RACCONTI DI VIAGGIO


RESISTENZA SENZA EROI
Un po' un racconto di viaggio, un po' omaggio a un grande e amato scrittore, ma soprattutto un congedo "para-letterario" dalla cosiddetta "sinistra".



“Lo ricordano tutti come un tipo schivo, molto riservato; però, con le persone semplici si apriva di più, con loro sapeva stare in compagnia e gli piaceva quella comitiva. Per questo amava tornare a San Benedetto Belbo. Ha visto che c’e ancora l’insegna della bottega del suo grande amico di lì, come si chiamava? Ah, sì…Placido”

“La licenza….”. “La cenza”, mi corregge Maurizio. Maurizio è il gestore del ristorante “Al mercato. Da Maurizio”, che sta a Cravanzana, paese dove la Langa si fa già aspra, dove già incomincia il “Sinai delle colline”, come lo chiama Fenoglio, il “deserto” che sta subito oltre Mango. Mentre parlava, Maurizio ha stappato la mezza bottiglia di Nebbiolo di Patrusso, che ho ordinato dietro suo consiglio, e mi sta versando il dito di vino da assaggiare. La “cenza”, in dialetto langarolo sta certo per licenza ed erano così che venivano chiamate quelle botteghe di paese che avevano appunto licenza a vendere un po’ di tutto e anche a fungere da osteria.

“Però, a San Benedetto hanno mozzato uno dei due ippocastani…”, dico di rimando, con vago tono di rimprovero. Annuisce e alza un po’ lo sguardo; il volto gli si colora di una rassegnazione sconsolata, quella di chi sa da sempre che ciò che deve avvenire accade, senza che lo si possa evitare. Questa espressione di schietto fatalismo contadino Maurizio deve certo averla ereditata dalle tante generazione dei suoi avi, ed essa irrompe per un breve istante a impossessarsi della sua figura così signorile e civile. 


Tra i due ippocastani secolari, nella piazzetta di San Benedetto Belbo, c’è una panchina, o meglio una larga traversa di legno (o è forse una pietra piatta? non ho potuto nemmeno soffermarmi con lo sguardo). Qui dicono che Beppe Fenoglio venisse a sedersi e a cercare ispirazione, durante le sue villeggiature estive; qui pare che lo si scorgesse di frequente, con la macchina da scrivere poggiata sulle ginocchia, mentre lavorava a qualcuno dei suoi racconti, o forse a quel romanzo della Resistenza, il “libro grosso”, come lo chiamava quasi con religioso rispetto, che, lui vivo, non doveva mai venir pubblicato.

Quando alla fine della mia lunga camminata tra le colline dell’Alta Langa, ero salito in paese, avevo cercato subito gli ippocastani e la panca, trovando, però, doppiamente oltraggiato quel posto, che la targa, una delle tante apposte dall’amministrazione comunale, definisce, a grandi caratteri, “luogo fenogliano”. Appena girato l’angolo della chiesa e proprio dopo aver notato l’insegna scolorita della bottega di Placido, a cui alludeva il mio oste, ecco la triste sorpresa: uno dei due alberi era stato “decapitato” e ne restava solo il tozzo tronco a fare compagnia all’albero fratello, che invece ancora lussureggiava di rami e foglie, ma pareva quasi malinconicamente compreso della sventura toccata all’altro. Volevo avvicinarmi con cauto rispetto agli alberi e alla panca, forse non avrei nemmeno osato sedermi, ma ecco che venivo preceduto di pochi istanti da una querula donnona ucraina, o forse polacca, tutta intenta ad una accanita, concitata conversazione al cellulare. La telefonata era incominciata con un breve saluto in italiano, per poi proseguire a mozzafiato nella sua lingua. La donnona, peraltro, senza farsi scrupolo alcuno, si era pesantemente lasciata cadere sull’asse, tra i due ippocastani. Non fermava neanche per un attimo la voce, che aveva la stessa ridondanza del suo corpaccio. Nella piazza – era l’ora di pranzo – non c’era un’anima e nessun suono si udiva. Salvo quei fonemi slavi, incalzanti e perforanti come un martello pneumatico. Avevo atteso, cinque, dieci, quindici minuti: niente! La donnona era sempre lì a sciupare irrimediabilmente il raccoglimento suggerito dal luogo. Forse neanche sapeva che tanti anni fa da queste parti un canto, il più famoso di quelli della Resistenza, veniva intonato da cento voci e spesso non nella sua traduzione italiana, ma nella versione originale, in una lingua assai simile alla sua. Un canto che peraltro Fenoglio e il suo alter-ego Johnny non amavano affatto, essendo l’inno quasi ufficiale dei partigiani “rossi”, quelli tra le cui fila, sia lo scrittore che il suo personaggio, avevano cominciato la loro esperienza resistenziale, per rendersi però subito conto di essere capitati, in the wrong part of the right side; affrettandosi, quindi, alla prima occasione a passare nelle fila degli altri partigiani, le “formazioni autonome”, gli “azzurri”. 



La conversazione con Maurizio era partita dalla sua domanda, appena avevo preso posto e mentre mi porgeva il menu: avevo camminato per la langa, quel giorno? Dove ero stato? A sentire che avevo vagato intorno a San Benedetto Belbo, sulle tracce di Fenoglio, la sua elegante e professionale compostezza si era rilassata per un attimo in un sorriso di muta approvazione e di lieve orgoglio. “E’ strano” avevo detto, per dargli corda, “finché fu in vita fu ben poco apprezzato, oggi viene celebrato ogni sasso che pare abbia toccato. Più di un paese si è riempito di targhe che indicano i vari “luoghi fenogliani” e citano passi dei suoi scritti; gli “itinerari fenogliani” sono divenuti quasi una attrazione turistica! E’ lui, ora, lo scrittore delle Langhe, non è così?”. E Maurizio aveva assentito, soddisfatto: sì è lui, perché quell’altro, Pavese, era più “cittadino”. E sì, ora sì che viene riconosciuto il suo talento. E aveva cominciato a parlarne, lasciandomi stupito, non come si parla di tanti personaggi famosi, conosciuti tuttavia solo sui libri, ma come di chi è ancora ben vivo e presente nella memoria e nei racconti dei più anziani. “Partigiano…” aveva poi sussurrato, lasciando che la parola librasse in aria, restasse lì sospesa, con tutto il suo carico di significati, di allusioni, di sottintesi, di misteri…



Come primo piatto, in Langa, si pone sempre un impegnativo aut-aut: tajarin o agnolotti del plin? Sulle uova necessarie all’impasto dei tajarin si fronteggiano varie scuole di pensiero. La più esigente è quella delle “trenta uova” (per chilo di farina!) e così li assaggerò all’Osteria della Posta, alle porte di Monforte d’Alba. Sul condimento non dovrebbero invece esserci dubbi: ragù (ovviamente non quello campano, ma quello settentrionale, abbastanza simile alla salsa “bolognese” e quindi con la carne macinata), fegatini di pollo (se piacciono), burro e tartufo (se è stagione). Gli osti, però, si sbizzarriscono in proposte diverse e in questo periodo, luglio inoltrato, e con le abbondanti e frequenti piogge che ci sono state, impazzano i tajarin ai porcini. Non mi sento di condividere tale abbinamento, in quanto i porcini richiedono una pasta più spessa, tagliatelle o pappardelle. Maurizio offre, correttamente, i tajarin al ragout, ma la mia scelta cade invece sugli agnolotti del plin. Per due motivi. Anzitutto, negli agnolotti più che nei tajarin si può saggiare la valenza del cuoco, essendo gli agnolotti preparazione ben più complessa. La sfoglia deve essere sottile fino al punto estremo (oltre non tratterrebbe il ripieno nella cottura) – sottile “come un velo di sposa”, dicono qui -  e la difficoltà sta nel prepararla esattamente di questo spessore, né più, né meno. Il ripieno non deve essere troppo compatto, ma deve restare morbido.

In Langa, si usano gli agnolotti cosiddetti del plin, ossia del pizzico , perché una volta preparata la rondella di pasta, la si chiude appunto con un “pizzicotto”. Sono quindi agnolotti più piccoli di quelli che si mangiano a Torino e in altre zone del Piemonte e che vengono detti genericamente “piemontesi”. Il ripieno è sempre di carne mista a verdura (bietola o spinaci solitamente), ma in quelli piemontesi può essere di sola carne. Questi ultimi, sebbene come per i tajarin siano invalse le soluzioni di condimento più svariate, andrebbero preparati rigorosamente “al sugo di arrosto” o, soluzione sontuosa, al sugo “dei tre arrosti”, ossia con carni di tre tipi (manzo, maiale e gallina o manzo, vitello e maiale). Per il ripieno va usata la stessa carne da cui si ricava il sugo. I “puristi” li vogliono invece serviti soltanto con burro e salvia.

 Gli agnolotti di Langa, essendo più leggeri, tollerano una maggiore varietà di soluzioni. Anche qui però non mancano i “puristi” che addirittura li vorrebbero servire sconditi, e non nel piatto, per giunta, ma su un canovaccio di canapa, in modo, dicono, da  apprezzare appieno l’armonia del ripieno e la giustezza della sfoglia. Anche qui, sulle uova vi sono diverse scuole di pensiero: quella delle 8, quella delle 12, quella delle 16… intendendosi sempre per chilo di farina.

La proposta “eretica” di Maurizio è però intrigante, ed è questo il secondo motivo della scelta: agnolotti del plin verdi – ossia non solo con ripieno di sola verdura, ma con verdura anche nell’impasto - conditi con fonduta di toma di Murazzano. Sul formaggio di Murazzano si dovrebbe aprire un altro capitolo, ma restiamo sugli agnolotti per ora! La soluzione mi pare ben equilibrata: un ripieno di carne con un condimento di fonduta li avrebbe appesantiti troppo.

La degustazione conferma poi la saggezza della scelta e soprattutto il valore del cuoco. Il Nebbiolo di Patrusso si rivela eccellente, di buon corpo e spessore, e superiore, a mio gusto, a quelli di produttori ancora più rinomati.




Partigiano. “Scrittore e partigiano”, queste sole due parole aveva dettato come epigrafe sulla sua tomba, quando aveva capito che i suoi bronchi soffrivano di un male che nemmeno l’aria della collina di Langa, nemmeno l’aura benefica di San Benedetto Belbo o di Bossolasco poteva guarire. Partigiano, sì, ma lontano da ogni memoria oleografica e celebrativa, estraneo alla parte vincente, dominante della Resistenza. Per questo sottilmente, subdolamente, ma spesso anche apertamente osteggiato. E poi celebrato solo quando si era deciso a morire anzitempo, perché da morto non poteva più negarsi a chi lo innalzava sul pantheon ufficiale della Resistenza, come si era negato ai premi e ai circoli letterali.

No, non poteva essere apprezzato Fenoglio, negli anni della guerra fredda, e non solo, caro Maurizio, per il suo carattere schivo: era partigiano, ma anticomunista; monarchico, ma tutt’altro che conservatore; seriamente interessato alla rilevanza antropologica della religione, ma assolutamente laico e forse finanche un po’ anticlericale.

Non poteva piacere ai custodi dell’ortodossia marxista e neorealista, che governavano largamente la scena letteraria e artistica, e la tenevano sotto il loro staliniano pugno di ferro. Convinti come erano di stare in the right part of the right side, e che anzi non ci fosse alcuno schieramento giusto e alcuna parte giusta al di fuori del loro schieramento e della loro parte, rabbrividivano al pensiero che quel Fenoglio potesse diventare il cantore della Resistenza, che potesse esser lui a scrivere quel “libro grande” sulla Resistenza che nessuno poteva o voleva scrivere: né Calvino, né Primo Levi, né Pavese e nemmeno lo stesso Vittorini.  Il suo primo scritto -  La paga del sabato – fu così rifiutato da Vittorini, allora dominus della Einaudi, per conto del PCI. Più tardi, una violenta stroncatura di Carlo Salinari accolse I ventitre giorni della città di Alba. Salinari, col tipico moralismo stalinista, giunse a giudicare l’opera di Fenoglio “una cattiva azione”! La Einaudi non poté invece rifiutare un romanzo come la Malora, ma più dell’intrinseco valore letterario dell’opera, fu probabilmente decisivo il fatto che in essa non si parlasse della Resistenza: quasi un invito implicito a Fenoglio a dedicarsi alla narrazione e alla rappresentazione del mondo rurale, abbandonando il tema resistenziale. E comunque La malora venne pubblicato, con una quarta di copertina di Vittorini fortemente polemica, che suonava come un drastico ridimensionamento dell’autore e dell’opera. Vittorini intendeva avvertire questi “giovani autori”, come Fenoglio, del “baratro” in cui rischiavano di cadere! La stroncatura vera e propria venne invece affidata a Marcello Venturi, che si fece portavoce della ortodossia stalinista e neorealista.

Solo Anna Banti difese energicamente lo scrittore di Alba dallo “stalinismo culturale”. Ma Anna Banti è l’autrice di quel formidabile romanzo storico sulla disillusione della generazione rivoluzionaria del Risorgimento, è l’autrice di Noi credevamo, che il bel film di Martone ha fortunatamente salvato dall’oblio.

Attaccato o mal tollerato dalla sinistra “ufficiale”, Fenoglio non poteva che risultare estraneo a cattolici o liberali conservatori. In particolare, non poteva essere gradito, nel clima di quegli anni, alla grande famiglia politico-culturale alternativa a quella comunista, la famiglia cattolica. Un prete suo amico ricorda che egli rifiutava decisamente l’istituzione chiesa, aderendo invece  pienamente al messaggio di giustizia sociale del Vangelo. E difatti, si sposerà solo con rito civile, negli ultimi tempi della sua breve vita, nonostante insistenze e pressioni in favore del matrimonio religioso. Alcuni stavano addirittura per organizzare una manifestazione ostile nel giorno stesso del suo matrimonio! La manifestazione  venne impedita solo dall’intercessione della energica madre dello scrittore, che si recò dal vescovo di Alba, ma il sindaco, comunque, si rifiutò di officiare, lasciando l’incarico al suo vice.

E’ stato definito, Fenoglio, liberal-socialista o riformatore radicaleggiante, ma ogni etichetta gli va stretta, in realtà. Nella sua posizione politica vi sono, però, due opzioni chiarissime e nette, si potrebbe dire quasi istintive, prepolitiche: l’antifascismo – come è ovvio – e l’anticomunismo. Negli anni della guerra fredda non potrà quindi restare neutrale fra i due blocchi in campo e ciò lo indurrà a scelte che immaginiamo molto sofferte. Come quando nel 1953 dichiara di aver votato Psdi, senza essere affatto convinto, per “l’ovvia ragione della battaglia dei due fronti”. In seguito si avvicinerà al PSI di Nenni, quando questo prenderà le distanze dal PCI e dall’URSS. La sua posizione politica gli provocherà incomprensioni persino nei suoi amici più stretti, nelle persone che meglio lo conoscevano e più lo stimavano. Per anni vi fu freddezza anche con Pietro Chiodi, grande filosofo e suo professore al Liceo, il personaggio che, con l’altro professore, Cocito, lo aveva in fondo messo sulla strada della lotta partigiana. Lo stesso Chiodi ricorderà, però, il loro successivo chiarimento, concludendo significativamente: “fu così che ci incamminammo insieme per gli amari sentieri della sinistra non comunista”.

Molti altri fra i suoi critici più acerrimi di quegli anni riconosceranno poi il loro errore di valutazione e, cercando di giustificarsi, contribuiranno a ricostruire un ritratto più veritiero di questa singolare e straordinaria personalità. Lo stesso personaggio che si era fatto portavoce dell’ortodossia stalinista, Marcello Venturi, ricorderà il pregiudizio nei confronti di Fenoglio, che non fece mai parte del “Politecnico”, non cercò mai la collaborazione dei giornali della sinistra, e perciò appariva loro un isolato, così alieno come era da gruppi e movimenti ritenuti progressisti, troppo al di sopra delle parti, inesorabile demolitore dei cliché sulla Resistenza.

Proprio per questo, per tutto questo, quando ho pensato che fosse necessario risalire alle origini della attuale deriva, capire cosa fosse andato storto, quando si fosse imboccata la strada sbagliata o come si fosse persa quella giusta, ho deciso di venire in Langa e di seguire le tracce del’unico che poteva raccontarmi la verità sulla Resistenza, senza interessati opportunismi e studiate reticenze, senza ottusità ideologiche, senza pregiudizi e riflessi tribali.





Per proseguire la cena, dribblo la carne e mi dirigo sul dovizioso carrello dei formaggi, che poi è uno dei fondamentali motivi per cui si viene a mangiare in questo ristorante. Da buon conoscitore dei suoi avventori e dei formaggi, Maurizio propone un assaggio misto, di caprini, ovini e vaccini, dai più freschi ai più stagionati, ma chiede se gradisco anche gli erborinati. No, non li gradisco. E poi penso che gli erborinati romperebbero l’armonica ascesa dei sapori dal più fresco al più stagionato e soffocherebbero i pezzi più delicati. La discussione, mentre mi vengono serviti accuratamente i formaggi, si è ora spostata dal nostro scrittore agli incidenti aerei che stanno capitando con inusuale frequenza. E’ un tema che mi interessa molto meno, in tutta franchezza, ma scoprirò poi che il mio oste si appresta a partire in aereo! Finalmente i formaggi vengono disposti nel piatto a cerchio completo di 360°. Sono dodici, come le ore dell’orologio, e Maurizio mi raccomanda di incominciare dalle ore 6 e proseguire in senso orario. Ad assicurare una buona varietà di assaggi, in realtà, basterebbe da solo il formaggio DOP di Murazzano, che può essere solo di pecora o misto a latte vaccino, e che soprattutto si può consumare fresco (fra i 4 e i 10 giorni), giovane – e acquista sapore più deciso – o decisamente stagionato (da un mese fino a un paio di anni, conservato in caratteristici vasi di vetro) e si presenta allora friabile e piccante. Ricevo una rapida illustrazione dei miei dodici assaggi, ma purtroppo dimentico subito quasi tutto, proprio come mi accade quando una persona appena conosciuta mi dice il suo nome: non riesco mai a ritenerlo nella memoria, forse perché mi soffermo sul volto, sulla gestualità, sulla intonazione di voce. E così deve accadere con i formaggi di Maurizio: rapito, prima ancora che dal gusto, dalla loro diversa foggia, non trattengo nella mente praticamente nulla delle accurate didascalie con cui mi vengono serviti!



La Resistenza… sono partito alla ricerca della verità sulla Resistenza, come Milton, il protagonista di Una questione privata, va alla ricerca della verità su Fulvia, la donna amata.

Dal lungo incubo del fascismo, dalla catastrofe della guerra, dall’ignominia dell’8 settembre sorgeva inaspettata una opportunità preziosa per provare a riparare a quelle che Gobetti aveva definite le “tare congenite” dello sviluppo storico italiano. Un paese che non si era potuto formare alla scuola di libertà, di responsabilità e di coscienza civile della Riforma protestante, che si era provato a costruire in un Risorgimento che però era rimasto “rivoluzione passiva” – per usare le categorie di Vincenzo Cuoco – e aveva visto le masse popolari estranee, indifferenti, se non diffidenti e ostili. Un paese che aveva incominciato a formarsi nelle trincee della prima guerra mondiale e in tal modo ne era risultata una coscienza nazionale perversa, un’idea di patria che doveva condurre al fascismo. Quel poco che si era mal costruito era poi naufragato l’8 settembre, non solo crollo di un regime, ma “morte della patria”, come si è detto. Ma quello stesso giorno alla porta San Paolo a Roma e poco dopo a Cefalonia e per le strade di Napoli e ben presto soprattutto sulle colline e le montagne del Nord una identità nazionale si era cominciato a ricostruirla, e l’alba di un secondo, un nuovo, un vero Risorgimento pareva che stesse finalmente sorgendo. Un processo che attraverso le tappe fondamentali del 25 aprile, del 2 giugno 1946 e del 1° gennaio 1948, con la Liberazione, la Repubblica e la Costituzione pareva finalmente edificare l’Italia civile, una nazione costruita e cementata con l’impegno, lo slancio ideale, il sacrificio materiale di un popolo, fondata su valori, imperniata su un progetto condiviso. Come in Inghilterra, in America, in Francia…

Che ne è oggi di tutto questo? Pare che si debba soltanto amaramente constatare che quel progetto, quello slancio, quell’impegno, quei valori siano stati patrimonio di una ristretta minoranza – una “rivoluzione passiva”, ancora una volta – e non abbiano mai messo radici nel tessuto civile, sociale, culturale del paese. Per cui, scomparsa la generazione della Resistenza, tutto è naufragato. Dove, allora, si è smarrita la strada? Che cosa c’era di limitato, di velleitario, di “giacobino” nella Resistenza? Queste domande mi assillano da tempo, ancor più pressanti per le singolari circostanze della mia storia familiare e personale: un nonno – quello di cui porto il nome - socialista, del socialismo primo novecentesco, e con la tessera dell’Internazionale nascosta sotto una mattonella dissestata per tutto il Ventennio… un altro nonno, quello materno, deputato all’Assemblea Costituente – in qualche modo padre costituente pure lui -  nonché segretario del partito repubblicano in una provincia ferocemente monarchica… un padre che si lega alla famiglia della mia futura madre, allora ancora bambina, proprio al seguito di mio nonno materno, nell’occasione del referendum istituzionale del 2 giugno… io che dunque nasco davvero figlio della Repubblica, anche se non pochi anni dopo! Il mio primo “impiego” dopo la laurea, una borsa di studio all’Istituto di Storia della Resistenza… persino il mio matrimonio avevo voluto celebrarlo il 25 aprile! E tra i biglietti di auguri ricevuti forse il più bello venne proprio dall’Istituto di Storia della Resistenza, un augurio di una sola parola, rivolto ad entrambi: “Resistete!” Ma anche quella privatissima resistenza finì poi per arenarsi, deviarsi, esaurirsi…






A Cravanzana alloggio in una vecchia casa sulla strada provinciale, battezzata, chissà perché, Locanda degli sfizi. La gestisce una donna di mezza età, simpaticamente ciarliera, nonché caffeinomane. Dopo avermi offerto il primo caffè di una lunga serie, mi fa accompagnare in camera, su al secondo piano, da una ragazza, una sua tuttofare, dicendomi che è delle mie parti (in effetti è originaria di Benevento). La ragazza beneventana afferra uno dei miei bagagli, l’avverto che è pesante, ma vedo che lo maneggia con destrezza ed energia: “sono abituata ai bagagli di voi ‘camminatori’!” mi dice, con deliberato sarcasmo. In effetti a Cravanzana ci sono solo due fondamentali motivi per venire: la “nocciola gentile tonda delle Langhe”, un’eccellenza mondiale, di cui proprio Cravanzana è la capitale; e i sentieri – tra cui innanzitutto lo scontato “anello della nocciola” – che percorrono la zona e si prestano a belle escursioni. Nemmeno la proprietaria della locanda, tuttavia, sembra apprezzare molto i “camminatori”, nonostante i proventi che indubbiamente gliene vengono. Capirò presto che li considera una sorta di specie aliena… Il sottoscritto, poi, deve averlo proprio considerato il più stravagante, se non folle, esemplare di quella singolare razza. Difatti, la mattina dopo, essendo la colazione prevista non prima delle 8, sono uscito di buon ora per fare una corsetta. Sono tornato dopo appena mezz’ora, perché l’unica possibilità di correre, se non in piano con pendenze accettabili, in quella zona, era la strada nazionale, piuttosto trafficata. Quella misera mezz’ora deve essere però parsa un’impresa folle alla signora che mi ha subito apostrofato al mio ritorno: “complimenti! Siete uscito che non erano ancora le sette – senza nemmeno prendere un caffè - e tornate ora!” Ho cercato di spiegarle che non avevo fatto propriamente una maratona, ma mi ha subito stroncato dicendomi che per quanto la riguarda l’unico esercizio fisico che pratica e che trova tollerabile è lo schiacciare i pulsanti del telecomando della Tv. E ha ripetuto con effettiva scioltezza il gesto delle dita…

La colazione, comunque, è stata un vero inno alla gentile sovrana della zona, la nocciola: torta di nocciole squisita (non si aggiungono né farina, né uova, sicché è estremamente friabile, ma conserva tutto il sapore del frutto); cornetto ripieno alla crema di nocciola, varie creme di nocciola da spalmare…Tutto questo nel mezzo di due caffè: ho cercato, infatti, di assumere un’aria più familiare e rassicurante agli occhi della padrona di casa, accettando il secondo caffè che non ha mancato di propormi.

La sera, da Maurizio, ho completato la mia full immersion ordinando, al posto del formaggio, un dessert. Gli ho detto, sornione, che, scartando decisamente l’insignificante panna cotta, ero indeciso fra il “mattone alla nocciola” e il “bonet con variazione” (ovviamente la variazione consisteva nella nocciola in sostituzione dell’amaretto). Ha subito capito l’antifona e mi ha servito un assaggio di entrambi. Superbi.

Il giorno dopo non ho potuto che utilizzare la copiosa dose di grassi e carboidrati come carburante sul “sentiero della nocciola”, che misura tredici chilometri, con un notevole dislivello, in quanto dai settecento metri di Cravanzana scende ai due-trecento della Val Bormida per poi risalire nella “capitale della nocciola”.





Sì, dovevo andare a Murazzano e a Mombarcaro, i paesi tra i quali era collocato il comando della I divisione, le “brigate Garibaldi”, tra le cui fila Johnny – come era capitato allo stesso Fenoglio – incomincia la sua lotta di Liberazione. Dovevo capire questa storia dei “rossi” e degli “azzurri”. Qualche anno fa avrei ancora avuto un moto quasi istintivo di perplessità, se non addirittura una reazione di rigetto, a sentir parlare di uno scrittore, divenuto poi icona della letteratura resistenziale (suo malgrado), che preferisce i partigiani badogliani, gli “azzurri” appunto, alle gloriose brigate Garibaldi! E che nel 1946 si schiera con la monarchia (e quale oltraggio questo alla mia stessa storia familiare e alla mia nascita, si può ben dire, sotto la “stella” della Repubblica!). Ma oggi, dopo aver percorso, per dirla con Pietro Chiodi, tutto l’amaro cammino della sinistra libertaria e non comunista, dopo esser divenuto quasi un esule dalla sinistra tout court, oggi questa storia volevo proprio approfondirla.

Murazzano non dista molto da San Benedetto Belbo, ma è proprio alla sua altezza che, risalendo il Belbo,  si vede il fiume allontanarsi dal poggio dove sorge Murazzano, con una brusca e larga svolta. Come se il torrente tanto caro a Fenoglio, volesse pure lui evitare il paese dove avvenne il suo primo “imbandamento”, quello tra i “rossi”. Murazzano, pertanto, fa da spartiacque tra la valle Belbo e il bacino del Tanaro ed è verso quest’ultimo che sembra inclini la sommità del borgo, con la sua torre trecentesca e i ruderi del castello. Murazzano, peraltro, riserva non poche sorprese: risalendo la stretta e ripida strada che porta al centro storico, si notano palazzi signorili e architetture quasi nobili, accanto alle rustiche case di pietra di Langa. Un santuario ai margini dell’abitato conserva addirittura una madonna fiamminga, del Seicento, donata al paese dagli Spinola, che erano al servizio del re di Spagna. Il borgo ospita manifestazioni culturali, ha una biblioteca e la piazza è animata da caffè, osterie e persino veri e propri negozi, cosa del tutto inconsueta nei paesi dell’Alta Langa. Non a caso, nel libro si legge che Johnny vorrebbe fare un salto al paese, dalla base partigiana che si trovava più a valle, per rifornirsi di generi di conforto (sapone da barba, calze, sigarette…). Il permesso gli viene però negato dall’inflessibile commissario politico Nemega, con malcelata irrisione per tali rilassatezze borghesi.

Per una volta, invece, decido di indulgere alle rilassatezze borghesi anche a pranzo, visto che trovo aperta l’osteria Ra ca’d baruc. Non ho idea di cosa significhi il nome dialettale, che per me ha persino vaghe assonanea bibliche, e purtroppo dimentico di farmelo spiegare dai gestori. L’osteria sta in una casa di pietra di Langa, nel mezzo del centro storico, una casa bellissima nella sua semplicità. Ma, ecco un’altra delle insospettabili sorprese di Murazzano, propone un menu che rivisita in modo creativo la tradizione! E’ tuttavia difficile andare oltre i cinque antipasti: vitello tonnato senza maionese, crepes di zucchine con fonduta di Murazzano, polpettine in agrodolce, trota salmonata affumicata in salsa di arancio e addirittura parmigianina di melanzane!

Non resta che ritornare verso la base – la nostra base di Cravanzana, non certo quella del commissario politico Nemega! – prendendo però la strada che fa il giro largo, seguendo la curva del Belbo, e che passa per Mombarcaro. Inutile sperare di avvistare qualche rara pecora dell’Alta Langa, razza quanto mai rustica. Lo scarso pregio della lana, che non ha praticamente mercato, ne rende poco proficuo l’allevamento. E’ un peccato, visto che il latte, invece, si presta ad essere trasformato in eccellenti formaggi.

Mombarcaro sfiora i 900 metri ed è quindi il “tetto delle Langhe”. E’ un paese meno interessante del precedente, ma con una piazzetta-belvedere che vale da sola l’ascesa fin quassù. Si può ben immaginare che per quelli della I Divisione, la “Stella rossa”, le “Brigate Garibaldi” fosse un punto d’orgoglio il controllo di questo nido d’aquila: da quassù potevano illudersi di dominare non solo il nemico conclamato, i nazifascisti, ma anche l’antagonista malcelato, le divisioni “azzurre” dei leggendari comandanti “Lampus” e “Nord”. Tuttavia, è proprio a Mombarcaro che essi subiranno una grave sconfitta dai fascisti: Johnny qui perderà, dolosamente, alcuni dei suoi primi compagni di avventura, ma la rotta gli darà la possibilità di passare tra le fila degli “azzurri”.

La decisione definitiva era probabilmente maturata per “colpa” di quel commissario politico Nemega, di cui si diceva. Al’epoca tutte le formazioni partigiane avevano un “commissario politico”, emanazione dei rispettivi partiti del CLN. I commissari politici, pur non essendo spesso militari di carriera, erano stati riconosciuti di pari grado rispetto ai comandanti militari e, tra le fila dei rossi, avevano di fatto un’autorità anche superiore. Dietro il Nemega in cui si imbatte Johnny, dietro la sua tracotanza, sta dunque l’ombra del “grande” partito comunista. Nemega, ben presto, iscrive d’ufficio Johnny al corso di marxismo (diciamo pure marxismo-leninismo nell’ortodossia staliniana!), corso che cura personalmente. Johnny si sottrae: queste sono cose delle quali, eventualmente, ci si dovrà occupare “dopo”. “Dopo” aver sconfitto il nazifascismo, dopo aver liberato l’Italia, quando le diverse correnti politiche che si sono unite nella Resistenza si fronteggeranno liberamente, civilmente, nel regolato conflitto politico democratico. Come avviene nelle grandi democrazie, negli amati paesi anglosassoni (Johnny, come Fenoglio, è un anglicista e quasi un ‘anglomane e ogni volta che c’è qualcosa di non effimero e di non banale da pensare lo pensa in inglese piuttosto che in italiano). Ma per Nemega, no, non è così: queste cose vanno fatte “prima”, la formazione ideologica – l’indottrinamento –  e l’inquadramento consapevole nei ranghi del partito – il proselitismo - sono le condizioni preliminari per la lotta al fascismo. A nulla servirebbe abbattere il fascismo, se questo non servisse a costruire l’Italia comunista o, quantomeno, il grande partito comunista capace di porre il suo marchio sul paese liberato. Per questo, non ci si può certo accontentare di vestire delle buone divise militari fornite dagli inglesi e di esporre, sobriamente, qualche bandiera tricolore, come fanno gli “azzurri”: i “rossi” devono distinguersi dagli altri partigiani, devono avere sul berretto e sull’uniforme la loro bella stella rossa e marcare il territorio con le loro bandiere con la falce e martello. Sull’accampamento di Nemega svetta così una gigantesca bandiera comunista. Una bandiera che si presta all’ironia degli stessi uomini di Nemega – che in molti casi non sono affatto comunisti e sono lì solo per odio al fascismo: è così grande – dicono - che arriva a vederla persino Mussolini da Salò!

Questo voler marcare il territorio con simboli e bandiere deve proprio esser giunto fino agli estremi e un po’ ridicoli epigoni odierni di questa grande tradizione comunista e non può non richiamarmi alla mente l’irritazione che questi ultimi “cosacchi” mi suscitano da anni, proprio per questa loro mania... Ma non confondiamo ciò che è stato comunque grandioso nella sua tragicità e nel suo errore, con ciò che è solo patetico…

Chi era Nemega nella realtà? A differenza di Nord e Lampus non ho trovato traccia di lui nella storia reale e non ho saputo se sia caduto in battaglia o abbia potuto sventolare la sua bandiera rossa il 25 aprile e se abbia proseguito la sua carriera politica, magari divenendo un deputato del PCI, un membro della Direzione o addirittura della Segreteria… il personaggio letterario, tuttavia, riesce a vincere le mie residue diffidenze nei confronti di quegli altri partigiani, gli “azzurri”: sì, davvero con lui, con Nemega, si era in the wrong part of the right side!





A Serravalle Langhe non ci vado seguendo le tracce di Fenoglio, o meglio del suo alter ego Johnny, e in questo momento mi sfugge pure se qui si sia svolta qualche azione memorabile di quel drammatico periodo. A Serravalle Langhe mi costringe ad andarci Maurizio che ha conservato questa abitudine “borghese” del giorno di chiusura! Lì si trova, infatti, un’altra eccellente tavola di Langa. Da Cravanzana occorre percorrere una strada stretta e ripida che sale sullo spartiacque che divide la valle Belbo dalla Valle Tanaro. E’ una sera piovosa e il breve tragitto è piuttosto tormentoso, ma giunti nel borgo, la pioggia cessa e si svela, tra le nubi basse e la nebbia, l’ennesima bellezza di questa landa. Intorno al centro storico è stato allestito uno splendido percorso circolare panoramico che, se il tempo fosse clemente, offrirebbe squarci fino alle Alpi, lasciando scorgere il Monviso.

La mia meta è il ristorante La coccinella. Il nome, piuttosto banale e da agriturismo, un po’ mi sorprende, ma scoprirò poi che il ristorante è stato rilevato da tre fratelli, che lo hanno messo  saldamente sulla buona strada delle materie prime di qualità, della sapienza e leggerezza delle preparazioni e di una sobria eleganza, ma hanno preferito mantenere la vecchia insegna. C’è anche un menu di pesce, perché si dice che da qui, dal circuito panoramico, nelle giornate terse si possa vedere anche il mar Ligure. Oggi, però, non si vede neanche l’altro lato della strada e dunque vado senza dubbio alcuno sulla cucina di terra e di territorio. Anche perché non è di tutti i giorni trovare una insalata di ovuli, certamente un fungo “regale”. Un mio omaggio al monarchico Fenoglio! I tajarin ai porcini, dai quali mi sono lasciato tentare nella giornata piovosa e per comporre un menu monotematico, mi confermano invece nella mia idea: è un matrimonio difficile, se non proprio mal riuscito. Il finale è invece degno dell’esordio: un magnifico croccante al gianduia con una inusitata e preziosa granita al barolo chinato! Ho anche bevuto un ottimo Arneis. Sì, perché le Langhe non producono solo i grandi rossi che tutti conoscono, ma anche questo pregevole bianco. Le basse Langhe almeno, e il Roero, perché da queste parti le viti devono rassegnarsi a cedere il posto ai noccioleti.



I “rossi” e gli “azzurri”…ecco la prima verità sulla Resistenza, che Fenoglio e l’Alta Langa mi disvelano; una verità tutt’altro che eroica e gloriosa e ben lontana dalla retorica celebrativa.

Due eserciti che combattono lo stesso nemico, ma restando ben separati l’uno dall’altro. Che non arrivano ad augurarsi l’insuccesso dell’altro “esercito” – salvo casi evidentemente patologici – ma gioiscono a denti stretti dei suoi eventuali successi. Che diffidano e sospettano e si preparano alla resa dei conti, dopo la Liberazione e, se fosse il caso, anche prima. Cosa che del resto era accaduta nella guerra civile spagnola, pochi anni prima, con quelli del POUM – “trotzskisti” ma senza il placet di Trotzsky – e della CNT (gli anarchici) liquidati, a un tratto anche fisicamente, dagli stalinisti, mentre si doveva combattere insieme Franco.

Una resa dei conti che sulle colline di Langa stava anche per accadere; dopo l’effimera presa di Alba, dell’ottobre del 1944, i nazifascisti scatenano una terribile controffensiva che si abbatte prima sugli “azzurri” per un mero accidente geografico e strategico (occupavano le postazioni più vicine alla città e alla Bassa Langa, mentre i “rossi” stavano più dietro e più in alto). Gli “azzurri” si sbandano e molti per sfuggire al rastrellamento spietato “passano il fiume” – il Tanaro. Per qualcuno questo segnerà la fine della guerra partigiana, ma tanti altri – appena attenuata la morsa dei nemici – riguaderanno il Tanaro in attesa di riprendere la lotta, alla fine dell’inverno. I “rossi” guarderanno però con sufficienza e quasi con disprezzo questi partigiani, accusati di aver ceduto troppo facilmente all’urto nemico (quando toccherà però a loro reggere l’offensiva nazifascista, resisteranno soltanto “mezz’ora” come Fenoglio annota, in modo giustamente spietato), e cercheranno di cogliere l’occasione per disarmarli e finanche imprigionarli. E’ l’unica volta in cui vediamo Johnny abbandonarsi a una violenza gratuita, picchiando selvaggiamente un partigiano “rosso” che cercava di indurli a recarsi al suo comando (dove sarebbero stati appunto disarmati e imprigionati). Anche qui, è difficile non “attualizzare” e non pensare all’ira – per fortuna non ancora trascesa in violenza – suscitata da certi attuali giovani cosacchi che pretendono di giudicare la tua “militanza”, le tue “lotte”…

Ho ormai riguadagnato la mia stanza alla “Locanda degli Sfizi”: è spaziosa, con un balconcino laterale e una finestra di fronte al letto. Ha un arredamento che non sarà di antiquariato pregiato, ma sa di antico…La signora starà facendo la sua ginnastica sul telecomando a quest’ora… pensare, che un caffè l’avrei preso volentieri! Mi avrebbe aiutato a schiarirmi ancor più le idee su questa storia dei “rossi” e degli “azzurri”…

Cerco comunque di imparare ancora qualcosa, sulle tracce di Fenoglio, che certe cose le ha capite ben prima di me, forse per un suo maggiore acume, forse soltanto per le esperienze ben più dirompenti che ha vissuto, forse perché prima di me ha scoperto il mondo anglosassone… In definitiva, quale era la vera differenza tra i “rossi” e gli “azzurri”? Non si può certo rispondere che si trattasse di una differenza ideologica e nemmeno di una differenza politica, nel senso forte del termine: questo sarebbe precisamente un modo di ragionare da “rossi”, questo significherebbe pensare con la testa del commissario politico Nemega! Me ghenoito!, direbbe qualcuno. Mai non sia! Comunque, quel che è certo è che tra gli “azzurri”, nelle formazioni autonome si era almeno liberi dalla peste dei commissari politici: commissari politici non ne avevano, non ne volevano e non ne tolleravano. E per questo erano a loro volta mal sopportati dal CLN e dai suoi partiti. Il CLN di Cuneo si mostrò persino riluttante a riconoscere i gradi militari al comandante Nord (che pure era un ufficiale di carriera), sostenendo che non lo conoscevano abbastanza. E Nord, di rimando, rispose che neanche lui aveva saputo granché del CLN di Cuneo, in tutti quei mesi trascorsi sulle colline a combattere i fascisti…

I “rossi” e gli “azzurri” erano diversi, indubbiamente. Si trattava forse di una differenza di “umanità”? Certo, ci sono svariati indizi in tal senso: quando i “rossi” ad esempio vorrebbero attendere i fascisti su nel paese, per sfruttare un vantaggio tattico, cogliendoli di sorpresa, Nord, il grande comandante degli “azzurri”, si mostra invece disposto a rinunciare a quel vantaggio, per non esporre gli abitanti del borgo. Anche fuori dal contesto bellico, le ragioni della “politica”, per i “rossi”, sembra che abbiano sempre avuto più valore delle preoccupazioni “umanitarie” (“piccolo borghesi”, si sarebbe detto un tempo).

Ma, in verità, la differenza sostanziale fra gli uni e gli altri, per Fenoglio, nel suo disincanto ideologico e forse nel suo tipico understatement anglosassone, sembra ridursi a una diversità di “stile”: i capi badogliani sono ben più eleganti, civili, gentlemanlike, e anche vagamente anacronistici nei loro modi. Se non ci fossero motivazioni politiche, il fascismo lo combatterebbero comunque, per il suo cattivo gusto, per la sua volgarità e grossolanità. Certo, è questa una pista di riflessione tutt’altro che trascurabile: con l’età e il disincanto, con il rifiuto di ogni moralismo e bigotteria, la differenza fra ciò che è condivisibile, se non ammirevole, e ciò che è detestabile, pare anche a me, tante volte, che sia una differenza estetica, piuttosto che politica o morale.

Ma forse c’è anche qualcosa di più profondo, dietro questa cornice estetica, di ben più profondo degli stessi conflitti politici e ideologici: c’è una diversa antropologia. E sul piano antropologico, o se si vuole della antropologia politica, si riscontrano insospettate affinità trasversali: tra comunisti e fascisti, ad esempio, ma anche, d’altro canto, fra socialisti liberali e liberali conservatori…E se l’isolato, irregolare, eccentrico Fenoglio avesse colto o almeno vagamente intravisto prima e meglio di tanti l’essenza di tutto?

Questo incomincia forse a chiarire le pagine ancora irrisolte di una modesta biografia individuale, ma illumina ancora così poco la biografia della nazione, della nostra Repubblica, “nata dalla  Resistenza”.




Molti, in Italia, conoscono Bra da quando Carlin Petrini vi ha fondato lo slow-food. Inizialmente era una “costola” della famosa e famigerata ARCI: ARCI-Gola slow food, si chiamava. Tutto bene, finché nel “partito” si poteva pensare che fosse un modo ulteriore per fare proselitismo in favore della “causa”, finché si poteva leggere nella iniziativa la volontà, nel mutare dei tempi, di coprire un'altra branca dell’associazionismo o di fondare una piccola lobby, quella dei buongustai, certo non paragonabile alla formidabile lobby dei cacciatori, ma comunque con una sua ragion d’essere ed utilità. Ma l’equivoco si è chiarito, quando Carlin Petrini ha preso a spiegare che l’iniziativa non era strumentale alla alta e grande politica, ma era in se stesso “politica”, perché è politica occuparsi di terra, di produzione di qualità, di microsistemi ed ecosistemi territoriali, di “ciclo corto” e di produzione di “prossimità”. E in tal senso c’è più politica, politica sana, in una buona osteria che non in una riunione del comitato centrale del partito. Si sono allora succeduti i “commissari Nemega” che hanno denunciato, allarmati, questo “ritorno al privato” – ormai non si parlava più di “deviazioni piccolo borghesi” – o che hanno pontificato – rossanarossandeggiato, bisognerebbe dire, tanto per coniare un neologismo – sul fatto che queste cose non facevano nemmeno il solletico al “sistema” ed anzi finivano per essere funzionali alla sua riproduzione. E forse anche Petrini avrà pensato di essere finito in the wrong part

Tutto ciò, tuttavia, è superato: magari si accendessero ancora dibattiti su cose come lo slow food! Tanti ne ignorano l’esistenza, tanti altri qualcosa ne recepiscono, ma come di cosa che è trendy e fa molto radical-chic. Il povero Carlin è finito cooptato, suo malgrado, nel politically correct. E allora a Bra non vado a mangiare dove pure sarebbe ovvio andare per uno che prese la tessera con la lumachina fin dagli albori dell’associazione. Non vado in Via della Mendicità Istruita, nei locali della “osteria moderna” Boccondivino dove lo slow food venne fondato, dove certo si mangerà ancora benissimo e in piena sintonia con la “filosofia” dello slow food, ma dove sembrerà di entrare in un museo, rischiando pure di sedere accanto a una umanità non meno insopportabile di quella dei commissari politici Nemega. Scelgo “Battaglini”, ristorante storico, di lunga e mai scalfita tradizione, l’istituzione gastronomica di Bra, prima che qui nascesse lo slow food.

Non si può che incominciare con la salsiccia di Bra – una salsiccia fresca che tuttavia, diversamente dagli usi nostri e di tante altre regioni, non si cuoce ma si mangia rigorosamente cruda, in modo da gustarne appieno la morbidezza, la fragranza, la sapidità. Un’altra peculiarità della salsiccia di Bra è che è di carne bovina, e di pregiate razze autoctone, e non suina! Un immancabile accostamento è quello con la carne cruda all’albese, carne della pregiata razza Fassona, battuta al coltello e poi sostanzialmente anche se brevemente marinata (sicché tanto cruda alla fine non è). Molti hanno pregiudizi del tutto immotivati – a parte la scelta rispettabile del vegetarianismo – nei confronti della carne cruda. La minima audacia dell’assaggio demolirebbe certamente questi loro pregiudizi.

Proseguo con gli agnolotti, al sugo di arrosto, perché stasera sono in vena di ortodossia e sarei anche disposto a seguire un corso di Nemega! Il vino è un degnissimo Barbera d’Alba. A Bra non si può che concludere con il formaggio, visto che da secoli la città è luogo di smercio dei formaggi prodotti sulle alture ed ora è centro della iniziativa “cheese”, sicché una città di pianura quale essa è ha donato il suo nome persino a un formaggio d’alpeggio, il Bra! L’assaggio prevede il Bra nelle sue due versioni, “morbido” e “duro”, ossia stagionato, e il Rasera, altra gloria locale, dal gusto più deciso del Bra.




Per togliere davvero il velo dinanzi alla Resistenza non basta di certo ciò che finora abbiamo scoperto e creduto di capire. Bisogna evitare di correre subito al termine glorioso della vicenda, al 25 aprile e si deve fronteggiare l’orrore di quell’ultimo interminabile inverno. Prima di sprofondare nell’incubo ci concediamo ancora un indugio, a Santo Stefano Belbo, quasi come fosse l’ultima sigaretta prima di affrontare il patibolo.

Santo Stefano Belbo è attaccato più che alla memoria di Fenoglio a quella dell’”altro”, di Pavese. Pavese nacque qui, infatti, o meglio sulla provinciale per Canelli, lo “stradone”. E nell’albergo della Posta, un tempo affacciato sulla immensa piazza centrale, lo scrittore fa risiedere il protagonista de La luna e i falò (mutando però il nome dell’albergo). Per Fenoglio, Johnny e i partigiani, il grande borgo della bassa val Belbo non era però meno importante. Quando ci si arriva, la grande piazza, l’inconsueta animazione fanno subito capire che questo è da secoli un luogo di mercato, di scambi e transazioni di ogni tipo, di feste, bagordi e intrattenimenti che attiravano la popolazione delle campagne e dei più miseri paesi vicini. Fu così anche durante la guerra e la Resistenza. A Santo Stefano i partigiani, appena si poteva, scendevano a divertirsi, “rossi” o “azzurri” che fossero: era “il paese-luna park”. E nel divertimento erano ovviamente comprese le ragazze. Quelle del posto si sapevano disponibili. Ma qui ritroviamo inaspettatamente la separazione fra i due “partiti”, sebbene nel suo aspetto più leggero. Le ragazze, forse ad evitare che scoppiassero litigi fra gli uni e gli altri, litigi che potevano facilmente e comprensibilmente degenerare in fatti di sangue, mostravano esplicitamente la loro predilezione, indossando nei capelli un nastro rosso oppure un nastro azzurro! Tuttavia, non di rado accadeva che una di loro passasse dal nastro di un colore a quello del colore opposto e questo finiva comunque per suscitare liti più o meno gravi e scontri più o meno estesi fra le due fazioni!

Dopo la caduta di Alba, all’approssimarsi del terribile ultimo inverno, le cose mutarono anche a Santo Stefano. La città non fu mai occupata stabilmente dai fascisti, che però stabilirono un fortissimo presidio nella vicina Canelli, sicché a Santo Stefano si viveva ora nel costante terrore delle incursioni fasciste, che effettivamente avvenivano di frequente e in modo imprevedibile. Tutto quindi terminò, il “luna park, i nastri delle ragazze, le liti fra partigiani, e la cittadina divenne buia, opprimente e minacciosa.

Salgo a Mango. E’ una tappa principale del mio itinerario fenogliano. A Mango, Johnny si arruola nelle fila degli “azzurri”, agli ordini di Pietro Ghiacci (“Pierre”, nel romanzo, perché questo era il suo nome di battaglia). A Mango conosce Pietro Balbo, il leggendario comandante “Nord” dei badogliani. A Mango per un certo tempo ci sarà anche un comando partigiano allocato nella grande fortezza che è ora la sede dell’”Enoteca regionale colline del Moscato”. Da Mango si parte per le azioni militari, a Mango si torna – anche nel periodo più buio e dopo che i fascisti l’avranno occupata per un breve tempo - per avere notizie dalla popolazione circa i loro movimenti, per ascoltare Radio Londra da “Costantino”, per rifornirsi di generi di necessità. Nei pressi di Mango, alla Cascina delle Langhe o a Valdivilla, tutto accadrà e tutto avrà la sua conclusione. Il sindaco, ovviamente, ha piazzato le targhe di ottone che ricordano Fenoglio in vari punti del paese  e del contado circostante, ha costruito il suo bravo itinerario fenogliano. Ma nonostante ciò, di quei giorni, di quelle vicende, sembra che non ci sia più memoria. Mi chiedo inutilmente dove era la farmacia, dove la bottega, dove la casa di Costantino, l’unico che era riuscito a nascondere un apparecchio radio, sottraendolo al saccheggio fascista e dove si andava ad ascoltare Radio Londra. Il paese giace sonnolento nell’ora meridiana; solo una vecchia signora va e viene dall’uscio della sua casa ristrutturata… Penso alla “vecchia” di Cascina della Langa (che poi aveva appena superato i cinquanta, ma nell’universo partigiano, popolato di tanti ragazzi adolescenti o poco più, un venticinquenne era già più che maturo, un trentenne o era un grande comandante o si trovava già al limite dell’età per “imbandarsi”, un quarantenne era una palla al piede e destava finanche sospetto…), la straordinaria vecchia che ospitava, nutriva, proteggeva i partigiani, con la sua inseparabile “cagna-lupa”… anche a Cascina della Langa c’è un prima e un dopo: da luogo di ristoro e sicuro ricovero a luogo spettrale.

Tutto dunque cambia con la sciagurata occupazione di Alba nell’ottobre del 1944. Chi volle prendere Alba, causando l’immancabile reazione nazifascista e la catastrofe che ne sarebbe seguita? Fu un tragico errore di calcolo? Si credeva davvero di poterla tenere fino alla fine della guerra, si credeva davvero che questa cittadina eretta a repubblica partigiana avrebbe resistito da sola, piccola isola di Italia libera, mentre tutta il resto del paese, dalla “linea gotica” in su, era ancora sotto la morsa nazifascista? O si volle un’azione “gloriosa”, pur sapendo che non sarebbe durata? O si volle sventolare una bandiera, pur sapendo che sarebbe stata presto travolta e con essa pure tante altre bandierine che fino a quel momento si erano innalzate più o meno sicure sulle colline circostanti e nelle valli Belbo e Bormida? A naso, sembra questo il tipico e nefasto stile dei “rossi”. Fenoglio, però, non denuncia con nomi e cognomi i responsabili della disastrosa impresa e si limita a farci sapere che non appena occupata la città, i comandanti badogliani Nord e Lampus ritornano subito sulle colline, perché le colline, e non la città, sono importanti, e vanno difese ad ogni costo.

A partire da novembre, comincia quindi l’incubo: i fascisti, fortemente appoggiati dai tedeschi, non si limitano a riprendersi Alba, ma risalgono in forze le valli Belbo e Bormida, entrano in ogni borgo, rastrellano ogni bosco, ogni rittano, ogni cascina, in una spaventosa caccia all’uomo. I partigiani sbandati, restano in gruppetti di quattro o cinque, poi di due o tre, poi, in molti casi, da soli. Così accadde a Fenoglio e così accade al suo alter ego Johnny. L’inverno si trascorre nascosti, andando raminghi, nel terrore di avvistare una pattuglia, con nelle orecchie il suono macabro delle raffiche che segnalano le fucilazioni sommarie dei catturati, tra una fuga e un’altra, un rifugio di fortuna che presto non è più sicuro e deve essere rimpiazzato da un altro, incerti sulla direzione da prendere e consapevoli che quasi certamente si tratta di scegliere solo “il posto di morte”, se in valle Belbo o in valle Bormida. Ospitati e scarsamente nutriti da una popolazione civile che ora è divenuta fredda, scostante, diffidente, comprensibilmente timorosa. Quei partigiani che prima erano accolti, festeggiati, coccolati come eroi, ora sono mal sopportati, se non addirittura traditi e venduti dalle spie che spuntano come funghi dopo la pioggia. E stiamo parlando della zona italiana dove probabilmente è stato più alto il consenso e il sostegno dei civili alla lotta partigiana!

E poi ci sono “loro” – i fascisti e i tedeschi – che appaiono onnipotenti e onnipresenti, che spadroneggiano ovunque, saccheggiano, devastano, catturano, torturano, uccidono.

E i comandanti, Nord che chissà dove va pure lui ramingo; Lampus che è privilegiato dai lanci degli inglesi e che certo, come dice un personaggio, è un “buon comandante”, ma buono soprattutto con se stesso, in quanto i rifornimenti se li tiene per sé (e per le sue truppe, ovviamente).

Già, gli inglesi, gli Alleati: sono fermi alla “linea gotica” e fanno sapere che non ci si muoverà se non a primavera, che solo a primavera scatterà l’offensiva finale e definitiva. E ai partigiani fanno sapere che fino ad allora, per loro non esisteranno più partigiani, che quindi è bene che si affrettino a “sbandarsi”, a tornare alla vita civile, in attesa di “reimbandarsi” alla fine dell’inverno in vista del gran finale. E’ il famoso e tragico “proclama Alexander” che Johnny ascolta nell’ultima sortita a Mango dalla radio di Costantino. E che suscita un’ira sacrosanta e feroce in lui e in ogni partigiano: “sbandarsi”, come se non avessero già provveduto i nazifascisti a “sbandarli”! Tornare alla vita civile! Già, consegnarsi a quei bravi camerati che gli stavano dando una caccia spietata, magari dicendo loro: sapete io non ho risposto alla vostra cartolina di reclutamento, mi sono voluto andare un po’ a divertire in montagna, ho giocato a fare il partigiano per qualche mese, ma ora è inverno, fa freddo, e ho deciso di seguire il consiglio del generale Alexander. Quindi, vi prego, trovatemi un alloggio al calduccio, con un buon vitto, che poi a primavera tolgo il disturbo, risalgo sulle colline, riprendo a tirarvi mitragliate e nemici come prima!

Ecco cosa accadeva su queste colline, nell’ultimo, interminabile, atroce inverno di guerra. Tutto è stato rimosso, dimenticato o trasfigurato dall’evento della Liberazione, pochi mesi dopo. Ma nulla si comprende di quell’evento e soprattutto dell’Italia che ne doveva nascere se non si ha il coraggio di guardare fino in fondo nel gorgo nero di quell’inverno.




Per sostenere una così fosca e angosciosa visione, per non fuggire anche io, ho dovuto lasciare le solitudini delle Alte Langhe e spostarmi in un luogo quasi mondano, almeno rispetto ai “Deserta Langarum” tra i quali mi aggiravo. La mia camera all’hotel “Il Grappolo d’oro” ha una magnifica, vasta terrazza che affaccia proprio sulla piazzetta di Monforte d’Alba. C’è sole, oggi, e un’animazione quasi turistica. Stranieri soprattutto. Non siamo più nel regno del nocciolo, ma in quello della vite, a pochissimi chilometri o solo a centinaia di metri dai regali vigneti di Nebbiolo da cui nasce il Barolo. Anche Monforte, peraltro, avrebbe le sue storie crudeli da narrare, ma sono molto più antiche e parlano di un popolo che è stato del tutto cancellato: qui i catari ormai sono solo il nome di un sentiero o quello di un bed and breakfast.

Appena sotto la piazza, un sobrio ingresso conduce al fasto dell’albergo-ristorante “Giardino. Da Felicin”, tra i migliori delle Langhe. L’hotel è caro per le mie tasche – e poi il “Grappolo d’oro” è già una sistemazione più che dignitosa, direi! - ma il ristorante, usando qualche accortezza, può essere violato. La sala è elegante, la clientela, ancora una volta, soprattutto straniera, inglesi e tedeschi. Felicin è un signore alto e ben piazzato, con due autorevoli baffi, e porta molto bene i suoi anni. Passa di tavolo in tavolo per accertarsi che i suoi clienti siano soddisfatti, intrattenendoli brevemente. Lo stesso fa la signora che poi scopro essere sua moglie, muovendosi agilmente e leziosamente sui tacchi a spillo. A prendere le ordinazioni, a servire i clienti, sono una schiera di camerieri e cameriere, né mancano un paio di sommelier. La premurosità che tutti hanno non sconfina mai nell’invadenza. In attesa del primo, mi fanno omaggio di una piccola entrèe, una freschissima zuppetta estiva di pomodori e semi di zucca, sorprendentemente gustosa. Ho ordinato delle trofie  con guanciale, mandorle e castelmagno, che trovo ordinariamente buone. Sopra ci ho bevuto due calici di due diversi tipi di Nebbiolo, il primo più fresco – Felicin mi ha garantito che è il suo Nebbiolo preferito – il secondo più strutturato. Assolutamente corretti, ma il Nebbiolo di Patrusso (e di Maurizio) resta superiore! L’eccellenza sarà invece raggiunta con il dessert, la degustazione di dolci della casa: meringa ai frutti di bosco, gianduiotto al caramello con colata di cioccolato fondente, bunet, gelato alla nocciola (tanto per non perdere le buone abitudini!). Un quartetto superbo! E con il caffè arriverà anche un’ottima piccola pasticceria, preparata, come mi rivela Felicin con una punta di orgoglio, da sua moglie. Il conto sarà onestissimo.




Sull’amena terrazza del mio albergo, nella luce del lungo crepuscolo estivo, posso riprendere il filo dei miei pensieri e quell’indagine sulla Resistenza, sulle origini dell’Italia repubblicana e democratica, che ormai è giunta al suo punto cruciale. Se quella ricordata prima era la situazione ancora a Natale del 1944, anzi, ancora a gennaio e a febbraio del 1945, che cosa bisogna pensare della primavera di Liberazione che ne seguì? E’ possibile che quei fascisti ancora così numerosi e tracotanti si siano dissolti nel giro di poche settimane, come la neve al disgelo? Non si saranno piuttosto mimetizzati, adattati, riciclati, i molti sopravvissuti almeno? E’ credibile che “loro” non abbiano avuto parte alcuna, se non nella nascita, nello sviluppo e nella crescita successiva della Repubblica? E se pure l’Italia antifascista non fosse nata per nulla da “loro”, ma solo da “noi”, non  nasceva forse questa Italia con la ferita già aperta di rivalità e conflitti, neanche tanto latenti, e senza quella radicata cultura democratica che avrebbe consentito di gestirli in modo civile e regolato quei conflitti? Perché, infatti, chi eravamo “noi”? i “rossi”, gli “azzurri”, ma anche, e soprattutto, i “bianchi”, quei cattolici meno presenti nella Resistenza (e comunque non assenti) ma che avrebbero facilmente conquistato una posizione dominante rispetto a tutti gli altri. Ma i neri da una parte e i rossi, gli azzurri e i bianchi dall’altra erano pur sempre minoranze che si fronteggiavano. Nel medio e lungo periodo il carattere dell’Italia non l’avrebbero deciso loro, ma la grande zona grigia della popolazione civile. E anche in questo caso, quell’inverno era carico di funesti presagi. Se persino nelle Langhe, tanta parte di questa popolazione si era intiepidita, se non raggelata del tutto, nei confronti dei partigiani, come si può pensare che a primavera rinascessero un entusiasmo autentico, un consenso consapevole, una partecipazione attiva e responsabile, le cose su cui soltanto si potevano costruire solide fondamenta per la nuova Italia?

No, seguendo Fenoglio-Johnny fin dentro il suo estremo, gelido, pauroso rifugio di Cascina della Langa, ponendoci nell’angolo visuale di quell’ultimo inverno, il “Vento del Nord” che si leverà a primavera non può che sembrarci una tempesta benefica, ma passeggera ed effimera. La Repubblica Italiana, la Repubblica democratica e antifascista nascerà da quell’inverno di ghiaccio e di terrore, molto più che dalle gloriose giornate di aprile.



Chissà se esiste ancora Cascina delle Langhe. Il pc è sul tavolino del terrazzo, faccio una ricerca su google, senza troppa speranza. E invece ho un sussulto: “Cascina delle Langhe, il luogo più famoso di tutte le Langhe…”

Apro la pagina…ora è un agriturismo, un agriturismo di lusso, con annessa Spa, sauna, hammam, corsi di yoga e pilates, massaggi “estetici ed etnici”. Che cosa poi saranno i massaggi “etnici”? Un massaggiatore nero per le donne e una thailandese per gli uomini?

Meglio pensarla distrutta dalle bombe degli alleati o dalle cannonate dei tedeschi. Cascina delle Langhe non c’è più, ripeto fra me e me, è finita come la vecchia dei partigiani, come la sua adorabile cagna-lupa, come Ettore, l’amico di Johnny preso dai fascisti, come lo stesso Johnny.

Ora davvero non c’è altro da fare che accompagnare Johnny – e noi stessi – all’epilogo di tutto: “la fine”, è il titolo che Fenoglio dà all’ultimo capitolo del suo capolavoro.



Il compimento della vicenda, tuttavia, non può dipanarsi dinanzi a me, mentre ancora sono nelle Langhe, sebbene nella parte più confortevole e gaia della regione. Sarebbe troppo. Devo mettere chilometri, città, campagne e montagne tra me e le Langhe. Una sosta ai piedi del Gran San Bernardo, in un pittoresco villaggio e in un rustico alberghetto e poi la salita e la discesa per il passo e dinanzi ecco pararsi lo spettacolo dei prati, delle vette, delle case di legno, di un paese che non ha conosciuto l’orrore della seconda guerra mondiale. Ma non basta ancora. Indosso gli scarponi da montagna, carico lo zainetto, impugno i bastoncini da trekking e mi avvio per il sentiero, prima largo e dolce, tra erba e ghiaia, poi brullo, ripido, aspro, tra il fango e i massi. Ma la fatica dell’ascesa è direttamente proporzionata al conforto che cresce nell’animo.

Ora sono pronto.




Più di un critico ha notato che i vari personaggi di Fenoglio, i Milton e i Johnny, muoiono sempre alla vigilia della Liberazione. Egli, è stato scritto, non riesce proprio a traghettare nessuno di questi suoi alter-ego fino alla sponda della riconquistata libertà. Un elemento legato all’incompiutezza di questi scritti di Fenoglio? Un’efficace soluzione letteraria? Dopo quello che mi è parso di capire mi assale il dubbio che la verità sia più profonda e più amara…



Il comandante Nord aveva dato appuntamento al poggio della Torretta, per il 31 gennaio. Sarebbe stato il giorno del “reimbandamento”, l’inizio, o almeno il prologo della riscossa e della offensiva finale. Una data “assurda”, secondo Johnny, una data ancora nel pieno dell’inverno.

Ecco, anche io sono là quel mattino, fantasma tra i fantasmi. Siamo tutti là, tutti noi che ci siamo formati nel mito e nel culto della Resistenza. E’ davvero il momento della verità.

I partigiani sono solo poche decine e sono tutti malmessi: le barbe lunghe, i visi smunti, le scarpe a pezzi, le divise logore e sporche, un lampo di terrore che attraversa di continuo gli sguardi, i nasi gocciolanti di raffreddore, i petti scossi così spesso dalla tosse. Anche il bel cappotto inglese di Nord è sdrucito. Nord, tuttavia, fa un bel discorso, un discorso da vero capo, riesce a infondere entusiasmo persino in quella turba così malconcia e nei contadini che accorrono sempre più numerosi e cominciano anche loro ad applaudire e inneggiare.

Ma un passaggio è quello che più colpisce:

“Vi vedo legnosi e intirizziti. Animo, dunque! L’inverno venturo saremo in pace, forse in una bella camera, calda a 22 gradi, forse in vestaglia, forse in pantofole e forse, pensateci! Sposati. Pensate che tragedia, che comica!” Tutti ridono. “Scommetto la testa che ci assalirà allora una barbara nostalgia di questo terribile inverno e piangeremo sì, piangeremo sulla sua memoria. Quindi: evviva questo inverno!”. E tra gli hurrà generali, un vicino di Johnny che fa “Ha ragione. Che diamine faremo il prossimo inverno…”

Ecco una prima traccia per trovare l’uscita dal labirinto… Johnny stesso ci fornisce la seconda, quando, più tardi, sfumato il breve entusiasmo, raccoglie i suoi pensieri:



“Johnny si coprì gli occhi, accecandosi alla miseria della giornata. Quanto aveva sognato il reimbandamento nei giorni più soli di dicembre e di gennaio, e questo era quel sognato compire, quel sognato godere? Sognò di essere già con gli inglesi, era già lontanissimo da questi compagni con cui era ancora a contatto di gomiti e cosce, a operare per loro e non più con loro. Si risentì orribilmente a sentirsi gomitare, ma era semplicemente Franco che gli additava la colonna fascista evacuante Mango…”



Sono arrivato al lago, 2865 metri indica la targa. E’ incredibilmente blu. Nessun suono, a parte qualche raro insetto e lo scampanare lontano delle mucche. Bevo un sorso d’acqua dalla borraccia e resto qualche minuto a contemplare. Il sentiero per il valico sarà certo più arduo di quello che ho percorso finora. Presagisco già le vertigini, ma impugno più forte i bastoni da trekking e mi incammino…



La località Valdivilla l’avevo cercata davvero, giù da Mango, in direzione del paese che era un luna park. Ho esaminato ogni vecchia cascina. Non di cascina, tuttavia, si parla nel libro, ma di case. “Quelle” case. Ho creduto di averle trovate, una ormai diroccata, le altre due a fianco con un aspetto meno desolato…



“Pierre disse a Johnny: ‘passa in testa e tira ai dieci all’ora’. Johnny eseguì e in un minuto le sue gambe già pistonavano freneticamente, con la travolgente sensazione del terreno che gli sfuggiva sotto i piedi come una guida di velluto. Condusse così per un paio di chilometri e già era in vista il paese di Valdivilla[…]A sinistra stava un crocchio di vecchie case intemperiate, appoggiate l’una all’altra come per mutuo soccorso contro gli elementi della natura e la stregata solitudine dell’alta collina[… ]Quando una grande complessa scarica dalle case fulminò la strada e Johnny si tuffò nel fosso a sinistra, nel durare di quella interminabile salva[…] poi fuoco ed urla esplosero alle sue spalle, certo i compagni si erano disposti sulla groppa della collina alla sua sinistra, il bren frullava contro le finestre delle case e l’intonaco saltava come lavoro d’artificio[…]’debbono arrendersi – gridò Pierre con la bava alla bocca – ora si arrendono’. E urlò alle case di arrendersi con disperazione. Johnny urlò a Pierre che era senza munizioni e Pierre se ne inorridì e gli gridò di scappare, di scivolar lontano e via. Ma dov’era il fucile di Franco?[…] Johnny smise di cercare il fucile di Franco e tornò carponi verso Pierre. Gridava ai fascisti di arrendersi e a Johnny di ritirarsi, mentre inseriva nel Mas l’ultimo caricatore. Ma Johnny non si ritirò, stava tutto stranito, inginocchiato nel fango, rivolto alle case[…]’Arrendetevi’ urlò Pierre, con voce di pianto[… ]

Ma in quella scoppiò un fuoco di mortai, lontano e tentativo, ad avvertire i fascisti del relief e i partigiani della disfatta. Dalle case i fascisti urlarono in trionfo e vendetta, alla curva ultima del vertice apparve un primo camion, zeppo di fascisti urlanti e gesticolanti. Pierre bestemmiò per la prima e ultima volta in vita sua. Si alzò intero e diede il segno della ritirata […] Dalle case non sparavano più, tanto erano contenti e soddisfatti della liberazione.

Johnny si alzò, col fucile di Tarzan e il semiautomatico…

Due mesi dopo la guerra era finita.”

Fine del libro. Fine di tutto.




Accaldato e affannato per la salita, mi fermo un attimo. Il sole viene coperto da una nuvola, il vento freddo gira intorno alla mia nuca, al collo, madidi di sudore. Sussulto in un brivido, per il vento che mi accarezza o per il pensiero di ghiaccio che è entrato, con forza implacabile, nella mia mente. Fenoglio non ha potuto traghettare né Milton, né Johnny, né alcuno dei suoi alter-ego sull’altra sponda, sulla sponda della Liberazione, dell’Italia nuova. Non ha potuto, perché quell’altra sponda, nell’ultimo inverno, è sparita nella nebbia e i sogni, gli ideali e i progetti del futuro sono rimasti in mezzo al  livido torrente e qui sono annegati.

Forse sto solo attribuendo a Fenoglio ciò che io stesso ho creduto di capire e di scoprire? Può darsi. Pure vi è la chiara, inesorabile, nuda verità di quelle sue ultime parole, dopo i puntini sospensivi, che coprono pietosamente la fine di Johnny: Due mesi dopo la guerra era finita. Non dice: “Due mesi dopo venne la Liberazione”. Non dice nemmeno: “Due mesi dopo il fascismo era crollato”. Non dice alcuna frase che possa alludere almeno a un positivo compimento di quella lotta per la quale il suo partigiano Johnny aveva dato la vita, con tanti altri. Viene solo registrato, con asettica oggettività, il fatto costituito dalla fine della guerra.

La mia indagine ha dunque avuto questo esito, paradossale e desolante. L’Italia “nuova” che doveva nascere dalla Resistenza non è mai realmente nata, o è stata soffocata nella culla; il “sol dell’avvenire” è tramontato già al primo baluginare dell’alba. Vane sono allora le recriminazioni sulla Resistenza “tradita” ed è inutile cercare di capire quando si sia deviata o insabbiata la corrente benefica della lotta di Liberazione, quando e come si sia esaurita la sua “spinta propulsiva”, quando l’Italia partigiana sia stata sconfitta; se già con la caduta del governo Parri alla fine del 1945 o con il trionfo democristiano del 18 aprile del 1948 o negli “anni di piombo” o ancora nella cosiddetta “seconda Repubblica”… Se qualcosa del genere è accaduto, se tradimento, deviazione, sconfitta o insabbiamento vi è stato, tutto ciò deve essere accaduto prima ancora del 25 aprile.

Ancora Gobetti. La Resistenza non ha riscattato il Risorgimento fallito o incompiuto, perché dopo un “Risorgimento senza eroi” abbiamo avuto una “Resistenza senza eroi”. L’Italia che nel fascismo aveva scritto la propria “autobiografia”, quella autobiografia ha continuato a scrivere dopo il fascismo, senza una vera soluzione di continuità.

Seguendo le orme di Fenoglio e di Johnny, tra valli e boschi, bric e rittani delle Langhe, ho sperato ancora di trovare quella dea affascinante che un giorno accese la mia passione e quella di tanti altri, prima e dopo di me, ma ho trovato solo un cadavere e il lezzo della putrefazione.



Le nuvole hanno di nuovo liberato il sole e la mia ascesa al valico è quasi conclusa. Ancora poche centinaia di metri. Sarà perché so la meta vicina, sarà per il baratro di diversa natura che mi sono spinto a contemplare, sento ora attenuarsi la stretta delle mie vertigini e cautamente, goffamente arrivo a girare un po’ il capo, per guardare, almeno di traverso, il precipizio che incombe sotto il sentiero…



“Johnny si alzò, col fucile di Tarzan e il semiautomatico…

Due mesi dopo la guerra era finita.”

Aveva mai rimpianto Fenoglio di non essere finito così, come Johnny, levandosi in piedi, col fucile, col semiautomatico, con ogni arma e ogni cartuccia rimasta, di non essere finito prima di vederla quella nuova Italia, nuova nell’abito, ma tanto simile a quella vecchia, all’Italia di sempre, in tutto ciò che sta sotto l’abito, nello scheletro e nella carne, nel cuore e nel cervello? Aveva desiderato di finire nel fango di quell’estremo inverno, piuttosto che nella melma dei premi letterari, abbattuto da una raffica fascista piuttosto che dalla stroncatura di un critico stalinista, sfinito a venti anni dagli stenti e dalle fatiche immani di quella lotta per la libertà, piuttosto che soffocato da un cancro ai bronchi a quaranta anni, chiudendo gli occhi su quella terra tante volte percorsa ai piedi di Mango, invece che in uno sconosciuto letto di ospedale a Torino? Il morbo maligno gli aveva però almeno risparmiato lo scempio di Cascina delle Langhe, dove ogni giorno Ettore e la vecchia e la cagna-lupa e Johnny stesso vengono venduti e uccisi sulla moquette della sala dello yoga o sul lettino dei massaggi, estetici ed etnici.



Sono ormai sulla cima, la modestissima cima che dovevo conquistare. C’è una larga pietra a terra, di fronte al dirupo che scende all’altopiano. Mi lascio cadere seduto e, senza più alcuna vertigine, guardo, rapito e stupito, il pendio scosceso e sassoso, e più giù, più giù, i prati di smeraldo, il lago di cobalto. Lo scampanare delle mucche si è fatto via via più lontano ed ora non si ode affatto.

C’è una gran pace quassù.



“Le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te” (Isaia 60,2)

















RORA' E JANAVEL

I maltagliati integrali con salsiccia di culatello dell'"Ostu' di Brusapere"


Il torrente Angrogna

                                      VALLI VALDESI

Chi arriva nelle Valli solitamente ha un buon motivo per venirci e questo motivo non ha mai nulla a che fare con il desiderio di gustare pietanze tipiche e di abbandonarsi ai piaceri della tavola, come invece può accadere, più che legittimamente, in tanti altri luoghi. Eppure, in un paese, in un mondo e in un tempo in cui si cerca di vendere tutto, a cominciare dalle proprie tradizioni, nessun visitatore può fare a meno, ben presto, di porsi la fatidica domanda: ma esiste una tradizione gastronomica valdese? Possibile che girando fra i tanti ristoranti e trattorie che ormai sorgono nelle Valli non ci si imbatta mai in un “menu della tradizione” o almeno in un “piatto tipico valdese”? Magari, si penserà, questa tradizione c’è, ma resta ben nascosta dietro l’encomiabile ritrosia dei valdesi a trasformare in merce o in oggetto di facile folklore la propria storia. Questa ritrosia è reale, ma la tradizione gastronomica non è celata per riserbo: semplicemente è molto scarna e umile, come ben si addice a quelli che in origine si chiamavano soltanto “i poveri” (Valdesi fu il nome inventato dai nemici, dagli inquisitori, e poi adottato da quelli che si intendevano così insultare, come tante altre volte è accaduto nella storia), quelli che qualche secolo dopo si unirono alle austere chiese della Riforma calvinista. Un’austerità che già prima di questo incontro storico era dettata dalla geografia della zona. Scarse, infatti, sono le risorse del territorio, limitatissime le materie prime disponibili. L’unico piatto relativamente, molto relativamente, famoso della gastronomia valdese è la cosiddetta soupa barbet. Un nome di certo non originario, giacché per secoli la soupa barbet, fu semplicemente la zuppa, la zuppa per antonomasia, quella immancabile sul povero desco delle famiglie della Valli: cavoli, pane raffermo, erbe selvatiche; in tempi più recenti, patate, qualche volta un  po’ di formaggio, qualche scorza preferibilmente.

Il nome con cui la si conosce oggi è invenzione recente, propria di un tempo in cui la ferita delle guerre di religione si è ormai cicatrizzata (sebbene le cicatrici, come è noto, possano riprendere repentinamente a dolere, specie nei tempi di passaggio). Barbet, barbetti era infatti il nome affibbiato ai valdesi, a mo’ di scherno, dai persecutori cattolici e sabaudi. “Barba”, in realtà, erano i predicatori valdesi medioevali, quelli che, dopo un lungo periodo di studi biblici e di meditazione, partivano a due a due, per le regioni più diverse  e lontane dell’Europa cristiana, per portare alle comunità allora sparse ovunque il Vangelo di Cristo e, soprattutto, per far riecheggiare il Sermone del Monte e le Beatitudini.

Comunque, è assai improbabile trovare la soupa barbet, almeno nei mesi estivi. E’ più facile, invece, reperire alcuni prodotti tradizionali recentemente valorizzati, come il sairas dar fèn, una ricotta stagionata, avvolta in sottili fili di fieno (per proteggerla dagli insetti!) o la moustardela, un insaccato, a base di sanguinaccio e ciccioli. Nulla di eccezionale.

E tuttavia, nella Valli si può mangiare molto bene a Rorà, all’Ostu di Brusapere. “Brusapere”, sta per “bruciapietre” ed è il soprannome degli abitanti del borgo (qui in ogni paese gli abitanti sono conosciuti con un nomignolo). Il riferimento è forse all’industria della calce. La zona ha infatti avuto una tradizionale attività di estrazione e cottura della pietra di calce, poi soppiantata nel XIX secolo dallo gneiss lamellare, o pietra di Luserna. Il nome del paese, invece, deriva da rou, quercia.

Oggi Rorà è un delizioso paesino arroccato a mille metri, su un cocuzzolo. La sua posizione ne ha determinato la storia, una storia particolarmente tragica. Rorà si trova in corrispondenza degli altri villaggi della Bassa Val Pellice, quelli usati come avamposti militari dai Savoia per il controllo della Valli e le azioni di repressione e di guerra: Luserna, San Giovanni, e i vari borghi di quella che poi sarebbe divenuta Torre Pellice. Luserna era anche il capoluogo del distretto. Tutti questi villaggi, a differenza di quelli dell’alta Val Pellice, per non parlare della Val di Angrogna e della val Germanasca – esclusivamente abitati da Valdesi – erano biconfessionali. I valdesi della Bassa Val Pellice, quando le cose si mettevano male, erano quindi i più esposti e avevano scarse o nulle possibilità di difesa. Non così, però, i rorenghi: qualcuno ha detto che la geografia è il primo fattore che determina gli uomini alla resa, al compromesso o alla resistenza. E Rorà, lassù in vetta, era predestinato a divenire luogo di resistenza estrema, focolaio di guerriglia, fucina di capibanda. Come Giosuè Gianavello, sicuramente l’eroe più leggendario della storia valdese, che pure è una storia di per sé epica.

Gianavello, o Janavel, altro non era che un contadino agiato: prima di arrivare su in paese si incontra il casolare di pietra che si dice gli sia appartenuto. Questo semplice contadino, nel 1655, allorché le truppe del marchese di Pianezza invasero le Valli, decise a metter fine alla “eretica pravità”, si trasformò nel leader della resistenza valdese. La Bassa Val Pellice, come al solito, era stata facilmente occupata e saccheggiata. Il Marchese aveva così informata del felice esito colei che si deve ritenere la vera ispiratrice dell’azione – Cristina di Francia, “Madama Reale”, reggente per conto del quattordicenne Carlo Emanuele II, cognata del decapitato Carlo II Stuart e sorella del  re “cristianissimo” Luigi XIII: “Ho fatto alloggiare le truppe a soddisfazione e le fo provvedere del vino a spese di questi barbetti. Si darà l’ultimo sterminio alla ribellione e all’eresia, che infetta uno dei più bei quartieri del Piemonte, a eterna gloria di Vostra Altezza reale”. La quale Altezza Reale, ricevuto il dispaccio si affrettava a sua volta a informare a Roma il papa Alessandro VII, ispiratore dell’ispiratrice, evidentemente: “si è determinato di portare la falce alla radice, e di estirpare una volta questo male, che con poco progresso di tempo si sarebbe incancrenito e reso incapace di rimedio”.

Persino le roccaforti dell’Alta Val Pellice, Villar e Bobbio, cedettero senza quasi resistenza e gli abitanti terrorizzati promisero di abiurare. Alcuni gruppi, in realtà, si erano rifugiati come già in passato nelle vette più impervie sopra Bobbio e sopra Angrogna, ma buona parte di loro, sfuggiti al ferro e al fuoco del Pianezza, erano caduti vittima del gelo e delle tormente di neve di quei giorni. Restava la Val San Martino, ma sembrava inevitabile che presto sarebbe giunta anche la sua ora. E restava Rorà, che il Pianezza aveva preferito per il momento aggirare, non considerando evidentemente di prima necessità la conquista di quell’impervio villaggio. Ma a Rorà c’era Gianavello. Quando, infine il Marchese si decise a muovere contro il borgo, si trovò di fronte una inaspettata resistenza, da parte di chi univa la ferrea determinazione a difendere la propria fede, le case, le terre e le famiglie, a una perfetta conoscenza dei luoghi. Alla fine, di fronte a un attacco condotto da più parti, Gianavello dovette ritirarsi: fuggì oltre i confini, in Francia, con pochi altri uomini. Intanto il paese veniva saccheggiato e gli abitanti deportati; pure la moglie e la figlia di Gianavello furono imprigionate. Dopo alcuni giorni, Gianavello rientrò nell’alta Val d’Angrogna, si unì a poche altre bande che resistevano, cercò di coordinare le sue azioni con quelle di un altro capo guerriglia, Jahrier. Erano azioni limitatissime, in quel momento tutto sembrava perduto e forse Gianavello voleva solo prendere prigionieri in ostaggio da scambiare con la moglie e la figlia. Forse quei pochi disperati continuavano a combattere perché era l’unica cosa che sapevano fare e perché avevano scelto quel modo di morire. Le loro azioni, comunque, tormentavano non poco gli assalitori, ora anche francesi, tanto che il Marolles, che pure comandava 2000 uomini ben armati ed equipaggiati, così si sfogava per lettera: “vorrei sterminarli tutti… sono estremamente mortificato di non poter sterminare quella maledetta razza… sto perdendo il mio onore con quelle canaglie che non sono mai ferme allo stesso posto”. Come tutti i grandi guerriglieri, Janavel e Jahrier (che di qui a poco doveva perdere la vita in uno dei tanti scontri) non avevano nessuna strategia, ma erano  maestri di tattica. Quale strategia si poteva del resto avere nelle loro disperate condizioni?

Ciò che essi però ignoravano è che in quelle settimane, un altro fondamentale personaggio di questa storia, il pastore Leger, percorreva in lungo e in largo l’Europa, mandava missive e inviati, cercava di muovere il cuore e la coscienza delle potenze protestanti d’Europa: il popolo fedele, l’”Israele delle Alpi”, il “resto biblico” che mai si era inchinato a Baal, veniva sterminato e stava per essere cancellato dalla terra. Il primo, il più pronto a commuoversi e a muoversi fu Cromwell. Ma questa è un’altra storia, che merita di essere raccontata per bene un’altra volta. La storia che raccontiamo adesso è solo quella di Gianavello, del ricco contadino fattosi guerrigliero, che con la sua ostinata resistenza prima, e poi con le sue sortite disperate, contribuì a guadagnare tempo, quel tempo che serviva a smuovere l’Europa protestante, quel tempo che assecondava forse il piano di salvezza che il Signore aveva già tracciato per i suoi eletti.

L’intervento diplomatico inglese fu comunque decisivo e l’armistizio sorprese Janavel che ancora combatteva ed anzi contrattaccava efficacemente, sorretto anche dai primi aiuti che giungevano dall’Europa. Le “Patenti” che il Savoia fu indotto a concedere confermavano lo status quo ante: la campagna militare del Pianezza aveva seminato lutti e distruzioni ma alla fine non aveva raggiunto il benché minimo risultato. La comunità valdese poté ricostituirsi: i prigionieri, i fuggitivi, i momentaneamente cattolizzati ritornavano alla loro vita di prima, almeno dopo aver pianto i loro morti e messo mano alla ricostruzione di ciò che era stato devastato.

Anche Janavel poteva dunque tornare alla sua vita di ricco contadino, circondato dall’affetto e dalla stima dei suoi paesani, pressato certamente dalle loro richieste nelle riunioni serali, al tepore della stalla: come fu che riuscì a scampare e fuggire in Francia? E come fu poi lassù in montagna quando tornò? E Jahrier, il povero Jahrier, il grande Jahrier, che comandante era? E lui a ripetere cento volte le medesime storie, fra le tante, quelle che meglio ricordava, che non sbiadivano nella memoria, perché si fissavano a un dettaglio magari poco significativo, ma capace di farle sopravvivere più a lungo.


L’ Ostu di brusapere sta proprio nella piazzetta, vertiginosa balconata sulla valle e, tempo permettendo, si può mangiare anche nel dehors, godendosi il panorama. La proposta è abbastanza varia e comprende piatti inventivi, anche poco legati al territorio, piatti di pesce giunto qui dalla Liguria. Meglio, però, che si resti sulla cucina di territorio e su ciò che i gestori ricavano dal proprio orto o comperano dagli allevatori della zona. Ad esempio, per cominciare, uno sformatino di funghi (o di asparagi, a seconda della stagione) con fonduta di toma. Chi invece avesse una irresistibile nostalgia della cucina di mare può gettarsi sull’insalatina di sgombro e gamberoni allo zenzero. I vini sono i classici piemontesi: le Valli non ne producono quasi.


No, Janavel proprio non ebbe il tempo di riprendere una vita normale, sia pure impreziosita dalla memoria delle gesta compiute. E forse a quella vita non si sarebbe nemmeno riadattato. Molto presto accadde un fatto che rischiò di riaprire il conflitto: i Savoia incominciarono i lavori per la costruzione di un forte nei pressi di Luserna, nell’abitato della Torre, violando apertamente l’accordo raggiunto e le Patenti concesse. Si levarono proteste, si organizzarono delegazioni. I più radicali, però, pensavano che fosse del tutto inutile discutere e trattare con un sovrano che si era rivelato così infido (del resto, fra i principi cattolici le promesse e la parola date agli “eretici” non erano considerate impegnative). E ripresero la guerriglia. Fra questi, anzi alla testa di questi, ritroviamo il nostro Janavel. La repressione del Savoia si scatenò nuovamente, ma la questione valdese era ormai divenuta un affare internazionale e dunque ben presto non si potè che raggiungere un nuovo accomodamento, che poi altro non era che la conferma del precedente. Salvo il fatto che i capi dell’ultima rivolta furono “banditi” e costretti all’esilio.

Gianavello partì per Ginevra. A Ginevra aprì una locanda, ma continuò a restare in costante contatto con le Valli. Forse capì che quell’esilio così amaro era stato in fondo una benedizione del Signore, un segno della speciale benevolenza che l’Eterno aveva nei suoi confronti. Perché l’esilio forzato gli risparmiò lo spettacolo del nuovo massacro, nel 1686 e l’anno dopo, ben più terribile di quello precedente. Non vide coi suoi occhi e non soffrì direttamente nella sua carne la deportazione e la dispersione dei sopravvissuti, nelle diverse prigioni del Piemonte, diverse per luogo, ma tutte uguali per il freddo, l’umidità, la fame, i ratti, gli scarafaggi, lo scherno, il disprezzo e le crudeltà dei carcerieri. Non vide le teste tagliate infilzate sui pali (e tra quelle teste forse ci sarebbe stata pure la sua); non vide i bambini strappati alle madri e precipitati dalle torri e dalle rupi, e quelli rapiti e portati a famiglie che figli non potevano averne per venir cresciuti da buoni papisti; non vide case e terre occupate da gentaglia savoiarda e i templi distrutti o riempiti di idoli.

Molte cose, però le venne a sapere e certo seppe dello sterminio completo dei suoi paesani, i fieri rorenghi che anche senza il loro condottiero avevano opposto resistenza, avevano rigettato resa ed abiura e ora stavano di certo dinanzi all’Eterno, che asciugava tutte le loro lacrime.

Immaginiamo la sua rabbia impotente per trovarsi lontano e ormai vecchio, mentre i suoi fratelli venivano massacrati. Tuttavia, questa volta poté dare egli stesso un contributo al nuovo intervento protestante che consentì l’espatrio ai valdesi scampati al massacro. I profughi, secondo gli accordi presi col Duca, dovevano finire in Germania, il più lontano possibile dalle loro Valli, perché non gli saltasse in mente la malsana idea di ritornarvi. La gran parte, però, transitò per Ginevra.

Lo immaginiamo, dunque, ad accogliere i suoi correligionari e compaesani alle porte della città, insieme a una folla commossa e partecipe di ginevrini. Immaginiamo pure lo stupore dei soldati sabaudi che scortavano quella massa di derelitti, abbattuta dalla lunga prigionia, dalla fame, dal freddo, dai lutti patiti, dal ricordo delle case e delle terre abbandonate, immaginiamo lo stupore che dovettero provare quando videro quella folla di ricchi ginevrini e distinte signore ginevrine che correva ad abbracciare, o solo a toccare, come fossero reliquie, quei poveri straccioni, che si affannava a coprirli con qualche panno e a nutrirli con qualche pane, a dissetarli con qualche sorso d’acqua. Immaginiamo la gioia di Janavel, pur resa amara dall’assenza di rorenghi tra gli scampati. Mesi dopo, si organizzò la spedizione per il ritorno nelle Valli, quello che diventerà il Glorioso Rimpatrio”, la pagina più epica della storia valdese. Janavel era ormai vecchio e non poté unirsi alla marcia dei suoi, ma volle preparare per loro delle minuziose istruzioni, dettate dalla sua esperienza di guerrigliero. Quelle istruzioni furono preziose e più di una volta salvarono i reduci dalla disfatta. Il libello del contadino divenuto capo militare divenne poi addirittura un classico dell’arte della guerriglia organizzata, oggetto di studio per lungo tempo nelle accademie militari.

E il Signore usò ancora grande misericordia a Janavel, risparmiandogli la condivisione di quella marcia di rientro che divenne “gloriosa” solo alla fine e nella memoria, ma che tormentò in ogni modo, con indicibili sofferenze materiali e morali, chi vi prese parte e moltissimi ne uccise. Il Signore lasciò pure che alla fine la lieta notizia del rientro dei suoi fratelli nelle amate Valli giungesse su Janavel, prima che si concludesse la sua esistenza su questa terra.


Gloriosi, sia pure di una gloria tanto più modesta e profana (e in compenso priva di ogni tribolazione), meritano di esser detti anche i maltagliati di farina integrale, con una strepitosa salsiccia di culatello, che si possono gustare a Rorà, nella nostra osteria. Se dovesse malauguratamente mancare la salsiccia, potrete ripiegare su funghi e pancetta, ma non sarà la stessa cosa! Eviterei decisamente i tagliolini cacio e pepe, mentre gli agnolotti di patate con accompagnamento di mare (gamberoni, cannolicchi o altro a seconda del pescato) possono rappresentare una positiva tentazione.

Il menu dei secondi, all’Ostu de brusapere, offre poi semplici costate di vitello, agnello oppure, proposta meno tipica ma gustosa, una doppia milanese con maionese d’aglio.


Rorà conobbe altri giorni drammatici e fu ancora centro di resistenza in tempi ben più recenti, durante l’ultima guerra. Come è stato scritto, le chiese valdesi avevano accolto il fascismo senza alcun entusiasmo, ma senza nemmeno una aperta opposizione. Il regime, del resto, teneva sotto stretto controllo le chiese protestanti, ma senza esercitare alcuna azione repressiva, come invece accadde nei confronti dei pentecostali o dei testimoni di Geova. In questo, vi fu forse anche un preciso calcolo politico da parte di Mussolini, consapevole che una persecuzione ai danni dei protestanti avrebbe gravemente compromesso i suoi tentativi di accreditarsi presso governi e opinione pubblica di Inghilterra e Stati Uniti. Le chiese, dal canto loro, rinunciarono a qualsiasi esplicita opposizione per preservare la facoltà che era loro lasciata di predicare la Parola e tenere il culto, sia pure sotto strettissima sorveglianza. E’ una scelta che si può discutere. E’ la scelta di una chiesa che si era lasciata dietro i tempi delle persecuzioni e dei massacri, i tempi di Janavel, e certo viveva nell’incubo che quei tempi potessero tornare. Un gruppo rilevante, però, con il passare degli anni condivise sempre meno questa posizione, finché non giunse a contestarla decisamente. Era il gruppo dei cosiddetti “barthiani”, che intesero seguire l’esempio della chiesa “confessante” e della dichiarazione di Barmen, redatta appunto da Barth, ed era guidato da uomini come Miegge e Subilia. Essi restavano però in minoranza, come si vide drammaticamente nel Sinodo del 1943 che si tenne proprio nei giorni dell’armistizio, a cavallo dell’8 settembre. Vi fu allora una insperata e brevissima finestra di opportunità per far sentire finalmente una voce forte contro il fascismo, una finestra che si sarebbe chiusa prestissimo con il precipitare del centro-nord nella morsa dell’occupazione nazista e della repubblica sociale. Quella finestra, colpevolmente, non fu utilizzata: un ordine del giorno presentato da Subilia che si risolveva in una potente e drammatica confessione di colpa per il silenzio durato per anni di fronte ai crimini fascisti incontrò una nutrita opposizione e alla fine fu ritirato.

Il popolo valdese seppe però riscattare queste omissioni dei suoi organismi di chiesa, partecipando senza riserve alla Resistenza, offrendo alla lotta di Liberazione le sue valli e i suoi uomini (e molti caddero da partigiani). Il Partito d’Azione pose finanche il proprio comando nelle Valli. La storia si ripeteva: i centri della bassa Val Pellice divenivano basi operative dei nazifascisti, le antiche roccaforti valdesi vedevano insediarsi i comandi partigiani. E Rorà fu di nuovo in prima linea, ebbe case incendiate, ebbe i suoi martiri, come tanto tempo prima.

Ma non è tutto: Rorà si distinse in modo del tutto speciale, ancora una volta. Ben trenta famiglie ebree furono ospitate e salvate in quei mesi. E considerando quanto piccolo e poco abitato sia il villaggio si può capire cosa significhi questo dato: praticamente ogni famiglia rorenga si prese cura di una famiglia ebraica!

Di tutti gli episodi della Resistenza nelle Valli questo è forse il più luminoso, perché riscattò l’indecente silenzio della Tavola di fronte alle leggi razziali e mostrò che nulla poteva, può e potrà distruggere i sentimenti di fratellanza dei valdesi per il popolo di Israele, sentimenti nutriti e cementati dalla comune storia di persecuzioni e genocidi.


Per concludere la cena nella bella locanda di Rorà, più che sul dessert (più che altro semifreddi), conviene andare sui formaggi (che possono anche egregiamente sostituire la carne), tutti di allevatori locali. Le gentilissime signore che vi avranno servito vi offriranno infine un ottimo digestivo della casa. Da non mancare, anche per alzare un brindisi ai grandi e piccoli eroi della storia valdese di Rorà, a Janavel e a chi protesse gli ebrei. E per lodare, soprattutto, l’Eterno, che solo è capace di trasformare un semplice contadino in un invincibile capo guerrigliero, che solo può dare agli umili esposti alle persecuzioni, lontane e recenti, il coraggio di compiere ciò che è giusto.


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