venerdì 3 novembre 2017

LA LEGALITA' FASCISTA CHE VOI DIFENDETE



LA LEGALITA’ FASCISTA

Ieri, a las cinco de la tarde, la giudice Lamela ha ordinato l’arresto di sette membri del legittimo governo catalano, compreso il vicepresidente Junqueras. Oggi sarà probabilmente spiccato un mandato di cattura internazionale per Puigdemont e altri cinque ministri, esiliati in Belgio.  Al fremito di indignazione e alla immediata mobilitazione popolare a Barcellona e in tutta la Catalogna, fa riscontro il silenzio delle istituzioni e dei governi europei (uniche eccezioni al momento, il primo ministro scozzese e il capogruppo dei Verdi al Parlamento europeo), l’indifferenza e spesso anche il malcelato compiacimento se non l’applauso aperto di tanti che pure si dichiarano liberali e democratici. Prevale largamente l’idea che referendum e dichiarazione di indipendenza fossero “illegali” e che pertanto il tribunale abbia agito in difesa della “legalità” e dello “stato di diritto”. Esercitando su me stesso uno dei più severi sforzi di autocontrollo della mia vita per contenere lo sdegno che prorompe da tutto ciò, provo a svolgere un semplice e pacato ragionamento.
L’assunto su cui si basano molti è che “legalità” e democrazia, o meglio legalità e “legittimità democratica”, coincidano e che non ci siano neanche distinzioni fra varie forme di “legalità”. Vediamo se così è, esaminando la vicenda prima sotto il profilo della legittimità democratica e poi sotto quello della “legalità”, per porci infine qualche domanda su “quale” legalità viene in questo caso applicata e imposta.
Sul piano della legittimità democratica. Puigdemont, Junqueras e gli altri consiglieri della Generalitat di Catalogna sono andati al governo non con un colpo di stato, ma in seguito a regolari e democratiche elezioni, riconosciute ovviamente da Madrid, le elezioni del settembre 2015. In queste elezioni, una coalizione di partiti e associazioni - il PDeCAT di Puigdemont, l’ERC di Junqueras, Assemblea Nacional Catalana, Omnium – uniti nella lista Junts pel Sì – e la sinistra radicale della CUP, hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento di Barcellona. Sia Junts pel Sì che la CUP hanno vinto le elezioni sulla base di un programma indipendentista. Più precisamente, hanno fatto campagna elettorale per il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano, già conculcato a loro avviso nel 2014 quando il governo centrale e il Tribunale costituzionale avevano cercato di impedire e poi annullato un referendum sull’indipendenza. Si sono impegnati a organizzare un nuovo referendum sull’indipendenza e, in caso di vittoria del Sì, a intraprendere un percorso di costruzione di una Repubblica Catalana libera e sovrana. In questi due anni, il governo Puigdemont, espressione diretta di Junts pel Sì e appoggiato dalla CUP, non ha fatto altro che applicare coerentemente quel programma, assolvendo così a un mandato popolare che si era chiaramente espresso nelle urne. Conseguenza di quel mandato popolare sono stati sia la legge di transitorietà di settembre, sia il referendum del 1° di ottobre, sia la dichiarazione di indipendenza del 28 ottobre. Il comportamento del governo catalano è stato quindi ineccepibile sotto il profilo della legittimità democratica. Questo è un primo dato di fatto ed è incontestabile.
Accade, però, che il governo centrale e la magistratura (poi vedremo quale ordine di magistratura) abbiano opposto alla legittimità democratica la “legalità” del proprio ordine giuridico e costituzionale.  Il conflitto fra democrazia e legalità – che molti fanno invece coincidere, con notevole pressapochismo culturale – è quindi nei fatti ed è attestato proprio dalle azioni intraprese da Madrid. Si potrebbe già forse dire che un liberale, in un tale conflitto, non dovrebbe avere alcuna esitazione a stare dalla parte della legittimità democratica, ma si potrebbe opporre, non senza qualche ragione, l’argomento secondo cui la legittimità democratica potrebbe sfociare anche in un regime plebiscitario o addirittura in un totalitarismo, come è già accaduto nel corso della storia (si pensi solo alle elezioni del 1932 in Germania e all’ascesa del nazismo). Se non che, questo argomento è del tutto fuori luogo nel caso in questione, perché Puigdemont, la Generalitat, il Parlamento, i partiti e movimenti indipendentisti non hanno mai prestato il fianco al minimo sospetto di tentazioni autoritarie o demagogico-totalitarie e anzi hanno condotto le loro iniziative in modo assolutamente non violento, anche quando, in queste ultime settimane, è incominciata la repressione da parte di Madrid (la Guardia Civil ai seggi del referendum, l’incarceramento dei leader delle due associazioni indipendentiste più rappresentative). Tuttavia, sospendiamo pure il giudizio e attendiamo prima di prendere posizione in questo conflitto fra legalità e legittimità democratica. Attendiamo fino a quando non avremo capito meglio di che legalità stiamo parlando.
Anzitutto, il processo giudiziario è stato attivato in seguito all’applicazione del famoso e famigerato articolo 155 della Costituzione. L’articolo è quanto mai generico è dice solo che “quando una Comunità Autonoma non dovesse ottemperare agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, oppure si comporti in modo tale da attentare agli interessi generali della Spagna”, il Governo, autorizzato dal Senato “potrà prendere le misure necessarie per obbligarla all’adempimento forzato dei suddetti obblighi”. E’ molto discutibile che questo articolo possa comportare la sospensione della autonomia, in quanto esso dice che la Comunità stessa deve essere obbligata all’adempimento dei suoi obblighi, non che può essere esautorata. Invece, non solo è stato deposto il governo legittimo della Comunità in questione, ma questo governo è stato messo in carcere!
E’ quindi dubbio, per prima cosa, che il governo centrale si stia davvero muovendo nel solco della sua stessa legalità. Ma se anche così fosse, veniamo alla questione di cui si diceva. Di che legalità stiamo parlando? Ebbene, l’articolo 155 ricalca puntualmente – ne è quasi la copia esatta – l’articolo 39 della legge organica del 1967. La “legge organica” è una legge che nell’ordinamento giuridico sta immediatamente al di sotto della Costituzione e al di sopra delle leggi ordinarie. In Spagna si utilizza molto questo strumento legislativo. Ma stiamo parlando del 1967. Chi era al potere nel 1967 in Spagna? Lo sappiamo tutti. Dunque, la legalità di cui si parla, quando si parla dell’articolo 155 della Costituzione spagnola, è la legalità ricalcata su una importante legge del regime franchista. Il conflitto non sembra essere fra la legittimità democratica e una generica e da taluni santificata legalità, ma fra la legittimità democratica e una legalità di matrice franchista.
Ciò che segue confermerà questa tesi.
L’articolo 155, benché sia ciò che abbiamo detto, per la sua genericità poteva essere comunque applicato in cento modi diversi. Si è scelta la strada più brutale, con la trasformazione di una questione politica in questione giudiziaria e in processo penale a carico degli antagonisti politici. E questa strada, di per sé molto significativa della vocazione autoritaria dello Stato spagnolo e di chi oggi lo rappresenta, è stata perseguita nelle sedi e con le procedure che meritano ora di essere approfondite.
La giudice Lamela ha convocato letteralmente da un giorno all’altro i membri del governo catalano, senza dare a loro e ai loro avvocati neanche 24 ore di tempo per leggere le carte e preparare le proprie deduzioni e obiezioni. Come è stata possibile questa procedura in quello che molti affermano essere uno “stato di diritto”? Si fosse trattato di un procedimento in carico alla magistratura ordinaria i passaggi sarebbero stati ben altri. Ma questo processo si sarebbe svolto in Catalogna e con i tempi lunghi della giustizia spagnola ordinaria. Evidentemente, ciò sarebbe stato molto rischioso per il governo Rajoy. Il processo è stato dunque avocato all’Audiencia Nacional che ha sede a Madrid. Ecco, i paladini della legalità quale che sia dovrebbero provare a porsi questa semplicissima domanda: quale tribunale ha ordinato l’arresto del governo catalano? Che cosa è questa Audiencia Nacional? Per che tipologia di reati è competente?
Negli ultimi tempi del regime franchista esisteva il famigerato Tribunale dell’Ordine Pubblico, che doveva perseguire i “delitti contro lo Stato” connessi al terrorismo, in pratica non solo l’ETA, ma tutti i “sovversivi”, ossia gli oppositori del regime. Con il cambio questo Tribunale viene naturalmente soppresso, ma nel 1977 dalle sue ceneri nasce l’ Audiencia Nacional, che ne eredita pari pari funzioni e competenze. Tanto è vero che molti giuristi la ritengono incompatibile con la Costituzione democratica. Viene, però, opposta e fatta prevalere la tesi secondo cui l’Audiencia Nacional si dovrebbe occupare essenzialmente dei delitti contro lo stato legati al terrorismo e in nessun modo potrebbe intervenire in modo tale da minacciare libertà politiche e diritti umani.
E d’altra parte la stessa Audiencia Nacional , quando in passato si è trattato di giudicare i crimini del franchismo ha dichiarato la propria incompetenza. E’ il caso di fare attenzione a questo precedente: si trattava di imputati per “ribellione”, uno dei reati – il più grave – addebitato anche ai ministri catalani. L’ Audiencia Nacional obiettò che il reato di ribellione nel codice penale vigente si configura non come delitto contro lo Stato, ma come delitto contro l’ordine pubblico, e pertanto non è di competenza della stessa Audiencia Nacional. Ebbene, la giudice Lamela, o meglio ancora il Procuratore generale dello Stato Maza, personaggio assai discusso in Spagna, prima di lei, hanno effettuato un triplo salto mortale giuridico per avocare il processo a Madrid e di fronte alla Audiencia Nacional. La giudice Lamela, in particolare, ha contraddetto la giurisprudenza dello stesso organo di cui fa parte! Infatti, ha perseguito gli imputati per ribellione – attentato all’integrità dello Stato – sedizione – attentato contro i governo – e malversazione – per aver distratto fondi pubblici (hanno rubato? Sono dei comuni ladri e corrotti? Ma no: hanno o avrebbero utilizzato fondi pubblici per organizzare il referendum del 1° ottobre!), facendo riferimento a fattispecie giuridiche presenti nel codice penale franchista del 1973, ove appunto la ribellione si configurava come delitto contro lo stato e non contro l’ordine pubblico! In tal modo, gli imputati rischiano, sommando le pene previste per i tre reati, fino a 48 anni di carcere e, a fronte della celerità con cui sono stato portati in prigione, vi potranno restare in attesa del primo giudizio anche due anni.
Vale appena la pena di sottolineare che in tal modo l’Audiencia nacional nel corso degli anni si è dichiarata incompetente a processare per delitti contro lo stato i responsabili dei crimini franchisti, mentre ha equiparato a dei terroristi i legittimi rappresentanti di governo del popolo catalano! Se non è un processo politico questo…
Prima di Junqueras e compagni erano stati del resto incarcerati dalla giudice Lamela, Jordi Sanchez e Jordi Cuixart, leader delle associazioni civiche indipendentiste Assemblea Nacional e Omnium, per aver organizzato manifestazioni pacifiche, anche in quel caso nell’indifferenza generale. Fossero stati incarcerati in Turchia o in Russia, da Erdogan o da Putin, immaginate il clamore.
Allora, cari paladini della legalità e dello stato di diritto: ciò che state difendendo non solo non è una legalità che si identifichi con la legittimità democratica, perché anzi la contraddice e la violenta, ma è una legalità di stampo fascista. Nello Stato di diritto, che voi idolatrate a prescindere, certamente il potere politico non è al di sopra di leggi e tribunali e deve rispettarli, ma quando le leggi e le procedure sono quelle del codice penale franchista e il Tribunale è l’erede diretto del Tribunale che Franco usava per perseguire i dissidenti, allora lo Stato di diritto che state esaltando è lo Stato di diritto del franchismo redivivo.
Questo atteggiamento potrebbe essere considerato soltanto il frutto dell’ignoranza o di uno sconcertante pressapochismo culturale, proprio di chi non ha neanche studiato quella mezza paginetta che ogni manuale di filosofia di terzo liceo dedica al dibattito sulle leggi nella Sofistica. Basterebbe, infatti, aver letto e capito quella mezza paginetta e anche se non si fosse più letto e studiato nulla nella propria vita si avrebbe una idea meno ottusa della “legalità”.
Ma c’è dell’altro, temo. C’è un malcelato compiacimento, c’è la morbosa soddisfazione di veder bastonato chi ha osato avere il coraggio della libertà, c’è il risentimento che i piccoli uomini nutrono spesso nei confronti dei liberi e coraggiosi. Lo stesso risentimento che portava molti ad applaudire il fascismo. Il fascismo che anche attraverso questa vicenda e le reazioni che suscita nel nostro paese si rivela davvero l’”autobiografia della nazione”, la rivelazione del carattere italiano.
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domenica 29 ottobre 2017

BREVE STORIA DELLA NAZIONE CATALANA



In questi giorni si leggono e si ascoltano ovunque giudizi e opinioni sulla vicenda catalana che quasi sempre riflettono una desolante mancanza delle più essenziali informazioni e cognizioni sulla realtà storica, sociale e culturale della Catalogna. Trattandosi di un evento che probabilmente sarà considerato uno dei più importanti di questo inizio di secolo e di un paese che ha antiche e importanti relazioni con l’Italia – in particolare con le Isole, con Genova, con Napoli e il Mezzogiorno – e che fa parte dell’Unione Europea, offro a chi la dovesse  trovare utile questa sintesi, in pochissime pagine e in brevi paragrafi, della storia catalana, dalle origini di questa nazione – perché di nazione si tratta – fino alle ultime vicende che hanno condotto alla dichiarazione di indipendenza. Mi sembra che queste informazioni storiche siano la base indispensabile per poter esprimere una qualsiasi valutazione sensata sulla vicenda.


La nascita della nazione catalana (secoli IX-XII)

Dopo la fine del dominio arabo - Barcellona viene liberata dai Franchi nell’801 - la Catalogna, o almeno la Catalunya vella, ossia la parte settentrionale del paese (la parte meridionale, Catalunya nova, resta infatti musulmana ancora per molto tempo), diviene un feudo dei re di Francia, Il vincolo feudale è più formale che sostanziale, ma viene comunque ufficialmente sciolto nel 988 dal conte di Barcellona, che non tributa più l’omaggio vassallatico al re di Francia Ugo Capeto. Per questo si fa risalire a tale data l’indipendenza di quello che sarà il nucleo della futura Catalogna.
Fra il X e l’XI secolo si forma poi la lingua nazionale, il catalano, derivata dal latino volgare, e parallelamente alle altre lingue neolatine, ma con stretti rapporti con il provenzale, ossia la lingua d’oc (e non certo con il castigliano). Nel IX secolo ci sono nei documenti le prime frasi che possiamo considerare in lingua catalana; alla fine dell’XI secolo troviamo i primi testi scritti compiuti e nel secolo successivo le prime traduzioni e anche le prime opere letterarie in catalano. Nel XIII secolo, il catalano è la lingua usata nella cancelleria reale e abbiamo grandi opere letterarie e filosofiche, come quella di Llull, o storiografiche, come alcune Cronache. Il catalano è ormai la lingua di uno stato sovrano.
A metà del secolo XII vi è anche la prima compilazione di leggi catalane, gli Usatges de Barcelona, una vera costituzione che resterà in vigore fino alla catastrofe nazionale del 1714.
Lingua, leggi, un territorio coeso, l’assenza di poteri sovraordinati, la coscienza di una comune appartenenza costituiscono i caratteri fondamentali di una nazione.


L’unione con l’Aragona, l’espansione mediterranea, la formazione delle istituzioni catalane (secoli XIII-XV)

Nel 1137, attraverso il matrimonio del conte di Barcellona Ramon Berengario IV con l’erede della corona d’Aragona Peronella, si realizza l’unione della Catalogna con il regno d’Aragona. Non si tratta in nessun modo di una annessione, ma di una unione confederale, secondo un modello originale – unico nel mondo medioevale – e che caratterizzerà anche la storia successiva della Catalogna: l’unione di regni indipendenti sotto un medesimo sovrano.
Il passaggio successivo è, nel secolo XIII, l’inclusione della Comunidad valenciana come regno autonomo e federato a Catalogna ed Aragona.

La Catalogna medioevale – ossia i territori soggetti ai conti di Barcellona e poi al regno di Catalogna-Aragona – comprende anche le regioni oggi francesi della Cerdagna e del Rossiglione, altre contee oltre i Pirenei e una vasta area provenzale. Il sovrano Pietro il Cattolico fa una politica espansionistica in quest’area occitanica, proteggendo anche i catari, considerati eretici dal Papato. La coalizione aragono-catalano-occitanica subisce però una dura sconfitta a Muret nel 1213. Il figlio e  successore di Pietro, Jaume I, non segue la politica paterna e con il trattato del 1258 giunge a un accordo con il re di Francia Luigi IX, con il quale, mentre la monarchia catalano-aragonese rinuncia di fatto – salvo alcune contee – ai territori occitanici, che stanno per essere definitivamente annessi a Parigi, la Francia riconosce de jure l’indipendenza della Catalogna. E’ una svolta storica che orienta la monarchia catalano-aragonese verso una politica mediterranea e mercantile. Gli unici sconfitti dell’accordo saranno gli occitani che vedranno annientata la loro civiltà dall’azione congiunta dei re di Francia e del Papato nella cosiddetta crociata contro i catari.

Il regno catalano-aragonese muove così alla conquista delle Baleari, quindi della Sicilia, alla fine del XIII secolo, della Sardegna, nel XIV secolo, e infine del Regno di Napoli, a metà del XV. Sicilia e regno di Napoli saranno unite con il solito sistema federale e avranno proprie dinastie regnanti. I catalani stabiliscono basi mercantili lungo tutto il Mediterraneo, oltre l’Italia, fino alla Grecia, a Creta, a Cipro, a Rodi, all’Impero bizantino, all’Egitto e alla Siria. I mercanti catalani sono presenti in Linguadoca e Provenza e da qui alle fiere della Champagne, il più importante crocevia di scambi mercantili nel medio evo. Ovunque si trovino, mercanti, agenti e funzionari catalani, sono riconosciuti come membri di una nazione e di uno stato sovrano. Questa grande espansione mercantile porta allo sviluppo a Barcellona, non solo del porto e dei cantieri, ma di una avanzata struttura finanziaria

Intanto si vengono formando e consolidando le istituzioni statali catalane, che saranno titolari, fino al 1714 di un potere autonomo. Si tratta innanzitutto delle Corts, organo legislativo e con funzioni di controllo dell’esecutivo (il re e i suoi funzionari) e a cui i re devono fare necessariamente ricorso per l’approvazione delle imposte.  Le Corts promulgano e sistemano, nel corso dei secoli, le Constitucions i altres drets de Catalunya, spina dorsale dell’ordinamento del paese. Vi è poi la Diputaciò del general, nota anche semplicemente come Generalitat. A partire dal XIV secolo, la Generalitat, con sede a Barcellona, diviene il massimo organismo politico catalano, dominata dagli oligarchi, ma sempre tenacissima nel difendere di fronte ai re e ai loro ufficiali, i diritti e le istituzioni catalane.

Nel 1412 si ha un passaggio importante nella storia catalana: la corona d’Aragona passa a una dinastia di origine castigliana – i Trastamara – anche se non si tratta ancora dell’unione fra i due principali regni iberici, ma semmai del suo presupposto. Questo mutamento di dinastia, paradossalmente, non incide negativamente sull’autonomia catalana, ma anzi la rafforza e la definisce ancor meglio. Con la nuova dinastia, vista come una potenziale minaccia, viene infatti negoziato un patto di autonomia ancor più chiaro e stringente. L’ordinamento politico-istituzionale del regno d’Aragona-Catalogna assume così un originale carattere “pattista” o “contrattualista” che anticipa di alcuni secoli la dottrina liberale moderna e l’elaborazione di John Locke. La legittimazione del potere monarchico, in Aragona-Catalogna, non deriva tanto dalla sua presunta ’”origine divina” – come invece accade in tutte le altre monarchie coeve – ma soprattutto da questo fondamento contrattualista.


L’unione con la Castiglia e il periodo asburgico (1469-1714)

Nei manuali di storia più diffusi e nella coscienza comune il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1469 segnerebbe la nascita della Spagna moderna come monarchia nazionale e stato unitario. Questa rappresentazione è però sostanzialmente errata. L’unione fra i due sovrani non porta a nessuna unificazione statale: i due regni restano separati e ciascuno per suo conto indipendente e sovrano. Nei documenti ufficiali dell’epoca non si parla mai di Spagna come entità politica, ma solo come spazio geografico. I due sovrani non si definiscono mai come “re di Spagna”. Fra i due regni permangono frontiere politiche, militari ed economiche ben definite. Ciascuno conserva la propria lingua, le proprie leggi e costituzioni, le proprie istituzioni. Catalogna-Aragona e Castiglia hanno anche differenti monete. I castigliani sono considerati stranieri in Catalogna e i catalani stranieri in Castiglia. L’unico elemento unitario è l’unione personale tra Ferdinando e Isabella. Alla morte di Ferdinando, l’elemento unificante sarà l’unico sovrano che regna su entrambi i paesi, Carlo d’Asburgo e poi i suoi successori.
Si tratta, però, di una unione disuguale, innanzitutto sul piano geografico e demografico, e ciò finirà per penalizzare la Catalogna e per eroderne, in un lungo processo, la sovranità. La Castiglia è infatti tre volte più grande della Catalogna per superficie geografica e cinque volte per numero di abitanti (o meglio di “fuochi”). La Catalogna, che tradizionalmente è stata poco presente nei commerci atlantici, resta inoltre fuori dalla conquista e colonizzazione dell’America.
Un primo grave colpo la Catalogna lo subisce con l’imposizione dei tribunali dell’Inquisizione di “rito castigliano” che da questo momento in poi hanno un ruolo cruciale nella repressione non solo dell’”eresia”, ma del dissenso politico. Un danno enorme deriva poi al paese dall’espulsione degli ebrei decretata da Ferdinando e Isabella nel 1492, visto il loro ruolo cruciale nell’economia catalana. Nel 1555, inoltre, la creazione del “Consiglio d’Italia” porta alla separazione delle regioni italiane – Sardegna, Sicilia e Napoli con tutto il Mezzogiorno– dalla Catalogna e alla rottura del vincolo federale con questa.

Nel periodo asburgico e quindi fino al 1714, la Catalogna resta tuttavia uno stato sovrano, con le proprie istituzioni, anche se questa sovranità viene progressivamente erosa e la conflittualità con la monarchia va crescendo. Carlo V è tutto sommato molto rispettoso delle prerogative catalane, ma con il figlio e successore Filippo II, il primo re “castigliano” che la Catalogna abbia conosciuto, le cose cominciano a cambiare, per la progressiva “castiglianizzazione” della corte e l’assenteismo del re dalla Catalogna. Non si tratta ancora del conflitto, ma delle sue premesse.
Nel 1576 un ambasciatore italiano può ancora osservare come i catalano-aragonesi si governino “secondo le loro leggi e i loro ordinamenti in forma di repubblica” e come siano sovrani in tutte le materie fondamentali, senza che il re possa opporsi.
Sul finire del secolo incomincia invece la fase di vera e propria conflittualità, una conflittualità latente ed endemica, ma che periodicamente è destinata ad esplodere. In un primo momento, le crisi si verificano solitamente per l’arresto di deputati catalani ad opera dell’Inquisizione.
La crisi più grave è quella del 1640 con la rivolta contro Madrid, nata dalla politica centralizzatrice ed assolutistica di Filippo IV e soprattutto del conte-duca Olivares e dall’esasperato fiscalismo di una Spagna dissanguata dalla guerra dei Trent’anni.
Il 17 gennaio del 1641 viene così proclamata la Repubblica catalana, che cerca subito il sostegno della Francia, ossia dell’acerrima nemica di Madrid. Nell’ottica catalana, non deve trattarsi in nessun modo di una annessione, ma di una unione federale che rispetti le prerogative e le istituzioni autonome del paese. Nonostante le promesse del re Luigi XIII, l’assolutismo della monarchia francese si rivela presto incompatibile con il regime “pattizio” della tradizione catalana, fino a far dire ai contemporanei che il centralismo di Richelieu è ancor peggiore di quello castigliano. Alla fine, nel 1652, la Catalogna torna con Madrid. Filippo IV conferma costituzioni, usi e privilegi, ma non senza una dura repressione ai danni di coloro che più si sono compromessi nella rivolta. Da questo momento la Catalogna si può definire “un paese occupato in libertà vigilata”.
La progressiva subordinazione della Catalogna a Madrid è ben testimoniata dalle adunanze delle Corts, principale organismo politico catalano a cui i re dovrebbero ricorrere per l’approvazione dei tributi: Carlo V riunisce le Corts ben sette volte, Filippo II solo due volte così come Filippo III; Filippo IV si decide una sola volta a convocare le Corts e l’ultimo Asburgo di Spagna, Carlo II non lo fa mai.


La catastrofe del 1714

Alla morte senza eredi dell’ultimo Asburgo di Spagna, Carlo II, scoppia la cosiddetta “guerra di successione spagnola”. Dopo una lunga incertezza, Carlo II si è infatti convinto a indicare come erede Filippo di Borbone, duca d’Angiò e nipote del potentissimo Luigi XIV, il “re Sole”. Da circa quarant’anni, Luigi XIV ha impegnato la Francia in una serie di guerre per conquistare la supremazia sul continente europeo. Finora, l’obiettivo non è stato conseguito, ma ora l’unione della Francia con la Spagna – che porterebbe con sé tanto i domini italiani che le colonie americane - potrebbe segnare il trionfo del sogno imperiale del “re Sole”. Gli Asburgo d’Austria, tradizionali rivali della Francia, l’Inghilterra e l’Olanda sono comprensibilmente allarmati e oppongono quindi a Filippo di Borbone un loro candidato alla successione spagnola: l’arciduca Carlo d’Asburgo.
I catalani, dal canto loro, dopo aver cercato inutilmente con Filippo di Borbone un accordo che garantisca e rilanci l’indipendenza del paese, stringono un patto segreto con le potenze nemiche – Inghilterra, Olanda e Austria – e si legano all’altro pretendente al trono, l’arciduca Carlo.  Il 9 ottobre del 1705 le truppe borboniche a guardia di Barcellona capitolano di fronte all’invasione austro-anglo-olandese; il 7 novembre Carlo entra a Barcellona e un mese dopo riunisce le Corts, che lo riconoscono come re. La guerra seguirà varie e alterne vicende negli anni seguenti, ma la svolta fatale per la Catalogna giunge con la morte dell’Imperatore Giuseppe I d’Asburgo nel 1711. La successione al trono d’Austria e all’Impero tocca infatti proprio al fratello Carlo. Ma a questo punto lo scenario muta completamente, perché le stesse potenze – Inghilterra e Olanda – che avevano sostenuto la successione di Carlo d’Asburgo al trono spagnolo sono ora preoccupate da una possibile unione fra gli Asburgo d’Austria e l’Impero da un lato e la Spagna dall’altro: si tratterebbe in sostanza della riedizione dell’Impero di Carlo V! Dopo lunghe e complesse trattative si arriva così nel 1713 alla pace di Utrecht. I catalani rimangono così soli a fronteggiare il poderoso esercito franco-castigliano, ma decidono di continuare la lotta. Barcellona è assediata a partire dal luglio del 1713 e sottoposta a un violento bombardamento. Nonostante la lunghissima resistenza e i tanti episodi di eroismo, nella notte fra l’11 e il 12 settembre del 1714 avviene la capitolazione. Le conseguenze sono disastrose. Vi è innanzitutto la più dura repressione mai conosciuta dalla città e dalla regione, con migliaia di fucilati ed esiliati. Vengono poi soppresse tutte le istituzioni dell’autogoverno catalano, dalle Corts alla Generalitat. Sul colle che sovrasta il vecchio quartiere popolare della Ribera viene costruita una fortezza, la Cittadella – oggi è circondata da un parco pubblico ed è sede del Parlamento – come presidio armato permanente con funzioni di controllo della città. La lingua catalana è vietata e viene imposto il castigliano negli uffici, nei tribunali e nelle scuole.
La Catalogna diviene da questo momento in poi un paese militarmente occupato e Madrid vi lascia costantemente non meno di 20.000 uomini armati e fino a 30.000.
La catastrofe del 1714 ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva del popolo catalano e ciò può essere notato anche dal turista più disattento che visiti Barcellona.

La progressiva rinascita catalana (1714-1936)

Il colpo inferto alla Catalogna nel 1714 è così violento che si può ragionevolmente temere che esso segni la scomparsa definitiva della civiltà, della lingua e della nazione catalana, come è accaduto secoli prima alla civiltà occitanica. Il corso della storia, tuttavia, riesce a mitigare i danni e pone i presupposti per la rinascita: la crescita economica – agricola e demografica, innanzitutto – che tocca un po’ tutta l’Europa nel XVIII secolo, la successiva rivoluzione industriale e la riscoperta romantica delle tradizioni e delle lingue nazionali coinvolgono potentemente la Catalogna, che anzi si pone decisamente all’avanguardia nella penisola iberica, sia sotto il profilo dell’industrializzazione che sotto quello della rinascita delle culture nazionali.
La crescita della produzione agricola e la nascita dell’industria tessile – che trasforma il quartiere del Raval a Barcellona in una sorta di “Manchester catalana” – alimentano il commercio con il Nord Europa e reinseriscono pienamente la Catalogna nella vita economica europea, mentre la Castiglia e altre regioni spagnole non riescono a frenare il processo di decadenza.
La Catalogna, insieme ai Paesi Baschi, è l’unica regione spagnola a industrializzarsi nel XIX secolo e a conoscere le trasformazioni sociali, culturali e politiche legate all’industrializzazione, con la nascita della classe operaia moderna e del movimento sindacale.
Nella seconda metà del XIX secolo fiorisce poi il movimento di rinascita catalanista, con il rilancio della lingua e della letteratura catalana. La svolta relativamente liberale della monarchia, consente la pubblicazione di giornali in catalano, l’organizzazione di congressi catalanisti e infine la nascita di un movimento politico sovranista o catalanista.
Nel 1918 il movimento catalanista porta alle Corts di Madrid la prima proposta di uno Statuto dell’autonomia. La proposta non ha però seguito e la dittatura di Primo de Rivera, dal 1923 al 1930, segna una fase di violenta repressione del movimento catalanista e di quello sindacale e operaio e di intensificazione del centralismo. I risultati sono però controproducenti per Madrid: la dittatura intensifica e radicalizza il movimento autonomista o indipendentista e quello sindacale e operaio, esasperando anche la frattura fra la Catalogna e la Corona, e facendo guadagnare crescenti consensi alla causa catalanista fra le classi medie.
Il regime dittatoriale si sfalda progressivamente e nel 1931 il re è indotto a lasciare il paese. Nasce la Repubblica, che in Catalogna vede la fusione di vari partiti indipendentisti e repubblicani nella ERC (Esquerra repubblicana de Catalunya), attualmente secondo partito più rappresentativo, dopo il PDeCat di Puigdemont, e guidato dal vicepresidente Junqueras e che esprime anche la Presidente del Parlamento Forcadell.
Viene presentato quindi nuovamente uno Statuto dell’autonomia, sostenuto da un pronunciamento pressoché unanime dei municipi catalani e da un referendum popolare con circa 800.000 voti favorevoli e solo 3200 contrari. Lo Statuto definisce la Catalogna “uno stato autonomo dentro la Repubblica spagnola”. Il testo, pur con delle significative modifiche, viene approvato dal Parlamento di Madrid, a larghissima maggioranza. La Catalogna ha ora un proprio Presidente, un governo e un Parlamento.
Il clima della Spagna è però di acceso conflitto sociale e politico e le elezioni del novembre del 1933 vedono la vittoria della destra, che blocca il processo autonomistico catalano e attua una feroce repressione dell’opposizione politica e del movimento sindacale. Dopo l’episodio più grave, l’eccidio dei minatori delle Asturie, il Presidente catalano Lluis Companys, come segnale di protesta e reazione alla politica di Madrid, proclama il 6 ottobre del 1934 una Repubblica catalana indipendente nell’ottica di una federazione con gli altri popoli iberici. La reazione del governo, del movimento falangista (fascista), dell’esercito e di tutto il blocco sociale dominante è durissima e prelude al pronunciamento di Francisco Franco, circa due anni dopo: Companys viene arrestato. Lo Statuto dell’autonomia sospeso.
Le elezioni del febbraio 1936 danno però la vittoria al Fronte popolare e lo stesso Companys ritorna in libertà e alla vita politica. Pochi mesi dopo, le forze reazionarie cercano di rovesciare il governo legittimo, attraverso un colpo di stato militare guidato da Franco. Il golpe riesce però solo molto limitatamente, non assicura a Franco il controllo del Paese – Madrid e Barcellona, ad esempio, vengono efficacemente difese e la sollevazione militare qui e in altre città viene respinta -  ma gli consegna comunque alcune regioni della Spagna. E’ l’inizio della guerra civile.

Guerra civile, franchismo e post-franchismo (1936-2006)

Barcellona durante la guerra civile è la capitale prima morale e poi anche effettiva della Repubblica e la sede del governo. La vittoria di Franco è la seconda catastrofe catalana, dopo quella del 1714, e produce risultati dolorosamente simili: ogni segno della lingua e della cultura catalana viene eliminato, le organizzazioni politiche e sindacali catalane soppresse e i loro dirigenti arrestati, spesso torturati – nel famigerato edificio della polizia in via Caietana – e talora condannati a morte. Molti prendono per tempo la via dell’esilio, generalmente in Francia. Tra questi Lluis Companys che, però, nel 1940 viene scovato dalla Gestapo e consegnato a Franco, che lo fa fucilare a Barcellona, sul colle di Montjuic, ove ora esiste un sacrario alla sua memoria.
Sostanzialmente, il periodo franchista è per Barcellona e la Catalogna un periodo di occupazione militare.
La transizione “morbida” dal franchismo alla democrazia porta subito a un nuovo Statuto dell’Autonomia, nel 1979, alla rinascita delle organizzazioni politiche catalane e delle istituzioni di governo e parlamentari. Lo Statuto del 1979 non soddisfa, però, le richieste catalane e non è neanche rispettato da Madrid. Nel parlamento di Barcellona, a partire dal 2003 vi è una larghissima maggioranza favorevole a una più precisa codificazione dell’autonomia e ad una sua estensione. Si lavora quindi a un nuovo Statuto, con il sostegno del primo ministro Zapatero. Il nuovo Statuto è approvato nel 2006 secondo l’iter previsto dalla legge, prima dal parlamento catalano, poi da quello di Madrid, e infine viene confermato da un referendum popolare, nonostante il parlamento di Madrid abbia apportato significative modifiche peggiorative al testo. La Catalogna è comunque definita una “nazione” all’interno dello stato spagnolo.


Le ultime vicende e le ragioni del successo degli indipendentisti (2010-  )

La vicenda che è culminata in questi giorni con la dichiarazione di indipendenza non si può assolutamente comprendere se non si delineano puntualmente gli sviluppi seguiti all’approvazione dello Statuto del 2006. Il partito popolare di Rajoy inizia subito a promuovere un ricorso di fronte al Tribunale costituzionale per smantellare lo Statuto. Lo fa sia per colpire l’antagonista politico – Zapatero e il PSOE – sia per l’attaccamento pervicace del PPE – nel quale sono confluiti tanti uomini e settori del franchismo – al centralismo. Il Tribunale costituzionale è tutt’altro che quell’organo super partes che si potrebbe credere ed i suoi membri sono fortemente politicizzati. In ogni caso, la decisione di mutilare gravemente lo Statuto fino a svuotarlo del suo significato, viene presa dopo lunghissima e travagliata discussione e a stretta maggioranza: sei giudici contro quattro. Questa delibera così discutibile innesca il processo indipendentista, anzitutto provocando per reazione una crescita formidabile del movimento indipendentista, fino ad allora minoritario se non marginale nella società catalana.
L’11 settembre 2012 (anniversario della capitolazione del 1714) viene organizzata la prima grande diada  - imponente manifestazione di massa – con oltre un milione  mezzo di cittadini in piazza a protestare contro la decisione del Tribunale. Questa manifestazione e quelle successive sono organizzate dalle due maggiori associazioni indipendentiste della società civile – quelle che hanno avuto i loro leader arrestati nelle scorse settimane: Omnium e Assemblea Nazionale Catalana. Da questo momento, l’indipendentismo è padrone della piazza. Il re e il governo di Madrid ignorano la protesta e le rivendicazioni.
Nel novembre del 2012, dopo le elezioni, 107 deputati del parlamento catalano su 135 presentano la richiesta di un referendum per decidere sull’indipendenza.
L’11 settembre 2013 una nuova diada porta alla formazione di una catena umana di 400 km, dal nord al sud del paese. Madrid continua a tacere.
La diada del’11 settembre 2014 vede in piazza quasi 2 milioni di persone. Madrid, però, a differenza di Londra per la questione scozzese, continua a restare sorda alla richiesta di referendum.
Con due diverse formulazioni, previste comunque dallo Statuto, dopo le manifestazioni popolari e con la richiesta della quasi totalità dei sindaci, la Generalitat indice comunque delle “consultazioni popolari” che vengono prima nell’una poi nell’altra formulazione bocciate dal solito Tribunale costituzionale.
Il 9 novembre 2014 si tiene comunque un referendum e votano 2,3 milioni di cittadini. L’80,7% si pronuncia per l’indipendenza. Il referendum ovviamente viene considerato nullo dal Tribunale Costituzionale e il presidente Mas viene addirittura processato per averlo consentito.
Le elezioni del settembre 2015 consegnano la maggioranza dei seggi ai partiti indipendentisti e viene eletto presidente Puigdemont. Parte subito l’iter per un nuovo referendum. Il resto è storia di questi giorni.

lunedì 8 maggio 2017

HANNO INVENTATO IL BURATTINO PERFETTO

Ci sono riusciti. Hanno creato in laboratorio l’automa perfetto. Dalla loro bottega è uscito il burattino ideale, obbediente a tutti i loro comandi. Si chiama Emmanuel Macron. Svezzato dalla sua professoressa, allevato e addestrato in un grande gruppo bancario, compiuto il suo tirocinio al governo e nel partito socialista, l’automa-burattino, nell’estate del 2016, mentre in Francia esplodeva il malcontento sociale per le «politiche europee», mentre a Nizza si verificava l’ennesima strage islamista, mentre interi quartieri cittadini era in mano a immigrati di prima, seconda o terza generazione e governati più dalla sharia che dalla Republique, mentre Hollande si preparava a una mesta e ingloriosa uscita di scena e il suo partito era sull’orlo dell’estinzione, mentre accadeva tutto questo, il designato delfino della tirannide eurocratica veniva spinto al passo decisivo e formava un suo movimento politico. Una brillante operazione di marketing elettorale lanciata in tempo utile. Un nome suggestivo nella forma, vuoto nella sostanza: en marche (ma per andare dove?). La sua era l’immagine di «uomo nuovo» e non compromesso con la politica tradizionale, nella quale invece si era formato, ritirandosi al momento giusto, abbandonando prima il partito e poi il governo. Certo, occorreva glissare sul fatto che l’uomo nuovo dovesse la sua ascesa politica proprio a quel partito ormai così screditato e che fosse stato fino al giorno prima il Ministro dell’Economia dell’odiatissimo governo Valls. Operazione non impossibile: ormai basta trovare un somaro giovane e che si possa spacciare per “nuovo” ed ecco frotte di elettori acclamanti. Nella Gerusalemme di oggi non entrano messia in groppa all’asina, ma gli asini soltanto; e non turbano le elite del Tempio, visto che anzi sono queste a spalancargli le porte.

Certo, il consenso a Macron in termini assoluti è assai ridotto, anche se oggi questo dato obiettivo viene taciuto dai più. La Francia è drammaticamente divisa ed è come se ormai ci fossero due diverse nazioni: da un lato, Parigi, le elite borghesi e intellettuali, i grandi media, i molti cittadini islamici; dall’altro lato la cosiddetta “Francia profonda”, le campagne, la provincia, i contadini e gli operai, le vittime della globalizzazione e quelle della società “multiculturale”, i francesi che, al contrario di Macron, pensano ancora che esista una “identità nazionale” e che vedono falcidiati i loro redditi.

Un quadro a prima vista non molto diverso da quello degli USA – anche nella mobilitazione liberal-progressista preelettorale, con la demonizzazione dell’antagonista - ma con un esito opposto. Come mai? Innanzitutto, per la diversa struttura della nazione francese rispetto a quella americana: l’America non è New York, non è la fascia urbana dell’East e della West Coast, l’America non è il New York Times, non è un grande college progressista. Controllare queste aree e questi ambienti è importante, ma non decisivo. La Francia, invece, è prima di tutto Parigi. Nel senso che nessuno può prendere il potere senza prendere Parigi. Se ne dovette accorgere Enrico di Borbone, capo del partito protestante, che poté diventare re solo entrando a Parigi, sebbene non avesse più antagonisti, e per entrare a Parigi dovette farsi cattolico («Parigi val bene una messa»). Per questo motivo, mentre a novembre avevo puntato sulla vittoria di Trump, non avrei scommesso un euro e nemmeno un vecchio franco su quella di Marine, che a Parigi raccoglie percentuali di voti risibili.

Peraltro, va anche detto che se è vero che senza Parigi nessuno può prendere il potere in Francia, è altrettanto indubitabile che senza controllare la campagna e la provincia nessuno può restarci a lungo al potere. Lo capirono subito i rivoluzionari del 1789 che dopo soltanto una ventina di giorni dalla caduta della Bastiglia seppero conquistarsi larga parte delle campagne e del mondo contadino con l’abrogazione giuridica del regime feudale. Lo seppero i giacobini che seppero contenere le tante “Vandee” del malcontento contadino, distribuendo le terre.  

Per questo, se c’è ancora una residua speranza, come dice Winston Smith, il personaggio inventato da Orwell in 1984, questa speranza risiede nei prolet e non certo nei ricchi progressisti del Marais e negli intellò che, in larghissima maggioranza, stanno ora festeggiando Macron.

Intanto, però, non si può che registrare l’abilissima operazione che ha portato “Lolito” Macron all’Eliseo e che soprattutto ha probabilmente affondato definitivamente le speranze di riscatto e rinascita dei popoli europei.

L’ideologia immigrazionista e multiculturale ha realizzato il suo capolavoro, confermandosi efficacissimo strumento al servizio delle oligarchie dominanti. E’ riuscita, infatti, prima a dividere il fronte della protesta e del malcontento, che se si fosse compattato, come mostrano oggettivamente i risultati di Melenchon e Le Pen al primo turno, avrebbe prevalso e poi ad agitare il consueto spauracchio del pericolo “fascio-xenofobo”, dell’”estrema destra populista”. Etichette vuote e mistificanti, eppure vincenti. Lo spartiacque fra destra e sinistra è ormai ridotto a una formula che consolida i poteri dominanti e che fa avanzare i soli fascismi dei nostri tempi – se proprio si vuole usare questo termine in senso evidentemente improprio e comunque molto lato (in una approssimativa accezione politologica e non certo storiografica) – “fascismi” che sono il regime eurocratico, da un lato, il totalitarismo islamista, dall’altro.

E’ significativo che ancor prima di quella di Macron sia giunta ieri sera, a urne chiuse e proiezioni appena lanciate, la dichiarazione trionfante della Merkel. Gli eurocrati, che negano il conflitto di civiltà, in realtà se ne  servono per dividere gli scontenti, separando gli scontenti di "sinistra" ammaliati dalla favola del "buon immigrato", da quelli di "destra", spaventati dall'"uomo nero". Gli eurocrati sanno bene che la supremazia occidentale è ormai finita, ma invece di concepire una strategia politica che consenta all’Occidente, sia pure ridimensionato, di sopravvivere, salvaguardando i propri valori fondanti, arraffano i preziosi e l’argenteria, depredano tutto ciò che si può depredare, spolpano vivi i loro popoli e aprono la porta ai nemici della nostra civiltà, prima di scappare, probabilmente, e di correre a nascondersi dove sperano di godersi i frutti della rapina. Gli eurocrati, che oggi proclamano felici che “la paura è stata sconfitta”, sulla paura in realtà hanno costruito la loro vittoria e la vittoria del loro pupazzo. O meglio, ad una paura sacrosanta – quella del popolo che si vede scorticato dalla moneta unica, esposto alla minaccia terroristica e invaso da una massa portatrice di identità, abitudini e mentalità incompatibili con quelle occidentali -  hanno saputo opporre una paura finta e strumentale, quella del “populismo”.

Tra le molte battute che circolano in queste ore ho letto anche questa: “i francesi hanno dimostrato di essere più stupidi degli italiani”. Aspettiamo, però, a sorridere, sia pure amaramente: tra poco saremo chiamati a scegliere fra Renzi e Di Maio… Il regime dominante mostra purtroppo la capacità che hanno i dominatori più ferrei: riesce a scegliere non solo chi deve governare, ma anche chi deve rappresentare l’alternativa. In modo che questa alternativa sia improponibile, come si è mostrata la Le Pen in Francia, oppure vuota e inutile, come il M5S in Italia, sul quale il giudizio forse definitivo è quello, come al solito spietatamente lucido di Luttwak, in occasione della visita negli USA di Di Maio (Di Maio ad Harvard: un nuovo ossimoro): «il M5S ha raccolto una volontà di cambiamento e l’ha tradotta in un niente».

Probabilmente, avete vinto voi. Lo sappiamo. Un giorno, magari, scopriremo di amare il Grande Fratello, il dio Baal di Bruxelles (se non arriverà prima il Califfo…). A tanti accade già. Un giorno, ci convincerete che due più due fa cinque, che «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza e forza».

Ma non è ancora il tempo, se mai arriverà. Per ora possiamo ancora ritirarci in un angolo nascosto a scrivere il nostro diario. Per ora possiamo perfino scrivere voluttuosamente sulla pagina «abbasso il Grande Fratello, abbasso il Grande Fratello!». Per ora, soprattutto, possiamo ancora correre fuori città, andare in campagna, come Winston e Julia in 1984, lungo quel ruscello, nel “Paese d’oro” che certe volte continuiamo a sognare, Winston con Julia, Julia con Winston; oppure con gli amici fidati, o persino da soli. Prima di essere presi, possiamo vivere ancora liberi per qualche tempo.

E quindi tenetevi le vostre vittorie, le vostre bandiere e i vostri burattini; e non ci date fastidio.