In un articolo sulle Olimpiadi
vorremmo parlare delle performance di straordinari atleti come il nuotatore
americano Phelps o la mezzofondista etiope Ayana, vorremmo parlare soprattutto
del sano “spirito olimpico” che dovrebbe affratellare popoli di diversa etnia,
cultura e religione, e che sarebbe veramente salutare in un momento così cupo
della storia contemporanea. Purtroppo, lo scontro di civiltà e l’ipocrisia del
politicamente corretto hanno fatto violentemente irruzione negli stessi giochi
olimpici, compromettendone quello che dovrebbe esserne l’autentico valore.
Stiamo osservando il penoso,
grottesco e inusitato spettacolo di atlete musulmane che gareggiano coperte
dalla testa ai piedi anche in discipline sportive come il beach volley o i 100
metri piani che esigono un ben diverso abbigliamento per agevolare le
prestazioni dei concorrenti. La foto della pallavolista araba che fronteggia,
costretta nel suo cilicio, un’avversaria che veste invece il più succinto, e
funzionale, bikini è quasi un simbolo del conflitto di civiltà in atto. Un
conflitto che passa violentemente sul corpo e sulla libertà delle donne, come
accade in tutte le guerre della storia, che siano combattute con le armi da
fuoco o da taglio o con quelle non meno potenti e pericolose delle ideologie.
Eppure, il percorso della emancipazione
femminile nel Novecento era stato contrassegnato anche dalle conquiste nel
campo dello sport. Quante volte abbiamo sottolineato nei decenni passati la
differenza fra le olimpiadi antiche, che erano precluse alle donne, e quelle
moderne, nelle quali, sia pure gradualmente, le donne hanno finito per
conquistare lo stesso spazio degli uomini, hanno via via ottenuto l’accesso
alle stesse discipline, superando ogni tipo di pregiudizio, da quelli sessuali
a quelli di carattere pseudo-scientifico! E questo percorso, in sede di
olimpiadi, aveva finito per coinvolgere anche le donne provenienti da altre
culture, da culture diverse da quella occidentale. Oggi si segnala invece un
drammatico regresso, simboleggiato dalle tute di costrizione e dai veli delle
atlete islamiche; e più drammatico ancora è forse il silenzio delle attuali
femministe, quelle stesse che si indignano se un sindaco donna non viene
chiamata “sindaca”.
Una “cultura” che impone alle
atlete quel tipo di abbigliamento, o che le spinge ad autoimporselo, mortifica
proprio un fondamentale elemento fascino delle olimpiadi, che servono non solo
ad ammirare e celebrare le prestazioni e le capacità agonistiche dei
concorrenti, ma la bellezza e l’armonia dei loro corpi, in molte se non in
tutte le discipline. Così accadeva anche nell’antica Grecia, ove gli atleti
gareggiavano nudi e nudi sono stati immortalati nelle statue dei grandi artisti
dell’epoca. Ma ciò valeva naturalmente solo per i maschi, sicché ci restano le
statue che esaltano la bellezza delle dee, ci resta la Venere di Milo, ma
ovviamente non abbiamo nessuna statua che ritrae una discobola. Se abbiamo letto come “progresso” ciò che
invece è accaduto nelle Olimpiadi moderne, fino alla penultima, come si può non
leggere ora come “regresso” la triste immagine di certe atlete arabe, come si
può non scorgervi l’inquietante possibilità che si compia ora il percorso
inverso e che le donne di certi paesi siano nuovamente escluse dalle gare
sportive, segno della loro emarginazione dalla vita pubblica e civile, della
loro segregazione e mortificazione? E come
si può restare in silenzio, proprio mentre si urla per le battute di Salvini
sulla Boldrini o per le vignette di Mannelli sulla Boschi?
Queste Olimpiadi dovranno essere
ricordate come le Olimpiadi della vergogna, per un’altra serie di episodi
ancora. Si tratta di episodi di intolleranza antisemita, mascherata da
antisionista. Già nei primissimi giorni un gruppo di atleti libanesi si è
rifiutato di salire sullo stesso bus con gli atleti israeliani. Quindi, un’atleta
saudita ha disertato l’incontro con una israeliana. Ieri, il fatto più
clamoroso: il judoka egiziano El-Shehaby dopo il match perduto contro l’israeliano
Ari Sassoon, si è rifiutato di stringere la mano che l’israeliano gli aveva
teso. Un video ha immortalato sul web l’indecente gesto dell’egiziano. Intanto,
giungeva la notizia del tennista tunisino che si rifiutava di incontrare un
tennista israeliano…
Tutti questi episodi – e altri
certamente ne accadranno nei prossimi giorni – calpestano nel modo più obbrobrioso
quello che dovrebbe essere il significato delle Olimpiadi e dello sport in
genere. Nel caso del judoka egiziano sono violate e mortificate anche le
secolari, rigorose regole di fair-play che caratterizzano questa disciplina.
I fatti suddetti non hanno, però,
trovato alcuno spazio sui media italiani. Soltanto il caso del judoka è stato
riportato, ma senza risalto, da qualche giornale online, come Repubblica (unica
eccezione Libero che lo ha invece titolato a tutta pagina). Nessuno ha
ricordato che nella storia delle Olimpiadi è esistito un clamoroso e tragico
caso di razzismo, che si è estrinsecato proprio nel rifiuto di stringere la
mano di un atleta a motivo della sua etnia. Si verificò alle Olimpiadi del 1936
di Berlino, quando Hitler preferì abbandonare lo stadio, per non doversi complimentare
con il grande Owens. Non c’erano neri in Germania, ma c’erano ebrei, ebrei come
Ari Sassoon: l’anno prima erano state promulgate le leggi razziali, quell’anno stesso
incominciarono ad essere applicate su larga scala e sei anni dopo fu adottata
la cosiddetta “soluzione finale”.
Niente. I “progressisti”, la
sinistra, quegli stessi che si commuovono ogni anno per la giornata della
Memoria (non costa nulla piangere per gli ebrei ormai morti o sui pochissimi
superstiti) non battono ciglio di fronte a questi indecenti comportamenti. Il
Cio si guarda bene dal prendere provvedimenti, non squalifica gli atleti
responsabili dell’obbrobrio, non li espelle dal villaggio olimpico. E c’è di
più: si può tranquillamente ipotizzare che, fossero stati al posto del judoka
egiziano o degli atleti libanesi, molti occidentali progressisti e di sinistra,
molti ragazzotti dei centri sociali e dintorni, molti ammiratori dei 99 posse,
del sindaco De Magistris e di Moni Ovadia si sarebbero comportati esattamente
come loro.
Immaginate, invece, che cosa
sarebbe accaduto a parti invertite, se un israeliano – per assurdo – si fosse
rifiutato di stringere la mano a un atleta arabo? O se un gruppo di atleti
bianchi – olandesi, svedesi, americani “wasp” – si fossero rifiutati di salire
sul bus insieme ad atleti di colore? Ne sarebbe nato lo scandalo dell’anno.
Del resto, basta dare un’occhiata
a certi commenti. Qualche "progressista",anche israeliano mi dicono, sostiene che è
stato l’atleta israeliano ad aver offeso per primo l’egiziano: non avrebbe dovuto
nemmeno tendergli la mano, forse per “rispetto” della diversità culturale. Quella dell'israeliano è stata quasi una provocazione! E qualche
altro, scelgo un commento a caso fra i molti che si potrebbero citare, ha
affermato che “sì l’egiziano, però anche un atleta del beach volley americano
ha protestato contro un giudice di gara e ha fatto il gesto di tagliargli la
gola… e nessuno ha più morti sulla coscienza degli americani e degli israeliani”.
Che cosa c’entri la reazione stupida di un singolo atleta arrabbiato per una
decisione arbitrale con un gesto razzista tutt’altro che isolato e anzi
provocato, come ora diremo, da una pressione di massa è il mistero insondabile
della stupidità umana.
Il “sì, però” è ormai un topos. Ogni volta che si prova a dire
che forse abbiamo qualche problema con il mondo islamico, scatta il “sì, però”
che nega e rimuove il problema e impedisce qualunque analisi e discussione. Un
jihadista si fa esplodere in un aeroporto? “Sì però’… il colonialismo, le
crociate, le guerre di Bush, la Palestina, la miseria, l’emarginazione, il
traffico delle armi”. Un rappresentante islamico, del cosiddetto islam
moderato, vuole legalizzare la poligamia? “Sì, però… il sessismo dell’Occidente,
i femminicidi, gli uomini occidentali fedigrafi e adulteri, la diversità
culturale, il rispetto delle differenze….”. Un uomo dell’Isis si lancia con un
camion sulla folla? “Sì, però… ‘noi’ vendiamo le mine all’Isis” (copyright Gino
Strada). Orde di maghrebini molestano le donne di Colonia? “Sì, però… ci sono
anche i cattolici che uccidono le suocere” (copyright Bergoglio). Dei
disegnatori vengono uccisi per una vignetta su Maometto? “Sì, però… se uno
offende mia madre io gli tiro un pugno” (sempre lui).
Tuttavia, io non temo soltanto i “giustificazionisti”
a ogni costo, quelli del “sì, però”, quelli che in fondo in fondo simpatizzano
con gli integralisti islamici, perché sono stati, e a volte sono ancora,
integralisti di altre ideologie (comunismo, in primis), perché fra loro e i
jihadisti, in fondo, c’è una corrispondenza di amorosi sensi. Io temo anche e
soprattutto la posizione di tutti quelli che condividono pure ciò che sto
cercando di esporre, ma minimizzano il problema o comunque non lo avvertono
nella sua reale gravità.
Minimizzare è credere che si
tratti di singoli casi, per quanto frequenti o numerosi; minimizzare e
sottovalutare il pericolo è non capire che non di singoli casi si tratta e
nemmeno di minoranze fanatiche, ma di una “cultura” che è largamente
maggioritaria in una vasta e popolatissima area del mondo – un’area del mondo e
una “cultura” che oltretutto si stanno trasferendo sempre più massicciamente
qui da noi. Basti pensare alle dichiarazioni degli atleti protagonisti degli
episodi citati. A chi gli ha chiesto spiegazioni del suo gesto, il judoka
egiziano ha dichiarato che per giorni era stato esposto a una grande pressione
da parte di media e opinione pubblica del suo paese, che pretendevano che si
rifiutasse del tutto di incontrare l’israeliano. Aveva resistito a queste
pressioni, perché, ha detto, per lui “sport e politica non vanno mischiati”. E
tuttavia, non se l’è sentita di stringere la mano all’avversario. Se così è,
altro che caso isolato! El-Shehaby è meno colpevole dei giornali, dell’opinione
pubblica, dei social, delle masse dei suoi connazionali! E si badi, che non stiamo
parlando del Califfato o dell’Arabia Saudita o del Qatar, ma dell’Egitto, paese
arabo moderato, filooccidentale e in fondo amico – il suo governo, almeno – di Israele.
Dichiarazioni simili, a quanto pare, quelle del tennista tunisino. E anche in
questo caso va notato che parliamo della Tunisia, paese con un governo
semi-laico, l’unico rimasto in vita tra quelli delle “primavere arabe”.
Né va minimizzata la portata dei double standard, delle rimozioni, delle
omissioni e bugie che derivano dal dominio del politically correct fra le
classi dirigenti e gli intellettuali occidentali. Non va sottovalutata la “dittatura
del politically correct”. Essa impera, ormai, in tanti college americani, ove
il politically correct impone regole, pratiche, costumi, condiziona programmi
di studio, porta all’emarginazione di docenti “non allineati”.
Per cogliere la reale dimensione
e gravità del problema vorrei proporre - qui solo accennandola ma
ripromettendomi di svilupparla nel prossimo futuro - un’analisi che adotta
categorie marxiane e gramsciane – quelle categorie che forse dovrebbero
ricordare e utilizzare quelli che si dichiarano ancora orgogliosamente di “sinistra”,
e in qualche caso addirittura “comunisti”, più che un esule, un “profugo” dalla
sinistra come il sottoscritto (un esule che peraltro non è mai stato comunista).
Queste categorie, tuttavia, non le applicherò, come Marx ed Engels, alla lotta
di classe – che pure a mio avviso esiste ancora e come se esiste – ma al “conflitto
di civiltà”, ritenendo che il modello del clash
of civilitation è quello che può meglio spiegare i più importanti
macro-fenomeni del mondo attuale, o almeno il maggior numero di essi e nel modo
più soddisfacente (o meno insoddisfacente). Non si tratta di sincretismo, quindi,
ma della logica stessa dell’indagine scientifica. A questo stesso modello, al
suo valore esplicativo, tornano però molto utili certe categorie marxiane e
quelle gramsciane, che ne sono un brillante sviluppo.
In sintesi. Marx ed Engels
sostengono che per una trasformazione rivoluzionaria della società non bastano
le “condizioni oggettive”, quelle di carattere “materiale”, legate innanzitutto
allo sviluppo delle forze produttive, alla dinamica dei rapporti di produzione.
Non basta nemmeno che la classe oppressa abbia gli strumenti, le “armi” adatte
alla trasformazione rivoluzionaria: i mezzi di comunicazione di massa, il
sistema di trasporti, le tecnologie di supporto all’azione rivoluzionaria,
ecc.. Tutto questo non serve a molto se manca alla classe oppressa la “coscienza
rivoluzionaria di classe”, che è poi la condizione “soggettiva” della
trasformazione rivoluzionaria. E questa condizione non si raggiunge fino a che
la classe oppressa resta mentalmente e culturalmente asservita all’ideologia
dominante – o meglio all’ideologia tout court, perché per Marx l’ideologia, è sempre
quella delle classi dominanti, l’ideologia è mistificazione della realtà al
servizio della classe dominante e gli spiacerebbe molto sentire tanti che
definiscono “ideologia” il suo comunismo! Altro che volgare materialismo,
quindi!
Gramsci, dal canto suo, riprende
e sviluppa questo punto, in una prospettiva diversa. Lo fa quando cerca di
interpretare la sconfitta del Partito d’Azione e di Mazzini e la vittoria dei
moderati, di Cavour e del Savoia, nel Risorgimento italiano. “La supremazia di
un gruppo sociale”, scrive nei Quaderni
“si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e
morale’”. Il “dominio” si esercita attraverso i mezzi coercitivi, gli elementi
di forza. E’ il corrispettivo delle “condizioni oggettive” della trasformazione
rivoluzionaria in Marx ed Engels. Esso, però, non è sufficiente: “un gruppo
sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere (e
questa è anzi una delle condizioni principali per la stessa conquista del
potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in
pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche ‘dirigente’”
Il Partito d’Azione perse la partita, secondo
Gramsci, perché di fatto fu “diretto”, “guidato” (suo malgrado, ovviamente) dai
moderati, sia prima, sia dopo l’Unità d’Italia. Subì l’”egemonia culturale” dei
moderati, che, come ogni gruppo sociale “dirigente”, capace non solo di “dominare”,
ma anche di “dirigere”, ebbe “un proprio ceto di intellettuali”. Il che non
accadde al Partito d’Azione. O meglio, accadde che anche gli intellettuali del
Partito d’Azione servirono in effetti, non certo volontariamente e
consapevolmente, la causa del re e dei moderati. Gramsci, dunque, considera
storicamente esatta, la battuta di Vittorio Emanuele II che si vantava di “avere
in tasca il Partito d’Azione”.
A questo punto, veniamo all’attuale
“scontro di civiltà”, fra Occidente e Islam. Per lungo tempo, l’Occidente è
stato non solo “dominante”, ma culturalmente egemone. La sua “ideologia” faceva
presa anche (o soprattutto!) tra le masse arabe (o africane), tra le loro
classi dirigenti e i loro intellettuali. Le “promesse”e i “miti” dell’Occidente
affascinavano il mondo e anche i suoi valori potevano presumersi “universali”.
Oggi la situazione appare rovesciata o in via di rovesciamento: è l’islam che
sta diventando culturalmente egemone. I tanti episodi citati qui sopra o in
tanti post precedenti, i “double standard”, i “sì, però” sono segni inquietanti
di questa capacità dell’Islam di “dirigere” anche se non di dominare (non
ancora?) l’Occidente. Il “politically correct” è l’espressione dell’asservimento
dell’Occidente, e soprattutto dei suoi intellettuali, all’ideologia della
civiltà antagonista. Gli intellettuali progressisti occidentali di fatto
servono il Califfo.
Ho quindi paura che sia storicamente
esatto – o che rischi di esserlo a breve - arrivare a sostenere che il Califfo –
o chiunque prenderà il suo posto e rappresenterà l’islam come Vittorio Emanuele
II poteva rappresentare i “moderati” del Risorgimento italiano– sostenere che il Califfo abbia “in tasca l’Occidente”.
Naturalmente, mi si obietterà che
per non correre il rischio di minimizzare, finisco per eccedere, per esagerare.
Accetto di correre quest’altro rischio. E’ così che si deve fare, a mio avviso;
è questo – e non l’altro - il rischio che si deve correre nei momenti di
pericolo. La storia mostra, infatti, che si sono sistematicamente salvati i
gruppi sociali, i popoli, le civiltà che hanno saputo enfatizzare i pericoli e
levare alto il grido di allarme, mentre sono regolarmente periti quelli che li
hanno sottovalutati e hanno tenuto bassi i toni. Se poi ancora ci si ostina a
non vedere il pericolo, a non capire di che pericolo si tratti, basta fissare
nella mente il fotogramma che ritrae i due atleti del judo. E’ il pericolo di
un mondo nel quale una civiltà si rifiuta di stringere la mano all’altra e
quest’ultima la aiuta pure a costruire un castello di finte giustificazioni al suo gesto di odio.