PENSIERi BIBLICI



Questi "pensieri biblici" non sono, nella loro forma, né aforismi, né sermoni e tantomeno studi biblici, ma cercano comunque di offrire motivi e spunti di meditazione a credenti e non. Nelle intenzioni di chi scrive, nascono da un ascolto il più possibile fedele e responsabile della Parola di Dio, testimoniata nelle Scritture.

 




3 DICEMBRE


"Egli dà forza allo stanco


e accresce il vigore a colui che è spossato.


I giovani si affaticano e si stancano;


i più forti vacillano e cadono;


ma quelli che sperano nel SIGNORE acquistano nuove forze,


si alzano a volo come aquile,


corrono e non si stancano,


camminano e non si affaticano."(Isaia 40, 29-31)


Questi pochi versetti del profeta Isaia bastano forse a definire i segni della fede nell'esperienza di tanti credenti. Anche chi crede, ovviamente, è colpito da stanchezza, delusione, amarezza, da affanni e mali fisici e morali. E tuttavia nella sua distretta, volgendosi con speranza e fiducia al Signore, scopre in sé, spesso con gioioso stupore, nuove forze e risorse che non credeva di avere, per poter continuare il cammino e affrontare le difficoltà e i mali della vita. Queste forze e risorse le avverte sia come "nuove", sia come non sue, ma provenienti da altro: esse non gli appartenevano, ma gli sono state donate.






2 DICEMBRE


Tu sei il mio servo",


ti ho scelto e non ti ho rigettato.


Tu, non temere, perché io sono con te;


non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio;


io ti fortifico, io ti soccorro,


io ti sostengo con la destra della mia giustizia.


Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te


saranno svergognati e confusi;


i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno;


tu li cercherai e non li troverai più.


Quelli che litigavano con te,


quelli che ti facevano guerra, saranno come nulla,


come cosa che più non è;


perché io, il SIGNORE, il tuo Dio,


fortifico la tua mano destra


e ti dico: "Non temere,


io ti aiuto!" (Isaia 41, 9-13)


Che cosa dobbiamo pensare di questa promessa che il Signore rivolge a Israele, suo servo, e quindi al suo popolo e ai suoi servi, in ogni tempo? È forse l'invito a una jihad ebraica - e poi cristiana? No, perché l'annientamento dei nemici di Israele, di coloro che si sono infiammati contro esso, che gli hanno fatto guerra, non dovrà avvenire per mano di Israele stesso, ma accadrà da sé, perché questa evidentemente è la volontà del Signore e questo è il salario che i malvagi e gli empi ricevono dalla loro stessa empietà. Questo brano, come tanti altri dell'Antico Testamento può comprensibilmente inquietarci. Sarebbe però un errore e soprattutto un'infedelta' alla Parola del Signore, eluderlo, rimuoverlo o liquidarlo sbrigativamente in nome del comandamento dell'amore per il prossimo e per gli stessi nemici. Il comandamento c'è ed è assolutamente impegnativo per i cristiani, ma non cancella affatto l'azione di giudizio che il Signore qui promette, non elimina la sua giustizia. Bonhoeffer, nel 1943, in carcere, mentre imperversavano il nazismo e la guerra, scrisse: chi interpreta sempre e solo l'Antico Testamento alla luce del Nuovo, chi non capisce che occorre fare anche il contrario, e cioè interpretare il Nuovo Testamento alla luce dell'Antico, chi vuole vivere e sentire troppo presto, troppo sbrigativamente in modo neotestamentario, "non è cristiano". Che cosa significa, più concretamente? Significa che l'amore per il nemico richiede il riconoscimento dell'offesa, che il perdono richiede il riconoscimento del peccato, che la pace richiede il riconoscimento dei conflitti. Chi si affretta ad amare senza riconoscere l'offesa ma rimuovendola dalla mente, non ama veramente. Chi si affretta a perdonare senza riconoscere il peccato e senza dare il tempo necessario al cammino del perdono non perdona veramente. Chi si affretta a parlare di pace, senza riconoscere i conflitti ed anzi eludendoli non desidera veramente la pace e non la costruisce affatto.






1° DICEMBRE


Giuseppe e Maria erano residenti a Nazareth, avevano una casa, Giuseppe aveva un lavoro. Non erano poveri. Mettiamo pure da parte la cospicua e fondamentale ricerca sul "Gesù storico", secondo cui è molto probabile che i quegli anni non ci sia stato nessun censimento, che Gesù sia nato a Nazareth e che il racconto di Matteo e di Luca abbia un valore teologico (Betlemme era la città di Davide , dove era attesa la nascita del Messia secondo una profezia), ma non abbia invece un significato storico o biografico. Restiamo pure alla lettera de racconto biblico. Dunque, vanno a Betlemme, perché la famiglia d Giuseppe era originaria di li, perché i romani hanno indetto i censimento e ciascun nucleo familiare deve farsi censire nel luogo di origine del capofamiglia.No sono quindi "senza documenti", non sono profughi, non sono migranti e non sono clandestini. Cercano posto nell'albergo del luogo, ma è pieno (Betlemme non era precisamente una cittadina turistica e doveva avere una ricettività molto limitata...) Viene loro detto che ci sono delle grotte dove ripararsi per trascorrere la notte. E così la nascita di Gesù è umilissima, certamente egli nasce come sarebbe nato un povero, un senza tetto o un profugo, ma non era ne' povero, né profugo, né senzatetto. La nascita "come un povero" senza essere affatto povero fa parte di quell'"abbassamento", di quello "svuotamento" (kenosis) del Figlio di Dio che è un fondamentale dato teologico e pastorale al tempo stesso e che va del tutto perduto se costruiamo la leggenda del Gesù povero, profugo, senzatetto .






30 NOVEMBRE


Esiste una responsabilità politica [ che riguarda cioè la vita della polis] del singolo cristiano? [...] Secondo le sacre Scritture non esiste un diritto alla rivoluzione, ma esiste una responsabilità del singolo per la correttezza del suo ministero e del suo compito nella polis. Così però, con la propria responsabilità, il singolo serve l'autorità nel vero senso della parola. Nessuno, nemmeno l'autorità stessa può togliergli o vietargli tale responsabilità, che è parte dell'esistenza nella salvezza; essa deriva infatti dall'obbedienza al Signore della chiesa e dell'autorità" (D. BONHOEFFER, Parere teologico su Stato e Chiesa")
29 novembre
Quel giorno Mosè, l’uomo che il Signore aveva scelto fra tanti per guidare il Suo popolo fuori dall’Egitto, fuori dalla “casa di schiavitù”, attraverso il mar Rosso e poi per quaranta lunghi anni nel deserto – salì dalle pianure di Moab sul monte Nebo, di fronte a Gerico. E lì il Signore gli mostrò tutta la terra - da Galaad fino a Dan, e tutto Neftali, e tutto la terra di Efraim e di Manasse e quella di Giuda fino al mare e il Neghev e il bacino del fiume Giordano e la valle di Gerico – e gli disse: “Questa è la terra che promisi, giurando, ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. La darò alla tua discendenza. Ma tu non passerai di là”. E così Mosè, servo del Signore (͑eved-YHWH), morì sul monte Nebo, per ordine del Signore (Deuteronomio, 34, 1-6).
Ma perché quest’ordine che può sembrarci a prima vista crudele? Perché l’uomo che tra mille pericoli, fatiche e amarezze (le “mormorazioni” di Israele contro di lui) aveva eseguito per lunghi anni e fedelmente la missione affidatagli da Dio deve morire proprio ora che la meta tanto agognata sta per essere raggiunta? Il midrash racconta che Mosè non morì certo volentieri e che anzi intentò uno dei suoi celebri contraddittori con Dio – l’ultimo. Alla fine, però, capì e accettò la volontà del Signore. Che cosa capì e che cosa accettò? Qui preferiamo distaccarci dal midrash appena citato e anche dalla interpretazione di molti autorevoli esegeti – Otto, ad esempio – che ritengono che il motivo di fondo stia nel fatto che nella Terra debba entrare non Mosè, ma la Torah, la Legge che Dio aveva dato a Israele attraverso Mosè, perché la Torah da quel momento in poi doveva essere la sola guida di Israele nel cammino segnato da Dio. Questa interpretazione è profonda e giusta, ma ne vorremmo proporre un’altra (i testi della Bibbia ebraica – Antico Testamento - sono sempre polisemici e suggeriscono più di una lettura e ciò non è un elemento di incoerenza o di confusione, ma di ricchezza). E’ l’interpretazione profilata da Paolo De Benedetti (che riporta anche il midrash di cui sopra) e che vede in un detto di rabbi Tarfon anche un possibile commento a questo testo: “Non tocca a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Quando la nostra opera è servizio al Signore non possiamo sfuggirle, non possiamo distoglierci dal nostro compito e dobbiamo portarlo avanti con tutte quelle capacità che il Signore ha voluto darci. Ma non dobbiamo mai pensare che tocchi a noi portare a compimento quell’opera, perché se così fosse sarebbe la nostra opera e non l’opera del Signore, realizzata anche attraverso di noi, ma rivolta solo alla Sua gloria. Così fu per Mosè, il servo del Signore per antonomasia e per questo Mosè accettò di morire sul monte Nebo senza entrare nella terra di Canaan; e per questo non si seppe mai il luogo dove Dio volle seppellirlo, affinché non si tributasse a lui quell’onore che spetta solo a Dio stesso.

27 novembre
Molti forse ritengono che essere cristiani significhi parlare stando ben attenti a non inquietare e disturbare nessuno e condire sempre le proprie parole con lo zucchero e il miele (almeno pubblicamente, in privato è un'altra storia...). In questo modo la parola dei cristiani perde però ogni autentico carattere "profetico". La Bibbia la pensa diversamente: l'autore della lettera ai Colossesi, ad esempio, istruisce questi ultimi su come debbano parlare a "quelli di fuori" (quelli di fuori sono i non cristiani o almeno i non appartenenti alla comunità). E riecheggiando il Sermone della montagna dice: parlate con grazia e condite le vostre parole col sale. Col sale, non con lo zucchero e il miele (Col. 4,6)

24-25-26 novembre
"Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo. Cinque di loro erano stolte e cinque avvedute; le stolte, nel prendere le loro lampade, non avevano preso con sé dell'olio; mentre le avvedute, insieme con le loro lampade, avevano preso dell'olio nei vasi".
 La parabola delle "dieci vergini" è forse una delle più ostiche per le orecchie, le menti e i cuori dei cristiani d'oggigiorno. Proprio per questo andrebbe attentamente meditata
 Innanzitutto: cinque vergini sono stolte e cinque sono avvedute. Le stolte non sono stolte perché non aspettano lo sposo, ossia perchè non credono nel Regno. Esse sono religiose, pie, devote, forse come e più delle le altre, e difatti prendono le loro lampade e corrono ad incontrare lo sposo (Dio). Ma non comprendono che le lampade da sole sono inutili e allora dimenticano di prendere con sé anche l'olio. 

Siccome lo sposo tardava, tutte divennero assonnate e si addormentarono. Verso mezzanotte si levò un grido: “Ecco lo sposo, uscitegli incontro!” Allora tutte quelle vergini si svegliarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle avvedute: “Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Ma le avvedute risposero: “No, perché non basterebbe per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene! ( Matteo 25:5-9 )
Lo sposo tarda a venire e tutte e dieci le vergini - o le damigelle d'onore, come altri preferiscono tradurre - si addormentano. Attenzione: tutte si addormentano e sono incapaci di vegliare in attesa dello sposo. Non solo le stolte, ma pure le avvedute. Nessuno veglia, in attesa del Regno. Ma a mezzanotte un grido annuncia l'arrivo inatteso dello sposo. Prestiamo ancora attenzione: tutte si svegliano, tutte e dieci le vergini vanno a prendere le loro lampade, tutte e non solo le avvedute vogliono correre incontro allo sposo. Ma le stolte non hanno pensato per tempo a procurarsi l'olio. Allora che fanno? Lo vanno a chiedere alle avvedute. Qui ci aspetteremmo da queste ultime un gesto di carità, di amore fraterno, di generosità. E invece la parabola di Gesù ci stupisce e ci inquieta: le avvedute rispondono "no!" Questo diniego non contraddice di certo il comandamento di Gesù che prescrive l'amore per i prossimo, ne' il suo invito alla cura dei bisognosi. Qui non siamo nel tempo ordinario, ne quale occorre osservare il comandamento e l'invito: qui siamo alla mezzanotte escatologica, al ritorno finale dello "sposo". Il diniego del resto non è privo di motivazione: l'olio, contrariamente a quello che forse ci saremmo aspettati e augurati di sentire, non è sovrabbondante, non ce n'è per tutti, "non basterebbe per noi e per voi". Chi non ha provveduto per tempo non sarà salvato da chi invece si è premunito. Ma perché deve esser così, ci chiediamo? Forse la risposta, che traspare dalla parabola, è questa: se si abbattesse l differenza fra gli avveduti e gli stolti, ma sarebbe forse il caso di chiamarli con quei termini antichi che oggi pure le chiese di tradizione riformata sono così riluttanti a usare, ossia "eletti" e "reprobi", non sarebbero tutti salvati, come ameremmo credere, ma tutti perduti. A meno che lo sposo della parabola non smentisca questa idea. Che farà lo sposo?

Ma, mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte entrarono con lui nella sala delle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: "Signore, Signore, aprici!" Ma egli rispose: "Io vi dico in verità: Non vi conosco".  Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora. (Mt 25, 10-13).

Le avvedute, dunque, hanno rifiutato di cedere l’olio alle stolte, rinviandole ai venditori, e queste sono corse subito a comprarlo per correre pure loro incontro allo sposo. Ma è troppo tardi: hanno vissuto senza prepararsi alla mezzanotte escatologica, al ritorno dello sposo ed ora non c’è rimedio. Lo sposo, quando bussano alla porta, non le accoglie, non le fa entrare. Non le conosce. La parabola, secondo il mio debole parere, contiene almeno due ammonimenti. Il primo, che rifulge in tutto il Vangelo di Matteo, è di non trasformare l’annuncio della Grazia e del perdono, nell’annuncio di una “Grazia a buon mercato” (Bonhoeffer) e di un perdono universale e indiscriminato, che finirebbe per separare il Dio d’amore dal Dio di giustizia. Il secondo monito, inseparabile dal primo, è quello di porsi al servizio, alla sequela di Gesù senza riserve e integralmente, senza pensare che basti la lampada della devozione e dell’atto religioso e come se il giorno finale – il ritorno dello sposo – dovesse essere oggi stesso. Questo vivere “escatologicamente” la propria esistenza cristiana non si risolve affatto in una fuga dal mondo, come si è spesso malamente inteso, ma nell’esatto opposto, in una testimonianza radicale della propria fede.


23 novembre
Gesù ci ammonisce: “il vostro parlare sia ‘sì sì e no no’, perché il di più viene dal maligno” (Mt, 5, 37). Tuttavia il parlare di molti uomini, cristiani e chiese è un ‘si no’ e un ‘no sì’. Cercano di non scontentare nessuno, di non farsi nemici, di essere amici del mondo. Dimenticando che “chi vuol essere amico del mondo, si rende nemico di Dio” (Giac. 4,4)

21 novembre
Non si è cristiani compiendo "atti religiosi" (Bonhoeffer), ma rendendo onore a Dio e ringraziandolo in tutti i propri impegni e le occupazioni mondane. Mangiando, bevendo, lavorando, studiando, amando, correndo, facendo ogni cosa per la Sua gloria (cfr. 1 Cor 10, 31)

19 novembre
Molte persone si sentono costantemente giudicate da altre persone – familiari, amici, colleghi di lavoro e superiori, compagni e dirigenti di partito, membri di chiesa e autorità ecclesiastiche, vicini, conoscenti… La preoccupazione eccessiva per il giudizio degli altri porta, come è noto, alla nevrosi. Altre persone riconoscono, o dicono di riconoscere, come giudice solo la propria coscienza. La situazione non cambia poi di molto, perché si tratta quasi sempre di una coscienza o troppo severa oppure, come ormai accade più di frequente, troppo permissiva: l’autocondanna e l’autoassoluzione possono ugualmente portare alla nevrosi. Tantissime persone, quindi, si sentono “sotto un giudice”, che si tratti degli altri uomini o della propria coscienza.
Va notato che la parola “ipocrita” deriva dal greco ypokrinomai che significa fingere, simulare,  e dal sostantivo ypokrisis, finzione, simulazione, ma che il verbo e il sostantivo sono composti dalla preposizione ypo che significa “sotto” e dai termini krinomai, krisis che significano “giudicare” (esaminare, criticare, scegliere) e “giudizio” (critica, scelta). Vi è probabilmente una relazione fra questi campi semantici: perché, ci chiediamo, l’ipocrita simula, finge di essere quel che non è? perché si sente costantemente sotto giudice, sotto giudizio, esposto a critiche!
La “libertà del cristiano” (Lutero) consiste nel riconoscere Dio come unico vero giudice, il tribunale di Cristo come vero unico tribunale (cfr. 2 Cor., 5, 10). E il cristiano sa che coloro che Dio ha “preconosciuti” “predestinati” e “chiamati”, sono poi anche “giustificati” da quel giudice e da quel tribunale, sono considerati giusti, non per i loro meriti – inesistenti – ma per la infinita e gratuita misericordia di Dio (cfr. Rom. 8, 29-30). “Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è colui che li giustifica.  Chi li condannerà? Cristo Gesù è colui che è morto e, ancor più, è risuscitato, è alla destra di Dio e anche intercede per noi” (Rom. 8, 33-34). La libertà del cristiano libera il credente dalla nevrosi e pure dall’ipocrisia.







Nessun commento:

Posta un commento