Nota introduttiva
Fra
le molte peculiarità del Vangelo di Giovanni vi è anche questa: la narrazione
non si conclude con la scena di Pasqua, ma con un episodio post-pasquale.
Questo episodio è contenuto nell’ultimo capitolo, il 21°, nel quale la critica
ha riconosciuto unanimemente un’aggiunta successiva alla prima stesura del
Vangelo, ad opera di un «Redattore finale», che la maggior parte degli studiosi
ritengono sia persona diversa dall’«Evangelista» (e questi, a sua volta, non è certamente
Giovanni di Zebedeo, uno dei Dodici, come invece ci è stato tramandato dalla
tradizione, ma un cristiano della seconda o della terza generazione).
In
questo modo, il Quarto Vangelo ha non una, ma due conclusioni – o meglio una
conclusione e un epilogo. La prima conclusione, il capitolo 20, vede la
scoperta della tomba vuota e una serie di tre apparizioni di Gesù, tutte a
Gerusalemme: prima a Maria di Magdala; poi ai discepoli riuniti in un luogo
chiuso e con le porte sbarrate, ma senza Tommaso; e infine nello stesso luogo e
ancora ai discepoli, ma alla presenza, stavolta, dell’incredulo Tommaso.
Il
capitolo 20 rappresenta il compimento della narrazione e della vicenda, in modo
esplicito e formale nel versetto conclusivo (20,30) e in modo sostanziale in
alcuni fondamentali elementi del racconto: nella sua prima manifestazione, Gesù
incarica Maria di annunciare ai discepoli che Egli si appresta a salire al
Padre (20,17); ai discepoli Gesù comunica lo Spirito ed essi vengono «inviati»
nel mondo (20,21-22); i discepoli lo riconoscono come Signore (20,25) e, alla
fine, è proprio l’incredulo Tommaso l’autore della più completa confessione di
fede («Mio Signore e mio Dio!», 20,28).
E’
quindi sorprendente che la storia prosegua con il capitolo 21: i discepoli, o,
più precisamente, Pietro ed altri sei (lo stesso Tommaso, Natanaele, Giacomo e
Giovanni, figli di Zebedeo, ed altri due innominati – ma uno di questi è di
sicuro «il discepolo che Gesù amava») non sono rimasti a Gerusalemme, né sono
andati nel mondo ad evangelizzare, ma sono rientrati in Galilea, hanno fatto
ritorno, a quanto pare, alle loro case, alle loro famiglie, certamente al loro
lavoro di pescatori. Come se nulla fosse accaduto!
Se
si considera che i Vangeli – e a maggior ragione il Quarto – non sono
narrazioni né storiche, né biografiche e che quindi ad essi non va richiesta la
coerenza interna che ci aspetta da questo tipo di racconti, si possono meglio
valutare le ragioni teologiche dell’aggiunta del capitolo 21, ragioni che
emergono soprattutto nella seconda parte dell’episodio – con il pasto comune di
Gesù con i discepoli, il dialogo con Pietro e la sottolineatura del ruolo
dell’altro discepolo, quello «che Gesù amava» - ragioni che sono innanzitutto
di carattere ecclesiologico e didattico-pastorale.
Non
ho tratto spunto, tuttavia, da queste motivazioni teologiche – su cui
ovviamente vi è una vastissima letteratura – perché non intendevo cimentarmi in
una esegesi. Mi sono soffermato solo
sull’inizio dell’episodio, fino all’apparizione di Gesù, al suo riconoscimento
da parte del discepolo prediletto e alla reazione di Pietro, come se si
trattasse di una conclusione diversa da quella prospettata al capitolo
precedente. Nella redazione canonica, sia chiaro, così non è: il capitolo 21
non è una conclusione diversa, tantomeno un finale alternativo, ma è un epilogo
che segue il primo scioglimento della vicenda al capitolo 20. Lo attesta subito
21,1 che afferma: «dopo questi fatti,
Gesù si manifestò di nuovo (p£lin)». Si danno dunque per avvenute le precedenti
manifestazioni di Gesù a Gerusalemme, con i fatti correlati. E’ altrettanto
vero, però, che il redattore ha attinto, per costruire l’epilogo, a una diversa
tradizione pasquale, rispetto a quella tenuta presente nel capitolo 20. E’
infatti assodato che i più antichi racconti pasquali, che hanno poi fornito la
base per i Vangeli, conoscessero molteplici versioni delle apparizioni del
Risorto, non solo a seconda dei destinatari di queste (le donne, Pietro, i
discepoli tutti), ma riguardo al luogo – Gerusalemme e i suoi dintorni (i discepoli
di Emmaus) oppure la Galilea. Il redattore del Quarto Vangelo, aggiungendo
l’ultimo capitolo, non si limita, però, a giustapporre questa diversa
tradizione alla prima, ma la lega organicamente attraverso il passaggio di
21,1, appena citato. Una scelta diversa, tuttavia, sarebbe stata pure
plausibile, secondo quella che potremmo definire la «logica narrativa della
Bibbia». In altri luoghi biblici, infatti, soprattutto nell’Antico Testamento,
racconti diversi della stessa vicenda, risalenti a tradizioni e fonti
differenti, vengono semplicemente giustapposti o sommariamente collegati. Il
caso più evidente riguarda le origini del mondo, con i due racconti della
creazione di Genesi 1 e Genesi 2 che presentano la storia in modo radicalmente
diverso senza alcun tentativo di armonizzazione. Ma soprattutto alla medesima
logica risponde la stessa scelta di inserire nel canone quattro diverse
narrazioni evangeliche, senza operare una reductio
ad unum. Eppure, la possibilità alternativa, quella di un unico Vangelo che
unisse coerentemente le narrazioni dei diversi autori, era ben presente, tanto
è vero che fu pure realizzata verso il 170 da Taziano. L’”armonia” di Taziano –
il Diatessaron – è andata però
perduta, non casualmente, ma perché si seguì una strada diversa, quella del
«pluralismo» narrativo e quindi del pluralismo dei ritratti di Gesù e delle
testimonianze su di lui. Questa via è ben nota, del resto, anche al redattore
finale del Quarto Vangelo che, proprio nel capitolo 21, raccoglie e rilancia le
due distinte tradizioni risalenti, rispettivamente, alla comunità petrina e a
quella giovannea, raccolta quest’ultima intorno alla testimonianza del
“discepolo amato”, senza porle in alternativa o in conflitto.
Su questa base, ho provato a leggere l’episodio dell’apparizione
di Gesù sul mare di Galilea, come se si trattasse di una conclusione della
storia diversa da quella del capitolo 21 e a collegarlo direttamente al
racconto della passione (capitolo 19), rimuovendo come intervento redazionale
il versetto iniziale (21,1). Non si tratta, ripeto, di un’esegesi – che
risulterebbe evidentemente azzardata e comunque contraria all’intenzione
dell’autore del Vangelo – ma di una sorta di «gioco» letterario, un gioco senza
pretese e tuttavia biblicamente fondato – per le ragioni suddette – e che
comunque può suscitare una meditazione forse di un qualche interesse.
In tal modo il capitolo 21, che nella sua collocazione
canonica contiene una storia post-pasquale, diviene la materia per un racconto
pasquale, con la prima apparizione di Gesù ai discepoli. Un racconto che avrà
come presupposto non solo la narrazione di Giovanni, ma anche quella degli
altri Vangeli, o almeno alcuni singoli elementi.
La scena precedente – capitolo 19 - si era conclusa con la sepoltura di
Gesù. Accanto a Gesù crocefisso erano rimaste solo le donne – la madre, Maria
di Magdala, Maria di Cleopa. Gli altri discepoli erano fuggiti, si erano forse
nascosti dopo che Pietro aveva negato tre volte di conoscere Gesù, mentre era
in corso il suo «processo». Solo uno dei discepoli era rimasto fino alla fine,
quello «che Gesù amava». E Gesù, dalla croce, lo aveva scorto accanto alla
madre e aveva affidato l’una all’altro. Infine, Gesù aveva reso lo spirito,
esclamando «tutto è compiuto». Un soldato, per sincerarsi che fosse morto, gli
aveva piantato la lancia nel costato, ma nessun osso gli era stato spezzato, in
modo che si compisse la Scrittura. Un influente membro del sinedrio, Giuseppe
d’Arimatea, che però era stato anche discepolo del Nazareno, aveva ottenuto da
Pilato di levare il corpo di Gesù e, insieme a Nicodemo, altro giudeo in vista,
legatolo con bende e cosparsolo di aromi, gli aveva dato sepoltura. E’
significativo che, nell’assenza di tutti gli altri discepoli, questa incombenza
sia assolta proprio dai due discepoli che meno si erano esposti e compromessi, per
il loro ruolo nell’elite giudaica e anche, nel caso di Nicodemo, per prudenza
(aveva visitato Gesù solo di notte e di nascosto). Cala così la notte, sulla
vigilia della Pasqua e sulla tomba che contiene il corpo mortale di Gesù.
Il racconto
Quanto tempo è passato dall’orrida sera del Golgota?
Giorni, sicuramente. Magari settimane o addirittura mesi. Gesù certamente è
risorto, è veramente risorto, ed è risorto il terzo giorno, secondo le
Scritture. Ma nessuno lo ha ancora visto, nessuno lo ha incontrato, nessuno ha
saputo che il Crocefisso è il Risorto.
Pietro e gli altri discepoli, non hanno avuto neanche
il tempo di raccogliersi a piangere il Maestro che gli è stato così crudelmente
sottratto e di riflettere sulla caduta repentina e incresciosa della loro
speranza. Per il timore di essere arrestati a loro volta, hanno dovuto
nascondersi e, ben presto, sono fuggiti da Gerusalemme, approfittando della
confusione della festa. Hanno cercato riparo nel loro paese d’origine, sono
tornati in Galilea, dove tutto era incominciato.
Ma ora, invece, tutto pare inesorabilmente finito.
Quella che hanno vissuto è stata una straordinaria avventura, una magnifica
illusione, un sogno che li ha rapiti, ma che ora è solo amarezza e dolore. Quanto
è penoso vagare per quei luoghi che hanno conosciuto il Maestro, nei quali è
risuonata la sua parola, che sono stati teatro delle sue guarigioni portentose!
Non ci sono più miracoli ora: gli storpi restano storpi, i ciechi non
riacquistano la vista, i lebbrosi non sono purificati e vengono come sempre
fuggiti da tutti, gli indemoniati urlano le loro bestemmie nei cimiteri, i
morti rimangono morti. Quelli che sono stati guariti, liberati, purificati,
resuscitati dal Maestro si godono ora la vita e spesso neanche si ricordano più
di lui. Solo qualcuno ne parla, con gratitudine e con ammirazione, ma ne
parlano come uno dei tanti maghi dei quali il popolo ha sempre raccontato.
Altri ne ricordano qualche detto: era un sapiente, dicono, un maestro di vita,
un giusto. Forse addirittura un profeta. E non è strano, poi, che abbia fatto
quella fine: dopotutto, è toccata a tanti giusti, prima di lui. E’ toccata a
tutti i veri profeti quella sorte.
No, questi discorsi non acquietavano affatto Pietro.
Per lui Gesù non era stato solo un maestro di sapienza, un giusto. Non era un
profeta come gli altri, non era neanche Elia. Era Cristo. E Pietro per primo lo
aveva saputo. Era il Messia atteso da Israele. E così era entrato a Gerusalemme
acclamato dalla gente. Nessuno di loro poteva immaginare che pochi giorni dopo
gli toccasse quella fine, perché il Messia non può, non deve morire sulla
croce!
Certo, quando erano ancora in Galilea, il Maestro più
volte aveva alluso in modo oscuro e inquietante a quella morte che infine aveva
incontrato. E Pietro un giorno lo aveva quasi redarguito: «così confondi i più
deboli», gli aveva detto prendendolo da parte. Ancora ricordava il volto e il
tono di Gesù, che gli si era rivoltato contro, a quel suo rimprovero. Non lo
aveva mai visto così. Lo aveva chiamato Satana, gli aveva detto che i suoi
pensieri erano secondo la misura degli uomini e non secondo quella di Dio.
Pietro aveva chinato il capo, ma non aveva capito. E continuava a non capire,
perché tutto quello che era accaduto in quegli ultimi maledettissimi giorni
rovesciava tutte le loro aspettative e non corrispondeva per nulla ai racconti
che aveva udito fare intorno al Cristo di Israele e a ciò che dicevano le
Scritture, per quel poco che egli le conosceva.
Perciò, quando
lo aveva per tre volte disconosciuto si era comportato come uno spregevole
vigliacco, è vero – e ancora piangeva amaramente per questo - ma in fondo non
aveva mentito: lui non era stato discepolo di quell’uomo arrestato, processato,
deriso, torturato e condannato alla pena più infamante. Lui era stato discepolo
di Cristo, del Messia regale e trionfante. O almeno così aveva creduto. Ma si
era sbagliato, evidentemente. Tutti loro si erano sbagliati.
Giuda era stato in fondo il più coerente e il più
coraggioso. Tante volte Pietro lo aveva rimproverato per la sua
impazienza, quella che manifestava puntualmente non appena Gesù si allontanava:
“Perché non ci decidiamo ad andare a Gerusalemme? E’ lì che deve manifestarsi
il Messia, non in mezzo alle pecore della Galilea! E invece restiamo qui,
sconosciuti al mondo… e lui ci vieta pure di parlare dei suoi miracoli!”.
A Gerusalemme, alla fine, ci erano andati e anche
Giuda aveva approvato l’ingresso sull’asino, perché questo si leggeva nel
profeta Zaccaria, diceva. E quando Gesù aveva messo a soqquadro il cortile del
tempio si era finalmente entusiasmato. Ma Gesù continuava a predicare, a
predicare soltanto, a discutere, a polemizzare, senza posa. Aveva resuscitato
Lazzaro, è vero, e così aveva compiuto il più potente dei suoi segni, quello
che aveva definitivamente allarmato i suoi nemici. Ma questo era stato a
Betania. E invece un segno, un segno definitivo, bisognava farlo a Gerusalemme,
nel Tempio. Altro che rovesciare i banchi dei cambiavaluta, diceva Giuda! Negli
ultimi giorni, Giuda era sempre più inquieto, misterioso, spariva e ricompariva
d’improvviso. Quando erano venuti ad arrestare il Maestro, Pietro aveva messo mano
alla spada, ma Gesù lo aveva fermato. Lo avevano già portato via il Maestro,
quando Giuda gli si era accostato. «Hai fatto bene, Pietro. Ma è tutto inutile,
se si lascia condurre al macello come un agnellino». Pietro era affranto e a
stento gli dava ascolto, ma si era accorto che Giuda continuava a girargli
intorno, come se avesse premura di aggiungere altro, di dirgli qualcosa che non
poteva più tenersi dentro. E infine gli aveva fatto quella confessione che lo
aveva raggelato. Era stato lui a tradirlo. Non avrebbero osato arrestarlo di
giorno, per timore della reazione del popolo. E così li aveva condotti lì. Alla
fine, perché nascondersi, perché tutte quelle esitazioni a manifestarsi come
Messia? A che era servita, allora, la sceneggiata dell’asino? E così era andato
dai suoi nemici, per affrettare la cosa, per costringerlo a fare quello che
doveva fare, quello che era scritto.
Giuda non lo avevano più visto, ma era stato poi
raccontato che, da lontano, aveva seguito tutto il cammino di Gesù verso il
Golgota. Aveva atteso la sera, ancora sperando nel prodigio. Aveva teso
l’orecchio, aspettando che si levasse da quella croce ignominiosa la voce del
divino shofar, un suono più potente
di ogni suono udito finora. Alla fine dei tempi, dicevano gli scribi, Dio stesso avrebbe suonato lo shofar, avanzando nella tempesta, risuscitando il suo Messia e poi
tutti quelli che dormono nella polvere, radunando Israele e tutte le genti
intorno al suo sacro monte. Ma niente di tutto questo era accaduto sul Golgota
e la sera era calata come sempre, a portare la solita, silenziosa, stupida
notte di Gerusalemme.
Giuda era andato a impiccarsi.
A Pietro e agli altri era invece toccata la derisione
dei loro paesani, il risentimento dei loro stessi familiari abbandonati e che
ora li vedevano tornare avviliti e mortificati. Qualcuno, qualche nemico, aveva
anche provato a denunciarli, a farli arrestare, ma gli avevano risposto che
adesso era meglio non smuovere più le acque, che di quel falso profeta e della
sua accolita di seguaci fanatici era meglio che si perdesse finanche la
memoria.
Di Gesù, fra di loro, quasi non osavano più parlare,
come accade talora a chi ha perso una persona molto cara e non sa darsi pace ed
evita accuratamente qualunque parola o gesto che possano rendere ancora più
bruciante la ferita. Apparentemente, erano tornati alle cose di prima, al loro
misero e stentato lavoro, le poche ore di svago passate in silenzio o in chiacchiere vane.
Seguivano più scrupolosamente di prima la Legge e cercavano di non offendere
nessuno, di non reagire al male che spesso ricevevano, sebbene dentro di loro
covasse una rabbia violenta che pretendeva di uscire. Ma non potevano sfogarla
quella furia, se non piangendo senza consolazione, quando restavano soli, o
picchiando selvaggiamente il pugno su un muro quando nessuno li vedeva o
maltrattando una bestia incolpevole, cosa di cui poi si pentivano. Spesso si
ritiravano sul monte a pregare, come usava fare il Maestro, ma ciascuno per suo
conto.
Giovanni e Giacomo non sembravano più loro. Pietro li vedeva
invecchiare di giorno in giorno. Ne aveva pena, perché avevano peccato di
ambizione e di vanità e più degli altri si erano abbandonati a sogni di gloria,
tanto che aveva anche dovuto difenderli dal risentimento dei compagni. Ora il
loro peccato lo pagavano con un’afflizione ancora più crudele di quella pur
così gravosa che toccava agli altri. Erano tornati sotto la sferza del padre,
Zebedeo, che più di prima, e a ben ragione dal suo punto di vista, infieriva su
di loro. No, Giacomo e Giovanni non erano più «i figli del tuono», come li
aveva chiamati Gesù stesso, i discepoli indomabili; sembravano due agnellini
smarriti.
Tommaso e Natanaele ostentavano invece cinismo –
Natanaele aveva finanche ripreso il suo vecchio motto e diceva che dovevano pur
saperlo che nulla di buono poteva venire da Nazareth – ma era una maschera e
dentro si rodevano come e più degli altri.
Le donne, poi, che all’alba
dopo Pesach, si erano recate alla tomba di Gesù e l’avevano trovata vuota, avevano
raccontato di aver avuto una visione di angeli e che gli angeli avevano detto
loro che Gesù era risorto e che li aspettava in Galilea. Nessuno ci aveva
creduto e visto che Gesù non tornava, anche loro, le donne, avevano finito per convincersi:
si erano solo lasciate suggestionare dalla propria fantasia o erano cadute
vittima di qualche sciocco burlone che si era preso gioco di loro. La tomba
vuota restava un mistero, ma si vede che qualcuno aveva trafugato la salma. Magari,
erano stati proprio gli uomini del Sinedrio o i Romani, per timore che quella
tomba diventasse meta di pellegrinaggi e
occasione di disordini. Le donne erano quelle che pagavano lo scotto maggiore, per aver seguito Gesù, perché ora erano viste come delle pazze o delle poco di buono.
Tuttavia, una di loro, Maria di Magdala, era
scomparsa. Maria doveva tutto al Maestro, lo amava ed era stata da lui sempre
amata e protetta. Dicevano che alla tomba vuota ci era tornata più volte, da
sola, inconsolabile. Ma qui i racconti si contraddicevano. Alcuni dicevano che
era stata lei per prima a scoprire la tomba vuota e solo dopo erano
sopraggiunte le altre donne. Sta di fatto che Maria doveva essere impazzita per
il dolore, perché quelli che l’avevano incontrata per ultimi, dicevano che era
mutata completamente. Non piangeva più, sembrava addirittura felice e
raccontava di aver visto il Signore, il suo rabbouni.
Poi nessuno l’aveva vista più e si diceva che se ne fosse andata nel deserto o
sulla montagna, ad aspettare Gesù, perché Gesù sarebbe presto tornato, diceva, ma
stavolta per sempre e in tutta la sua gloria.
Nessuno di loro, però, riusciva ad attaccarsi a queste
speranze. Debolezze e fantasie di donne, dicevano. Ma Lazzaro non era una donna
e neanche lui credeva che tutto fosse finito sul Golgota. Lazzaro, che non si
chiamava più così, che non voleva più quel nome, perché, diceva, quando Gesù lo
aveva resuscitato era nato di nuovo. E così avevano cominciato a chiamarlo «il
prediletto», colui che Gesù amava, ma senza alcuna ironia o gelosia, perché
Gesù li aveva amati tutti. E soprattutto perché tutti loro rispettavano quel
discepolo. Si mostrava così certo che Gesù non fosse morto: “Il Signore è
ancora qui, non ci ha mai abbandonati; siamo noi che non sappiamo riconoscerlo,
ma forse presto aprirà i nostri occhi”. Diceva questo con una tranquilla,
serena sicurezza che non era quella dei pazzi, con una autorevolezza che non
era dei sognatori e degli illusi. Per un attimo Pietro sentiva anche su di sé quella
gioiosa fiducia del «prediletto», ma subito tutto svaniva.
Quella sera, Pietro e il fratello Andrea stavano sull’uscio
di casa. La suocera di Pietro era morta da più di una settimana. Una febbre
maligna l’aveva presa, come le era accaduto quel giorno che pareva tanto
lontano ormai. Pietro e la moglie, mentre la donna giaceva nel suo giaciglio e
delirava, avevano sentito più volte bussare alla porta. Ogni volta sobbalzavano,ma erano sempre vicini,
parenti, conoscenti che venivano, spinti da sincera premura o solo da
curiosità. Come era accaduto anche quel giorno. E come allora, vennero anche
Giacomo e Giovanni, ma da soli stavolta. Il Maestro non c’era più e nessuno
poté guarire la vecchia, che spirò nella notte, senza un lamento e senza una
parola.
Pietro stava ancora osservando il lutto e non era più
andato a pescare. Come ogni sera, arrivarono i figli di Zebedeo, poi Tommaso e
Natanaele e infine anche lui, il «prediletto». Come ogni sera sedevano insieme,
senza parlare. A un tratto Pietro si alzò e disse «io vado a pescare». Tommaso
fece: «veniamo con te», e parlò per tutti.
La notte era senza luna e fredda. Le acque del mare di
Galilea sembravano sempre più scure a quei pescatori afflitti ed erano sempre
più avare di pesci. Quella notte non presero nulla. Da giorni non prendevano nulla.
Il grande lago sembrava morto con il Maestro.
Il sole non era ancora spuntato dietro alla montagna,
ma c’era già un livido chiarore. Mestamente, stavano tornando a riva e a riva
scorsero una figura, seduta sulla sabbia. Doveva essere un mendicante che si
era alzato di buon’ora, perché con voce allegra li chiamò: «Hei là, ragazzi:
avete un pesce per sfamarsi?». «Non abbiamo nulla», rispose Tommaso. «Provate a
gettare la rete dal lato destro e ne troverete di pesci!», disse quello strano
tipo. Natanaele borbottò «eccolo là, che proprio i suoi consigli stavamo
aspettando!». Ma «il prediletto» soggiunse: «facciamo come dice lui».
I figli di Zebedeo, svogliatamente, lanciarono la rete
e subito avvertirono le prime scosse. In pochi istanti la rete si riempì di pesci,
tanto che non riuscivano a tirarla sulla barca. Tommaso, Natanaele, Andrea e Pietro
stesso davano aiuto a Giacomo e Giovanni, puntavano le gambe sul fondo della barca,
reclinavano il busto in avanti a raccogliere tutte le loro forze e tiravano,
tiravano con tutta l’energia che avevano, ma la rete si muoveva appena.
Solo «il prediletto» era rimasto in disparte. Fissava il
misterioso mendicante che era sulla riva, quieto e immobile. «E’ il Signore», disse d’improvviso a Pietro che gli era accanto.
Lo disse con voce pacata, con l’animo tranquillo, come se fosse solo accaduto
ciò che ci si doveva aspettare e che immancabilmente doveva accadere. Pietro, mentre
faticava con gli altri a tirar su la rete, non si era rallegrato per quella pesca insperata,
perché una viva inquietudine lo aveva preso. Quell’uomo che aveva parlato dalla
riva gli faceva paura: era forse uno di quei fantasmi di cui raccontavano i
vecchi, uno di quegli spiriti maligni del mare di Galilea che lusingano i
pescatori per poi farli annegare? Erano loro che stavano tirando su la rete o
erano tutti quei pesci evocati dallo spirito malvagio che li stavano portando a
fondo nel loro abisso? Ma ora che il discepolo che Gesù amava gli aveva
parlato, quelle fantasie erano svanite e Pietro aveva saputo anche lui, con la
medesima certezza, che quell’uomo non era uno spirito maligno. «E’ il Signore», ripeté Pietro.
Pietro, allora, si ricordò del suo peccato, si sentì
nudo sotto la sguardo del Signore, come Adamo nel Giardino, e si cinse i
fianchi. Provava un’angoscia opprimente, più grande dello spavento che lo aveva
preso prima, quando aveva creduto agli spiriti. Neanche osava volgere gli occhi
sulla riva e fissare il fantasma del Maestro. Egli veniva certamente a
rimproverargli il suo tradimento, il frutto marcio di quella debole fede che sempre
lo aveva contraddistinto! Decise che anche stavolta avrebbe cercato di camminare
sull’acqua, ma non sarebbe andato incontro a Gesù e non gli avrebbe chiesto di
salvarlo. Voleva finire come Giuda. Doveva finire come Giuda, perché questo
solo gli restava da compiere; ciò che non aveva avuto il coraggio di fare
quando avevano portato via il Maestro per crocifiggerlo. Senza neanche badare agli
altri, senza voltarsi verso la riva, Pietro scese nell’acqua bassa e cominciò a
camminare rapido verso il centro del lago. Andava ad annegarsi. Ma gli parve
che Gesù lo chiamasse. Camminò ancora e l’acqua gli arrivava ormai al collo. Si
sentì chiamare di nuovo e stavolta si girò. Gesù era seduto in mezzo ai suoi
compagni, che lo avevano raggiunto, e mangiava del pesce che era sulla brace.
Gesù mangiava: non era un fantasma! Gesù non guardava Pietro, ma Pietro seppe
che era già stato perdonato. Una letizia mai provata prima lo invase in ogni
membro del corpo e allora riemerse e corse verso la barca, la barca che gli
altri avevano portata a riva senza tirar su la rete; il pesce che era sulla
brace e quello che già veniva mangiato, non era infatti di quello appena
pescato e chissa' mai da dove era spuntato. Pietro raggiunse in pochi attimi la barca e quella rete, che prima in
tanti potevano a malapena smuovere di poco, ora egli da solo riusciva a
trascinarla! La portava come Gesù aveva portato la croce, ma era un lieve
fardello! Mentre stava per raggiungere la sabbia asciutta, Pietro guardò: il
volto di Gesù risplendeva ai raggi del sole che era finalmente comparso.
Tutto era appena cominciato.
Note conclusive
La critica moderna ritiene storico il personaggio di
Giuda, in quanto i testimoni cristiani e poi gli autori dei Vangeli non
avrebbero avuto alcun interesse a inventare la figura di un traditore in seno
al gruppo dei discepoli. I Vangeli, tuttavia, non indicano affatto il movente
del tradimento, che resta oscuro. Nel racconto ho seguito una delle ipotesi che
sono state fatte – e che sono evidentemente soltanto delle congetture – quella che
tra l’altro ha ispirato in parte anche il bel romanzo di Amos Oz (intitolato,
appunto, Giuda).
Misteriosa è anche la reale identità del «discepolo
che Gesù amava». E’ stata spesso avanzata l’ipotesi che si trattasse in realtà
di Lazzaro, ipotesi definita “seducente” da Cullmann e sostenuta da Sanders e altri studiosi. La
tesi è suffragata da alcuni espliciti richiami alla resurrezione di Lazzaro
contenuti in Giovanni 20.
Parallelamente
e per gli stessi motivi, alcuni studiosi (Bernard, Boismard-Lamouille) ritengono
che Maria di Magdala e Maria di Betania, sorella di Lazzaro, siano la stessa
persona. Nei Vangeli, Maria Maddalena è sempre presente fra le donne che
seguono Gesù fino al Golgota e che poi scoprono la tomba vuota e a cui compare il Risorto; e nel Vangelo
di Giovanni la sua figura nel racconto di resurrezione è addirittura preminente, non solo sulle altre donne, che escono di scena, ma anche su Pietro e sui discepoli maschi. I Vangeli canonici, d’altra parte,
non ci dicono nulla né su quali fossero più precisamente i suoi rapporti con
Gesù, né sulla sua sorte dopo Pasqua, sebbene anche su ciò siano state fatte,
come è noto, delle congetture romanzesche. Alcuni vangeli apocrifi, di
carattere gnostico, danno pure preminenza alla figura di Maria Maddalena, giungendo
a contrapporla a Pietro, e in uno di essi si legge che Gesù l’amava più di ogni altra donna e
soleva baciarla. L’affermazione, contenuta oltretutto in uno scritto che ha
finalità teologiche e usa il linguaggio simbolico, non può comunque essere
letta come una conferma della vecchia diceria, puntualmente rilanciata, secondo
cui Maria era la sposa o la compagna di Gesù, ma semmai rafforza l’analogia
fra lei e «il discepolo che Gesù amava». E’ però forse troppo ardito il passo
compiuto da qualche studioso che arriva ad identificare i due personaggi: il
discepolo amato sarebbe proprio Maria di Magdala!
Lo
smarrimento dei discepoli al momento della condanna di Gesù e la loro fuga, il
fatto che non sperassero affatto nella resurrezione e che ciò che hanno vissuto come
apparizioni del Risorto sia sopraggiunto come qualcosa di assolutamente
inatteso, tutto ciò rappresenta ormai un fondamentale e imprescindibile dato sia
teologico che storico.
Ed
è proprio questo l’elemento che ho voluto sottolineare nel racconto, che si svolge,
fino al suo epilogo, nell’atmosfera dell’assenza e dell’abbandono di Dio, nel
mondo senza Dio, nel mondo disincantato e senza miracoli, una condizione ben
nota alla sensibilità contemporanea. Ed è a partire da questa condizione, a mio
avviso, che un cristiano è chiamato a rivivere ogni anno la Pasqua, come
miracolo sorprendente e inatteso e come annuncio della più lieta delle notizie:
Cristo è risorto! E’ veramente risorto, primizia di coloro che risorgeranno dai
morti!