradimento, deviazione, sconfitta o insabbiamento vi è stato, tutto ciò deve
essere accaduto prima ancora del 25 aprile.
Ancora
Gobetti. La Resistenza non ha riscattato il Risorgimento fallito o incompiuto,
perché dopo un “Risorgimento senza eroi” abbiamo avuto una “Resistenza senza
eroi”. L’Italia che nel fascismo aveva scritto la propria “autobiografia”,
quella autobiografia ha continuato a scrivere dopo il fascismo, senza una vera
soluzione di continuità.
Seguendo
le orme di Fenoglio e di Johnny, tra valli e boschi, bric e rittani delle
Langhe, ho sperato ancora di trovare quella dea affascinante che un giorno
accese la mia passione e quella di tanti altri, prima e dopo di me, ma ho
trovato solo un cadavere e il lezzo della putrefazione.
Le
nuvole hanno di nuovo liberato il sole e la mia ascesa al valico è quasi
conclusa. Ancora poche centinaia di metri. Sarà perché so la meta vicina, sarà
per il baratro di diversa natura che mi sono spinto a contemplare, sento ora
attenuarsi la stretta delle mie vertigini e cautamente, goffamente arrivo a
girare un po’ il capo, per guardare, almeno di traverso, il precipizio che
incombe sotto il sentiero…
“Johnny si alzò, col
fucile di Tarzan e il semiautomatico…
Due mesi dopo la guerra
era finita.”
Aveva
mai rimpianto Fenoglio di non essere finito così, come Johnny, levandosi in
piedi, col fucile, col semiautomatico, con ogni arma e ogni cartuccia rimasta, di
non essere finito prima di vederla quella nuova Italia, nuova nell’abito, ma
tanto simile a quella vecchia, all’Italia di sempre, in tutto ciò che sta sotto
l’abito, nello scheletro e nella carne, nel cuore e nel cervello? Aveva
desiderato di finire nel fango di quell’estremo inverno, piuttosto che nella
melma dei premi letterari, abbattuto da una raffica fascista piuttosto che
dalla stroncatura di un critico stalinista, sfinito a venti anni dagli stenti e
dalle fatiche immani di quella lotta per la libertà, piuttosto che soffocato da
un cancro ai bronchi a quaranta anni, chiudendo gli occhi su quella terra tante
volte percorsa ai piedi di Mango, invece che in uno sconosciuto letto di
ospedale a Torino? Il morbo maligno gli aveva però almeno risparmiato lo scempio
di Cascina delle Langhe, dove ogni giorno Ettore e la vecchia e la cagna-lupa e
Johnny stesso vengono venduti e uccisi sulla moquette della sala dello yoga o
sul lettino dei massaggi, estetici ed etnici.
Sono
ormai sulla cima, la modestissima cima che dovevo conquistare. C’è una larga
pietra a terra, di fronte al dirupo che scende all’altopiano. Mi lascio cadere
seduto e, senza più alcuna vertigine, guardo, rapito e stupito, il pendio
scosceso e sassoso, e più giù, più giù, i prati di smeraldo, il lago di
cobalto. Lo scampanare delle mucche si è fatto via via più lontano ed ora non
si ode affatto.
C’è
una gran pace quassù.
“Le tenebre coprono la
terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la
sua gloria appare su di te” (Isaia 60,2)
RORA' E JANAVEL
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