Da Aristotele a
Nietzsche, passando per Marx e tacendo di tanti altri autori e testi, troviamo l’idea
che per conoscere e poi eventualmente valutare qualcosa occorre sempre risalire
alle sue origini. La mia personale e fallibilissima impressione di questi
giorni è stata che invece pochissimi fossero consapevoli dell’origine del
referendum sulle trivelle, ossia di chi ne fosse stato promotore. E’ il primo
importante dato di fatto bellamente ignorato dall’esiguo ma assai chiassoso
popolo del “Sì”. Eppure, prima di dar fuoco all’armamentario retorico sul
diritto sacrosanto di voto e sulla virtù civile della partecipazione sarebbe
bene essere consapevoli di chi ci chiama a votare e a partecipare. Nessuno, si
spera, sviolinerebbe questa sonata retorica nel caso di un plebiscito convocato
da un dittatore! Non è ovviamente e per fortuna il nostro caso, tuttavia resta
una qualche rilevante differenza fra un referendum promosso da comitati di
cittadini, attraverso la raccolta firme, come era sempre accaduto nelle precedenti
occasioni e come molti hanno erroneamente creduto che fosse successo anche per
questo del 17 aprile, e un referendum promosso da alcuni consigli regionali, e
cioè dai governatori delle suddette Regioni, fra i quali spiccavano i nomi di
Emiliano e di Faia. Ad esempio, che Emiliano – l’unico dei governatori che poi
è rimasto davvero in campo nella battaglia referendaria - con tale iniziativa,
più che preoccuparsi della sorte dei fondali marini e delle cozze pelose di cui
pure pare sia ghiotto, intendesse mettere in difficoltà Renzi, contando sulla
spaccatura del PD, e a motivo delle sue personali ambizioni di leadership,
doveva essere chiaro a qualunque cittadino-osservatore politico minimamente
disincantato. Peraltro, neanche di cozze
pelose poteva trattarsi, visto che in Puglia non c’è nessuna piattaforma
estrattiva e non ne potranno essere impiantate. Che una Regione promuova un
referendum che non la riguarda direttamente basterebbe a ritenere pretestuoso e
finanche illegittimo tale referendum. Quanto a Zaia, non faccio supposizioni
sui motivi che lo hanno spinto ad associarsi all’iniziativa, ma quel che è
certo è che anche nel suo caso si tratta di motivi assolutamente strumentali,
visto che in Veneto, mi dice qualche amico, ci sono sì dieci piattaforme, ma
ormai inattive. Che dietro le Regioni agisse qualche lobby con interessi
opposti a quella ormai famigerata dei petrolieri pure si poteva facilmente
intuire. Ma si è preferito credere alla nobile e inesistente iniziativa partita
dal basso e diretta contro il Palazzo e contro il Potere, piuttosto che
ammettere, informandosi meglio, che la questione aveva avuto origine da una
lotta tutta interna al Palazzo stesso.
Dopo questa prima
fatale distrazione, è stato più facile spacciare la partita referendaria
addirittura per una “battaglia di civiltà”, ignorando, per incompetenza e per
pigrizia, anche il secondo dato di fatto, quello che inerisce allo stesso
quesito referendario. Si trattava non già di vietare nuove trivellazioni vicino
alla costa (sono già state vietate dal 2013), né di dismettere immediatamente
quelle in atto, ma semplicemente di rinegoziare la concessione alla scadenza
del contratto, invece che lasciarla proseguire automaticamente fino
all’esaurirsi del giacimento. Si può tranquillamente riconoscere che una tale
modifica alla legge possa dare maggiori garanzie alla collettività, ma che fra
tante leggi che potrebbero essere modificate e migliorate proprio questo
articolo fosse ritenuto così importante da mettere in piedi tutta la macchina
referendaria è assai più arduo da sostenere.
Ma il punto centrale non
è questo e riguarda, invece, la drammatizzazione demagogica della campagna
referendaria che è stata trasformata in una mobilitazione per la salvezza delle
coste, dei mari, degli uccelli marini e di tutta la fauna e flora acquatica,
come se queste fossero minacciate di distruzione dalle trivelle già operanti da
tempo e come se le trivelle fossero l’unico o almeno il principale fattore
inquinante delle nostre coste e dei nostri fondali. Nella gara a chi la sparava
più grossa si sono distinti il deputato avellinese del M5S e l’ignoto che ha
riciclato una famigerata fotografia. Il primo ha pubblicato, fra l’altro, la
foto di una idilliaca caletta, seguita dal fotomontaggio che raffigurava la
stessa caletta invasa dalla trivella-mostro. Ciò non sapendo o facendo finta di
non sapere che in nessun caso si stava parlando di nuove trivellazioni, come
già abbiamo ricordato. Il brillante giornale satirico “Lercio” ha subito
raccolto lo spunto e ne ha fatto un articolo e un titolo dei suoi (“Vanno al
mare invece di votare e trovano la spiaggia occupata da una trivella…). L’anonimo
di cui dicevo ha invece recuperato una foto che i non giovanissimi forse ricorderanno:
il famoso gabbiano del Golfo Persico con le ali nere di petrolio. Peccato che
quella foto, oltre evidentemente a non riferirsi ai casi nostri, è una delle
più celebri bufale della storia del giornalismo, come spiegò anni fa Claudio
Fracassi, nel suo interessantissimo pamphlet “Sotto la notizia niente”. Ma poco
importa, la foto del pellicano è subito diventata “virale”, come si dice oggi,
allo stesso livello della altrettanto famosa bambina di Gaza di qualche estate
fa, postata anche da Fiorella Mannoia e dall’immancabile Giulietto Chiesa, che
poi era turca e non aveva mai visto in vita sua una bomba israeliana.
Ma veniamo a cose più
serie. E’ assai penoso, dopo che una parte consistente della vita se ne è
andata fra articoli, dibattiti, assemblee, documenti, mozioni che cercavano di
affermare che il problema ambientale è essenzialmente problema del modello di
sviluppo e dei connessi stili di vita, assistere alla fioritura di tanti
ecologisti della dodicesima ora e di tutta una piccola, ma molesta corrente “eco-radical-chic”
– talora dotata di Suv e motoscafo - che neanche si pone di questi problemi,
anche perché se lo facesse dovrebbe mettere in discussione anzitutto il proprio
stile di vita e potrebbe scoprire, guardandosi allo specchio, chi, ancor più
del compagno della ministra Guidi, fa quotidianamente gli interessi dei
petrolieri. Che la chiusura delle trivelle non comporti affatto la
riconversione ecologica dell’economia, se non cambiano radicalmente il modello
di sviluppo e gli stili di vita, ma semplicemente un ulteriore aggravio alle
nostre finanze, perché dovremmo importare anche la quota che possiamo estrarre
dal nostro territorio, e un incentivo a trivellare in paesi ancora più
disgraziati del nostro – alla faccia del terzomondismo sbandierato dagli stessi
eco-radical-chic – è cosa che il popolo del Sì non sembra considerare.
Ma proprio di petrolio,
solo di petrolio, principalmente di petrolio si trattava poi? Ecco l’ennesimo
dato di fatto volgarmente ignorato: oltre il 70% delle trivelle che operano in
mare non estraggono petrolio, ma metano! Che il metano sia tout court “pulito”,
come recitava la pubblicità, non è del tutto vero, ma certamente è una fonte di
energia meno inquinante di altre e soprattutto è l’unica – c’era scritto pure
sui nostri sussidiari delle elementari - della quale l’Italia ha una qualche
disponibilità. Così, credendo di votare contro il petrolio i no-triv hanno
votato contro il metano nazionale e contro una fonte energetica relativamente
"pulita"! No-triv o no-brain?
Ma veniamo all’aspetto
politico della questione, nel senso della politique
politicienne. L’iniziativa referendaria, come si è visto, è nata
innanzitutto da una strategia e da un calcolo di un singolo personaggio
politico, il governatore della Puglia Michele Emiliano. Questi ha immaginato di
poter coagulare dietro gli slogan finto-ecologisti un vasto e trasversale fronte
antirenziano, certamente non per rovesciare immediatamente il governo – non è
così stupido – ma per cominciare a posizionarsi nella lunga battaglia di fine
legislatura e contando di divenire il punto di riferimento, nel PD e anche
fuori di esso, per tutti gli scontenti e i frondisti. Renzi, da buon giocatore
d’azzardo, ha però subito visto il gioco, intuendo che la trappola immaginata
da Emiliano potesse trasformarsi in una vittoria per se stesso e per il
governo. Ed in effetti, visto che dal 1997 – se si eccettua l’episodio del 2011
– il quorum non viene più raggiunto – il ducetto di Frignano ha deciso di
puntare sulla carta vincente – l’astensione e il fallimento del referendum – e di
approfittare della facile vittoria che gli veniva offerta su un piatto d’argento.
Ora, in questa storia la stupidità politica non è tanto dalla parte di Emiliano
– che comunque un obiettivo lo ha pure raggiunto, quello di divenire almeno per
alcune settimane il simbolo dell’opposizione - “di sinistra”, ecologista, antilobbistica e
via dicendo - al governo Renzi. La stupidità è di tutte quelle forze e quei
cittadini che sono stati al gioco di Emiliano e soprattutto al gioco di Renzi e
hanno accettato che un referendum su una questione di minima portata si
trasformasse in un pronunciamento sul governo.
Alla vigilia del voto
avevo fatto un facile pronostico: che non solo il quorum non sarebbe stato
raggiunto – questo lo avrebbe dovuto capire pure un marziano appena sbarcato
sul pianeta terra – ma che “il popolo del Sì”, invece di farsi un bell'esame di
coscienza e riconoscere di aver commesso una stupidaggine politica e di essersi
fatto giocare da un furbetto, avrebbe inveito contro le lobbies, contro la
disinformazione, contro il qualunquismo di quelli che non hanno votato, contro
lo stesso Renzi, contro Napolitano, contro il sole che non doveva splendere e
così via, non avendo neanche la raffinatezza di un Saragat che almeno incolpava
il "destino cinico e baro".
Saragat, peraltro,
qualche importante battaglia nella sua lunga vita politica l’aveva pure vinta,
a differenza di molti componenti del popolo del Sì, i quali, pur avendo in
molti casi una età più che matura, ancora non comprendono che in politica prima di
intraprendere una lotta bisognerebbe almeno capire se si ha qualche possibilità
di vincerla, altrimenti è meglio dedicarsi ad altro, ad esempio a scrivere brutte
poesie.
L’altra scontata previsione che avevo fatto era che la sconfitta
avrebbe esaltato uno dei più insopportabili vizi dello stesso “popolo del sì” o
almeno della sua componente più sinistrorsa e ipocritamente moraleggiante:
quella convinzione di superiorità, non si sa fondata su che cosa, che avrebbe
spinto ad attribuire la colpa della disfatta non già a se
stessi, ma a chi non era andato a votare, liquidandolo come uno privo di senso
civico, un qualunquista, un ignavo, un semideficiente, un burattino di poteri
forti e lobbies varie. Il bello è che questa spocchia la esprimono proprio
quelli che pubblicano le foto taroccate dei gabbiani nel petrolio e delle bimbe
turche atterrite dalle bombe israeliane, perché non sono capaci di verificare
una fonte di informazione e si prestano inconsapevolmente a fare da cassa di
risonanza a ogni operazione propagandistica, comprese quelle dei jihadisti.
Questa convinzione di superiorità ce l’hanno proprio quelli che non sanno
parlare con le frasi proprie, ma usano solo presunte citazioni di grandi
personaggi, senza neanche preoccuparsi di verificare se poi il grande
personaggio l’ha detta davvero quella massima così efficace e che sembra
proprio fare al caso loro. All’indomani del referendum è stato il turno del
povero Platone, a cui è stata attribuita una frase che mai si è sognato di
scrivere. Ma tant’è, che la scienza filologica sia nata ormai da cinque o sei
secoli e che abbia rivoluzionato anche il senso comune è cosa che sfugge a
certa “aristocrazia progressista” che è rimasta davvero medioevale: che la
donazione di Costantino sia un documento autentico o un falso che vuoi che
possa importare, ciò che conta è che dice una cosa giusta e serve alla causa!
Ancor meno ci si preoccupa poi di chi l’ha prodotto quel documento falso e con
quale scopo! Ma questi sarebbero poi i signori smaliziati che smascherano le
losche manovre dei comitati di affari…
Il dibattito, o meglio
lo strepitio su diritto di voto, astensione e quorum, è stato però l’aspetto
più inquietante di tutta la vicenda e vale la pena di soffermarsi con un po’ di
attenzione proprio su questo ultimo punto. Si è parlato di un dovere civile a
partecipare, di una illegittimità morale, civile e persino giuridica (!) dell’astensione,
si sono scritte brutte poesie sulla bellezza della partecipazione, si è
sentenziato che occorre sempre votare e che chi invita il popolo sovrano ad
astenersi si macchia della colpa più nefanda. Sono partite persino delle
ridicole denunce ai danni di Renzi e di Napolitano.
In tutto questo, si è
ignorato ancora una volta un dato di fatto: che si stava parlando, non di
elezioni politiche o amministrative – ammesso poi che gli “argomenti” di cui
sopra fossero pertinenti in tali casi - ma di un referendum abrogativo,
regolato da un preciso articolo della costituzione. Questo articolo prevede che
il referendum sia valido solo se viene raggiunta la metà più uno dei votanti.
Si può così già fare
una prima considerazione: non solo chi ha votato ma pure chi NON ha votato ha esercitato
un proprio diritto e se non ha votato convinto della pretestuosita' e
strumentalita' del referendum ha esercitato pure un dovere civile. Per cui
considerare tutti quelli che non hanno votato dei qualunquisti e menefreghisti
è indice di una terribile intolleranza. E aggiungo pure una cosa che spiacera'
a tanti - ma "spiacere è il mio piacere", cantava qualcuno - se
l'alternativa a Renzi fossero solo questi intolleranti mi terrei Renzi. E mi
terrei Renzi, non solo per l’intolleranza di questi altri, ma per la
preoccupante idea che hanno della democrazia, per la drammatica confusione che
fanno tra democrazia e regimi plebiscitari.
I padri costituenti,
che hanno previsto il quorum per il referendum e hanno rigorosamente delimitato
l’istituto referendario, volevano precisamente evitare il rischio di derive
populistico-plebiscitarie, visto che di regimi plebiscitari ne sapevano
qualcosa. Il fascismo e il nazismo si erano infatti fondati non già sull’indifferenza,
sull’ignavia, sul qualunquismo e sul non voto, ma proprio sulla partecipazione
politica e anche strettamente elettorale, per quanto potesse essere acritica e
manipolata. Hitler era andato al potere vincendo le elezioni e Mussolini, nel
momento di massima fortuna, dopo i Patti Lateranensi, aveva voluto un’investitura
plebiscitaria per sé e per il suo regime. La nostra Costituzione, quindi, è ben
attenta a evitare che il referendum possa essere usato per introdurre un regime
plebiscitario. La Repubblica italiana è una democrazia parlamentare e
rappresentativa, non è una democrazia plebiscitaria. Il referendum, perciò, è previsto
solo in casi ben precisi: è solo abrogativo (o serve a pronunciarsi su una
modifica costituzionale, come avverrà a ottobre) e non chiama affatto i
cittadini a legiferare e ad esprimere un indirizzo politico, perché questo
spetta al Parlamento. Nel caso di domenica scorsa non si trattava affatto di
esprimersi su quali fonti energetiche - idrocarburi o energie cosiddette
rinnovabili - siano preferibili. Non si trattava neanche di decidere se siano
legittime o meno le trivellazioni, vicino la costa, lontano dalla costa, sui
monti, nelle valli o dove vi pare. Con il referendum si può solo abrogare una
legge o una sua parte, una legge che è già in vigore, perché è stata approvata
dal Parlamento, espressione a sua volta della sovranità popolare. Lo strumento
referendario andrebbe quindi usato in via eccezionale in un sistema
costituzionale sano, perché esso prevede la possibilità di contraddire la
volontà popolare espressa attraverso il Parlamento. È cioè uno strumento di
garanzia a cui ricorrere in casi straordinari in quanto il suo uso frequente o
abuso è indice di una grave malattia istituzionale e della deriva verso un regime
populistico-plebiscitario. Per questo, i Padri Costituenti hanno previsto molto
saggiamente il quorum, sia per tutela contro questo uso arbitrario del
referendum, sia per evitare che una minoranza ben organizzata e motivata possa
sovvertire la volontà popolare che si è già espressa al momento
dell'approvazione della legge che si intenderebbe abrogare. Perciò, prima
ancora di fare una scelta nel merito della questione, occorrerebbe chiedersi se
la consultazione referendaria è fondata e giustificata o se prefigura invece un
abuso dell'istituto del referendum, ossia un "inquinamento" del
sistema costituzionale. Molti, compreso il sottoscritto, nel caso del
referendum del 17 aprile hanno ritenuto che ciò appunto si prefigurasse e di
conseguenza hanno deciso l’astensione, esercitando così un diritto-dovere. L’obiezione
tanto diffusa, secondo cui si poteva dissentire andando a votare e votando No, perché
bisogna sempre votare, partecipare e menate del genere, è davvero stolta e
rivela ancora una volta una gran confusione mentale: si vota No se si vuole semplicemente
mantenere la legge, ma se si ritiene che ci sia stato un abuso dell’iniziativa
referendaria e si avverte un pericolo ben più grave dell’abrogazione o meno di
un articolo di legge, allora il dissenso bisogna esprimerlo non votando
affatto e contribuendo così al non raggiungimento del quorum, il che è un modo per prevenire anche gli abusi futuri dell'istituto referendario e immunizzarsi dal rischio di deriva plebiscitaria.
Ma ciò viene invece
considerato qualunquismo, menefreghismo e ignavia da questi santoni e custodi
della pubblica moralità e delle buone virtù civili. I quali vorrebbero
addirittura abolire il quorum e opporre alle istituzioni rappresentative l’istituzione
referendum, trasformando l’Italia nel paese del referendum permanente, ossia del plebiscito continuo. E’ un modo
di rispondere al problema, serio e gravissimo, della crisi del Parlamento e
della democrazia rappresentativa, con il suo corollario di leggi elettorali
truffa, con un male ancora peggiore, molto peggiore. Renzi si è “limitato” ad
abrogare il Senato e a disegnare una riforma costituzionale che consegnerà al
partito vincitore delle elezioni un potere esorbitante, picconando gravemente
la democrazia liberale. Ma bisogna temere che questi altri – il popolo del
referendum senza quorum – la democrazia liberale la ucciderebbero del tutto. Per
questo, paventavo la possibilità, Dio non voglia, di dover scegliere se
mettersi nelle mani di questi intolleranti, faziosi, finto-libertari e
profondamente fascisti, del peggior fascismo, o tenersi Renzi. Ma mi rendo conto che il
dilemma è davvero astratto: il rischio reale è che Renzi, ancora una volta,
scelga di vedere il gioco e faccia sua
la proposta di abolire il quorum. Dopo di che, potrà anche sottrarsi quando
vorrà alla noia e al fastidio dei dibattiti e delle mozioni parlamentari e
ricorrere all’occorrenza a un referendum ad hoc. Tanto, se questi sono i suoi
oppositori, i referendum li vincerà tutti e governerà altro che per un
ventennio, mentre il “popolo del sì” continuerà a sbraitare contro i
qualunquisti, le lobbies e i poteri forti…