Ormai
ogni anno, mentre fervono i preparativi nelle scuole e ai vertici delle
istituzioni per l’organizzazione della “Giornata della Memoria”, si registrano
interventi critici su questa ricorrenza da parte di esponenti della comunità
ebraica italiana. Nei giorni scorsi, Giuseppe Laras, presidente del Tribunale
rabbinico del Centro Nord Italia, ha espresso un giudizio molto severo sulla
“Giornata della Memoria”: essa, ha scritto rav Laras, “è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e
anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale”; la ricorrenza è
“azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il
presente e incidervi positivamente”. Vedremo, poi, i motivi di questa
sconsolata denuncia. L’anno scorso fu invece pubblicato un libro di Elena
Loewenthal, una scrittrice italiana ed ebrea, che si intitolava addirittura Contro il giorno della memoria. La
Loewenthal scriveva: il giorno della Memoria è figlio delle istituzioni che lo
hanno ideato ed è un figlio che assomiglia in tutto ai genitori, in quanto è
noioso, è ricattatorio, è retorico, cerca lo spettacolo, bada all’”immagine”.
Devo
confessare che pure io condivido, purtroppo, l’idea che questa celebrazione si
sia ridotta molto spesso a una vuota liturgia e che sia ben lontana dal
raggiungere l’obiettivo per cui è stata istituita: sradicare definitivamente
ogni residuo pregiudizio antigiudaico o prevenirne un nuovo sviluppo,
attraverso la conoscenza e la memoria dell’orrore accaduto alcuni decenni
orsono.
Ad
avvalorare questo triste convincimento ci sono mille elementi. Mi limito a
citare l’ultimo drammatico episodio. I recentissimi attentati di Parigi si sono
ormai sedimentati nella memoria collettiva come il barbaro omicidio di alcuni
giornalisti, a causa di certe vignette ritenute “offensive” da un gruppo di
integralisti islamici. Naturalmente, è molto positivo che venga rilevato e
ricordato il gravissimo significato, anche simbolico, di questo atto criminale –
è stata, infatti, colpita una delle libertà fondamentali dell’Occidente moderno
e proprio in uno dei luoghi che più e meglio incarnano la nascita e la
formazione di quelle libertà. Mi pare, tuttavia, che l’altro attentato,
certamente non meno barbaro, passi,
invece, in secondo piano. Se provate a chiedere a un passante che cosa è
successo a Parigi qualche settimana fa, vi risponderà che sono stati uccisi i
giornalisti di Charlie Hebdo, ma non è così scontato che si ricordi anche delle
vittime del supermercato. E quando si è parlato e si parla di queste altre
vittime, non sempre si sottolinea il fatto che si trattava di ebrei e che sono
stati uccisi solo perché erano ebrei,
da qualcuno che ha così voluto stabilire un legame del tutto illogico e anzi delirante
fra la reazione inaccettabile a una presunta offesa e l’eccidio di cittadini
ebrei che evidentemente nulla avevano a che fare con quel giornale e con quelle
vignette. Una delirante associazione che rievoca, però, in modo inquietante
certe vicende storiche che credevamo ormai sepolte: si partiva per la crociata,
per “liberare” la Terra Santa dagli “infedeli” musulmani e, nel corso del
viaggio, ci si fermava in ogni città ove vi fosse una comunità ebraica e si
massacravano gli ebrei, sebbene essi non avessero niente a che vedere con gli
obiettivi della crociata. Scoppiava la peste e ugualmente si colpivano gli
ebrei, sospettati senza il minimo indizio, di diffondere il contagio. E si
potrebbe continuare.
Ma
non atterrisce solo il massacro compiuto nell’ipermercato, peraltro preceduto
in Francia da altri attacchi a luoghi ebraici, ma anche l’indifferenza o almeno
la scarsa attenzione e sensibilità di tanta parte dell’opinione pubblica:
tantissimi hanno manifestato, per strada o via web, con il motto “je suis
Charlie”, ma pochissimi, quasi nessuno, quando poi si è verificata la strage
degli ebrei, ha aggiunto “je suis Juif”. Lo ha rilevato, tra gli altri, rav
Carucci, preside delle scuole ebraiche di Roma. Pare, quindi, che quando si tratta degli ebrei
– o dello stato e del governo di Israele - si continuino ad adottare “due pesi
e due misure”, quello che gli anglosassoni chiamano double standard. E secondo le organizzazioni internazionali per i
diritti umani, il double standard è
un sintomo, è un indicatore di pregiudizi razziali.
Eppure,
la giornata della Memoria pare così sentita, così partecipata, suscita tanta
commozione…Come si spiega questa contraddizione? Non vorrei che avesse ragione,
anche in questo caso, il rabbino Laras, quando scrive che “a una certa politica
e a una certa cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da
piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi”.
Non
si tratta, evidentemente, di abolire la Giornata della Memoria: sarebbe un
terribile segno di sconfitta. Si tratta, invece, di celebrarla diversamente e
di renderla più efficace, meno rituale, meno retorica.
Mi
sforzerò, per quanto mi riesce, di dare un contributo in tal senso.
Certo,
il motivo che ha portato a istituire questa celebrazione non si può non
condividere: dobbiamo impegnarci affinché quel crimine, quell’orrore non si
verifichi mai più. E perché questo mai più si avveri noi dobbiamo
conservare e coltivare la memoria. “Coloro che non ricordano la propria
storia”, è stato scritto nel campo di sterminio di Auschwitz, “sono condannati
a riviverla”. Questo è vero, ma è solo una parte della verità. E una mezza
verità non è altro che una mezza menzogna e non è meno pericolosa di una palese
bugia, anzi spesso è ancora più pericolosa, proprio perché è una mezza bugia
che veste i panni della verità sacrosanta.
Qual
è, allora, quell’altra parte della verità che non viene esplicitata? E’ che la
memoria non è affatto “neutra” e, pertanto, la memoria può essere anche
deformata, manipolata e strumentalizzata; la memoria può anche ingannare, può
generare equivoci, può alimentare essa stessa luoghi comuni, stereotipi e
pregiudizi che poi agiscono in modo rovinoso.
In
sostanza, tutto dipende dall’uso che
si fa della memoria storica, da chi la gestisce e dalla consapevolezza che
hanno di questo uso e di questa gestione i soggetti – ad esempio,gli studenti,
i giovani– che poi ne diventano destinatari.
Pensate
solo a questo: alla persecuzione antiebraica contribuì certamente anche un uso
distorto e strumentale della memoria storica. Si erano inventate tutta una
serie di menzogne e di leggende storiche intorno agli ebrei, a partire
dall’uccisione di Cristo ad andare avanti fino al presunto complotto
giudaico-massonico dell’età moderna. Anche il disastro tedesco nella prima
guerra mondiale venne attribuito dai nazionalisti tedeschi a questo fantomatico
complotto o comunque all’opera disgregatrice dello spirito patriottico che gli
ebrei avrebbero svolto.
Si
dirà: è naturale che un regime totalitario faccia un cattivo uso, un uso
strumentale, ideologico e manipolatorio della memoria. Ma noi, oggi, non siamo
sotto un regime totalitario, per fortuna,
viviamo in democrazia e dunque dovremmo essere al riparo da questo
rischio. O, almeno, il rischio può anche esserci ma quando si tratta di
argomenti che hanno diretta attinenza con l’attualità politica e quando essi
sono gestiti da chi ha un interesse di parte. Qui invece si tratta di rievocare
una pagina di storia, qui non ci sono interessi politici e divisioni di parte,
perché siamo tutti dalla stessa parte, tutti proviamo orrore per ciò che
accadde e vogliamo sinceramente che non accada più, qui non ci sono “politici”,
ci sono insegnanti, presidi, studenti…
Purtroppo,
le cose sono meno semplici e meno tranquillizzanti. Anche la Giornata della
Memoria può contribuire, infatti, a veicolare equivoci e pregiudizi, anche
nella Giornata della Memoria possono infiltrarsi i cattivi usi della memoria
storica.
Lo
mostra proprio Elena Loewenthal, nel suo libro. Quando si pensa alla Shoah, spesso si pensa pure che oggi gli
ebrei, per fortuna, hanno almeno una garanzia in più contro discriminazioni e
persecuzioni: lo Stato di Israele che è nato proprio dopo la tragedia, lo Stato
di Israele che è nato proprio in seguito a
quella tragedia. In tal modo, si stabilisce una consequenzialità che è
storicamente infondata e che è tutt’altro che innocente, perché si presta
precisamente a usi politici di parte. Infatti, ricorda la Loewenthal, il
mandato britannico sulla Palestina doveva terminare nel 1938: il pericolo
nazista e poi la guerra lo hanno prolungato di circa dieci anni e hanno
ritardato di altrettanti anni la costituzione dello Stato ebraico. Lo sterminio
ha poi sottratto enormi risorse, umane e materiali, al futuro Stato. Israele,
dunque, non è nato grazie alla Shoah,
o meglio alla commozione suscitata dalla Shoah;
Israele è nato malgrado la Shoah. Ma questa distorsione della
memoria storica, come dicevo, non è affatto innocente. Alimenta, infatti, talune
convinzioni, piuttosto pericolose. La prima è quella secondo cui gli ebrei
sarebbero stati in qualche modo e almeno in parte “risarciti” dall’Europa che
aveva perpetrato lo sterminio, quando questa stessa Europa ha consentito la
nascita di Israele. Questa convinzione è pericolosa in primo luogo perché
stabilisce una comparazione fra la colpa immane e orribile della shoah e la nascita dello Stato di
Israele, come se quello che è accaduto potesse essere sia pure in minima parte
risarcito o riparato. Occorre, invece, affermare con forza, dice giustamente la
Loewenthal, che la Shoah è imperdonabile e che non ci può essere
nessun risarcimento. In secondo luogo, questa falsa consequenzialità storica
alimenta gli attacchi contro Israele, che spesso diventano attacchi contro gli
ebrei tout court e suscitano il
sospetto di un latente e perdurante pregiudizio antisemita: gli ebrei sono
accusati di usare la memoria della Shoah in
modo “ricattatorio”, come una sorta di “grimaldello” che servirebbe a inculcare
sensi di colpa al mondo intero, in modo da poter poi operare liberamente, ingiustamente,
cinicamente per i loro interessi, ai danni, ad esempio, del popolo palestinese.
Oltre all’uso strumentalmente politico di questa falsa consequenzialità
storica, su cui non mi soffermo in questa sede, vi è un’altra implicazione che
riguarda direttamente la celebrazione di questa Giornata e si ripercuote su
essa con effetti dirompenti. Se si insinua che gli ebrei “usino” la memoria
della Shoah, si sottintende che la Shoah è cosa che riguarda essenzialmente
gli ebrei. Questa implicazione è davvero funesta. Anzitutto, essa è falsa anche
sul piano della fattualità storica, perché la deportazione, come è noto,
coinvolse anche altre categorie di persone, oltre agli ebrei. Poi, è pressoché
indecente sul piano etico, perché con essa si ridimensiona la Shoah a crimine contro gli ebrei e non
la si riconosce, come invece hanno fatto gli stessi tribunali che hanno
processato i criminali nazisti, come crimine contro l’umanità. Diventa allora
inutile recitare continuamente e ritualmente la solita poesia di Brecht (“prima
vennero a prendere gli ebrei…”), perché si mostra di non averne minimamente
compreso il significato. Si mostra di non aver compreso l’insegnamento della
storia: ogni volta che si cominciano a colpire gli ebrei, suona un campanello
d’allarme per tutta l’umanità; ogni volta che un ebreo viene ucciso per odio
razziale o religioso, suona una campana a morte non solo per quell’ebreo, ma
per tutta l’umanità, per tutta la civiltà umana.
No,
come dice ancora la Loewenthal, si dovrebbe completamente rovesciare la
prospettiva: la memoria della Shoah non è degli ebrei, ma è di tutti gli altri,
tranne che degli ebrei, perché la Shoah è
stata interamente preparata, progettata e realizzata dagli altri, gli ebrei
l’hanno solo subita. La Shoah non è
storia loro, è storia nostra. E nostra è anche la sua memoria.
Perché
è tanto difficile ammettere ciò, perché la realtà viene rovesciata? Ma proprio
perché questa memoria brucia ancora ed allora piuttosto che farla propria,
piuttosto che assumersene la responsabilità storica, morale e civile – che è
una cosa ben diversa dal senso di colpa – “la si esorcizza con la celebrazione,
con il rituale del ricordo”. La Giornata della
Memoria è così diventata un atto, un rituale di omaggio – postumo – alle
vittime dello sterminio, l’occasione per metterci in pace con la coscienza, per
vestire i panni dei buoni. Doveva avere, nota ancora la Loewenthal, un
significato “introspettivo” e ha invece assunto un valore “transitivo”; doveva
riguardare noi e invece riguarda gli ebrei. E questo omaggio sembra poi
destinato – questo mi permetto di aggiungerlo io – soltanto agli ebrei già
morti o ai pochissimi superstiti tra i sopravvissuti, ma non sembra affatto
riguardare gli ebrei vivent; tantomeno induce a guardare con un po’ di rispetto
lo stato di Israele– che non significa evidentemente che non si possa e non si
debba criticare, quando è il caso, la politica di questo Stato.
Pertanto,
un cattivo uso e una esorcizzazione della memoria portano soprattutto a non
evidenziare le nostre responsabilità collettive, ma al contrario ad eluderle e
rimuoverle. E tuttavia la giornata della
memoria può dare un contributo al mai più
soltanto se ci porta ad assumerci le nostre responsabilità, collettive e
storiche. Purtroppo questo non avviene quasi mai: la shoah viene ricostruita e rievocata come un crimine perpetrato nel
passato e da un altro popolo, un popolo ammaliato da una ideologia demoniaca.
Noi, in fondo, che colpa abbiamo? Noi siamo i “buoni”, noi siamo quelli che si
commuovono dinanzi al film e dinanzi al sopravvissuto, noi siamo quelli che
celebrano la giornata della Memoria!
Le
stesse modalità della celebrazione, molto spesso, rinforzano questa rimozione:
si parla di Auschwitz, che è piuttosto lontana da noi, si va ad Auschwitz, non
si parla quasi mai dei luoghi italiani della Shoah e non si va in questi luoghi che pure sono ben più vicini e
facili da raggiungere e talvolta stanno proprio a un passo da casa.
Le
più alte cariche dello Stato, ha detto il rabbino Laras, “dovrebbero
annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto
di Roma vittima del rastrellamento nazifascista, per far capire che è una
realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il
plauso, la collaborazione, l’assenso e i silenzi di moltissimi –troppi-
italiani. Organizzata come è attualmente, sembra riguardare un qualcosa lontano
nel tempo, accaduto soltanto in Germania o in Polonia”
Temo,
quindi, che la Giornata della Memoria, così come viene celebrata contribuisca a
questa autoassoluzione e autocelebrazione, che si basano su una formidabile rimozione
storica e su un uso mistificante della memoria.
Si
dice: la colpa del fascismo italiano furono le leggi razziali del 1938. Una
colpa gravissima, certo, ma queste leggi – si dice, ancora – furono adottate
solo per “imitazione” della Germania nazista, perché Mussolini si era ormai
sciaguratamente legato al carro di Hitler. Il fascismo italiano, si sostiene,
prima del 1938 non aveva conosciuto l’antisemitismo, anche perché gli italiani
sono refrattari al razzismo, gli italiani sono “brava gente”.
Prima
di smontare queste teoria di luoghi comuni assolutamente infondati occorre comunque
sottolineare adeguatamente la barbarie delle leggi razziali del 1938, una
barbarie che resterebbe intatta, seppure queste leggi fossero state soltanto
“importate” dalla Germania e non rispondessero, come invece è vero, alla reale
essenza politica del fascismo. Che cosa significarono queste leggi per gli
ebrei italiani? Gli studenti ebrei, da un giorno all’altro, furono cacciati
dalle scuole; gli impiegati pubblici persero il lavoro; gli ebrei non poterono
più avere una licenza commerciale, né esercitare una professione e furono
vietati i cosiddetti matrimoni “misti”, quelli fra ebrei ed “ariani”. Badate
che non furono colpiti degli “stranieri”, né, in molti casi, degli oppositori
del regime, cosa che ovviamente sarebbe stata comunque esecrabile: la
persecuzione si abbatté su tutti coloro che avevano almeno un genitore di
stirpe ebraica, senza tenere in nessun conto il fatto che si trattasse di
cittadini italiani, che fino a quel momento avevano goduto degli stessi diritti
di tutti gli altri cittadini italiani, senza considerare minimamente l’importante
contributo che gli ebrei italiani avevano dato al Risorgimento o il loro
sacrificio nelle trincee della prima guerra mondiale, senza badare nemmeno alla
loro fede religiosa, perché in molti casi si trattava di persone che non
praticavano la religione ebraica, senza tener conto neanche delle loro idee
politiche, perché furono discriminati anche gli ebrei fedeli al regime
fascista. Si trattava, insomma, di leggi fondate sul più puro razzismo, che,
come dice la storica Anna Foa, distrussero quanto ancora restava del
Risorgimento e dei suoi principi ispiratori.
Ma
guardiamo ora ciò che era accaduto prima e
ciò che purtroppo accadrà dopo il
1938, per sgombrare il campo da certi luoghi comuni senza base storica.
Non
è vero, anzitutto, che il fascismo italiano sia stato estraneo
all’antisemitismo e più in generale al razzismo fino al 1938 e comunque nel
periodo che precede l’alleanza con il nazismo. Al contrario, se si considerano
certe correnti e certi personaggi del fascismo si potrebbe finanche rovesciare
l’idea convenzionale e sostenere che sono queste correnti e questi personaggi che
hanno contribuito al razzismo nazista e non viceversa. Dopo le leggi razziali
si cominciò a pubblicare anche una famigerata rivista razzista e antisemita che
si chiamava La difesa della razza. E
anche questa rivista, per quanto odiosa, non sarebbe altro che una imitazione
delle pubblicazioni antisemite del nazismo, quasi che il fascismo volesse
accreditarsi in questo triste modo agli occhi del potente alleato. La vita
italiana precede di molto La difesa
della razza, dato che esce a partire dall’inizio degli anni Venti - in un
periodo in cui Hitler è ancora un oscuro personaggio, noto solo per un ridicolo
tentativo di golpe, e il nazismo è una formazione politica del tutto
irrilevante. Quando poi i nazisti prendono il potere, gli autori de La vita italiana, guardano con un po’ di
sufficienza al loro razzismo, li trattano come dei rozzi apprendisti,
pretendono di insegnar loro il “vero” razzismo. Anni fa, molti anni fa, studiai
questa rivista alla Biblioteca Provinciale di Avellino, che ne possiede
l’intera collezione. Il suo direttore e fondatore, personaggio emblematico
dell’antisemitismo italiano e fascista, era infatti un irpino, di Torella dei
Lombardi. Si dice, però, che Mussolini addirittura si sforzasse di evitare ogni
contatto e ogni incontro con questo Preziosi, benché lui gli fosse
fanaticamente devoto (infatti, alla caduta del fascismo fu uno dei pochi che
coerentemente si suicidò). Ma non è che Mussolini non volesse incontrarlo
perché gli ripugnava l’antisemitismo del Preziosi: no, il motivo era un altro
ed era ben più frivolo. Preziosi aveva una funesta fama di grande iettatore e
Mussolini era piuttosto superstizioso: per questo lo evitava! A proposito di
Mussolini e a riprova del fatto che egli sarebbe stato estraneo ai pregiudizi
razziali si citano sempre le sue relazioni intime con donne ebree. Solo che si
trattava di donne, e in certi casi come quello di Margherita Sarfatti, anche di
donne molto affascinanti, mentre non risultano grandi amicizie fra il Duce ed
ebrei maschi. Quindi questo dato non attesta affatto che Mussolini fosse immune
da pregiudizi razziali, ma dimostra solo ciò che era già ampiamente noto: che
non aveva pregiudizi nei confronti delle donne con cui intrecciare relazioni di
un certo tipo, come del resto altri uomini politici, anche più vicini ai nostri
tempi!
Comunque,
è vero, Giovanni Preziosi non è un personaggio di primissimo piano nel regime
fascista. Ma fra gli alti gerarchi non mancano altri casi di antisemiti della
primissima ora. Uno è Roberto Farinacci, il ras di Cremona, secondo lo storico
Renzo De Felice l’unico vero antagonista
interno di Mussolini. Nemmeno Edmondo Rossoni, il principale esponente del
sindacalismo fascista, sembra estraneo al razzismo: il giornale delle
corporazioni, da lui diretto, si chiama, non a caso, “La stirpe”. E del resto
non si tratta solo di singoli personaggi, ma di tutta una corrente razzista che
il fascismo eredita dal nazionalismo del primo Novecento e anche – qualcuno si
stupirà – da certi ambienti socialisti (Rossoni, come Mussolini, veniva dal
socialismo e, precisamente, dal sindacalismo rivoluzionario). Il problema, con
il quale occorre fare i conti, al di là delle comode rimozioni, è che la
politica e la cultura europea, e quindi la politica e la cultura italiana, tra
la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono largamente permeate dal
razzismo e dall’antisemitismo, che sono tipiche espressioni del nazionalismo
che fiorisce in quel periodo, ma sono anche correnti “trasversali” che
inquinano anche il socialismo. Ad esempio c’è un diffuso antisemitismo nel
socialismo e nel sindacalismo cristiano a Vienna, che è poi la città dove si
forma il giovane Hitler.
Purtroppo,
è ben più significativo ciò che accade dopo il 1938, dopo le leggi razziali.
Intanto, quale fu la reazione degli altri italiani alla discriminazione degli
ebrei? Questi italiani “brava gente”, che certo non espressero il minimo cenno
di protesta nei confronti di quei provvedimenti (non si poteva protestare, si
dice, perché si viveva sotto una dittatura, si correvano grandi rischi… ma su
questo ci torneremo) si affrettarono a manifestare almeno una personale,
privata solidarietà a quegli ebrei che tante volte erano i loro vicini di casa
o i loro compagni di banco o i loro colleghi di lavoro? A leggere le preziosi e
toccanti testimonianze raccolte in un libro, diffuso anche in edicola tempo fa,
e che si intitola significativamente La
shoah italiana, non si direbbe proprio. Molti che allora erano studenti, e
come dicevamo si trovarono cacciati dalle loro scuole da un giorno all’altro,
dovettero dolorosamente notare come i vecchi compagni di classe fingessero di
non conoscerli quando li incontravano per strada. Una ragazza, un giorno,
incontra il suo professore, il professore che – lei dice – “l’adorava”, perché
lei era “la prima della classe”. Gli corre incontro e gli fa: “professore,
avete visto che cosa ci hanno fatto?” E il professore, gelido: “Sì, ma
Mussolini ha sempre ragione…”.
Poi
arriva la guerra, poi l’armistizio, l’occupazione tedesca. Il 16 ottobre del
1943 c’è il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, i nazisti catturano e
deportano gran parte degli abitanti. Come si è detto, la Giornata della Memoria
ricorre nell’anniversario della agghiacciante scoperta del lager di Auschwitz.
Ci sono delle motivazioni in questa scelta che possono essere anche valide, ma
essa, come abbiamo visto, rischia anche di avvalorare certi stereotipi. Se si
fosse scelta la data del 16 ottobre questo rischio si sarebbe evitato, perché
quello che accadde il 16 ottobre del 1943 accadde a Roma, nel cuore di Roma.
Forse le scuole sarebbero state incoraggiate ad organizzare qualche visita in
più a Roma, al ghetto, dove si possono vedere ed ascoltare, dalla voce delle
bravissime guide ebree, molte cose importanti sulla shoa’ italiana, cose che demoliscono molti luoghi comuni e che
soprattutto ci fanno capire che la shoa’
non è una vicenda lontana da noi, ma ci riguarda direttamente.
Il
16 ottobre incomincia, appunto, la shoah italiana. Anche qui c’è una ricostruzione
di comodo: una parte dell’Italia era sotto l’occupazione nazista e furono i
tedeschi a catturare gli ebrei e a deportarli nei campi di concentramenti. Gli
italiani, al contrario, si impegnarono come poterono, per nascondere gli ebrei,
ne salvarono parecchi. Gli italiani, “brava gente”… Purtroppo, la storia non
andò così. Anzitutto, i nazisti, dopo
essersi occupati direttamente del rastrellamento del ghetto di Roma, nei mesi,
negli anni successivi, lasciarono questo compito ai fascisti italiani. I tedeschi
davano le direttive, ma erano gli italiani in camicia nera che facevano il
“lavoro sporco” e solitamente non lo facevano affatto malvolentieri, ma con
zelo, con accanimento. Questi, si dirà, erano i fascisti della prima o
dell’ultima ora, fanatici, invasati, criminali… una minoranza, in fondo, nella
popolazione italiana. Gli altri italiani non parteciparono a questo abominio e
quando poterono lo ostacolarono. Certamente, ci furono parecchi italiani che si
adoperarono, correndo anche seri rischi, per nascondere e salvare gli ebrei. Ma
dovremmo avere l’onesta di non contare e di non ricordare solo loro, ma di
contare e ricordare tutti quelli, e sono purtroppo molto numerosi, che fecero
la spia, che tradirono e denunciarono gli ebrei che conoscevano e li consegnarono
alla morte nei lager. Nel libro che ho prima citato vi sono tante testimonianze
di sopravvissuti: quasi sempre raccontano di come siano stati arrestati traditi
e venduti da qualche conoscente, da un vicino, dal loro fruttivendolo, dal
portiere del loro palazzo, da una persona di servizio... Venduti,
letteralmente, perché il governo di Salò mise una taglia sugli ebrei: per ogni
ebreo denunciato alle autorità si intascavano 5000 lire e purtroppo molti italiani
si adoperarono per intascare la taglia. Altri italiani denunciarono gli ebrei,
non per la taglia, ma per liberarsi di un rivale o un nemico personale, di un
concorrente, di un collega o di un dirigente scomodo o odioso. Anche in questo
caso, la memoria storica ha funzionato per lo più in modo molto parziale e
quindi deformante, accreditando lo stereotipo degli “italiani brava gente”. Un
film che in questi giorni viene continuamente trasmesso sui canali satellitari
– si intitola “Concorrenza sleale” – racconta di un commerciante di tessuti, italiano
ed “ariano” – che si rifiuta di denunciare il bottegaio vicino, sebbene lo
avesse francamente detestato fino a quel momento, accusandolo appunto di
“concorrenza sleale”. Non mi risulta che siano stati fatti film sui
commercianti italiani che, al contrario, denunciarono i loro concorrenti ebrei.
Sempre
in una certa rappresentazione di maniera, in un certo diffusissimo stereotipo
dell’italiano si vuole che gli italiani siano certo meno ordinati, meno
disciplinati, meno dotati di senso civico dei popoli del nord Europa, ma in
compenso siano dotati di più “umanità”, di un maggiore senso di solidarietà.
Questo stereotipo viene smentito, e purtroppo solo nella parte che sarebbe a
noi favorevole, da un altro libro uscito lo scorso anno e che racconta la vicenda
della deportazione degli ebrei in un paese del Nord Europa, la Danimarca. Anche
la Danimarca era sotto l’occupazione nazista, anche in Danimarca correva gravi
rischi chi fosse stato sorpreso ad aiutare un ebreo. Eppure i danesi si
comportarono un po’ meglio di noi, di noi italiani “brava gente”: sui 7000
ebrei che vivevano lì, soltanto 500 furono catturati dai nazisti e deportati.
6500, oltre il 90% si salvarono, perché furono protetti dai danesi.
Un
altro libro, uscito in queste settimane, cerca invece di collocare le cose
nella giusta prospettiva: si intitola significativamente I carnefici italiani. Storia del genocidio degli ebrei, 1943-1945.
Collocarsi nella giusta prospettiva significa capire che se la Shoah fu pianificata e diretta dai
nazisti e dalla Germania, essa poi si realizzò in gran parte d’Europa, Italia
compresa: nella comunità ebraica italiana furono eliminate quasi 9000 persone su un totale di 47000, circa il
19%. Un ebreo italiano su cinque venne quindi ucciso. E’ come se ad Avellino o
a Benevento fossero uccise 12000 persone, nello spazio di pochi mesi. Per
realizzare la Shoah fu necessaria la
collaborazione attiva delle popolazioni locali, in questo caso degli italiani.
Anzitutto, sarebbe bene ricordare che metà degli arresti di ebrei non furono
realizzati da tedeschi, ma direttamente da italiani. Poi occorre pensare a
tutta la macchina organizzativa che fu necessario allestire in tutta Europa,
Italia compresa: “fondamentale fu dunque la collaborazione di vasti settori
della società europea” – scrive Simon Levis Sullam, autore del libro appena
citato – dalle burocrazie all’economia, dai servizi alle infrastrutture, uomini
e donne delle più varie nazionalità – migliaia di cittadini comuni –
parteciparono alle operazioni di arresto, depredazione, deportazione,
sterminio”.
Come
italiani, dunque, dovremmo fare i conti con la shoa’, assumendoci le nostre responsabilità storiche, perché in
questa vicenda certamente non fu innocente il regime fascista, né si può dire
che esso si macchiò solo di peccati veniali o di colpe secondarie, ma non
furono innocenti neanche gli italiani, sebbene ovviamente si possano e si
debbano distinguere vari gradi di responsabilità. La rimozione è invece
incominciata subito. Non furono colpiti nemmeno i responsabili diretti del
genocidio, salvo ovviamente Mussolini e gli altri gerarchi fascisti fucilati
dai partigiani o coloro che furono colpiti da azioni di vendetta (Giovanni
Preziosi, mostrando almeno una certa coerenza, decise di mettere fine alla
propria esistenza, proprio il 25 aprile del 1945). Ma, a parte questi, fra
tutti coloro che avevano partecipato e collaborato alla politica antiebraica
italiana, dal 1938 al 1956, praticamente nessuno fu processato e scontò una
pena. Infatti, la rimozione delle responsabilità fu attuata anche per legge: va
qui ricordato il D.P.R. del 22 giugno 1946, meglio noto come amnistia Togliatti
– dal nome del suo autore, segretario e leader del PCI e a quel tempo Ministro
della Giustizia. Nella sua relazione, Togliatti scrisse che il provvedimento
doveva servire alla riconciliazione e alla pacificazione “di tutti i buoni
italiani”, offrendo così il suo personale contributo alla formazione del ben
noto stereotipo. L’amnistia, rileva Levis Sullam, fu estesa anche ai reati di
strage, saccheggio, devastazione, collaborazionismo coi nazisti. Fra i 13000
imputati – alcuni già condannati – dell’estate del 1946, ben 10000 furono
amnistiati, e fra questi alti gerarchi del regime, come Bottai e Federzoni. Dei
rimanenti, molti furono prosciolti sulla base di giudizi particolarmente
benevoli, altri ebbero pene molto lievi e godettero di ingiustificate
attenuanti. Del resto, la magistratura che li doveva giudicare era rimasta essa
stessa ingiudicata ed era la stessa del Ventennio.
E
c’è dell’altro. I responsabili della politica antiebraica in certi casi fecero
pure carriera: Carlo Alliney, capo gabinetto di Giovanni Preziosi
all’ispettorato per la razza e consulente del governo della RSI per la
legislazione razziale, divenne prima procuratore generale a Palermo e poi
giudice di Cassazione. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale per la razza
dal 1938 al 1943, negli anni Cinquanta divenne presidente della Corte
Costituzionale.
Infine,
la rimozione e la generale autoassoluzione ha usato la stessa Giornata della
Memoria: nella legge che l’ha istituita si citano le vittime della carneficina,
ma non si parla dei loro carnefici. Si parla solo, genericamente, di una
“persecuzione italiana”. E’ molto strano che vi siano vittime di un eccidio e
non vi siano carnefici! Non si parla dei carnefici, ma si parla invece
espressamente dei “salvatori” e dei “giusti”, di quegli italiani che si
prodigarono per proteggere gli ebrei. E da alcuni anni, la celebrazione di
questi salvatori, di questi “soccorritori” ha trovato vasta eco sui mass media,
basti pensare alla figura di Giorgio Perlasca, e ciò purtroppo è servito ad
occultare la memoria di quegli altri italiani, che invece collaborarono allo
sterminio. E va anche detto che qualcuna delle figure celebrate è quantomeno
controversa, come nel caso di Palatucci.
E
così la giornata della Memoria è diventata l’occasione per rendere omaggio alle
vittime, per celebrare i loro salvatori e per dimenticare i carnefici. Tutto
ciò, evidentemente, impedisce che la ricorrenza sia quello che dovrebbe essere:
l’occasione per una assunzione di responsabilità.
Se
poi leggiamo la cosa in una prospettiva storica più ampia, come è necessario
fare, dobbiamo riconoscere che non solo abbiamo delle responsabilità e non
siamo innocenti come italiani, ma soprattutto abbiamo delle responsabilità e non
siamo innocenti come cristiani. L’antisemitismo contemporaneo, che culmina nel
genocidio nazista, ha infatti il suo retroterra storico nell’antigiudaismo che
la chiesa cristiana ha inventato, elaborato, propagandato e praticato per
secoli. Quando si parla della shoah vengono
in mente cose come la stella di Davide gialla usata come segno di riconoscimento
per gli ebrei; vengono in mente i ghetti, quello di Roma appena citato, quello
di Varsavia, dove sono ambientate le storie di alcuni film; magari vengono in
mente anche i manifesti di propaganda, con le caricature che raffigurano
l’ebreo col naso grosso, lo sguardo rapace, le mani adunche, e le accuse negli
aritcoli di giornale e nei comizi con le descrizioni stereotipate del presunto
carattere ebraico: l’ebreo avaro, avido, lussurioso, e così via. Ebbene,
nessuna di queste cose fu inventata dai nazisti, i nazisti utilizzarono i
materiali e le simbologie che nei secoli precedenti erano stati costruiti dalla
chiesa. Nel IV Concilio lateranense, anno 1215, si deplorò il fatto che gli
ebrei non portassero alcun segno che consentisse di distinguerli dal resto
della popolazione, sicché, cito testualmente “succede talvolta che, per errore,
dei cristiani si uniscano a donne giudee, o dei giudei a donne cristiane”. Per
evitare “unioni tanto riprovevoli”, continua il documento, si stabilì che gli
ebrei dovessero portare nell’abito un chiaro segno di riconoscimento. Nel 1555,
poi, il papa Paolo IV, al secolo cardinale Giampietro Carafa, di famiglia
napoletana e nato, ahimè, a Capriglia Irpina, promotore del Santo Offizio
dell’Inquisizione, notò – cito dalla bolla papale Cum nimis absurdum – che gli ebrei di Roma erano giunti “a tale
livello di insolenza da presumere di poter coabitare mescolati ai cristiani e
vicini alle loro chiese”, quegli ebrei “condannati per loro colpa alla
schiavitù eterna”. Ed allora istituì il ghetto, uno dei primi in Europa, costruito proprio a Roma e per volontà di un
papa. Si potrebbe pensare che questi errori ed orrori appartengano a un remoto
passato, ai cosiddetti “secoli bui”. Ma, a parte il fatto che con Paolo IV
siamo in pieno Rinascimento, non è affatto così. Nel 1893, al culmine
dell’epoca del positivismo, che celebra l’idea di progresso e il primato della
civile Europa moderna, con il trionfo della ragione, della scienza e della
tecnica, Civiltà cattolica, la
rivista dei gesuiti, in fondo l’elite culturale della chiesa cattolica,
riprende in alcuni articoli l’infame leggenda dell’omicidio rituale che sarebbe
perpetrato dagli ebrei. Per secoli si era accreditata la diceria secondo cui
gli ebrei, per celebrare la loro Pasqua, usassero uccidere un neonato cristiano
ed usarne il sangue per impastare il pane azzimo. Ebbene la Civiltà cattolica, nel 1893 non nei “secoli
bui” medioevali, afferma riferendosi alla grande diffusione di questa
tristissima fandonia, che “una così universale persuasione deve avere un
fondamento”!
E
veniamo così all’atteggiamento della chiesa cattolica negli anni in cui il
nazismo organizzava lo sterminio. E’ ben nota la polemica sulle responsabilità
e sulle omissioni del papa del tempo che era Pio XII. Del suo predecessore, Pio
XI, si sa che prima di morire stava preparando un’enciclica di dura condanna
del nazismo per la persecuzione antiebraica e che si apprestava anche a tenere
un discorso nel quale avrebbe condannato la stessa politica razziale del
fascismo. Si sa pure che Pio XII, una volta salito sulla cattedra di San
Pietro, non pubblicò né l’enciclica, né il discorso. Quello che invece non
viene quasi mai ricordato è che è vero che Pio XI condannava la politica della
razza, ma d’altra parte ribadiva il tradizionale antigiudaismo su base
religiosa. Poco prima di morire aveva scritto che gli ebrei erano “un
malaugurato popolo, che è affondato da solo nella disgrazia, i cui capi
accecati hanno chiamato sulle proprie teste la maledizione divina”.
Padre
Agostino Gemelli, che tra l’altro scriveva anche sulla rivista La difesa della razza, in quegli stessi
giorni, precisamente il 9 gennaio del 1939, tiene una conferenza all’università di Bologna,
sottolineando la tragica e dolorosa condizione degli ebrei italiani, che in
seguito alle leggi razziali, non potevano far parte “e per il loro sangue, e
per la loro religione di questa magnifica patria”. Ma in questa tragica
condizione, prosege, “noi vediamo, una volta di più come molte altre nei
secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su
di sé […] e le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in
ogni tempo”. Parole che fanno davvero rabbrividire.
Il
Concilio Vaticano II ha certamente rappresentato una svolta e messo fine a
questa storia vergognosa, deplorando nella dichiarazione che si intitola Nostra aetate, tutte le manifestazioni
antisemite. Spesso, però, i lodatori del Vaticano II mancano di ricordare come
in quella stessa dichiarazione si afferma ancora che è la chiesa “il nuovo
popolo di Dio” e gli ebrei non sono definiti pur essi popolo di Dio, ma
semplicemente, si dice, non devono essere presentati come “rigettati da Dio” e
“maledetti”.
Oggi
in molte scuole la giornata della Memoria viene organizzata dagli insegnanti di
religione cattolica. La cosa, lo confesso, un po’ mi sorprende, ma non entro
nelle scelte e nelle sensibilità altrui, e capisco che alcuni intenderanno così
rimarcare il pentimento della loro chiesa per gli errori e gli orrori del
passato. Mi limito a dire che, se fossi a mia volta cattolico, sceglierei forse
di passare questa giornata soltanto in silenzio e in preghiera.
Le
altre confessioni cristiane, peraltro, non sono certo esenti da colpe. Lutero
che inizialmente aveva mostrato una
certa comprensione per gli ebrei, magari solo per polemizzare con il papato, e
soprattutto aveva sperato nella loro conversione, in vecchiaia scrisse un
tristissimo libello – Degli ebrei e delle
loro menzogne - nel quale esortava i principi tedeschi a cacciare gli ebrei
e a bruciare le sinagoghe e delineava, usando purtroppo tutta l’efficacia della
sua parola, un tremendo stereotipo negativo dell’ebreo. Così, l’ebreo non era
un Deutscher, un tedesco, ma un Teutscher, un impostore; non un Welscher, uno straniero, ma un Felscher, un falsario; non un Bürger, un
cittadino, ma un Würger, uno strozzino. I motivi, non superficiali, ma
teologici dell’antigiudaismo di Lutero sono stati ricordati, come l’influenza
che questo antigiudaismo ha esercitato per lungo tempo sulla cultura e sulla
filosofia tedesca, nel fondamentale e recentissimo libro di Donatella Di Cesara
(Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri”).
Un
po’ diversa appare, invece, la situazione nell’altra corrente protestante,
quella delle chiese riformate, nate dall’opera di Calvino, Zwingli e Bucero.
Queste ebbero subito un atteggiamento molto più tollerante nei confronti degli
ebrei, anzi manifestarono quasi un “filo ebraismo” e l’Olanda riformata, nel
‘600, fu il primo paese del mondo a concedere agli ebrei la libertà religiosa.
Ma da cosa dipende questa differenza? Non è che i protestanti riformati fossero
“buoni” e i cattolici o i luterani “cattivi”. Il motivo, anche qui, è
teologico: mentre la chiesa cattolica e quella luterana ponevano una radicale
differenza fra l’Antico e il Nuovo Testamento, la Legge e il Vangelo, il Patto
stretto da Dio con il popolo ebraico e la nuova alleanza che si realizza grazie
a Gesù, Calvino, invece, riteneva che vi fosse un unico Patto che aveva assunto
storicamente due forme diverse e successive. Questo spinse le chiese riformate
a valorizzare l’Antico Testamento, che è innanzitutto – non bisogna
dimenticarlo – il libro sacro degli ebrei e che narra la vicenda di Dio,
dell’unico Dio, con il popolo di Israele. Fin dal XVI secolo si sono quindi
cominciati ad utilizzare i passi dell’Antico Testamento nella liturgia delle
chiese riformate e questi passi, come in tutti i paesi della Riforma, erano
letti nelle varie lingue volgari. Nella chiesa cattolica, invece, fino agli
anni Sessanta del Novecento, fino al Concilio Vaticano II, la liturgia è in
latino e l’Antico Testamento è quasi assente dalle letture domenicali e dalla
predicazione. Allora la differenza vera
e decisiva non è tra bontà e malvagità, ma tra conoscenza e ignoranza: la
conoscenza delle Scritture ebraiche, e quindi anche della storia e della
cultura di Israele, favorisce l’apertura e la tolleranza nei confronti del
popolo ebraico, mentre l’ignoranza, come sempre, genera pregiudizi, fanatismo,
ostilità.
In
Italia gli ebrei si sono trovati accomunati e spesso affratellati all’altra
storica minoranza religiosa, vittima pur essa di persecuzioni violente e
tentativi di genocidio: si tratta dei Valdesi, una comunità che ha origini
medioevali, ma che nel Cinquecento è divenuta una chiesa protestante riformata.
Si racconta l’aneddoto di un professore della Facoltà Valdese di Teologia, il
quale, da ragazzo, quando dal paese di origine, in una della valli alpine dove
è forte la presenza valdese, scese a Torino per frequentare l’università, si
sentì così apostrofare dalla madre “Adesso te ne vai in città e sicuramente te
ne torni con qualche ragazza che vorrai poi sposare: ma non portarmela
cattolica! Se non è valdese, che sia almeno ebrea!”. Un pregiudizio al
contrario, insomma! I pregiudizi sono sempre negativi, e, tuttavia, c’è una
differenza fra i pregiudizi dei persecutori e i pregiudizi dei perseguitati. In
questo caso, si tratta del pregiudizio dei perseguitati e quindi ci turba di
meno e ci fa persino sorridere. Dobbiamo comunque liberarci da tutti i
pregiudizi, questo è ovvio, dobbiamo coltivare da un lato il pentimento e dall’altro
il perdono e favorire la riconciliazione, ma questo non vuol dire che si debba
anche dimenticare chi sono stati storicamente i persecutori e chi siano stati i
perseguitati: non si deve dimenticare e non si deve far confusione. La Tavola
Valdese e il Sinodo, purtroppo, pur restando distanti dal fascismo, non ritennero
di dover fare alcuna esplicita dichiarazione di condanna per la politica
antisemita del regime, neanche quando se ne ebbe l’occasione, nei giorni del
settembre 1943, a cavallo dell’armistizio e alla vigilia dell’inizio della Shoah italiana. Tuttavia, tra coloro che
nei mesi successivi si adoperarono veramente per proteggere gli ebrei vi furono
certamente i Valdesi delle Valli alpine: a Rorà, un intero paese – un paese che
peraltro era stato secoli prima roccaforte della resistenza valdese contro le
persecuzioni scatenate dai Savoia – divenne un rifugio di ebrei: ogni famiglia
valdese nascose una famiglia ebrea, salvandola.
Questi
cenni sommari al retroterra storico su cui si innesta la shoah pongono un serissimo problema: quando andiamo a sottolineare
le radici e le premesse dell’antisemitismo contemporaneo che poi culmina nello
sterminio nazista, rischiamo di relativizzare quest’ultimo, sicché rischiamo di
perdere di vista le sue caratteristiche di male radicale, incommensurabile e
che deve suscitare in noi un orrore assoluto. Se però prescindiamo da quel
retroterra storico rischiamo di trasformare la shoah in un fenomeno unico e quindi irripetibile, siamo indotti ad
abbassare la guardia rispetto al rischio che esso si possa ripresentare e
soprattutto eludiamo la questione delle nostre responsabilità. Siamo quindi
costretti a muoverci tra questi due rischi opposti, come tra Scilla e Cariddi.
Con un difficile equilibrio dobbiamo tener conto sia degli elementi di
continuità, sia delle differenze. A livello di continuità abbiamo visto come i
nazisti utilizzino i pregiudizi, gli stereotipi, i materiali simbolici
costruiti per secoli dall’antigiudaismo cristiano. A livello delle differenze
dobbiamo sottolineare quella tra l’antigiudaismo cristiano (e anche pagano,
perché il fenomeno riguardò anche il mondo antico, sia pure in modo differente)
e l’antisemitismo contemporaneo: l’antigiudaismo è l’avversione, non agli ebrei
come “razza” o come gruppo socio-culturale, ma come comunità religiosa.
L’antisemitismo è invece l’ostilità all’ebreo come appartenente a un
determinato ceppo etnico ed è dunque vero e proprio “razzismo”. Questa
differenza implica una conseguenza che non è certo di poco conto: in secoli e
secoli di persecuzioni antigiudaiche si erano anche verificati stragi e
massacri di ebrei – come quelli in occasione della prima crociata o durante la
peste del Trecento – ma non si era mai giunti a progettare lo sterminio totale
del popolo ebraico, la cosiddetta “soluzione finale”, secondo l’inquietante
espressione coniata dai nazisti. L’antigiudaismo, infatti, non mira alla
eliminazione dell’ebreo, ma alla sua conversione. Anzi, l’antigiudaismo prevede
la sopravvivenza di una certa quota di ebrei, di un nucleo di giudei
irriducibili, ma ciò, purtroppo, non per spirito di tolleranza, ma per quella
concezione del “popolo testimone”, che risale ad Agostino e che poi è stata
ripresa e riformulata numerose volte all’interno della chiesa. “Popolo testimone”
significa che la stessa esistenza storica degli ebrei, le loro disgrazie, il
loro andare raminghi per il mondo, testimonierebbe della loro presunta
iniquità, del loro errore, della loro cecità e della conseguente maledizione
divina. E testimoniando questo, indirettamente gli ebrei attesterebbero la
verità della chiesa; smascherando se stessi come popolo rinnegato da Dio,
testimonierebbero la chiesa come vero Israele, come vero popolo di Dio. In
quest’ottica si riteneva necessario che Israele continuasse ad esistere ,e non
se ne voleva la totale distruzione, ma doveva esistere in condizioni marginali
e di inferiorità, a propria vergogna e in modo che fosse immediatamente
riconoscibile rispetto al resto della popolazione (da qui i segni di
riconoscimento). Scriverà papa Innocenzo III nella sua bolla del 17 gennaio
1206: “Dio ha fatto di Caino un errante e un fuggiasco. Ma l’ha segnato
affinché non venga ucciso. Così gli ebrei, contro i quali il sangue di Cristo grida
vendetta, anche se non devono essere uccisi, affinché il popolo cristiano non
dimentichi la legge divina, devono restare gli erranti sulla terra, finché il
loro volto sia coperto di vergogna e cerchino Gesù Cristo, il Signore”.
L’antigiudaismo
della chiesa fornisce quindi ai nazisti il materiale simbolico della
persecuzione antiebraica e questo è l’elemento di continuità che chiama in
causa le responsabilità del cristianesimo. Hitler, su questa base materiale e
storica, costruirà l’idea follemente criminale dello sterminio sistematico e
scientifico, del genocidio, dell’eliminazione di tutto il popolo ebraico. E
questo è l’elemento di differenza che deve indurci a guardare alla shoah come a un male assoluto, al di là
di ogni doverosa storicizzazione del fenomeno.
La
memoria della shoah deve quindi
chiamarci in causa, deve porci di fronte alle nostre responsabilità storiche e
collettive, di italiani e di cristiani. Immagino l’obiezione che si presenta
nella testa di molti: “d’accordo, ma non siamo noi quegli italiani e quei cristiani
che hanno contribuito, attivamente o passivamente, direttamente o
indirettamente, a quel crimine. Noi non eravamo neppure nati!”
Questa
obiezione è comprensibile e legittima, in quanto è figlia, in fondo, di quel
principio della responsabilità individuale e personale che è una importante e
anche preziosa conquista dell’epoca moderna. Io sono chiamato a rispondere
soltanto di ciò di cui sono personalmente responsabile e ciò non solo individua
un cardine dello stato di diritto, ma implica pure che io sia riconosciuto come
persona, che siano riconosciuti il mio libero arbitrio e la mia libertà
personale. Tuttavia, in certi casi e quello di cui parliamo oggi è forse uno di
questi casi, sarebbe bene non opporre, ma almeno associare al principio moderno
della responsabilità individuale quello ben più antico della responsabilità
collettiva. Un principio ben noto al mondo classico, ma che troviamo
chiaramente espresso e applicato anche nell’Antico Testamento, ossia proprio
nel libro sacro condiviso da ebrei e cristiani. Chi conosce l’Antico Testamento
sa che l’iniquità di alcuni, di pochi e persino di uno solo si ripercuote
spesso su tutto il popolo di Israele, attira su Israele il castigo divino e
persino la rovina. Se ragioniamo soltanto con la categoria moderna della
responsabilità personale e individuale troviamo tutto ciò insensato ed anzi
profondamente ingiusto. Ma proviamo a collocarci nell’altra ottica. Il
ragionamento, allora, è quest’altro: se in una comunità qualcuno – fosse pure
una piccola minoranza - commette un grave, esecrabile delitto, un’azione
nefanda e se quella di cui stiamo parlando è davvero una comunità e non un
aggregato di individui, famiglie e gruppi estranei gli uni agli altri, allora
tutti i membri di quella comunità si devono sentire interpellati, chiamati in
causa e di fronte a quel crimine di cui pure non sono direttamente autori
devono chiedersi che cosa hanno fatto e anche e soprattutto che cosa non hanno
fatto, devono chiedersi come hanno contribuito anche loro con la loro condotta
quotidiana, con le loro opere e le loro omissioni, a creare le condizioni per perché quel crimine avvenisse. Perché, nella
logica della responsabilità collettiva, è tutta la comunità che viene
macchiata, lesa, compromessa dall’azione nefanda di pochi. E quindi anche le generazioni
che vengono dopo devono porsi il problema e sentirsi responsabili perché
nascono in una comunità che ha perduto la sua integrità: ciò non è avvenuto per
loro colpa, non è avvenuto per nostra colpa, ma sarebbe una nostra colpa non
prendere atto del problema e non dare il nostro contributo al risanamento della
comunità di cui siamo parte.
A
Gerusalemme, nell’area del museo di Yad Vashem, dedicato alla memoria della shoah , c’è un giardino con tanti
alberi. E’ chiamato Giardino dei giusti, perché
ognuno di quegli alberi porta un’iscrizione con un nome ed è dedicato ad uno
degli uomini giusti, di quegli uomini e quelle donne, non ebrei, che si
prodigarono per salvare gli ebrei dalla morte nei campi di concentramento. Comportarsi
da uomini giusti è certamente difficile: sotto un regime totalitario comporta
gravissimi pericoli, ma anche ai nostri tempi è complicato e non solo perché
tante volte significa mettere in secondo piano i propri interessi egoistici ma
soprattutto perché un dubbio ci assale ogni volta che ci proponiamo di
comportarci da uomini giusti: “Sì va bene” diciamo a noi stessi, “se faccio questa cosa e non faccio
quell’altra, starò pure in pace con la mia coscienza, ma dopotutto che cosa
cambierà? Che cosa cambierà concretamente, visto che tanti altri, un’immensa
maggioranza continueranno tranquillamente a rubare, a truffare, a inquinare, a
esercitare violenza e prepotenza?” E’ la riflessione elementare che correva sulla
bocca di un contadino di una terra dove forse si sta consumando un nuovo
genocidio, un genocidio e un ecocidio, la terra che chiamano “terra dei
fuochi”. Questo contadino, in cambio di denaro, aveva lasciato interrare dei
veleni nel suo terreno e all’intervistatore diceva: “se non l’avessi fatto io,
l’avrebbe fatto certamente il mio vicino, avremmo avuto ugualmente questi
rifiuti tossici qui sotto e i soldi se li sarebbe presi lui”.
Ci
chiediamo: è possibile un altro punto di vista? Sì, c’è, e anche stavolta lo
troviamo nel libro che condividiamo con gli ebrei. Nella Bibbia si racconta la
storia di Sodoma e Gomorra, due città dominate dalla peggiore corruzione ed
empietà. Dio decide perciò di distruggerle, ma Abramo insinua un dubbio nella
mente del Signore: “e se a Sodoma ci fossero cinquanta giusti, faresti perire
quei giusti insieme agli empi”. E Dio si
convince di ciò che dice Abramo e alla fine gli promette che se a Sodoma si
troveranno anche soltanto dieci giusti tutta la città sarà risparmiata. A
Sodoma, i dieci giusti non c’erano e quindi fu distrutta, ma il punto è un
altro: su quale principio di giustizia si basa qui la promessa divina? Se ci
pensate bene questa promessa è piuttosto sconcertante, perché noi ci saremmo
aspettati che Dio dicesse: “se si troveranno dieci giusti li salverò e farò
morire tutti gli altri”. Perché invece la presenza di dieci giusti dovrebbe
rendere tutta la città meritevole di salvezza? Perché dopo aver deciso di
castigarli, Dio dovrebbe salvare gli empi per un merito che non è loro? Quale è
la logica, quale è questo punto di vista che non ci è familiare, ma che
potrebbe essere assai importante considerare? Si tratta di questo: se in una
comunità si trova anche una piccola minoranza di giusti, dato che il giusto di
solito è uno che, come si dice, non si fa i fatti suoi, non volta il capo
dall’altra parte, non attacca il ciuccio dove vuole il padrone, allora questa
minoranza può essere capace di incidere positivamente sui malvagi e sulla
comunità tutta! E’ un punto di vista, quello che ci suggerisce il racconto
biblico, che io credo valga proprio la pena di adottare se vogliamo cercare di
migliorare un poco questo mondo o, quantomeno, di non peggiorarlo ulteriormente.