domenica 23 aprile 2017

SI SCOPRON LE TOMBE: ANCORA SU ONG, MIGRANTI, CRIMINALITA' E JIHADISMO



Devo ritornare brevemente su quanto scritto appena due giorni fa, perché il caso ha voluto che oggi “La Stampa” – che resta il miglior quotidiano nazionale sulla politica estera, nonostante sia pur esso coinvolto nella deriva politically correct – aprisse con questo significativo titolo la sua edizione domenicale: «Contatti diretti tra alcune Ong e criminali libici». La frase è tra virgolette, perché si tratta di una affermazione che viene da fonte autorevole: il procuratore capo di Catania Zuccaro che, come scrivevo, sta conducendo da tempo un’inchiesta sulla questione (ormai ci sono però anche altre procure a indagare, tra cui Cagliari, Reggio Calabria e Palermo). «La Stampa» dedica al tema due intere pagine – quelle di apertura – e l’editoriale del direttore Maurizio Molinari.
La connessione fra ONG e criminalità organizzata, per il procuratore, si fonda su «fatti accertati», anche se ovviamente non riguarda tutte le ONG. Nella distinzione fra ONG «cattive» e ONG «buone», Zuccaro fa però una ineccepibile considerazione anche su queste ultime: «occorre chiedersi se è giusto e normale che i governi europei lascino loro il compito di decidere come e dove intervenire nel Mediterraneo».
Le ONG difendono la loro «missione», ma talvolta con argomentazione veramente sconcertanti, almeno a quanto riporta tra virgolette il giornale torinese: nel 2016 ci sono stati 25.ooo sbarchi e 900 morti, dicono; quest’anno finora gli sbarchi sono stati 35000 (e siamo solo ad aprile), ma i morti sono rimasti 900! Incredibile. Ciò che conta per questi volontari umanitari è dunque la percentuale di morti sugli sbarchi e non il fatto che il numero delle vittime non solo non diminuisca, ma aumenti tragicamente (anche per l’incentivo che le stesse Ong forniscono alle partenze)! Con questa media a fine anno avremo circa 4000 morti, ma i soccorritori umanitari ci diranno che non c’è da allarmarsi, perché, essendo aumentato il numero degli sbarchi, la percentuale sarà rimasta immutata. E’ ciò che conta, no? Se questo è il cinismo dei buoni, mille volte meglio allora il cinismo dei cattivi…
Molinari fa, invece, alcune importanti considerazioni. Anzitutto invita a prendere atto che lo scopo della criminalità organizzata che gestisce il traffico dei migranti è quello di «moltiplicare gli arrivi nel nostro paese in tempi rapidi». Ciò non fa venire meno il dovere dell’«accoglienza», a suo avviso, ma dovrebbe indurre ad agire in modo inflessibile contro i criminali e anche contro le Ong che li supportano. Ciò dovrebbe anche indurre, però, a riconoscere che è una grande mistificazione sostenere che l’emergenza nasca da un movimento spontaneo di masse di derelitti, perché si tratta invece di un flusso organizzato.
In secondo luogo, Molinari rileva come gli ingenti e illeciti proventi del traffico siano «destinati a finanziare ogni sorta di attività criminali, jihadismo incluso». E questo dovrebbe invece indurre ad abbandonare un altro classico motivetto del repertorio della nota compagnia cantante degli «Accoglienti» (qualche mio conoscente li chiama «accoglioni»,e che volgarità! Però in fondo anche la frase dell’ex premier, citata nel precedente articolo, si potrebbe così parafrasare: accoglienti sì, ma non accoglioni!): «il terrorismo non ha niente a che vedere con i migranti!», urlano costoro. Occorrerà invece indagare anche e soprattutto sulla connessione fra le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di uomini e lo Stato islamico - o le sue ditte locali in franchising.
Insomma, si scopron le tombe, ma non risorgono i martiri garibaldini come invece recitava il noto Inno del nostro lontanissimo Risorgimento. Da quei sepolcri imbiancati di cui si diceva si leva solo  il fetore dell’ipocrisia buonista e magari anche un fiume di denaro per il jihad.

venerdì 21 aprile 2017

I SEPOLCRI IMBIANCATI UMANITARI




Sulla questione immigrazione, fra le tante cose che si possono obiettare al «partito dell’accoglienza», ve ne è una davvero basilare: tutti i teoremi di questo partito trasversale si fondano su un postulato che è inventato di sana pianta, tutte le conclusioni dei suoi sillogismi su una premessa manifestamente falsa. Postulato o premessa sono: l’emergenza nasce da un movimento migratorio spontaneo, perché dovuto a guerra o miseria, e quindi inarrestabile. La disperazione soltanto spingerebbe queste ingenti masse umane ad affrontare gli enormi rischi del viaggio in mare, per cui a noi non resterebbe che soccorrerli.

Il buonsenso già da tempo suggeriva delle obiezioni a questo assunto: non sembra che in Africa ci siano più guerre che negli scorsi decenni e i dati ONU sulla fame e sulla povertà non indicano un drammatico aggravamento di queste piaghe negli ultimi anni; inoltre, i paesi da cui provengono la maggior parte di questi «profughi» - a cominciare dalla Nigeria o dal Camerun – attraversano addirittura una congiuntura economica positiva.

Nelle ultime settimane, però, alle perplessità suggerite dal buon senso si sono aggiunti dati di fatto che non sono sfuggiti all’attenzione delle procure delle repubbliche e della stessa Agenzia europea Frontex e che sembrano demolire tutta la narrazione fondata sull’idea della «spontaneità» del fenomeno migratorio in atto.

Incominciamo dai fatti degli ultimi giorni, i più clamorosi. A Pasqua, in soli due giorni, sono stati «salvati» in mare e puntualmente sbarcati sulle nostre coste circa 8.500 migranti, partiti dalla Libia e provenienti da vari paesi, tra i quali innanzitutto il Bangladesh e la Nigeria (geograficamente molto distanti, come è noto, tra loro e dalla Libia). Una piccola flotta di barconi si è messa in mare nelle stesse ore, quasi all’unisono, e la maggior parte di questi è stata intercettata non già dalle navi di Frontex, ma da quelle delle varie Ong che stazionano a pochi chilometri dalle acque territoriali libiche. Gli investigatori non hanno ormai solo il sospetto, ma la certezza di una regia, per lo meno da parte della grande criminalità organizzata, e parlano di «un’azione logistica quasi di stampo militare».

Se a monte del fenomeno, vi sono i trafficanti di uomini, che stanno agli scafisti come i boss della mafia ai capidecina, a valle vi sono le «navi umanitarie» delle Ong, il cui ruolo è sempre meno limpido. Già prima di Pasqua, da Frontex era partita una denuncia inequivocabile: le Ong, che stazionano a brevissima distanza dalla Libia, fanno da incentivo alle partenze, agiscono come «fattore di spinta». Il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, ascoltato dalla commissione Difesa del Senato, ha dichiarato che è un paradosso che la maggior parte dei salvataggi avvengano ad opera delle Ong, mentre in mare non ci sono mai state tante navi «istituzionali». Una prima spiegazione sta nel fatto che le navi delle Ong stazionano a ridosso delle acque libiche mentre le navi di Frontex stanno più a largo. In sostanza, le «navi umanitarie» prelevano i migranti non appena questi sono partiti dalle spiagge della Libia e hanno a malapena superato le acque territoriali. Ma il direttore di Frontex ha aggiunto anche che è riprovato che in molti casi gli scafisti danno ai migranti i numeri di telefono delle Ong.

La situazione è dunque ben diversa da quella di qualche anno fa, quando i migranti chiamavano la guardia costiera mentre erano già in alto mare, con un telefono satellitare fornito dagli scafisti, sicché la richiesta di soccorso non poteva essere ignorata. Il soccorso in alto mare, come ha spiegato il procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro, che sta guidando un’indagine sul ruolo delle Ong nei soccorsi ai migranti, aveva però questo vantaggio: i barconi dovevano essere accompagnati da dei «facilitatori», con il compito di segnare la rotta e predisporre le vettovaglie. Questi facilitatori venivano intercettati e da loro si poteva risalire ai gradini superiori dell’organizzazione di trafficanti di uomini. Proprio per questo si era deciso di arretrare le navi della guardia costiera, rispetto al limite delle acque territoriali. Ma è a questo punto che sono arrivate le navi delle Ong, rendendo superfluo il ruolo dei facilitatori e complicando il fronteggiamento del fenomeno e le indagini sulle organizzazioni criminali che lo gestiscono.

Vi è quindi più del sospetto di un accordo tra gli scafisti e almeno alcune delle Ong. E vi sono già su questo un’inchiesta parlamentare e la già citata indagine della procura della Repubblica di Catania. L’elemento cruciale, come al solito, è costituito dal flusso di denaro: chi finanzia le Ong? Le spese che esse devono sostenere per tenere in mare le loro navi e procedere alle operazioni di salvataggio sono imponenti ed è assai poco credibile che delle associazioni di volontariato possano sostenerle da sole. La Moas, per esempio, che è una delle Ong più «chiacchierate», ha speso l’anno scorso 400.000 euro al mese per il noleggio di due droni che servivano a pattugliare le acque libiche e altri 600.000 euro al mese per l’affitto delle sue due navi. Quest’anno i droni sono stati rimpiazzati da un aereo. La domanda cruciale è quindi questa: da dove vengono questi soldi? Chi ha interesse a finanziare le Ong? Si tratta sempre e solo di filantropi?

Ovviamente le Ong respingono con sdegno le accuse e difendono il loro nobile compito umanitario, che consisterebbe nel salvare vite umane. Sta di fatto che le morti in mare non sono affatto diminuite e le navi umanitarie, se da un lato aiutano oggettivamente a prevenire le sciagure, andando a prelevare i barconi fino a 12 miglia dalla costa, dall’altro, per la legge dei grandi numeri, aumentano i rischi incentivando le partenze . E dà poi da pensare la scoperta che qualcuna di queste Ong abbia scoperto solo in tempi recentissimi la propria vocazione umanitaria, visto che fino a qualche anno fa offriva servizi di mercenari armati…Siamo allora di fronte ad associazioni di anime belle o a sepolcri imbiancati «umanitari»?

Comunque, come  non concordare, almeno stavolta, con Matteo Renzi che pare abbia dichiarato: «noi siamo accoglienti, sì, ma non possiamo essere presi in giro».

Speriamo che inchieste e indagini facciano il loro corso e aiutino a smontare definitivamente quel postulato che falsa, inquina e mistifica tutti i discorsi sull’immigrazione: non si tratta affatto di movimenti spontanei, ma di una migrazione di massa organizzata, per fini di lucro. Se si cambia l’assunto, tutta la narrazione dovrà mutare, evidentemente. Le resistenze saranno però molto forti, perché, come ha notato acutamente Ricolfi – non un fascio leghista, ma un intellettuale di sinistra – la sinistra ha sposato l’ideologia dei migranti per lasciar credere che sta ancora dalla parte degli ultimi. E il sospetto è che quella ideologia talora non sia stata sposata in modo così disinteressato, perché infatti se a valle delle grandi organizzazioni criminali che gestiscono il traffico planetario di uomini vi sono le Ong, chi sta poi a sua volta a valle delle Ong? Perché le «navi umanitarie» portano i migranti sempre in Italia e mai, neanche in un caso, nella più vicina Tunisia? Se gli scafisti hanno i numeri di telefono delle Ong, quali numeri di telefono italiani hanno poi le Ong?

domenica 16 aprile 2017

«TUTTO E' APPENA INCOMINCIATO». UN RACCONTO PASQUALE.



Nota introduttiva

Fra le molte peculiarità del Vangelo di Giovanni vi è anche questa: la narrazione non si conclude con la scena di Pasqua, ma con un episodio post-pasquale. Questo episodio è contenuto nell’ultimo capitolo, il 21°, nel quale la critica ha riconosciuto unanimemente un’aggiunta successiva alla prima stesura del Vangelo, ad opera di un «Redattore finale», che la maggior parte degli studiosi ritengono sia persona diversa dall’«Evangelista» (e questi, a sua volta, non è certamente Giovanni di Zebedeo, uno dei Dodici, come invece ci è stato tramandato dalla tradizione, ma un cristiano della seconda o della terza generazione).
In questo modo, il Quarto Vangelo ha non una, ma due conclusioni – o meglio una conclusione e un epilogo. La prima conclusione, il capitolo 20, vede la scoperta della tomba vuota e una serie di tre apparizioni di Gesù, tutte a Gerusalemme: prima a Maria di Magdala; poi ai discepoli riuniti in un luogo chiuso e con le porte sbarrate, ma senza Tommaso; e infine nello stesso luogo e ancora ai discepoli, ma alla presenza, stavolta, dell’incredulo Tommaso.
Il capitolo 20 rappresenta il compimento della narrazione e della vicenda, in modo esplicito e formale nel versetto conclusivo (20,30) e in modo sostanziale in alcuni fondamentali elementi del racconto: nella sua prima manifestazione, Gesù incarica Maria di annunciare ai discepoli che Egli si appresta a salire al Padre (20,17); ai discepoli Gesù comunica lo Spirito ed essi vengono «inviati» nel mondo (20,21-22); i discepoli lo riconoscono come Signore (20,25) e, alla fine, è proprio l’incredulo Tommaso l’autore della più completa confessione di fede («Mio Signore e mio Dio!», 20,28).
E’ quindi sorprendente che la storia prosegua con il capitolo 21: i discepoli, o, più precisamente, Pietro ed altri sei (lo stesso Tommaso, Natanaele, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, ed altri due innominati – ma uno di questi è di sicuro «il discepolo che Gesù amava») non sono rimasti a Gerusalemme, né sono andati nel mondo ad evangelizzare, ma sono rientrati in Galilea, hanno fatto ritorno, a quanto pare, alle loro case, alle loro famiglie, certamente al loro lavoro di pescatori. Come se nulla fosse accaduto!
Se si considera che i Vangeli – e a maggior ragione il Quarto – non sono narrazioni né storiche, né biografiche e che quindi ad essi non va richiesta la coerenza interna che ci aspetta da questo tipo di racconti, si possono meglio valutare le ragioni teologiche dell’aggiunta del capitolo 21, ragioni che emergono soprattutto nella seconda parte dell’episodio – con il pasto comune di Gesù con i discepoli, il dialogo con Pietro e la sottolineatura del ruolo dell’altro discepolo, quello «che Gesù amava» - ragioni che sono innanzitutto di carattere ecclesiologico e didattico-pastorale.
Non ho tratto spunto, tuttavia, da queste motivazioni teologiche – su cui ovviamente vi è una vastissima letteratura – perché non intendevo cimentarmi in una esegesi. Mi sono  soffermato solo sull’inizio dell’episodio, fino all’apparizione di Gesù, al suo riconoscimento da parte del discepolo prediletto e alla reazione di Pietro, come se si trattasse di una conclusione diversa da quella prospettata al capitolo precedente. Nella redazione canonica, sia chiaro, così non è: il capitolo 21 non è una conclusione diversa, tantomeno un finale alternativo, ma è un epilogo che segue il primo scioglimento della vicenda al capitolo 20. Lo attesta subito 21,1 che afferma: «dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo (p£lin)». Si danno dunque per avvenute le precedenti manifestazioni di Gesù a Gerusalemme, con i fatti correlati. E’ altrettanto vero, però, che il redattore ha attinto, per costruire l’epilogo, a una diversa tradizione pasquale, rispetto a quella tenuta presente nel capitolo 20. E’ infatti assodato che i più antichi racconti pasquali, che hanno poi fornito la base per i Vangeli, conoscessero molteplici versioni delle apparizioni del Risorto, non solo a seconda dei destinatari di queste (le donne, Pietro, i discepoli tutti), ma riguardo al luogo – Gerusalemme e i suoi dintorni (i discepoli di Emmaus) oppure la Galilea. Il redattore del Quarto Vangelo, aggiungendo l’ultimo capitolo, non si limita, però, a giustapporre questa diversa tradizione alla prima, ma la lega organicamente attraverso il passaggio di 21,1, appena citato. Una scelta diversa, tuttavia, sarebbe stata pure plausibile, secondo quella che potremmo definire la «logica narrativa della Bibbia». In altri luoghi biblici, infatti, soprattutto nell’Antico Testamento, racconti diversi della stessa vicenda, risalenti a tradizioni e fonti differenti, vengono semplicemente giustapposti o sommariamente collegati. Il caso più evidente riguarda le origini del mondo, con i due racconti della creazione di Genesi 1 e Genesi 2 che presentano la storia in modo radicalmente diverso senza alcun tentativo di armonizzazione. Ma soprattutto alla medesima logica risponde la stessa scelta di inserire nel canone quattro diverse narrazioni evangeliche, senza operare una reductio ad unum. Eppure, la possibilità alternativa, quella di un unico Vangelo che unisse coerentemente le narrazioni dei diversi autori, era ben presente, tanto è vero che fu pure realizzata verso il 170 da Taziano. L’”armonia” di Taziano – il Diatessaron – è andata però perduta, non casualmente, ma perché si seguì una strada diversa, quella del «pluralismo» narrativo e quindi del pluralismo dei ritratti di Gesù e delle testimonianze su di lui. Questa via è ben nota, del resto, anche al redattore finale del Quarto Vangelo che, proprio nel capitolo 21, raccoglie e rilancia le due distinte tradizioni risalenti, rispettivamente, alla comunità petrina e a quella giovannea, raccolta quest’ultima intorno alla testimonianza del “discepolo amato”, senza porle in alternativa o in conflitto.

Su questa base, ho provato a leggere l’episodio dell’apparizione di Gesù sul mare di Galilea, come se si trattasse di una conclusione della storia diversa da quella del capitolo 21 e a collegarlo direttamente al racconto della passione (capitolo 19), rimuovendo come intervento redazionale il versetto iniziale (21,1). Non si tratta, ripeto, di un’esegesi – che risulterebbe evidentemente azzardata e comunque contraria all’intenzione dell’autore del Vangelo – ma di una sorta di «gioco» letterario, un gioco senza pretese e tuttavia biblicamente fondato – per le ragioni suddette – e che comunque può suscitare una meditazione forse di un qualche interesse.
In tal modo il capitolo 21, che nella sua collocazione canonica contiene una storia post-pasquale, diviene la materia per un racconto pasquale, con la prima apparizione di Gesù ai discepoli. Un racconto che avrà come presupposto non solo la narrazione di Giovanni, ma anche quella degli altri Vangeli, o almeno alcuni singoli elementi.

La scena precedente – capitolo 19 - si era conclusa con la sepoltura di Gesù. Accanto a Gesù crocefisso erano rimaste solo le donne – la madre, Maria di Magdala, Maria di Cleopa. Gli altri discepoli erano fuggiti, si erano forse nascosti dopo che Pietro aveva negato tre volte di conoscere Gesù, mentre era in corso il suo «processo». Solo uno dei discepoli era rimasto fino alla fine, quello «che Gesù amava». E Gesù, dalla croce, lo aveva scorto accanto alla madre e aveva affidato l’una all’altro. Infine, Gesù aveva reso lo spirito, esclamando «tutto è compiuto». Un soldato, per sincerarsi che fosse morto, gli aveva piantato la lancia nel costato, ma nessun osso gli era stato spezzato, in modo che si compisse la Scrittura. Un influente membro del sinedrio, Giuseppe d’Arimatea, che però era stato anche discepolo del Nazareno, aveva ottenuto da Pilato di levare il corpo di Gesù e, insieme a Nicodemo, altro giudeo in vista, legatolo con bende e cosparsolo di aromi, gli aveva dato sepoltura. E’ significativo che, nell’assenza di tutti gli altri discepoli, questa incombenza sia assolta proprio dai due discepoli che meno si erano esposti e compromessi, per il loro ruolo nell’elite giudaica e anche, nel caso di Nicodemo, per prudenza (aveva visitato Gesù solo di notte e di nascosto). Cala così la notte, sulla vigilia della Pasqua e sulla tomba che contiene il corpo mortale di Gesù.


Il racconto

Quanto tempo è passato dall’orrida sera del Golgota? Giorni, sicuramente. Magari settimane o addirittura mesi. Gesù certamente è risorto, è veramente risorto, ed è risorto il terzo giorno, secondo le Scritture. Ma nessuno lo ha ancora visto, nessuno lo ha incontrato, nessuno ha saputo che il Crocefisso è il Risorto.
Pietro e gli altri discepoli, non hanno avuto neanche il tempo di raccogliersi a piangere il Maestro che gli è stato così crudelmente sottratto e di riflettere sulla caduta repentina e incresciosa della loro speranza. Per il timore di essere arrestati a loro volta, hanno dovuto nascondersi e, ben presto, sono fuggiti da Gerusalemme, approfittando della confusione della festa. Hanno cercato riparo nel loro paese d’origine, sono tornati in Galilea, dove tutto era incominciato.
Ma ora, invece, tutto pare inesorabilmente finito. Quella che hanno vissuto è stata una straordinaria avventura, una magnifica illusione, un sogno che li ha rapiti, ma che ora è solo amarezza e dolore. Quanto è penoso vagare per quei luoghi che hanno conosciuto il Maestro, nei quali è risuonata la sua parola, che sono stati teatro delle sue guarigioni portentose! Non ci sono più miracoli ora: gli storpi restano storpi, i ciechi non riacquistano la vista, i lebbrosi non sono purificati e vengono come sempre fuggiti da tutti, gli indemoniati urlano le loro bestemmie nei cimiteri, i morti rimangono morti. Quelli che sono stati guariti, liberati, purificati, resuscitati dal Maestro si godono ora la vita e spesso neanche si ricordano più di lui. Solo qualcuno ne parla, con gratitudine e con ammirazione, ma ne parlano come uno dei tanti maghi dei quali il popolo ha sempre raccontato. Altri ne ricordano qualche detto: era un sapiente, dicono, un maestro di vita, un giusto. Forse addirittura un profeta. E non è strano, poi, che abbia fatto quella fine: dopotutto, è toccata a tanti giusti, prima di lui. E’ toccata a tutti i veri profeti quella sorte.

No, questi discorsi non acquietavano affatto Pietro. Per lui Gesù non era stato solo un maestro di sapienza, un giusto. Non era un profeta come gli altri, non era neanche Elia. Era Cristo. E Pietro per primo lo aveva saputo. Era il Messia atteso da Israele. E così era entrato a Gerusalemme acclamato dalla gente. Nessuno di loro poteva immaginare che pochi giorni dopo gli toccasse quella fine, perché il Messia non può, non deve morire sulla croce!
Certo, quando erano ancora in Galilea, il Maestro più volte aveva alluso in modo oscuro e inquietante a quella morte che infine aveva incontrato. E Pietro un giorno lo aveva quasi redarguito: «così confondi i più deboli», gli aveva detto prendendolo da parte. Ancora ricordava il volto e il tono di Gesù, che gli si era rivoltato contro, a quel suo rimprovero. Non lo aveva mai visto così. Lo aveva chiamato Satana, gli aveva detto che i suoi pensieri erano secondo la misura degli uomini e non secondo quella di Dio. Pietro aveva chinato il capo, ma non aveva capito. E continuava a non capire, perché tutto quello che era accaduto in quegli ultimi maledettissimi giorni rovesciava tutte le loro aspettative e non corrispondeva per nulla ai racconti che aveva udito fare intorno al Cristo di Israele e a ciò che dicevano le Scritture, per quel poco che egli le conosceva.
 Perciò, quando lo aveva per tre volte disconosciuto si era comportato come uno spregevole vigliacco, è vero – e ancora piangeva amaramente per questo - ma in fondo non aveva mentito: lui non era stato discepolo di quell’uomo arrestato, processato, deriso, torturato e condannato alla pena più infamante. Lui era stato discepolo di Cristo, del Messia regale e trionfante. O almeno così aveva creduto. Ma si era sbagliato, evidentemente. Tutti loro si erano sbagliati.
Giuda era stato in fondo il più coerente e il più coraggioso. Tante volte Pietro lo aveva rimproverato per la sua impazienza, quella che manifestava puntualmente non appena Gesù si allontanava: “Perché non ci decidiamo ad andare a Gerusalemme? E’ lì che deve manifestarsi il Messia, non in mezzo alle pecore della Galilea! E invece restiamo qui, sconosciuti al mondo… e lui ci vieta pure di parlare dei suoi miracoli!”.
A Gerusalemme, alla fine, ci erano andati e anche Giuda aveva approvato l’ingresso sull’asino, perché questo si leggeva nel profeta Zaccaria, diceva. E quando Gesù aveva messo a soqquadro il cortile del tempio si era finalmente entusiasmato. Ma Gesù continuava a predicare, a predicare soltanto, a discutere, a polemizzare, senza posa. Aveva resuscitato Lazzaro, è vero, e così aveva compiuto il più potente dei suoi segni, quello che aveva definitivamente allarmato i suoi nemici. Ma questo era stato a Betania. E invece un segno, un segno definitivo, bisognava farlo a Gerusalemme, nel Tempio. Altro che rovesciare i banchi dei cambiavaluta, diceva Giuda! Negli ultimi giorni, Giuda era sempre più inquieto, misterioso, spariva e ricompariva d’improvviso. Quando erano venuti ad arrestare il Maestro, Pietro aveva messo mano alla spada, ma Gesù lo aveva fermato. Lo avevano già portato via il Maestro, quando Giuda gli si era accostato. «Hai fatto bene, Pietro. Ma è tutto inutile, se si lascia condurre al macello come un agnellino». Pietro era affranto e a stento gli dava ascolto, ma si era accorto che Giuda continuava a girargli intorno, come se avesse premura di aggiungere altro, di dirgli qualcosa che non poteva più tenersi dentro. E infine gli aveva fatto quella confessione che lo aveva raggelato. Era stato lui a tradirlo. Non avrebbero osato arrestarlo di giorno, per timore della reazione del popolo. E così li aveva condotti lì. Alla fine, perché nascondersi, perché tutte quelle esitazioni a manifestarsi come Messia? A che era servita, allora, la sceneggiata dell’asino? E così era andato dai suoi nemici, per affrettare la cosa, per costringerlo a fare quello che doveva fare, quello che era scritto.
Giuda non lo avevano più visto, ma era stato poi raccontato che, da lontano, aveva seguito tutto il cammino di Gesù verso il Golgota. Aveva atteso la sera, ancora sperando nel prodigio. Aveva teso l’orecchio, aspettando che si levasse da quella croce ignominiosa la voce del divino shofar, un suono più potente di ogni suono udito finora. Alla fine dei tempi, dicevano gli scribi, Dio stesso avrebbe suonato lo shofar, avanzando nella tempesta, risuscitando il suo Messia e poi tutti quelli che dormono nella polvere, radunando Israele e tutte le genti intorno al suo sacro monte. Ma niente di tutto questo era accaduto sul Golgota e la sera era calata come sempre, a portare la solita, silenziosa, stupida notte di Gerusalemme.
Giuda era andato a impiccarsi.

A Pietro e agli altri era invece toccata la derisione dei loro paesani, il risentimento dei loro stessi familiari abbandonati e che ora li vedevano tornare avviliti e mortificati. Qualcuno, qualche nemico, aveva anche provato a denunciarli, a farli arrestare, ma gli avevano risposto che adesso era meglio non smuovere più le acque, che di quel falso profeta e della sua accolita di seguaci fanatici era meglio che si perdesse finanche la memoria.
Di Gesù, fra di loro, quasi non osavano più parlare, come accade talora a chi ha perso una persona molto cara e non sa darsi pace ed evita accuratamente qualunque parola o gesto che possano rendere ancora più bruciante la ferita. Apparentemente, erano tornati alle cose di prima, al loro misero e stentato lavoro, le poche ore di svago passate in silenzio o in chiacchiere vane. Seguivano più scrupolosamente di prima la Legge e cercavano di non offendere nessuno, di non reagire al male che spesso ricevevano, sebbene dentro di loro covasse una rabbia violenta che pretendeva di uscire. Ma non potevano sfogarla quella furia, se non piangendo senza consolazione, quando restavano soli, o picchiando selvaggiamente il pugno su un muro quando nessuno li vedeva o maltrattando una bestia incolpevole, cosa di cui poi si pentivano. Spesso si ritiravano sul monte a pregare, come usava fare il Maestro, ma ciascuno per suo conto.
Giovanni e Giacomo non sembravano più loro. Pietro li vedeva invecchiare di giorno in giorno. Ne aveva pena, perché avevano peccato di ambizione e di vanità e più degli altri si erano abbandonati a sogni di gloria, tanto che aveva anche dovuto difenderli dal risentimento dei compagni. Ora il loro peccato lo pagavano con un’afflizione ancora più crudele di quella pur così gravosa che toccava agli altri. Erano tornati sotto la sferza del padre, Zebedeo, che più di prima, e a ben ragione dal suo punto di vista, infieriva su di loro. No, Giacomo e Giovanni non erano più «i figli del tuono», come li aveva chiamati Gesù stesso, i discepoli indomabili; sembravano due agnellini smarriti.
Tommaso e Natanaele ostentavano invece cinismo – Natanaele aveva finanche ripreso il suo vecchio motto e diceva che dovevano pur saperlo che nulla di buono poteva venire da Nazareth – ma era una maschera e dentro si rodevano come e più degli altri.
 Le donne, poi, che all’alba dopo Pesach, si erano recate alla tomba di Gesù e l’avevano trovata vuota, avevano raccontato di aver avuto una visione di angeli e che gli angeli avevano detto loro che Gesù era risorto e che li aspettava in Galilea. Nessuno ci aveva creduto e visto che Gesù non tornava, anche loro, le donne, avevano finito per convincersi: si erano solo lasciate suggestionare dalla propria fantasia o erano cadute vittima di qualche sciocco burlone che si era preso gioco di loro. La tomba vuota restava un mistero, ma si vede che qualcuno aveva trafugato la salma. Magari, erano stati proprio gli uomini del Sinedrio o i Romani, per timore che quella tomba  diventasse meta di pellegrinaggi e occasione di disordini. Le donne erano quelle che pagavano lo scotto maggiore, per aver seguito Gesù, perché ora erano viste come delle pazze o delle poco di buono.
Tuttavia, una di loro, Maria di Magdala, era scomparsa. Maria doveva tutto al Maestro, lo amava ed era stata da lui sempre amata e protetta. Dicevano che alla tomba vuota ci era tornata più volte, da sola, inconsolabile. Ma qui i racconti si contraddicevano. Alcuni dicevano che era stata lei per prima a scoprire la tomba vuota e solo dopo erano sopraggiunte le altre donne. Sta di fatto che Maria doveva essere impazzita per il dolore, perché quelli che l’avevano incontrata per ultimi, dicevano che era mutata completamente. Non piangeva più, sembrava addirittura felice e raccontava di aver visto il Signore, il suo rabbouni. Poi nessuno l’aveva vista più e si diceva che se ne fosse andata nel deserto o sulla montagna, ad aspettare Gesù, perché Gesù sarebbe presto tornato, diceva, ma stavolta per sempre e in tutta la sua gloria.
Nessuno di loro, però, riusciva ad attaccarsi a queste speranze. Debolezze e fantasie di donne, dicevano. Ma Lazzaro non era una donna e neanche lui credeva che tutto fosse finito sul Golgota. Lazzaro, che non si chiamava più così, che non voleva più quel nome, perché, diceva, quando Gesù lo aveva resuscitato era nato di nuovo. E così avevano cominciato a chiamarlo «il prediletto», colui che Gesù amava, ma senza alcuna ironia o gelosia, perché Gesù li aveva amati tutti. E soprattutto perché tutti loro rispettavano quel discepolo. Si mostrava così certo che Gesù non fosse morto: “Il Signore è ancora qui, non ci ha mai abbandonati; siamo noi che non sappiamo riconoscerlo, ma forse presto aprirà i nostri occhi”. Diceva questo con una tranquilla, serena sicurezza che non era quella dei pazzi, con una autorevolezza che non era dei sognatori e degli illusi. Per un attimo Pietro sentiva anche su di sé quella gioiosa fiducia del «prediletto», ma subito tutto svaniva.

Quella sera, Pietro e il fratello Andrea stavano sull’uscio di casa. La suocera di Pietro era morta da più di una settimana. Una febbre maligna l’aveva presa, come le era accaduto quel giorno che pareva tanto lontano ormai. Pietro e la moglie, mentre la donna giaceva nel suo giaciglio e delirava, avevano sentito più volte bussare alla porta. Ogni volta sobbalzavano,ma erano sempre vicini, parenti, conoscenti che venivano, spinti da sincera premura o solo da curiosità. Come era accaduto anche quel giorno. E come allora, vennero anche Giacomo e Giovanni, ma da soli stavolta. Il Maestro non c’era più e nessuno poté guarire la vecchia, che spirò nella notte, senza un lamento e senza una parola.
Pietro stava ancora osservando il lutto e non era più andato a pescare. Come ogni sera, arrivarono i figli di Zebedeo, poi Tommaso e Natanaele e infine anche lui, il «prediletto». Come ogni sera sedevano insieme, senza parlare. A un tratto Pietro si alzò e disse «io vado a pescare». Tommaso fece: «veniamo con te», e parlò per tutti.
La notte era senza luna e fredda. Le acque del mare di Galilea sembravano sempre più scure a quei pescatori afflitti ed erano sempre più avare di pesci. Quella notte non presero nulla. Da giorni non prendevano nulla. Il grande lago sembrava morto con il Maestro.
Il sole non era ancora spuntato dietro alla montagna, ma c’era già un livido chiarore. Mestamente, stavano tornando a riva e a riva scorsero una figura, seduta sulla sabbia. Doveva essere un mendicante che si era alzato di buon’ora, perché con voce allegra li chiamò: «Hei là, ragazzi: avete un pesce per sfamarsi?». «Non abbiamo nulla», rispose Tommaso. «Provate a gettare la rete dal lato destro e ne troverete di pesci!», disse quello strano tipo. Natanaele borbottò «eccolo là, che proprio i suoi consigli stavamo aspettando!». Ma «il prediletto» soggiunse: «facciamo come dice lui».
I figli di Zebedeo, svogliatamente, lanciarono la rete e subito avvertirono le prime scosse. In pochi istanti la rete si riempì di pesci, tanto che non riuscivano a tirarla sulla barca. Tommaso, Natanaele, Andrea e Pietro stesso davano aiuto a Giacomo e Giovanni, puntavano le gambe sul fondo della barca, reclinavano il busto in avanti a raccogliere tutte le loro forze e tiravano, tiravano con tutta l’energia che avevano, ma la rete si muoveva appena.
Solo «il prediletto» era rimasto in disparte. Fissava il misterioso mendicante che era sulla riva, quieto e immobile. «E’ il Signore», disse d’improvviso a Pietro che gli era accanto. Lo disse con voce pacata, con l’animo tranquillo, come se fosse solo accaduto ciò che ci si doveva aspettare e che immancabilmente doveva accadere. Pietro, mentre faticava con gli altri a tirar su la rete, non si era rallegrato per quella pesca insperata, perché una viva inquietudine lo aveva preso. Quell’uomo che aveva parlato dalla riva gli faceva paura: era forse uno di quei fantasmi di cui raccontavano i vecchi, uno di quegli spiriti maligni del mare di Galilea che lusingano i pescatori per poi farli annegare? Erano loro che stavano tirando su la rete o erano tutti quei pesci evocati dallo spirito malvagio che li stavano portando a fondo nel loro abisso? Ma ora che il discepolo che Gesù amava gli aveva parlato, quelle fantasie erano svanite e Pietro aveva saputo anche lui, con la medesima certezza, che quell’uomo non era uno spirito maligno.  «E’ il Signore», ripeté Pietro.
Pietro, allora, si ricordò del suo peccato, si sentì nudo sotto la sguardo del Signore, come Adamo nel Giardino, e si cinse i fianchi. Provava un’angoscia opprimente, più grande dello spavento che lo aveva preso prima, quando aveva creduto agli spiriti. Neanche osava volgere gli occhi sulla riva e fissare il fantasma del Maestro. Egli veniva certamente a rimproverargli il suo tradimento, il frutto marcio di quella debole fede che sempre lo aveva contraddistinto! Decise che anche stavolta avrebbe cercato di camminare sull’acqua, ma non sarebbe andato incontro a Gesù e non gli avrebbe chiesto di salvarlo. Voleva finire come Giuda. Doveva finire come Giuda, perché questo solo gli restava da compiere; ciò che non aveva avuto il coraggio di fare quando avevano portato via il Maestro per crocifiggerlo. Senza neanche badare agli altri, senza voltarsi verso la riva, Pietro scese nell’acqua bassa e cominciò a camminare rapido verso il centro del lago. Andava ad annegarsi. Ma gli parve che Gesù lo chiamasse. Camminò ancora e l’acqua gli arrivava ormai al collo. Si sentì chiamare di nuovo e stavolta si girò. Gesù era seduto in mezzo ai suoi compagni, che lo avevano raggiunto, e mangiava del pesce che era sulla brace. Gesù mangiava: non era un fantasma! Gesù non guardava Pietro, ma Pietro seppe che era già stato perdonato. Una letizia mai provata prima lo invase in ogni membro del corpo e allora riemerse e corse verso la barca, la barca che gli altri avevano portata a riva senza tirar su la rete; il pesce che era sulla brace e quello che già veniva mangiato, non era infatti di quello appena pescato e chissa' mai da dove era spuntato. Pietro raggiunse in pochi attimi la barca e quella rete, che prima in tanti potevano a malapena  smuovere di poco, ora egli da solo riusciva a trascinarla! La portava come Gesù aveva portato la croce, ma era un lieve fardello! Mentre stava per raggiungere la sabbia asciutta, Pietro guardò: il volto di Gesù risplendeva ai raggi del sole che era finalmente comparso.
Tutto era appena cominciato.


Note conclusive
La critica moderna ritiene storico il personaggio di Giuda, in quanto i testimoni cristiani e poi gli autori dei Vangeli non avrebbero avuto alcun interesse a inventare la figura di un traditore in seno al gruppo dei discepoli. I Vangeli, tuttavia, non indicano affatto il movente del tradimento, che resta oscuro. Nel racconto ho seguito una delle ipotesi che sono state fatte – e che sono evidentemente soltanto delle congetture – quella che tra l’altro ha ispirato in parte anche il bel romanzo di Amos Oz (intitolato, appunto, Giuda).

Misteriosa è anche la reale identità del «discepolo che Gesù amava». E’ stata spesso avanzata l’ipotesi che si trattasse in realtà di Lazzaro, ipotesi definita “seducente” da Cullmann  e sostenuta da Sanders e altri studiosi. La tesi è suffragata da alcuni espliciti richiami alla resurrezione di Lazzaro contenuti in Giovanni 20.

Parallelamente e per gli stessi motivi, alcuni studiosi (Bernard, Boismard-Lamouille) ritengono che Maria di Magdala e Maria di Betania, sorella di Lazzaro, siano la stessa persona. Nei Vangeli, Maria Maddalena è sempre presente fra le donne che seguono Gesù fino al Golgota e che poi scoprono la tomba vuota e a cui compare il Risorto; e nel Vangelo di Giovanni la sua figura nel racconto di resurrezione è addirittura preminente, non solo sulle altre donne, che escono di scena, ma anche su Pietro e sui discepoli maschi. I Vangeli canonici, d’altra parte, non ci dicono nulla né su quali fossero più precisamente i suoi rapporti con Gesù, né sulla sua sorte dopo Pasqua, sebbene anche su ciò siano state fatte, come è noto, delle congetture romanzesche. Alcuni vangeli apocrifi, di carattere gnostico, danno pure preminenza alla figura di Maria Maddalena, giungendo a contrapporla a Pietro, e in uno di essi si legge che Gesù l’amava più di ogni altra donna e soleva baciarla. L’affermazione, contenuta oltretutto in uno scritto che ha finalità teologiche e usa il linguaggio simbolico, non può comunque essere letta come una conferma della vecchia diceria, puntualmente rilanciata, secondo cui Maria era la sposa o la compagna di Gesù, ma semmai rafforza l’analogia fra lei e «il discepolo che Gesù amava». E’ però forse troppo ardito il passo compiuto da qualche studioso che arriva ad identificare i due personaggi: il discepolo amato sarebbe proprio Maria di Magdala! 

Lo smarrimento dei discepoli al momento della condanna di Gesù e la loro fuga, il fatto che non sperassero affatto nella resurrezione e che ciò che hanno vissuto come apparizioni del Risorto sia sopraggiunto come qualcosa di assolutamente inatteso, tutto ciò rappresenta ormai un fondamentale e imprescindibile dato sia teologico che storico.
Ed è proprio questo l’elemento che ho voluto sottolineare nel racconto, che si svolge, fino al suo epilogo, nell’atmosfera dell’assenza e dell’abbandono di Dio, nel mondo senza Dio, nel mondo disincantato e senza miracoli, una condizione ben nota alla sensibilità contemporanea. Ed è a partire da questa condizione, a mio avviso, che un cristiano è chiamato a rivivere ogni anno la Pasqua, come miracolo sorprendente e inatteso e come annuncio della più lieta delle notizie: Cristo è risorto! E’ veramente risorto, primizia di coloro che risorgeranno dai morti!