sabato 13 agosto 2016

LE OLIMPIADI DELLA VERGOGNA E L'EGEMONIA CULTURALE DELL'ISLAMISMO (SECONDO GRAMSCI!)




In un articolo sulle Olimpiadi vorremmo parlare delle performance di straordinari atleti come il nuotatore americano Phelps o la mezzofondista etiope Ayana, vorremmo parlare soprattutto del sano “spirito olimpico” che dovrebbe affratellare popoli di diversa etnia, cultura e religione, e che sarebbe veramente salutare in un momento così cupo della storia contemporanea. Purtroppo, lo scontro di civiltà e l’ipocrisia del politicamente corretto hanno fatto violentemente irruzione negli stessi giochi olimpici, compromettendone quello che dovrebbe esserne l’autentico valore.
Stiamo osservando il penoso, grottesco e inusitato spettacolo di atlete musulmane che gareggiano coperte dalla testa ai piedi anche in discipline sportive come il beach volley o i 100 metri piani che esigono un ben diverso abbigliamento per agevolare le prestazioni dei concorrenti. La foto della pallavolista araba che fronteggia, costretta nel suo cilicio, un’avversaria che veste invece il più succinto, e funzionale, bikini è quasi un simbolo del conflitto di civiltà in atto. Un conflitto che passa violentemente sul corpo e sulla libertà delle donne, come accade in tutte le guerre della storia, che siano combattute con le armi da fuoco o da taglio o con quelle non meno potenti e pericolose delle ideologie.
 
Eppure, il percorso della emancipazione femminile nel Novecento era stato contrassegnato anche dalle conquiste nel campo dello sport. Quante volte abbiamo sottolineato nei decenni passati la differenza fra le olimpiadi antiche, che erano precluse alle donne, e quelle moderne, nelle quali, sia pure gradualmente, le donne hanno finito per conquistare lo stesso spazio degli uomini, hanno via via ottenuto l’accesso alle stesse discipline, superando ogni tipo di pregiudizio, da quelli sessuali a quelli di carattere pseudo-scientifico! E questo percorso, in sede di olimpiadi, aveva finito per coinvolgere anche le donne provenienti da altre culture, da culture diverse da quella occidentale. Oggi si segnala invece un drammatico regresso, simboleggiato dalle tute di costrizione e dai veli delle atlete islamiche; e più drammatico ancora è forse il silenzio delle attuali femministe, quelle stesse che si indignano se un sindaco donna non viene chiamata “sindaca”.
Una “cultura” che impone alle atlete quel tipo di abbigliamento, o che le spinge ad autoimporselo, mortifica proprio un fondamentale elemento fascino delle olimpiadi, che servono non solo ad ammirare e celebrare le prestazioni e le capacità agonistiche dei concorrenti, ma la bellezza e l’armonia dei loro corpi, in molte se non in tutte le discipline. Così accadeva anche nell’antica Grecia, ove gli atleti gareggiavano nudi e nudi sono stati immortalati nelle statue dei grandi artisti dell’epoca. Ma ciò valeva naturalmente solo per i maschi, sicché ci restano le statue che esaltano la bellezza delle dee, ci resta la Venere di Milo, ma ovviamente non abbiamo nessuna statua che ritrae una discobola.  Se abbiamo letto come “progresso” ciò che invece è accaduto nelle Olimpiadi moderne, fino alla penultima, come si può non leggere ora come “regresso” la triste immagine di certe atlete arabe, come si può non scorgervi l’inquietante possibilità che si compia ora il percorso inverso e che le donne di certi paesi siano nuovamente escluse dalle gare sportive, segno della loro emarginazione dalla vita pubblica e civile, della loro segregazione e mortificazione?  E come si può restare in silenzio, proprio mentre si urla per le battute di Salvini sulla Boldrini o per le vignette di Mannelli sulla Boschi?
 
Queste Olimpiadi dovranno essere ricordate come le Olimpiadi della vergogna, per un’altra serie di episodi ancora. Si tratta di episodi di intolleranza antisemita, mascherata da antisionista. Già nei primissimi giorni un gruppo di atleti libanesi si è rifiutato di salire sullo stesso bus con gli atleti israeliani. Quindi, un’atleta saudita ha disertato l’incontro con una israeliana. Ieri, il fatto più clamoroso: il judoka egiziano El-Shehaby dopo il match perduto contro l’israeliano Ari Sassoon, si è rifiutato di stringere la mano che l’israeliano gli aveva teso. Un video ha immortalato sul web l’indecente gesto dell’egiziano. Intanto, giungeva la notizia del tennista tunisino che si rifiutava di incontrare un tennista israeliano…
Tutti questi episodi – e altri certamente ne accadranno nei prossimi giorni – calpestano nel modo più obbrobrioso quello che dovrebbe essere il significato delle Olimpiadi e dello sport in genere. Nel caso del judoka egiziano sono violate e mortificate anche le secolari, rigorose regole di fair-play che caratterizzano questa disciplina.
I fatti suddetti non hanno, però, trovato alcuno spazio sui media italiani. Soltanto il caso del judoka è stato riportato, ma senza risalto, da qualche giornale online, come Repubblica (unica eccezione Libero che lo ha invece titolato a tutta pagina). Nessuno ha ricordato che nella storia delle Olimpiadi è esistito un clamoroso e tragico caso di razzismo, che si è estrinsecato proprio nel rifiuto di stringere la mano di un atleta a motivo della sua etnia. Si verificò alle Olimpiadi del 1936 di Berlino, quando Hitler preferì abbandonare lo stadio, per non doversi complimentare con il grande Owens. Non c’erano neri in Germania, ma c’erano ebrei, ebrei come Ari Sassoon: l’anno prima erano state promulgate le leggi razziali, quell’anno stesso incominciarono ad essere applicate su larga scala e sei anni dopo fu adottata la cosiddetta “soluzione finale”.
Niente. I “progressisti”, la sinistra, quegli stessi che si commuovono ogni anno per la giornata della Memoria (non costa nulla piangere per gli ebrei ormai morti o sui pochissimi superstiti) non battono ciglio di fronte a questi indecenti comportamenti. Il Cio si guarda bene dal prendere provvedimenti, non squalifica gli atleti responsabili dell’obbrobrio, non li espelle dal villaggio olimpico. E c’è di più: si può tranquillamente ipotizzare che, fossero stati al posto del judoka egiziano o degli atleti libanesi, molti occidentali progressisti e di sinistra, molti ragazzotti dei centri sociali e dintorni, molti ammiratori dei 99 posse, del sindaco De Magistris e di Moni Ovadia si sarebbero comportati esattamente come loro.
Immaginate, invece, che cosa sarebbe accaduto a parti invertite, se un israeliano – per assurdo – si fosse rifiutato di stringere la mano a un atleta arabo? O se un gruppo di atleti bianchi – olandesi, svedesi, americani “wasp” – si fossero rifiutati di salire sul bus insieme ad atleti di colore? Ne sarebbe nato lo scandalo dell’anno.
Del resto, basta dare un’occhiata a certi commenti. Qualche "progressista",anche israeliano mi dicono, sostiene che è stato l’atleta israeliano ad aver offeso per primo l’egiziano: non avrebbe dovuto nemmeno tendergli la mano, forse per “rispetto” della diversità culturale. Quella dell'israeliano è stata quasi una provocazione! E qualche altro, scelgo un commento a caso fra i molti che si potrebbero citare, ha affermato che “sì l’egiziano, però anche un atleta del beach volley americano ha protestato contro un giudice di gara e ha fatto il gesto di tagliargli la gola… e nessuno ha più morti sulla coscienza degli americani e degli israeliani”. Che cosa c’entri la reazione stupida di un singolo atleta arrabbiato per una decisione arbitrale con un gesto razzista tutt’altro che isolato e anzi provocato, come ora diremo, da una pressione di massa è il mistero insondabile della stupidità umana.
Il “sì, però” è ormai un topos. Ogni volta che si prova a dire che forse abbiamo qualche problema con il mondo islamico, scatta il “sì, però” che nega e rimuove il problema e impedisce qualunque analisi e discussione. Un jihadista si fa esplodere in un aeroporto? “Sì però’… il colonialismo, le crociate, le guerre di Bush, la Palestina, la miseria, l’emarginazione, il traffico delle armi”. Un rappresentante islamico, del cosiddetto islam moderato, vuole legalizzare la poligamia? “Sì, però… il sessismo dell’Occidente, i femminicidi, gli uomini occidentali fedigrafi e adulteri, la diversità culturale, il rispetto delle differenze….”. Un uomo dell’Isis si lancia con un camion sulla folla? “Sì, però… ‘noi’ vendiamo le mine all’Isis” (copyright Gino Strada). Orde di maghrebini molestano le donne di Colonia? “Sì, però… ci sono anche i cattolici che uccidono le suocere” (copyright Bergoglio). Dei disegnatori vengono uccisi per una vignetta su Maometto? “Sì, però… se uno offende mia madre io gli tiro un pugno” (sempre lui).
Tuttavia, io non temo soltanto i “giustificazionisti” a ogni costo, quelli del “sì, però”, quelli che in fondo in fondo simpatizzano con gli integralisti islamici, perché sono stati, e a volte sono ancora, integralisti di altre ideologie (comunismo, in primis), perché fra loro e i jihadisti, in fondo, c’è una corrispondenza di amorosi sensi. Io temo anche e soprattutto la posizione di tutti quelli che condividono pure ciò che sto cercando di esporre, ma minimizzano il problema o comunque non lo avvertono nella sua reale gravità.
Minimizzare è credere che si tratti di singoli casi, per quanto frequenti o numerosi; minimizzare e sottovalutare il pericolo è non capire che non di singoli casi si tratta e nemmeno di minoranze fanatiche, ma di una “cultura” che è largamente maggioritaria in una vasta e popolatissima area del mondo – un’area del mondo e una “cultura” che oltretutto si stanno trasferendo sempre più massicciamente qui da noi. Basti pensare alle dichiarazioni degli atleti protagonisti degli episodi citati. A chi gli ha chiesto spiegazioni del suo gesto, il judoka egiziano ha dichiarato che per giorni era stato esposto a una grande pressione da parte di media e opinione pubblica del suo paese, che pretendevano che si rifiutasse del tutto di incontrare l’israeliano. Aveva resistito a queste pressioni, perché, ha detto, per lui “sport e politica non vanno mischiati”. E tuttavia, non se l’è sentita di stringere la mano all’avversario. Se così è, altro che caso isolato! El-Shehaby è meno colpevole dei giornali, dell’opinione pubblica, dei social, delle masse dei suoi connazionali! E si badi, che non stiamo parlando del Califfato o dell’Arabia Saudita o del Qatar, ma dell’Egitto, paese arabo moderato, filooccidentale e in fondo amico – il suo governo, almeno – di Israele. Dichiarazioni simili, a quanto pare, quelle del tennista tunisino. E anche in questo caso va notato che parliamo della Tunisia, paese con un governo semi-laico, l’unico rimasto in vita tra quelli delle “primavere arabe”.
Né va minimizzata la portata dei double standard, delle rimozioni, delle omissioni e bugie che derivano dal dominio del politically correct fra le classi dirigenti e gli intellettuali occidentali. Non va sottovalutata la “dittatura del politically correct”. Essa impera, ormai, in tanti college americani, ove il politically correct impone regole, pratiche, costumi, condiziona programmi di studio, porta all’emarginazione di docenti “non allineati”.
Per cogliere la reale dimensione e gravità del problema vorrei proporre - qui solo accennandola ma ripromettendomi di svilupparla nel prossimo futuro - un’analisi che adotta categorie marxiane e gramsciane – quelle categorie che forse dovrebbero ricordare e utilizzare quelli che si dichiarano ancora orgogliosamente di “sinistra”, e in qualche caso addirittura “comunisti”, più che un esule, un “profugo” dalla sinistra come il sottoscritto (un esule che peraltro non è mai stato comunista). Queste categorie, tuttavia, non le applicherò, come Marx ed Engels, alla lotta di classe – che pure a mio avviso esiste ancora e come se esiste – ma al “conflitto di civiltà”, ritenendo che il modello del clash of civilitation è quello che può meglio spiegare i più importanti macro-fenomeni del mondo attuale, o almeno il maggior numero di essi e nel modo più soddisfacente (o meno insoddisfacente). Non si tratta di sincretismo, quindi, ma della logica stessa dell’indagine scientifica. A questo stesso modello, al suo valore esplicativo, tornano però molto utili certe categorie marxiane e quelle gramsciane, che ne sono un brillante sviluppo.
In sintesi. Marx ed Engels sostengono che per una trasformazione rivoluzionaria della società non bastano le “condizioni oggettive”, quelle di carattere “materiale”, legate innanzitutto allo sviluppo delle forze produttive, alla dinamica dei rapporti di produzione. Non basta nemmeno che la classe oppressa abbia gli strumenti, le “armi” adatte alla trasformazione rivoluzionaria: i mezzi di comunicazione di massa, il sistema di trasporti, le tecnologie di supporto all’azione rivoluzionaria, ecc.. Tutto questo non serve a molto se manca alla classe oppressa la “coscienza rivoluzionaria di classe”, che è poi la condizione “soggettiva” della trasformazione rivoluzionaria. E questa condizione non si raggiunge fino a che la classe oppressa resta mentalmente e culturalmente asservita all’ideologia dominante – o meglio all’ideologia tout court, perché per Marx l’ideologia, è sempre quella delle classi dominanti, l’ideologia è mistificazione della realtà al servizio della classe dominante e gli spiacerebbe molto sentire tanti che definiscono “ideologia” il suo comunismo! Altro che volgare materialismo, quindi!
Gramsci, dal canto suo, riprende e sviluppa questo punto, in una prospettiva diversa. Lo fa quando cerca di interpretare la sconfitta del Partito d’Azione e di Mazzini e la vittoria dei moderati, di Cavour e del Savoia, nel Risorgimento italiano. “La supremazia di un gruppo sociale”, scrive nei Quaderni “si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’”. Il “dominio” si esercita attraverso i mezzi coercitivi, gli elementi di forza. E’ il corrispettivo delle “condizioni oggettive” della trasformazione rivoluzionaria in Marx ed Engels. Esso, però, non è sufficiente: “un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere (e questa è anzi una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche ‘dirigente’”
 Il Partito d’Azione perse la partita, secondo Gramsci, perché di fatto fu “diretto”, “guidato” (suo malgrado, ovviamente) dai moderati, sia prima, sia dopo l’Unità d’Italia. Subì l’”egemonia culturale” dei moderati, che, come ogni gruppo sociale “dirigente”, capace non solo di “dominare”, ma anche di “dirigere”, ebbe “un proprio ceto di intellettuali”. Il che non accadde al Partito d’Azione. O meglio, accadde che anche gli intellettuali del Partito d’Azione servirono in effetti, non certo volontariamente e consapevolmente, la causa del re e dei moderati. Gramsci, dunque, considera storicamente esatta, la battuta di Vittorio Emanuele II che si vantava di “avere in tasca il Partito d’Azione”.
A questo punto, veniamo all’attuale “scontro di civiltà”, fra Occidente e Islam. Per lungo tempo, l’Occidente è stato non solo “dominante”, ma culturalmente egemone. La sua “ideologia” faceva presa anche (o soprattutto!) tra le masse arabe (o africane), tra le loro classi dirigenti e i loro intellettuali. Le “promesse”e i “miti” dell’Occidente affascinavano il mondo e anche i suoi valori potevano presumersi “universali”. Oggi la situazione appare rovesciata o in via di rovesciamento: è l’islam che sta diventando culturalmente egemone. I tanti episodi citati qui sopra o in tanti post precedenti, i “double standard”, i “sì, però” sono segni inquietanti di questa capacità dell’Islam di “dirigere” anche se non di dominare (non ancora?) l’Occidente. Il “politically correct” è l’espressione dell’asservimento dell’Occidente, e soprattutto dei suoi intellettuali, all’ideologia della civiltà antagonista. Gli intellettuali progressisti occidentali di fatto servono il Califfo.
Ho quindi paura che sia storicamente esatto – o che rischi di esserlo a breve - arrivare a sostenere che il Califfo – o chiunque prenderà il suo posto e rappresenterà l’islam come Vittorio Emanuele II poteva rappresentare i “moderati” del Risorgimento italiano–  sostenere che il Califfo abbia “in tasca l’Occidente”.
Naturalmente, mi si obietterà che per non correre il rischio di minimizzare, finisco per eccedere, per esagerare. Accetto di correre quest’altro rischio. E’ così che si deve fare, a mio avviso; è questo – e non l’altro - il rischio che si deve correre nei momenti di pericolo. La storia mostra, infatti, che si sono sistematicamente salvati i gruppi sociali, i popoli, le civiltà che hanno saputo enfatizzare i pericoli e levare alto il grido di allarme, mentre sono regolarmente periti quelli che li hanno sottovalutati e hanno tenuto bassi i toni. Se poi ancora ci si ostina a non vedere il pericolo, a non capire di che pericolo si tratti, basta fissare nella mente il fotogramma che ritrae i due atleti del judo. E’ il pericolo di un mondo nel quale una civiltà si rifiuta di stringere la mano all’altra e quest’ultima la aiuta pure a costruire un castello di finte giustificazioni  al suo gesto di odio.




 

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