sabato 13 agosto 2016

LE OLIMPIADI DELLA VERGOGNA E L'EGEMONIA CULTURALE DELL'ISLAMISMO (SECONDO GRAMSCI!)




In un articolo sulle Olimpiadi vorremmo parlare delle performance di straordinari atleti come il nuotatore americano Phelps o la mezzofondista etiope Ayana, vorremmo parlare soprattutto del sano “spirito olimpico” che dovrebbe affratellare popoli di diversa etnia, cultura e religione, e che sarebbe veramente salutare in un momento così cupo della storia contemporanea. Purtroppo, lo scontro di civiltà e l’ipocrisia del politicamente corretto hanno fatto violentemente irruzione negli stessi giochi olimpici, compromettendone quello che dovrebbe esserne l’autentico valore.
Stiamo osservando il penoso, grottesco e inusitato spettacolo di atlete musulmane che gareggiano coperte dalla testa ai piedi anche in discipline sportive come il beach volley o i 100 metri piani che esigono un ben diverso abbigliamento per agevolare le prestazioni dei concorrenti. La foto della pallavolista araba che fronteggia, costretta nel suo cilicio, un’avversaria che veste invece il più succinto, e funzionale, bikini è quasi un simbolo del conflitto di civiltà in atto. Un conflitto che passa violentemente sul corpo e sulla libertà delle donne, come accade in tutte le guerre della storia, che siano combattute con le armi da fuoco o da taglio o con quelle non meno potenti e pericolose delle ideologie.
 
Eppure, il percorso della emancipazione femminile nel Novecento era stato contrassegnato anche dalle conquiste nel campo dello sport. Quante volte abbiamo sottolineato nei decenni passati la differenza fra le olimpiadi antiche, che erano precluse alle donne, e quelle moderne, nelle quali, sia pure gradualmente, le donne hanno finito per conquistare lo stesso spazio degli uomini, hanno via via ottenuto l’accesso alle stesse discipline, superando ogni tipo di pregiudizio, da quelli sessuali a quelli di carattere pseudo-scientifico! E questo percorso, in sede di olimpiadi, aveva finito per coinvolgere anche le donne provenienti da altre culture, da culture diverse da quella occidentale. Oggi si segnala invece un drammatico regresso, simboleggiato dalle tute di costrizione e dai veli delle atlete islamiche; e più drammatico ancora è forse il silenzio delle attuali femministe, quelle stesse che si indignano se un sindaco donna non viene chiamata “sindaca”.
Una “cultura” che impone alle atlete quel tipo di abbigliamento, o che le spinge ad autoimporselo, mortifica proprio un fondamentale elemento fascino delle olimpiadi, che servono non solo ad ammirare e celebrare le prestazioni e le capacità agonistiche dei concorrenti, ma la bellezza e l’armonia dei loro corpi, in molte se non in tutte le discipline. Così accadeva anche nell’antica Grecia, ove gli atleti gareggiavano nudi e nudi sono stati immortalati nelle statue dei grandi artisti dell’epoca. Ma ciò valeva naturalmente solo per i maschi, sicché ci restano le statue che esaltano la bellezza delle dee, ci resta la Venere di Milo, ma ovviamente non abbiamo nessuna statua che ritrae una discobola.  Se abbiamo letto come “progresso” ciò che invece è accaduto nelle Olimpiadi moderne, fino alla penultima, come si può non leggere ora come “regresso” la triste immagine di certe atlete arabe, come si può non scorgervi l’inquietante possibilità che si compia ora il percorso inverso e che le donne di certi paesi siano nuovamente escluse dalle gare sportive, segno della loro emarginazione dalla vita pubblica e civile, della loro segregazione e mortificazione?  E come si può restare in silenzio, proprio mentre si urla per le battute di Salvini sulla Boldrini o per le vignette di Mannelli sulla Boschi?
 
Queste Olimpiadi dovranno essere ricordate come le Olimpiadi della vergogna, per un’altra serie di episodi ancora. Si tratta di episodi di intolleranza antisemita, mascherata da antisionista. Già nei primissimi giorni un gruppo di atleti libanesi si è rifiutato di salire sullo stesso bus con gli atleti israeliani. Quindi, un’atleta saudita ha disertato l’incontro con una israeliana. Ieri, il fatto più clamoroso: il judoka egiziano El-Shehaby dopo il match perduto contro l’israeliano Ari Sassoon, si è rifiutato di stringere la mano che l’israeliano gli aveva teso. Un video ha immortalato sul web l’indecente gesto dell’egiziano. Intanto, giungeva la notizia del tennista tunisino che si rifiutava di incontrare un tennista israeliano…
Tutti questi episodi – e altri certamente ne accadranno nei prossimi giorni – calpestano nel modo più obbrobrioso quello che dovrebbe essere il significato delle Olimpiadi e dello sport in genere. Nel caso del judoka egiziano sono violate e mortificate anche le secolari, rigorose regole di fair-play che caratterizzano questa disciplina.
I fatti suddetti non hanno, però, trovato alcuno spazio sui media italiani. Soltanto il caso del judoka è stato riportato, ma senza risalto, da qualche giornale online, come Repubblica (unica eccezione Libero che lo ha invece titolato a tutta pagina). Nessuno ha ricordato che nella storia delle Olimpiadi è esistito un clamoroso e tragico caso di razzismo, che si è estrinsecato proprio nel rifiuto di stringere la mano di un atleta a motivo della sua etnia. Si verificò alle Olimpiadi del 1936 di Berlino, quando Hitler preferì abbandonare lo stadio, per non doversi complimentare con il grande Owens. Non c’erano neri in Germania, ma c’erano ebrei, ebrei come Ari Sassoon: l’anno prima erano state promulgate le leggi razziali, quell’anno stesso incominciarono ad essere applicate su larga scala e sei anni dopo fu adottata la cosiddetta “soluzione finale”.
Niente. I “progressisti”, la sinistra, quegli stessi che si commuovono ogni anno per la giornata della Memoria (non costa nulla piangere per gli ebrei ormai morti o sui pochissimi superstiti) non battono ciglio di fronte a questi indecenti comportamenti. Il Cio si guarda bene dal prendere provvedimenti, non squalifica gli atleti responsabili dell’obbrobrio, non li espelle dal villaggio olimpico. E c’è di più: si può tranquillamente ipotizzare che, fossero stati al posto del judoka egiziano o degli atleti libanesi, molti occidentali progressisti e di sinistra, molti ragazzotti dei centri sociali e dintorni, molti ammiratori dei 99 posse, del sindaco De Magistris e di Moni Ovadia si sarebbero comportati esattamente come loro.
Immaginate, invece, che cosa sarebbe accaduto a parti invertite, se un israeliano – per assurdo – si fosse rifiutato di stringere la mano a un atleta arabo? O se un gruppo di atleti bianchi – olandesi, svedesi, americani “wasp” – si fossero rifiutati di salire sul bus insieme ad atleti di colore? Ne sarebbe nato lo scandalo dell’anno.
Del resto, basta dare un’occhiata a certi commenti. Qualche "progressista",anche israeliano mi dicono, sostiene che è stato l’atleta israeliano ad aver offeso per primo l’egiziano: non avrebbe dovuto nemmeno tendergli la mano, forse per “rispetto” della diversità culturale. Quella dell'israeliano è stata quasi una provocazione! E qualche altro, scelgo un commento a caso fra i molti che si potrebbero citare, ha affermato che “sì l’egiziano, però anche un atleta del beach volley americano ha protestato contro un giudice di gara e ha fatto il gesto di tagliargli la gola… e nessuno ha più morti sulla coscienza degli americani e degli israeliani”. Che cosa c’entri la reazione stupida di un singolo atleta arrabbiato per una decisione arbitrale con un gesto razzista tutt’altro che isolato e anzi provocato, come ora diremo, da una pressione di massa è il mistero insondabile della stupidità umana.
Il “sì, però” è ormai un topos. Ogni volta che si prova a dire che forse abbiamo qualche problema con il mondo islamico, scatta il “sì, però” che nega e rimuove il problema e impedisce qualunque analisi e discussione. Un jihadista si fa esplodere in un aeroporto? “Sì però’… il colonialismo, le crociate, le guerre di Bush, la Palestina, la miseria, l’emarginazione, il traffico delle armi”. Un rappresentante islamico, del cosiddetto islam moderato, vuole legalizzare la poligamia? “Sì, però… il sessismo dell’Occidente, i femminicidi, gli uomini occidentali fedigrafi e adulteri, la diversità culturale, il rispetto delle differenze….”. Un uomo dell’Isis si lancia con un camion sulla folla? “Sì, però… ‘noi’ vendiamo le mine all’Isis” (copyright Gino Strada). Orde di maghrebini molestano le donne di Colonia? “Sì, però… ci sono anche i cattolici che uccidono le suocere” (copyright Bergoglio). Dei disegnatori vengono uccisi per una vignetta su Maometto? “Sì, però… se uno offende mia madre io gli tiro un pugno” (sempre lui).
Tuttavia, io non temo soltanto i “giustificazionisti” a ogni costo, quelli del “sì, però”, quelli che in fondo in fondo simpatizzano con gli integralisti islamici, perché sono stati, e a volte sono ancora, integralisti di altre ideologie (comunismo, in primis), perché fra loro e i jihadisti, in fondo, c’è una corrispondenza di amorosi sensi. Io temo anche e soprattutto la posizione di tutti quelli che condividono pure ciò che sto cercando di esporre, ma minimizzano il problema o comunque non lo avvertono nella sua reale gravità.
Minimizzare è credere che si tratti di singoli casi, per quanto frequenti o numerosi; minimizzare e sottovalutare il pericolo è non capire che non di singoli casi si tratta e nemmeno di minoranze fanatiche, ma di una “cultura” che è largamente maggioritaria in una vasta e popolatissima area del mondo – un’area del mondo e una “cultura” che oltretutto si stanno trasferendo sempre più massicciamente qui da noi. Basti pensare alle dichiarazioni degli atleti protagonisti degli episodi citati. A chi gli ha chiesto spiegazioni del suo gesto, il judoka egiziano ha dichiarato che per giorni era stato esposto a una grande pressione da parte di media e opinione pubblica del suo paese, che pretendevano che si rifiutasse del tutto di incontrare l’israeliano. Aveva resistito a queste pressioni, perché, ha detto, per lui “sport e politica non vanno mischiati”. E tuttavia, non se l’è sentita di stringere la mano all’avversario. Se così è, altro che caso isolato! El-Shehaby è meno colpevole dei giornali, dell’opinione pubblica, dei social, delle masse dei suoi connazionali! E si badi, che non stiamo parlando del Califfato o dell’Arabia Saudita o del Qatar, ma dell’Egitto, paese arabo moderato, filooccidentale e in fondo amico – il suo governo, almeno – di Israele. Dichiarazioni simili, a quanto pare, quelle del tennista tunisino. E anche in questo caso va notato che parliamo della Tunisia, paese con un governo semi-laico, l’unico rimasto in vita tra quelli delle “primavere arabe”.
Né va minimizzata la portata dei double standard, delle rimozioni, delle omissioni e bugie che derivano dal dominio del politically correct fra le classi dirigenti e gli intellettuali occidentali. Non va sottovalutata la “dittatura del politically correct”. Essa impera, ormai, in tanti college americani, ove il politically correct impone regole, pratiche, costumi, condiziona programmi di studio, porta all’emarginazione di docenti “non allineati”.
Per cogliere la reale dimensione e gravità del problema vorrei proporre - qui solo accennandola ma ripromettendomi di svilupparla nel prossimo futuro - un’analisi che adotta categorie marxiane e gramsciane – quelle categorie che forse dovrebbero ricordare e utilizzare quelli che si dichiarano ancora orgogliosamente di “sinistra”, e in qualche caso addirittura “comunisti”, più che un esule, un “profugo” dalla sinistra come il sottoscritto (un esule che peraltro non è mai stato comunista). Queste categorie, tuttavia, non le applicherò, come Marx ed Engels, alla lotta di classe – che pure a mio avviso esiste ancora e come se esiste – ma al “conflitto di civiltà”, ritenendo che il modello del clash of civilitation è quello che può meglio spiegare i più importanti macro-fenomeni del mondo attuale, o almeno il maggior numero di essi e nel modo più soddisfacente (o meno insoddisfacente). Non si tratta di sincretismo, quindi, ma della logica stessa dell’indagine scientifica. A questo stesso modello, al suo valore esplicativo, tornano però molto utili certe categorie marxiane e quelle gramsciane, che ne sono un brillante sviluppo.
In sintesi. Marx ed Engels sostengono che per una trasformazione rivoluzionaria della società non bastano le “condizioni oggettive”, quelle di carattere “materiale”, legate innanzitutto allo sviluppo delle forze produttive, alla dinamica dei rapporti di produzione. Non basta nemmeno che la classe oppressa abbia gli strumenti, le “armi” adatte alla trasformazione rivoluzionaria: i mezzi di comunicazione di massa, il sistema di trasporti, le tecnologie di supporto all’azione rivoluzionaria, ecc.. Tutto questo non serve a molto se manca alla classe oppressa la “coscienza rivoluzionaria di classe”, che è poi la condizione “soggettiva” della trasformazione rivoluzionaria. E questa condizione non si raggiunge fino a che la classe oppressa resta mentalmente e culturalmente asservita all’ideologia dominante – o meglio all’ideologia tout court, perché per Marx l’ideologia, è sempre quella delle classi dominanti, l’ideologia è mistificazione della realtà al servizio della classe dominante e gli spiacerebbe molto sentire tanti che definiscono “ideologia” il suo comunismo! Altro che volgare materialismo, quindi!
Gramsci, dal canto suo, riprende e sviluppa questo punto, in una prospettiva diversa. Lo fa quando cerca di interpretare la sconfitta del Partito d’Azione e di Mazzini e la vittoria dei moderati, di Cavour e del Savoia, nel Risorgimento italiano. “La supremazia di un gruppo sociale”, scrive nei Quaderni “si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’”. Il “dominio” si esercita attraverso i mezzi coercitivi, gli elementi di forza. E’ il corrispettivo delle “condizioni oggettive” della trasformazione rivoluzionaria in Marx ed Engels. Esso, però, non è sufficiente: “un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere (e questa è anzi una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche ‘dirigente’”
 Il Partito d’Azione perse la partita, secondo Gramsci, perché di fatto fu “diretto”, “guidato” (suo malgrado, ovviamente) dai moderati, sia prima, sia dopo l’Unità d’Italia. Subì l’”egemonia culturale” dei moderati, che, come ogni gruppo sociale “dirigente”, capace non solo di “dominare”, ma anche di “dirigere”, ebbe “un proprio ceto di intellettuali”. Il che non accadde al Partito d’Azione. O meglio, accadde che anche gli intellettuali del Partito d’Azione servirono in effetti, non certo volontariamente e consapevolmente, la causa del re e dei moderati. Gramsci, dunque, considera storicamente esatta, la battuta di Vittorio Emanuele II che si vantava di “avere in tasca il Partito d’Azione”.
A questo punto, veniamo all’attuale “scontro di civiltà”, fra Occidente e Islam. Per lungo tempo, l’Occidente è stato non solo “dominante”, ma culturalmente egemone. La sua “ideologia” faceva presa anche (o soprattutto!) tra le masse arabe (o africane), tra le loro classi dirigenti e i loro intellettuali. Le “promesse”e i “miti” dell’Occidente affascinavano il mondo e anche i suoi valori potevano presumersi “universali”. Oggi la situazione appare rovesciata o in via di rovesciamento: è l’islam che sta diventando culturalmente egemone. I tanti episodi citati qui sopra o in tanti post precedenti, i “double standard”, i “sì, però” sono segni inquietanti di questa capacità dell’Islam di “dirigere” anche se non di dominare (non ancora?) l’Occidente. Il “politically correct” è l’espressione dell’asservimento dell’Occidente, e soprattutto dei suoi intellettuali, all’ideologia della civiltà antagonista. Gli intellettuali progressisti occidentali di fatto servono il Califfo.
Ho quindi paura che sia storicamente esatto – o che rischi di esserlo a breve - arrivare a sostenere che il Califfo – o chiunque prenderà il suo posto e rappresenterà l’islam come Vittorio Emanuele II poteva rappresentare i “moderati” del Risorgimento italiano–  sostenere che il Califfo abbia “in tasca l’Occidente”.
Naturalmente, mi si obietterà che per non correre il rischio di minimizzare, finisco per eccedere, per esagerare. Accetto di correre quest’altro rischio. E’ così che si deve fare, a mio avviso; è questo – e non l’altro - il rischio che si deve correre nei momenti di pericolo. La storia mostra, infatti, che si sono sistematicamente salvati i gruppi sociali, i popoli, le civiltà che hanno saputo enfatizzare i pericoli e levare alto il grido di allarme, mentre sono regolarmente periti quelli che li hanno sottovalutati e hanno tenuto bassi i toni. Se poi ancora ci si ostina a non vedere il pericolo, a non capire di che pericolo si tratti, basta fissare nella mente il fotogramma che ritrae i due atleti del judo. E’ il pericolo di un mondo nel quale una civiltà si rifiuta di stringere la mano all’altra e quest’ultima la aiuta pure a costruire un castello di finte giustificazioni  al suo gesto di odio.




 

domenica 7 agosto 2016

SULLA MANIPOLAZIONE DELLA STORIA: ABU MAZEN E LA "DICHIARAZIONE BALFOUR"



Pochi giorni fa, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, colui cioè che dovrebbe essere l’interlocutore del governo israeliano nel processo di pace, se ne è uscito con questa dichiarazione che in prima battuta indubbiamente provoca solo ilarità: Abu Mazen vorrebbe citare in giudizio la Gran Bretagna per la “dichiarazione Balfour” del 1917! Purtroppo, la vicenda non è affatto comica e non è da prendere così alla leggera, come molti hanno giustamente osservato in Israele (http://www.israele.net/abu-mazen-contro-balfour-molto-peggio-che-una-comica). Il discorso che l’annuncio di Abu Mazen sottende è infatti questo: lo Stato di Israele è una “invenzione” della prepotenza coloniale britannica, che ha così “rubato” la “loro” terra ai palestinesi. E’ vero, come è stato subito notato, che in tal modo Abu Mazen mostra di non essere minimamente interessato alla pace, di non essere un interlocutore credibile e affidabile per Israele e di fatto disconosce lo stesso diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Ciò che voglio, però, commentare è la manipolazione della storia che peraltro ritengo, in continuità con il discorso sviluppato nei post precedenti, non sia solo un arma di propaganda politica, ma che risalga a quello che si potrebbe definire il “paradigma coranico della storia”.
Per noi occidentali, tuttavia, la storia si scrive ancora con la raccolta e il vaglio critico dei documenti. E in questo modo la storia reale risulta essere molto diversa da quella raccontata dai palestinesi e, cosa ancora più preoccupante e che ispira questo mio intervento, da quella ripetuta dai loro non pochi sostenitori occidentali.
Vediamola, allora, la storia reale.

La “dichiarazione Balfour” nel “triplice gioco” della Gran Bretagna durante la Prima guerra mondiale.
Fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Palestina e tutta l’area medioorientale erano sotto il dominio dell’Impero Ottomano. Questo è un primo dato storico da sottolineare di fronte a chi ritiene che il “colonialismo europeo” sia un fattore della “rabbia islamica”: i paesi arabi mediorientali, a differenza ad esempio dei paesi africani o della stessa Algeria, non hanno una lunga storia di dominio coloniale occidentale. La loro storia “coloniale” incomincia solo con la fine della Prima guerra mondiale, si svolge come vedremo e si esaurisce quasi immediatamente (è il caso dell’Iraq) o dura pochissimi anni e comunque non nelle forme del vecchio e tradizionale colonialismo.
L’Impero Turco entra in guerra a fianco degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) e contro l’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) alla fine di ottobre del 1914. In questo modo il Medio Oriente diventa teatro di importanti operazioni belliche e soprattutto di strategie politiche per il dopoguerra. La Gran Bretagna, in previsione della disgregazione del dominio ottomano, è molto attiva nella cura dei propri interessi in quell’area strategica del globo e intreccia rapporti con tutti i soggetti in campo. Si può dire che dal 1916 alla fine della guerra, giochi le sue carte su tre diversi tavoli, in attesa dei futuri sviluppi. La “dichiarazione Balfour” è solo uno di questi tavoli e non è il più importante.
Incominciamo, comunque, da questa. Il 2 novembre del 1917, il Ministro degli esteri britannico Balfour, scrive al rappresentante del movimento sionista in Gran Bretagna, lord Rotschild, per comunicargli il contenuto di una dichiarazione di “simpatia per le aspirazioni del movimento sionista” che era stata approvata dal governo inglese. Il governo di Sua Maestà vedeva con favore “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale (National home) per il popolo ebraico” e si sarebbe adoperato per favorire il conseguimento di tale obiettivo, senza peraltro pregiudicare i diritti civili e religiosi delle popolazioni non ebraiche. La dichiarazione seguiva ad una tenace opera di pressione effettuata per due anni dal vero leader sionista britannico, Chaim Weizmann, un chimico che aveva dato tra l’altro con una sua scoperta applicabile alla produzione di proiettili per artiglieria un rilevante contributo allo sforzo bellico britannico. Il governo inglese pensava non solo di ricambiare Weizmann, ma soprattutto di guadagnarsi il favore del movimento sionista attivo anche negli USA. Bisogna ricordare che gli USA non erano ancora entrati direttamente in guerra, ma sostenevano concretamente francesi e inglesi attraverso la cosiddetta “legge affitti e prestiti”. Il movimento sionista poteva quindi giocare un suo ruolo nell’orientare l’amministrazione statunitense a un impegno sempre più stretto a fianco della Gran Bretagna, impegno reso ancor più necessario dalla critica situazione russa (siamo a qualche giorno dalla rivoluzione bolscevica, che avrà luogo il 7 novembre e che porterà a marzo la Russia a ritirarsi dalla guerra). La dichiarazione Balfour nasce innanzitutto da questo contesto di motivi contingenti, sebbene importanti, e non profila un progetto a più lungo termine, come le vicende successive chiariranno in modo incontrovertibile.
D’altra parte, non è certo la dichiarazione Balfour che stabilisce un legame fra il popolo ebraico e la terra di Palestina, visto che questo legame risaliva all’epoca dell’antico Israele e non si era mai veramente interrotto nel corso dei millenni. Una pur piccola comunità ebraica aveva continuato a vivere a Gerusalemme e in altri centri delle antiche Giudea e Samaria. Questa comunità si era già notevolmente incrementata, prima del 1917 e a partire almeno dal 1882, per effetto della emigrazione di ebrei dell’Europa Orientale in fuga dai pogrom. Il crescente consenso al progetto sionista di uno stato ebraico deriva quindi dalle persecuzioni violente in Russia, ma anche dalla crescente insicurezza in cui vivono gli ebrei nel resto dell’Europa di fronte alla violenta recrudescenza antisemita (il primo teorico dell’antisemitismo e della “razza ariana” è il francese Gobineau con l’ Essai sur l'inégalité des races humaines, 1853-54, seguito a fine secolo dall’inglese Chamberlain), un clima che porta tra l’altro all’Affaire Dreyfus in Francia (il caso scoppia nel 1894 e si trascina per oltre un decennio) e al celebre falso denominato I protocolli dei savi di Sion. La stessa dichiarazione Balfour è in parte un effetto (minimo, peraltro) di questo contesto storico e non è certo essa il fattore del sionismo e dell’emigrazione ebraica in Palestina. Un contesto storico che segna la fine e il tradimento di quella “promessa” dell’Illuminismo occidentale alla quale la stragrande maggioranza degli ebrei della diaspora aveva creduto con convinzione: che si potesse restare ebrei, per tradizione, cultura ed eventualmente per fede religiosa, diventando tuttavia cittadini a tutti gli effetti del paese in cui si risiedeva ormai da lunghissime generazioni e in un regime di uguaglianza rispetto a tutti gli altri cittadini di quel paese. Non è un caso che a metà dell’Ottocento, quando questa promessa sembra ancora realizzabile se non addirittura già in buona parte effettiva, le idee di Herzl, fondatore del sionismo, abbiano ancora scarsissimo seguito e che invece quelle idee conquistino larghissimo favore qualche decennio dopo.
Quando, però, proclama la dichiarazione Balfour il governo britannico ha già preso altri accordi con altri soggetti in gioco, accordi potenzialmente in contraddizione tra loro e con l’impegno in favore del sionismo. Nell’ottobre del 1916, il governo inglese rappresentato da Sir Mark Sykes stipula un’intesa segreto con il governo francese rappresentato da Francois-George Picot. Il Medio Oriente viene suddiviso in tre aree, diversamente colorate sulla carta dell’accordo. Nella zona rossa, più o meno corrispondente all’attuale Iraq, gli inglesi si riservavano il diritto di insediare il tipo di amministrazione e controllo che avrebbero voluto. La stessa prerogativa spettava alla Francia nella zona blu, che comprendeva gli attuali paesi della Siria e del Libano più la Cilicia. La “Palestina”, segnata in marrone, era indicata come soggetta a una non meglio precisata “amministrazione internazionale”. Da notare che questa area marrone comprendeva anche la Transgiordania (attuale regno di Giordania) e le alture del Golan e coincideva almeno nominalmente con l’area in cui il governo inglese si sarebbe poi impegnato, un anno dopo, a favorire la nascita di uno stato ebraico.
Al momento, però, il tavolo di gioco più importante per la Gran Bretagna era un altro ancora e coinvolgeva le popolazioni arabe, o meglio quelli che erano ritenuti i loro più autorevoli rappresentanti: si trattava della dinastia hascemita del deserto che aveva il controllo, per conto dell’Impero Ottomano, dei luoghi santi della Mecca e quindi rappresentava la massima autorità religiosa di nomina ottomana nel mondo arabo. Staccare gli hascemiti e, in particolare, lo “sceriffo” della Mecca Husayn, dai Turchi, metterli a capo di una rivolta nazionalista araba contro il dominio ottomano e renderseli così alleati nella guerra che la Gran Bretagna conduceva dall’Egitto contro gli stessi Turchi e che puntava come obiettivo finale alla conquista di Damasco, era una mossa strategicamente molto intelligente. Tanto più che il Sultano, istigato dai tedeschi, aveva lanciato ai suoi sudditi arabi un appello al jihad contro inglesi e francesi. Gli inglesi si impegnarono così con Husayn a sostenere la rivolta araba con denaro, grano e fucili e sir Mac Mahon, alto commissario in Egitto, nell’ottobre 1915 si impegnava a sostenere l’indipendenza degli arabi nei confini richiesti dallo sceriffo della Mecca, eccetto quelle parti della Siria per cui aveva manifestato interesse la Francia ed eccetto le provincie di Baghdad e Bassora nelle quali ci si riservava di insediare un’amministrazione anglo-araba.
Sulla base di quest accordi Husayn lanciò un appello alla rivolta araba contro i Turchi e formò un esercito arabo capeggiato dal figlio Feysal. Le tribù arabe e soprattutto beduine, d’altra parte, raccolsero limitatamente e con riserve questo appello: in genere scendevano in campo solo in presenza di argomenti convincenti (il denaro, il grano e le armi, di cui aveva parlato Mc Mahon) e il loro comportamento restava in molti casi ambiguo. Molto spesso, uno stesso sceicco veniva pagato sia dagli inglesi che dai turchi…Chi riuscì a destreggiarsi abilmente in questo mondo infido delle tribù, fu, come è noto, un leggendario archeologo di Oxford, prestato alla guerra e ai servizi di spionaggio: Lawrence d’Arabia.
Se limitiamo il discorso all’area della Palestina, dobbiamo quindi rilevare che essa, tra il 1915 e il 1917, è fatta oggetto di tre diversi accordi, rispettivamente con gli hascemiti, con la Francia e con il movimento sionista e che ciascuno di questi tre accordi prevede una cosa diversa! Non c’è molto da scandalizzarsi, peraltro: la Gran Bretagna ha come obiettivo più immediato quello di vincere la guerra, come obiettivo strategico la difesa dei propri interessi in Medio Oriente e deve tener conto della fluidità e della incertezza della situazione. E’ però del tutto fuorviante, come si è visto, presentare la dichiarazione Balfour come un impegno univoco della politica di Sua Maestà britannica.

La politica britannica nei confronti di ebrei ed arabi nel periodo del mandato in Palestina: il fallito progetto di un regno arabo della “Grande Siria”
La manipolazione storica presente nella ricostruzione palestinese e pro-pal che fa risalire alla dichiarazione Balfour l’”invenzione” dello stato di Israele, emerge in modo ancor più evidente se si passa ora agli sviluppi, nel dopoguerra, di questa intricata situazione.
Sconfitti i turchi, il figlio di Huseyn, l’emiro Faysal, insedia un governo arabo a Damasco e rivendica per sé e per la propria dinastia la sovranità su un regno della “Grande Siria”, che comprenda anche l’area della Palestina. Qui vanno fatte alcune osservazioni, mentre di solito se ne fa solo una, e cioè che questa rivendicazione smaschererebbe l’”inganno” britannico ai danni degli arabi. Certamente, la Gran Bretagna mostra di non voler affatto assecondare le aspirazioni di Faysal. Questa aspirazioni, tuttavia, tradivano esse stesse la lettera degli accordi stipulati con il governo inglese attraverso Mac Mahon, in quanto si estendevano a zone della Siria che erano previste di pertinenza francese. La violazione degli impegni, in sostanza, non è solo britannica, ma è reciproca e su di essa, peraltro, è davvero futile esercitare giudizi moralistici. Qui ognuno fa il proprio gioco e, peraltro, gli inglesi si preoccuperanno ben presto di “risarcire”, nel modo che vedremo, Husayn, Faysal e la loro casata.
Un’altra importante considerazione, sempre taciuta, è che Faysal e Husayn non parlano mai di una “nazione palestinese” né di un regno o stato palestinese, ma di una causa nazionale araba e di un “regno di Siria”, nel quale regno di Siria è inglobata anche la Palestina. Gli abitanti arabi di questa regione sono considerati semplicemente arabi o, più precisamente, “siriani del sud”. Del resto, ancora il 31 maggio 1956, dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’ONU, il futuro dirigente dell’OLP Ahmed Shoukeiry, dichiarò testualmente che “è di pubblica conoscenza che la Palestina non è altro che la Siria del Sud”. E’ quindi bene tener presente che, quando in questa vicenda si parla di rivendicazioni arabe o di progetti di stati arabi, in nessun caso e in nessun modo si fa riferimento a rivendicazioni e progetti che riguardino una specifica “nazione araba palestinese”, per il semplice motivo che l’esistenza di una tale entità è bellamente ignorata dagli stessi leader e portavoce del nazionalismo arabo!
Altro aspetto regolarmente ignorato: Faysal, che interviene anche al Congresso di pace di Parigi a sostegno delle aspirazioni arabe e sue personali, riconosce pubblicamente e ufficialmente le aspirazioni sioniste, ritenendo che “fra i due nazionalismi non vi sia incompatibilità”. Nel gennaio 1919 giunge persino a firmare un accordo con il leader sionista Weizmann con il quale concede la Palestina al movimento sionista, a condizione che fossero contemporaneamente adempiute le promesse britanniche per un regno arabo, aggiungendo che se questo non fosse accaduto non avrebbe rispettato una sola parola dell’accordo con Weizmann. Pertanto, anche Faysal, al momento il maggiore rappresentante della causa araba, gioca spregiudicatamente su più tavoli, per raggiungere il proprio obiettivo.
Da parte britannica, più che un esplicito diniego dalle rivendicazioni hascemite, vi è un prendere tempo: il governo inglese è ben lieto di accogliere la proposta statunitense di una commissione internazionale che si rechi in loco a raccogliere pareri e rivendicazioni e a studiare soluzioni. Questa commissione, a cui gli inglesi si guardano bene dal partecipare, si conclude con un prevedibile nulla di fatto, ma la dilazione dei tempi di decisione determina una radicalizzazione del nazionalismo arabo, che gli hascemiti continuano a fomentare e a strumentalizzare, ma che sempre più largamente sfugge loro di mano. Un congresso arabo riunitosi a Damasco, rivendica la costituzione di un Regno indipendente di Siria che comprenda anche Libano e Palestina e si dichiara violentemente contrario alle “pretese dei sionisti” e “a qualunque immigrazione sionista in qualunque parte del nostro paese, in quanto non riconosciamo loro alcun titolo e li consideriamo invece un grave pericolo per il nostro popolo dal punto di vista nazionale, politico ed economico”. Si trattava di una sorta di dichiarazione di indipendenza che non fu riconosciuta dagli inglesi e dai francesi. Questi ultimi, il 20 luglio 1920, intervennero militarmente contro un improvvisato esercito di volontari arabi, sconfiggendolo in modo definitivo ed occupando la Siria, che avrebbero amministrato fino alla seconda guerra mondiale nella forma del mandato.
E’ una svolta decisiva, perché da questo momento in poi, il nazionalismo arabo, soffocato dai francesi in Siria, si orienta sulla Palestina e su Gerusalemme, si scontra direttamente con gli ebrei e con il movimento sionista e vede emergere come leader degli arabi palestinesi, al posto degli screditati hascemiti, l’inquietante figura del muftì di Gerusalemme, che si chiama anche lui Huseyn, e sarà filonazista e stretto alleato di Hitler, a cui proporrà la sua collaborazione al progetto di genocidio degli ebrei.

La politica filoaraba della Gran Bretagna nel periodo del mandato
Questo passaggio cruciale ha però notevolissimi effetti anche sulla politica britannica che da questo momento, pur conservando oscillazioni e contraddizioni, segue una chiara direttrice filoaraba. Viene così di fatto cancellata la dichiarazione Balfour, nonostante essa venga incorporata nella risoluzione della Società delle Nazioni, che riconosce il mandato britannico sulla Palestina, impegnando in tal modo la Gran Bretagna a promuovere la costituzione di uno stato ebraico.
E’ una leggenda assolutamente falsa storicamente che la Gran Bretagna nel periodo del suo mandato in Palestina abbia favorito gli ebrei a scapito degli arabi. I fatti dimostrano che per molti versi è vero il contrario e se gli arabi possono, in parte a ragione, accusare gli inglesi di aver tradito le promesse fatte a Faysal, gli ebrei potrebbero a maggior ragione accusarli di aver tradito la dichiarazione Balfour, con la rilevante differenza che per effetto della risoluzione della Società delle Nazioni, la dichiarazione Balfour non era più un impegno unilaterale del governo inglese, e non era neanche un accordo fra due parti come quello fra Mc Mahon e Faysal, ma era un impegno assunto dall’Inghilterra su mandato della comunità internazionale.
Innanzitutto, il territorio mandatario di Palestina viene mutilato, sicché si restringe drasticamente l’area ove dovrebbe sorgere lo Stato ebraico. Nel 1923, infatti, la Transgiordania, ossia l’attuale regno di Giordania, che era parte integrante della Palestina del mandato, viene staccata da questa e data all’emiro Abdullah che è un altro hascemita e precisamente un altro figlio di Husayn e fratello quindi di Faysal. A Faysal, nel frattempo, era stato già dato il regno dell’Iraq (1921). In tal modo, l’Inghilterra intende risarcire gli hascemiti e tenerli legati a sé come propri partner privilegiati nel teatro mediorientale. Sempre nel 1923, le alture del Golan – eh sì proprio le famose alture del Golan! – che erano – attenzione – parte integrante pur esse del territorio mandatario della Palestina, vengono cedute al mandato francese della Siria. Quando si parla delle alture del Golan come “territorio occupato” illegittimamente da Israele nel 1967 e abusivamente sottratto alla Siria, bisognerebbe allora ricordare che questo territorio era stato arbitrariamente sottratto al mandato di Palestina, e quindi allo Stato ebraico previsto dalla dichiarazione Balfour, e altrettanto arbitrariamente e abusivamente ceduto alla Siria. Ma chi lo ricorda mai?
Altre questioni immancabilmente sollevate dalla propaganda araba e filo palestinese sono quelle delle terre “sottratte” dagli ebrei ai contadini arabi durante il mandato britannico e dell’immigrazione ebraica nello stesso periodo. Vediamo la realtà storica.
Riguardo alle terre, esse non furono mai depredate o saccheggiate, ma comprate con regolari contratti e pagate generalmente al di sopra di quello che era in quel momento il loro stimabile valore di mercato. E’ vero che gli esponenti del nazionalismo arabo lanciavano proclami che diffidavano gli arabi dal cedere le terre agli ebrei, ma è altrettanto vero che tanto le famiglie della “feudalità” palestinese, quanto le comunità dei villaggi se ne infischiavano altamente di questi moniti e proclami e cercavano di lucrare sulla vendita di terre che spesso erano incolte e che ritenevano poco produttive (i coloni ebrei avrebbero dimostrato il contrario). Dunque, l’insediamento sionista si realizza in stretta collaborazione con gli arabi e l’idea di ebrei che hanno spogliato gli arabi di case e terre, almeno riguardo al periodo che precede il 1948, è puramente fantastica. Gli investimenti ebraici hanno anzi rivitalizzato l’economia locale, a tutto vantaggio della stessa comunità araba. E’ chiaro che questo processo di trasferimento di terre ha contribuito a compromettere l’obiettivo arabo di impedire la nascita di uno stato ebraico, ma questo è un errore storico che gli arabi devono imputare solo a se stessi (e non è l’ultimo di una lunga serie) e non certo alle autorità britanniche, che anzi intervengono con ripetute ordinanze (1920-21, 1929, 1932, 1940), cercando di limitare drasticamente l’acquisto di terre da parte degli ebrei e di ridurre sempre più l’estensione del focolare nazionale promesso. Ma i proprietari e i contadini arabi non tengono in maggior conto queste ordinanze dei proclami dei loro leader nazionalisti e antisionisti.
Riguardo poi all’immigrazione ebraica, regolarmente denunciata dagli arabi come se si trattasse di una sorta di invasione straniera e di un complotto (“giudo-massonico”), orchestrato dalla potenza mandataria, abbiamo visto che questa emigrazione incomincia, ben prima della Dichiarazione Balfour e del mandato britannico, tra il 1882 e il 1903, quando si verifica la prima grande aliya, per i motivi già richiamati. Con la seconda aliya, che giunge fino al 1914 la popolazione ebraica palestinese è già passata da circa 25.000 unità a circa 85000. Alla fine degli anni Venti, il numero degli ebrei sarà più che raddoppiato, sfiorando ormai le 200.000 unità. A questo punto il ritmo dell’immigrazione cala considerevolmente fino al 1932, per poi conoscere un’impennata fra il 1933 e il 1935, in seguito alla presa del potere del nazismo. Dal 1922 al 1935 la popolazione ebraica in Palestina passa dal 9 al 27 %. Devo avvertire che i dati demografici sono piuttosto incerti e le ricostruzioni sono condizionate dal conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, ho scelto di citarli e di citare quelli riportati da una fonte sicuramente seria, ma certamente non sospetta di ostilità al mondo arabo, né di pregiudizi filoisraeliani  (Mc Carthy, The Population of Palestine, Columbia University press, 1990).
Certamente, fino alla metà degli anni Trenta l’immigrazione ebraica è un fenomeno rilevante, ma si tratta di un processo che non viene affatto favorito dall’autorità britannica e che anzi si svolge largamente in contrasto con le sue volontà e deliberazioni. Questa immigrazione sarebbe stata presumibilmente più ampia, se non fosse stata ostacolata dalla Gran Bretagna, già negli anni di cui sopra e certamente dopo. Fin dal 1922 il primo Libro bianco inaugura, infatti, una serie di misure destinate a limitare drasticamente fino a bloccarla l’immigrazione ebraica in Palestina e a rendere inoperante la portata della Dichiarazione Balfour. Nel 1930, la dichiarazione Balfour è di fatto annullata dall’ennesimo Libro bianco, quello di lord Passfield, segretario alle Colonie. Questo documento era tanto sbilanciato in senso filoarabo e antisionista che il governo Mac Donald si vide costretto dalle pressioni dell’opposizione, ma anche di esponenti del suo partito a rimediare con una lettera dove affermava che il governo britannico non aveva alcuna intenzione di fermare o proibire l’immigrazione degli ebrei. Si trattava di una mera dichiarazione astratta e comunque di un documento che non aveva lo stesso valore del Libro bianco, eppure fu sufficiente ad attizzare ulteriormente il nazionalismo arabo, già protagonista di gravi incidenti nel 1929, quando il  mufti di Palestina aveva arringato la folla a Gerusalemme e ne erano seguiti scontri, con la morte di 133 ebrei e 87 arabi. La vecchia comunità ebraica di Hebron era stata del tutto annientata. Fra il 1936 e il 1939 si succedono le azioni terroristiche arabe tanto contro gli inglesi che contro gli insediamenti ebraici e le rappresaglie britanniche sono molto dure.
Tuttavia, di fronte alla rabbia araba la Gran Bretagna non mostra solo il bastone, ma anche e soprattutto la carota. E’ proprio alla fine di questo periodo insurrezionale che si registra l’ultimo Libro bianco che impone agli ebrei restrizioni gravissime e che hanno una portata assolutamente tragica, se si pensa alla loro situazione in un Europa che si appresta ad essere in larghissima parte occupata dai nazisti. Si fissa un tetto di 15000 nuovi arrivi all’anno per 5 anni, dopo di che l’ulteriore immigrazione sarebbe stata soggetta al placet della maggioranza araba, ossia sarebbe stata impossibile. L’acquisto di terre sarebbe stato drasticamente limitato e in alcune regioni semplicemente vietato. Incredibilmente, questo Libro bianco non fu rifiutato solo dagli ebrei, come era ovvio, ma anche dagli arabi.
La politica britannica va letta non solo come tentativo di sedare l’animosità araba, ma soprattutto alla luce della nuova situazione internazionale. L’avvento del fascismo e del nazismo, con la propaganda e la politica filo-araba di Mussolini prima e di Hitler poi, la strategia di alleanza fra pangermanesimo e panarabismo in funzione antibritannica, l’aperto filo nazismo del muftì di Palestina e le sue intese con Hitler, non fanno altro che orientare in modo più deciso in direzione degli arabi una Gran Bretagna timorosa di perdere le sue posizioni in Medio Oriente. Il calcolo britannico è cinico ma semplice: gli ebrei non hanno alternative, non possono che restare legati al carro inglese, mentre occorre sottrarre gli arabi all’influenza tedesca e nazista.
Questa linea politica, peraltro criticata non solo dall’opposizione laburista ma anche da alcuni conservatori a cominciare da Churchill, si rivelerà fallimentare e miope e contribuirà indirettamente ad accrescere il numero di vittime della shoah. Il Libro bianco del 1939 fu infatti applicato rigorosamente e le navi di profughi giunte in prossimità dei porti palestinesi furono bloccate. Questa situazione non cambiò nemmeno dopo la fine della guerra e dopo che tutto il mondo aveva ormai saputo dell’orrore del genocidio degli ebrei. Il caso più famoso, ma non certo l’unico, si verificò nel 1947 e fu quello dell’Exodus, che era riuscito a raggiungere il porto di Giaffa. Qui fu impedito ai suoi 4500 passeggeri l’ingresso in Palestina ed essi furono rispediti in Francia da dove sarebbero finiti in degli appositi campi di concentramento in Germania.
La situazione palestinese era ormai ingestibile per la Gran Bretagna, che non solo non aveva minimamente sedato l’ostilità araba nei suoi confronti, ma si era inimicata anche la popolazione ebraica e il movimento sionista. Nonostante tutto, Ben Gurion tenne un atteggiamento molto responsabile, facendo appello, durante la guerra, a che si combattesse a fianco dell’Inghilterra contro il nazismo, come se il Libro bianco non esistesse. D’altra parte Ben Gurion disse anche che bisognava opporsi al Libro bianco in Palestina, come se la guerra non esistesse, mentre in dissenso con la sua linea si formavano e agivano formazioni ebraiche, prime fra tutte l’Irgun del futuro ministro Begin, che conducevano azioni di guerriglia contro gli inglesi.

La fine del mandato inglese e la nascita dello stato di Israele secondo la risoluzione dell’ONU
Alla fine del periodo del mandato, la Gran Bretagna lasciava dunque una situazione esplosiva con nazionalisti arabi e sionisti che si combattevano fra loro e combattevano entrambi, nello stesso tempo, gli inglesi. E’ in queste condizioni che lord Bevin sottopone il problema del mandato palestinese all’assemblea ONU nel febbraio 1947. Non è detto che il governo inglese fosse convinto della necessità di lasciare definitivamente la Palestina. E’ più probabile che sperasse in un prevedibile insuccesso dell’ONU stessa che avrebbe lasciato libera la Gran Bretagna di ritornare in Palestina e stavolta con le mani libere. L’assemblea aveva del resto bisogno di una maggioranza di due terzi difficile allora da ipotizzare. E invece il 29 novembre 1947, fu deliberata a sorpresa la spartizione della Palestina, con la nascita dello Stato ebraico, nonostante l’ostilità araba e il boicottaggio della commissione ONU da parte degli stessi inglesi della commissione. La nascita di quel “focolare nazionale ebraico”, solo teoricamente annunciato nella dichiarazione Balfour, rimasta inoperante fino a quel momento e disattesa innanzitutto dalla Gran Bretagna stessa, avveniva quindi con un voto a larga maggioranza dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Tutta la vicenda qui ricostruita mostra quindi come sia assolutamente falso sul piano storico sostenere che lo Stato di Israele sia nato in seguito alla dichiarazione Balfour e grazie al sostegno britannico. E’ vero, invece, che esso è nato a dispetto della politica britannica e che questa politica, almeno negli anni Trenta, ha ripetuto in Palestina gli stessi errori compiuti in Europa contro Hitler. La repressione delle rivolte arabe e le rappresaglie immancabilmente seguite all’uccisione di soldati e civili britannici non devono ingannare, perché gli inglesi le hanno considerate in quel periodo soltanto delle inevitabili misure militari che non modificavano e anzi paradossalmente rafforzavano quella linea politica di risposta alle rivendicazioni del nazionalismo arabo che era  essenzialmente  di appeasement. In tal senso, il Libro bianco del 1939 è un po’ il corrispettivo in Palestina e nei confronti degli arabi dell’accordo di Monaco dell’anno prima. Se Ben Gurion non li avesse sconfitti – per molti inaspettatamente – nel 1948-49, se non fossero stati ancora sconfitti militarmente nel 1967 e nel 1973, i nazionalisti arabi avrebbero cacciato (o soppresso) tutti gli ebrei, secondo i loro dichiarati propositi e Israele non sarebbe mai nato o avrebbe subito cessato di esistere.
Questa storia contiene dunque importanti lezioni, che hanno grande valore anche e soprattutto per affrontare i problemi attuali. Non è neanche necessario esplicitare queste lezioni, perché esse sono perfettamente intellegibili. Salvo che per chi “ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ascolta”.

giovedì 4 agosto 2016

ALLE RADICI DEL PROBLEMA: LA STORIA E I DIRITTI DELL'UOMO NELL'ISLAM



Per riprendere e sviluppare ulteriormente il discorso dell’ultimo post, è molto importante l’articolo puntualmente segnalatomi da Niram Ferretti e a firma di Carlo Panella (è del novembre 2014, ma ciò non toglie nulla alla sua straordinaria attualità)
Se è vero quanto argomentato la scorsa volta, non di un islamico “revisionismo storico” bisogna parlare e non di una semplice, grossolana manipolazione della storia (fino all’invenzione, dice Panella, di una “metastoria”), ma di un paradigma della storia, fondato sul Corano come luogo di una rivelazione astorica e atemporale, che paradossalmente nega la storia stessa, almeno come la concepisce la cultura occidentale, e legge i fatti solo nell’ottica di quella stessa rivelazione, travisandoli o semplicemente cancellandoli. Certo, il risultato, ai nostri occhi, è comunque quello di una violenta deformazione della realtà storica e su questo Panella fornisce esempi davvero illuminanti.
Già la prima affermazione, da lui citata, meriterebbe uno studio specifico: “Abramo è stato il primo musulmano” (rimando per un utile approfondimento a http://www.biblia.org/documenti-tabella/approfondimenti-culturali/90-49/file.html) . L’idea che vi sia una sostanziale comunanza fra le tre religioni monoteistiche, fondata proprio sulla comune discendenza abramitica, sul riconoscimento di Abramo come padre comune, un’idea tradotta ora dal papa nei suoi termini più banali, si infrange sulla dura pietra della parola rivelata a Maometto, che qualifica Abramo non già come un padre comune, ma come il primo muslim e hanif. Personalmente, posso testimoniare di aver assistito poco tempo fa ad una lezione su “Abramo nel Corano” di una teologa islamica, sciita, iraniana, ma che vive a Roma, nella quale neanche una volta è stato detto che Abramo era un ebreo!
Panella si sofferma, in particolare, sul disconoscimento islamico della stessa esistenza del Tempio di Gerusalemme. E’ un punto cruciale, che in epoca contemporanea è servito e serve a negare ogni legittimità allo stato di Israele, ma che ha una portata più vasta, essendo il fulcro di quel paradigma storico – o meglio astorico – di cui si diceva, fondato sulla rivelazione coranica. “L’islam”, scrive Panella, è la continuazione lineare della vicenda biblica iniziata, appunto, con il primo “musulmano” – hanif – Abramo, disattesa e tradita con disonore prima dagli ebrei e poi dai cristiani. In questo contesto, la legittimità della continuità profetica viene a Maometto, che vive a centinaia di miglia da Gerusalemme, proprio dal racconto del suo viaggio mistico. L’arcangelo Gabriele lo trasporta sulla Roccia della Spianata. La Roccia di Gerusalemme diventa dunque il luogo da cui Dio sceglie di farlo ascendere, vivente, nell’iperuranio. Simbolo concreto del suo essere il “sigillo della Profezia””.
L’ebraicità di Abramo è dunque negata, perché nell’ottica del paradigma islamico, un vero credente, quale Abramo certamente è, non può che essere musulmano. Dunque, Abramo che è stato il primo credente ed il prototipo stesso del credente, deve essere musulmano. Il monte dove egli mostrò la sua obbedienza assoluta – da musulmano, appunto – a Dio, il monte del sacrificio di Isacco, è lo stesso monte da cui Maometto ascende al cielo, dopo aver compiuto la sua missione. Su quel monte non può dunque essere esistito nessun Tempio, prima della costruzione della moschea di al Aqsa.
Tutta la vicenda del popolo di Israele, nei tempi antichi, è così “esemplarmente” ricostruita in un memorandum del Ministero saudita degli affari esteri che spiega il proprio rifiuto a firmare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Onu (ci ritorneremo su questo) e così motiva il diritto arabo esclusivo alla terra di Palestina: “Il popolo palestinese è stato privato dei propri diritti fondamentali nella sua patria storica, dove era vissuto sin dall’epoca degli arabi cananei, migliaia di anni fa, e ben prima della nascita di Israele. Quest’ultimo si era rifugiato in Egitto con i suoi dodici figli, che là si moltiplicarono con il passare dei secoli. Un giorno, i loro discendenti decisero di liberarsi della schiavitù faraonica e fuggirono verso la Palestina che invasero e devastarono, allo scopo di fondare una patria, e fecero ciò aggredendo una popolazione araba che possedeva il diritto esclusivo di sovranità su quella terra, sua patria storica […] Quando gli arabi musulmani giunsero nel VII secolo a liberare la Palestina dai Bizantini, non trovarono alcun ebreo in quel paese”.
Ovviamente, i Cananei non erano arabi, ma di origine fenicia, e nel VII secolo gli ebrei a Gerusalemme e in Palestina erano molto numerosi.
Panella, con apprezzabile acume, non riduce tutto ciò a una costruzione propagandistica, volta a  giustificare la lotta contro il nemico sionista, né all’ottusità e all’ignoranza del fanatismo religioso e neanche a una specie di “mito fondativo”. Non si tratta di nulla di tutto questo. Se si entra, per capirlo, nell’ottica del paradigma coranico della storia, si comprende che non si tratta di farneticazioni, di semplici sciocchezze, di deliberate e strumentali manipolazioni, ma di un’operazione che è del tutto coerente con quel paradigma. La storia “non si basa – il dato è essenziale – su documenti scritti, al di là del Corano, ma sulla attendibilità della “catena di trasmissione” orale dei fatti e dei detti del Profeta. Detti che nei secoli successivi vengono raccolti negli Hadith che fanno parte integrante della Rivelazione. Incluso quello che dice: “Il giorno del Giudizio non verrà fino a quando l’ultimo ebreo non verrà ucciso…”, baricentro programmatico dello Statuto di Hamas”.
A tutti piacerebbe trovare un punto di incontro con il mondo islamico o con gran parte di esso. Tutti siamo consapevoli del fatto che non si possono trattare da nemici e neanche da barbari incompatibili con la civiltà moderna un miliardo e passa di persone. Tutti, infine, capiamo la necessità di isolare i jihadisti, separandoli in qualche modo dalla massa degli altri musulmani. Chi ci rimprovera di non tener conto di queste cose offende non la nostra intelligenza, ma la sua, tanto esse sono scontate. Il problema è che non basta proclamare le esigenze più ovvie, occorre trovare il modo per perseguirle concretamente e questo modo non lo si troverà mai se si continuano ad eludere le radici del problema.
E’ proprio da quelle radici che germinano piante avvelenate: è stranamente rimosso, tra gli altri, un fatto veramente emblematico: il rifiuto dei paesi islamici di sottoscrivere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, considerata “non compatibile con la concezione della persona e della comunità che ha l’islam” e la contrapposizione ad essa, nel 1981 di una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (è seguita un’altra dichiarazione dei diritti islamici nel 1990 al Cairo, ma il testo che pare seguito dalle organizzazioni islamiche più rappresentative pare quello più antico e in ogni caso i due documenti presentano le medesime incompatibilità con la Dichiarazione universale dell’ONU del 1948)
Un rapido confronto fra i due testi, quello islamico e quello dell’ONU, dà l’idea delle enormi difficoltà di un progetto che si proponga seriamente di integrare popolazioni islamiche nella nostra civiltà occidentale. Difficoltà che – è davvero il caso di ripeterlo per l’ennesima volta? – non devono certo indurre ad abbandonare l’impresa, in favore di una “guerra totale contro l’islam” (che in realtà nessuno mi pare voglia, nemmeno Salvini e tantomeno Trump o la Le Pen, ma che è solo un feticcio propagandistico che viene sbandierato e gettato addosso agli antagonisti e interlocutori, per  non affrontare i veri nodi), ma che devono essere riconosciute, per poter essere affrontate.
E’ curioso innanzitutto notare come ad un lettore sprovveduto potrebbero sfuggire le suddette dissonanze. Molto spesso, infatti, nel testo è evocata la “Legge”. Ad esempio, già all’art. 1:  “La vita umana è sacra e inviolabile e ogni sforzo deve essere fatto per proteggerla. In particolare, nessuno potrà essere ferito o ucciso se non per autorità della Legge”. E all’art. 2 si afferma che l’uomo è nato libero e che nessun ostacolo deve essere posto alla sua libertà se non per autorità della Legge; e all’art. 3 che tutti sono uguali di fronte alla Legge. Ma di quale “Legge” si tratta? Perché, si trattasse della legge civile, della legge dello stato, delle norme del diritto internazionale, non solo non si dovrebbe rilevare alcuna incompatibilità con la Dichiarazione ONU del 1948, ma non emergerebbero neanche serie difformità, sicché resterebbe un mistero il motivo che ha indotto i paesi islamici a non firmare la Dichiarazione del 1948 e a redigerne una propria. Malauguratamente, il lungo preambolo chiarisce che la fonte di ogni legge è Allah e che, pertanto, la “Legge” qui continuamente richiamata è solo la legge islamica, ossia la sharia
In tal modo, già le formulazioni citate, quelle dei primi articoli, acquistano un ben altro tenore, ma il conflitto dirompente fra le due Dichiarazioni emerge in alcuni degli articoli successivi. Ad esempio, all’art. 4, ove si legge che “ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge (ossia alla sharia) e che nessun'altra legge gli venga applicata”. Qui viene meno il requisito essenziale di cittadinanza: il rispetto, anzi lo stesso riconoscimento delle leggi del paese in cui si vive o si vorrebbe vivere! Mi chiedo: è islamofobia, è guerra totale all’islam chiedere, anzi pretendere, che gli islamici che intendono vivere nel nostro paese, o in Francia o in Germania, dichiarino di non riconoscersi in questo articolo e lo mostrino concretamente, vivendo nel rispetto delle leggi del paese ospitante e non secondo le norme della sharia?
Potremmo andare avanti ancora a lungo nella comparazione dei due documenti, ma mi limito a citare un altro articolo soltanto, quello che riguarda la libertà di pensiero: “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge prevede a questo proposito”.
Dal confronto fra le due Dichiarazioni emerge, in realtà, un vero scontro di civiltà.
Come si risolve il problema? Per la verità sono stanco di sentirmi chiedere regolarmente da quelli (fortunatamente ben pochi fra le persone con cui mi trovo a discutere) che si ostinano a non vedere il problema e a ripetere il vecchio mantra, un po’ comico, della sinistra anni Settanta per cui “il problema è un altro” (il problema è sempre un altro e quasi sempre riguarda i presunti misfatti e le inenarrabili colpe dell’Occidente e del suo terrificante sistema economico o dei suoi criminali apparati militari e bellico-industriali). Sono stanco di sentirmi dire: “ma tu che proponi?”. Io per mestiere studio e dunque posso solo proporre delle analisi che se per puro caso avessero qualche fondamento sarebbero forse utili a individuare delle soluzioni concrete. Vorrei però ricordare che, secondo una elementare norma, nemmeno di deontologia del dibattito, ma di mero buonsenso, l’onere della prova spetterebbe qui a chi pensa di poter detto fatto costruire una società multiculturale, a chi pensa che non si debba regolamentare l’immigrazione, a chi pensa che ogni essere umano debba avere la libertà di emigrare e di vivere dove gli pare: date le profonde differenze culturali che emergono e che sto cercando di richiamare, documentandole, dato che nessuno mi pare voglia rinunciare alle conquiste della civiltà occidentale, se non altro perché di quelle conquiste gode ampiamente anche quando il suo sport preferito è la denigrazione dell’Occidente, dato tutto questo, a costoro io vorrei chiedere “voi che cosa proponete”? Aspettando qualche risposta che non sia fatta di slogan, belle parole e diversivi, ma che affronti i nodi di fondo che sono emersi.