martedì 27 gennaio 2015

L'EROICO GESTO RIVOLUZIONARIO DEL VALOROSO COMPAGNO TSIPRAS

Tsipras ha formato il suo governo: i dicasteri economici - a cominciare da quello delle Finanze - vanno ad economisti rigorosamente pro-euro. Certo, sono anche - a parole - anti-austerità, ma voglio dirlo per l'ennesima volta con pochissime parole e nel modo più semplice: un paese che deve recuperare competitività sui mercati, che deve "stimolare la crescita", che deve uscire dalla recessione e/o che ha un alto debito pubblico (magari un debito privato trasformato in debito pubblico...)  ha una strada maestra, da quando esistono il capitalismo e il mercato globale (e finchè esisteranno): svalutare la propria moneta. Se questo non lo può fare, perchè c'è un sistema di cambi fissi - come il vecchio SME - oppure una moneta unica - come l'Euro - allora gli resta solo una possibilità: svalutare il reddito dei cittadini, con il taglio di salari e pensioni, la liquidazione dello stato sociale, i licenziamenti di massa, ecc.. Dunque l'austerità non è una politica "sbagliata", è l'unica politica possibile nel sistema dell'euro. E l'Euro è stato scientificamente programmato per produrre questa politica. Dunque, gli economisti e i leader politici che sostengono di volere l'euro, ma senza l'austerità o sono incompetenti o sono dei demagoghi.
Con i ministri economici che ha scelto, Tsipras ha già di fatto annunciato l'irrealizzabilità del suo ambizioso programma.
Certo, anche se il gioco resta a somma zero, potrebbe sempre redistribuire almeno in minima parte i sacrifici, ovvero varare qualche provvedimento un poco più sostanzioso degli ottanta euro di Renzi. Ad esempio, potrebbe ridurre un poco le spese militari che, in un paese al collasso, con metà della popolazione sotto la soglia di povertà, incidono ancora per una percentuale elevatissima del PIL rispetto a ogni altro paese europeo.
Sapete, però, quale è l'unico Ministero affidato agli alleati di destra? La Difesa! Dunque le spese militari rischiano di aumentare ancora! Del resto, Tsipras, a differenza di parecchi suoi fans, specie italiani, è tutt'altro che stupido e sa che in Grecia i colonnelli sono sempre dietro l'angolo.
Ora, mi chiedo: è un governo di svolta, è un governo rivoluzionario, quello che è nato? E' un terremoto o almeno un forte segnale positivo questa vittoria di Syriza? I mercati, che valutano le cose senza lo schermo dell'ideologia e con una buona dose di cinismo, non hanno subito alcun contraccolpo: non c'è stata la "frana" annunciata e temuta. I mercati non credono a Tsipras, non lo prendono sul serio. 
Ma forse i mercati non si sono accorti che "una cosa di sinistra", il nuovo premier greco, in verità, l'ha già fatta. Anzi ha fatto davvero una cosa quasi rivoluzionaria, ha lanciato un chiaro segnale di rottura. Strano che non se ne siano accorti, perchè il gesto è stato enfatizzato da tutti i mass-media. Tsipras ha giurato senza cravatta.

lunedì 26 gennaio 2015

LE NOSTRE RESPONSABILITA': UNA "GIORNATA DELLA MEMORIA" OLTRE LA RETORICA E LE RIMOZIONI



Ormai ogni anno, mentre fervono i preparativi nelle scuole e ai vertici delle istituzioni per l’organizzazione della “Giornata della Memoria”, si registrano interventi critici su questa ricorrenza da parte di esponenti della comunità ebraica italiana. Nei giorni scorsi, Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, ha espresso un giudizio molto severo sulla “Giornata della Memoria”: essa, ha scritto rav Laras, “è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale”; la ricorrenza è “azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente”. Vedremo, poi, i motivi di questa sconsolata denuncia. L’anno scorso fu invece pubblicato un libro di Elena Loewenthal, una scrittrice italiana ed ebrea, che si intitolava addirittura Contro il giorno della memoria. La Loewenthal scriveva: il giorno della Memoria è figlio delle istituzioni che lo hanno ideato ed è un figlio che assomiglia in tutto ai genitori, in quanto è noioso, è ricattatorio, è retorico, cerca lo spettacolo, bada all’”immagine”.
Devo confessare che pure io condivido, purtroppo, l’idea che questa celebrazione si sia ridotta molto spesso a una vuota liturgia e che sia ben lontana dal raggiungere l’obiettivo per cui è stata istituita: sradicare definitivamente ogni residuo pregiudizio antigiudaico o prevenirne un nuovo sviluppo, attraverso la conoscenza e la memoria dell’orrore accaduto alcuni decenni orsono.
Ad avvalorare questo triste convincimento ci sono mille elementi. Mi limito a citare l’ultimo drammatico episodio. I recentissimi attentati di Parigi si sono ormai sedimentati nella memoria collettiva come il barbaro omicidio di alcuni giornalisti, a causa di certe vignette ritenute “offensive” da un gruppo di integralisti islamici. Naturalmente, è molto positivo che venga rilevato e ricordato il gravissimo significato, anche simbolico, di questo atto criminale – è stata, infatti, colpita una delle libertà fondamentali dell’Occidente moderno e proprio in uno dei luoghi che più e meglio incarnano la nascita e la formazione di quelle libertà. Mi pare, tuttavia, che l’altro attentato, certamente non meno barbaro,  passi, invece, in secondo piano. Se provate a chiedere a un passante che cosa è successo a Parigi qualche settimana fa, vi risponderà che sono stati uccisi i giornalisti di Charlie Hebdo, ma non è così scontato che si ricordi anche delle vittime del supermercato. E quando si è parlato e si parla di queste altre vittime, non sempre si sottolinea il fatto che si trattava di ebrei e che sono stati uccisi solo perché erano ebrei, da qualcuno che ha così voluto stabilire un legame del tutto illogico e anzi delirante fra la reazione inaccettabile a una presunta offesa e l’eccidio di cittadini ebrei che evidentemente nulla avevano a che fare con quel giornale e con quelle vignette. Una delirante associazione che rievoca, però, in modo inquietante certe vicende storiche che credevamo ormai sepolte: si partiva per la crociata, per “liberare” la Terra Santa dagli “infedeli” musulmani e, nel corso del viaggio, ci si fermava in ogni città ove vi fosse una comunità ebraica e si massacravano gli ebrei, sebbene essi non avessero niente a che vedere con gli obiettivi della crociata. Scoppiava la peste e ugualmente si colpivano gli ebrei, sospettati senza il minimo indizio, di diffondere il contagio. E si potrebbe continuare.
Ma non atterrisce solo il massacro compiuto nell’ipermercato, peraltro preceduto in Francia da altri attacchi a luoghi ebraici, ma anche l’indifferenza o almeno la scarsa attenzione e sensibilità di tanta parte dell’opinione pubblica: tantissimi hanno manifestato, per strada o via web, con il motto “je suis Charlie”, ma pochissimi, quasi nessuno, quando poi si è verificata la strage degli ebrei, ha aggiunto “je suis Juif”. Lo ha rilevato, tra gli altri, rav Carucci, preside delle scuole ebraiche di Roma.  Pare, quindi, che quando si tratta degli ebrei – o dello stato e del governo di Israele - si continuino ad adottare “due pesi e due misure”, quello che gli anglosassoni chiamano double standard. E secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani, il double standard è un sintomo, è un indicatore di pregiudizi razziali.
Eppure, la giornata della Memoria pare così sentita, così partecipata, suscita tanta commozione…Come si spiega questa contraddizione? Non vorrei che avesse ragione, anche in questo caso, il rabbino Laras, quando scrive che “a una certa politica e a una certa cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi”.
Non si tratta, evidentemente, di abolire la Giornata della Memoria: sarebbe un terribile segno di sconfitta. Si tratta, invece, di celebrarla diversamente e di renderla più efficace, meno rituale, meno retorica.
Mi sforzerò, per quanto mi riesce, di dare un contributo in tal senso.

Certo, il motivo che ha portato a istituire questa celebrazione non si può non condividere: dobbiamo impegnarci affinché quel crimine, quell’orrore non si verifichi mai più. E perché questo mai più si avveri noi dobbiamo conservare e coltivare la memoria. “Coloro che non ricordano la propria storia”, è stato scritto nel campo di sterminio di Auschwitz, “sono condannati a riviverla”. Questo è vero, ma è solo una parte della verità. E una mezza verità non è altro che una mezza menzogna e non è meno pericolosa di una palese bugia, anzi spesso è ancora più pericolosa, proprio perché è una mezza bugia che veste i panni della verità sacrosanta.
Qual è, allora, quell’altra parte della verità che non viene esplicitata? E’ che la memoria non è affatto “neutra” e, pertanto, la memoria può essere anche deformata, manipolata e strumentalizzata; la memoria può anche ingannare, può generare equivoci, può alimentare essa stessa luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi che poi agiscono in modo rovinoso.
In sostanza, tutto dipende dall’uso che si fa della memoria storica, da chi la gestisce e dalla consapevolezza che hanno di questo uso e di questa gestione i soggetti – ad esempio,gli studenti, i giovani– che poi ne diventano destinatari.
Pensate solo a questo: alla persecuzione antiebraica contribuì certamente anche un uso distorto e strumentale della memoria storica. Si erano inventate tutta una serie di menzogne e di leggende storiche intorno agli ebrei, a partire dall’uccisione di Cristo ad andare avanti fino al presunto complotto giudaico-massonico dell’età moderna. Anche il disastro tedesco nella prima guerra mondiale venne attribuito dai nazionalisti tedeschi a questo fantomatico complotto o comunque all’opera disgregatrice dello spirito patriottico che gli ebrei avrebbero svolto.
Si dirà: è naturale che un regime totalitario faccia un cattivo uso, un uso strumentale, ideologico e manipolatorio della memoria. Ma noi, oggi, non siamo sotto un regime totalitario, per fortuna,  viviamo in democrazia e dunque dovremmo essere al riparo da questo rischio. O, almeno, il rischio può anche esserci ma quando si tratta di argomenti che hanno diretta attinenza con l’attualità politica e quando essi sono gestiti da chi ha un interesse di parte. Qui invece si tratta di rievocare una pagina di storia, qui non ci sono interessi politici e divisioni di parte, perché siamo tutti dalla stessa parte, tutti proviamo orrore per ciò che accadde e vogliamo sinceramente che non accada più, qui non ci sono “politici”, ci sono insegnanti, presidi, studenti…
Purtroppo, le cose sono meno semplici e meno tranquillizzanti. Anche la Giornata della Memoria può contribuire, infatti, a veicolare equivoci e pregiudizi, anche nella Giornata della Memoria possono infiltrarsi i cattivi usi della memoria storica.
Lo mostra proprio Elena Loewenthal, nel suo libro. Quando si pensa alla Shoah, spesso si pensa pure che oggi gli ebrei, per fortuna, hanno almeno una garanzia in più contro discriminazioni e persecuzioni: lo Stato di Israele che è nato proprio dopo la tragedia, lo Stato di Israele che è nato proprio in seguito a quella tragedia. In tal modo, si stabilisce una consequenzialità che è storicamente infondata e che è tutt’altro che innocente, perché si presta precisamente a usi politici di parte. Infatti, ricorda la Loewenthal, il mandato britannico sulla Palestina doveva terminare nel 1938: il pericolo nazista e poi la guerra lo hanno prolungato di circa dieci anni e hanno ritardato di altrettanti anni la costituzione dello Stato ebraico. Lo sterminio ha poi sottratto enormi risorse, umane e materiali, al futuro Stato. Israele, dunque, non è nato grazie alla Shoah, o meglio alla commozione suscitata dalla Shoah; Israele è nato malgrado la Shoah. Ma questa distorsione della memoria storica, come dicevo, non è affatto innocente. Alimenta, infatti, talune convinzioni, piuttosto pericolose. La prima è quella secondo cui gli ebrei sarebbero stati in qualche modo e almeno in parte “risarciti” dall’Europa che aveva perpetrato lo sterminio, quando questa stessa Europa ha consentito la nascita di Israele. Questa convinzione è pericolosa in primo luogo perché stabilisce una comparazione fra la colpa immane e orribile della shoah e la nascita dello Stato di Israele, come se quello che è accaduto potesse essere sia pure in minima parte risarcito o riparato. Occorre, invece, affermare con forza, dice giustamente la Loewenthal, che la Shoah è imperdonabile e che non ci può essere nessun risarcimento. In secondo luogo, questa falsa consequenzialità storica alimenta gli attacchi contro Israele, che spesso diventano attacchi contro gli ebrei tout court e suscitano il sospetto di un latente e perdurante pregiudizio antisemita: gli ebrei sono accusati di usare la memoria della Shoah in modo “ricattatorio”, come una sorta di “grimaldello” che servirebbe a inculcare sensi di colpa al mondo intero, in modo da poter poi operare liberamente, ingiustamente, cinicamente per i loro interessi, ai danni, ad esempio, del popolo palestinese. Oltre all’uso strumentalmente politico di questa falsa consequenzialità storica, su cui non mi soffermo in questa sede, vi è un’altra implicazione che riguarda direttamente la celebrazione di questa Giornata e si ripercuote su essa con effetti dirompenti. Se si insinua che gli ebrei “usino” la memoria della Shoah, si sottintende che la Shoah è cosa che riguarda essenzialmente gli ebrei. Questa implicazione è davvero funesta. Anzitutto, essa è falsa anche sul piano della fattualità storica, perché la deportazione, come è noto, coinvolse anche altre categorie di persone, oltre agli ebrei. Poi, è pressoché indecente sul piano etico, perché con essa si ridimensiona la Shoah a crimine contro gli ebrei e non la si riconosce, come invece hanno fatto gli stessi tribunali che hanno processato i criminali nazisti, come crimine contro l’umanità. Diventa allora inutile recitare continuamente e ritualmente la solita poesia di Brecht (“prima vennero a prendere gli ebrei…”), perché si mostra di non averne minimamente compreso il significato. Si mostra di non aver compreso l’insegnamento della storia: ogni volta che si cominciano a colpire gli ebrei, suona un campanello d’allarme per tutta l’umanità; ogni volta che un ebreo viene ucciso per odio razziale o religioso, suona una campana a morte non solo per quell’ebreo, ma per tutta l’umanità, per tutta la civiltà umana.
No, come dice ancora la Loewenthal, si dovrebbe completamente rovesciare la prospettiva: la memoria della Shoah  non è degli ebrei, ma è di tutti gli altri, tranne che degli ebrei, perché la Shoah è stata interamente preparata, progettata e realizzata dagli altri, gli ebrei l’hanno solo subita. La Shoah non è storia loro, è storia nostra. E nostra è anche la sua memoria.
Perché è tanto difficile ammettere ciò, perché la realtà viene rovesciata? Ma proprio perché questa memoria brucia ancora ed allora piuttosto che farla propria, piuttosto che assumersene la responsabilità storica, morale e civile – che è una cosa ben diversa dal senso di colpa – “la si esorcizza con la celebrazione, con il rituale del ricordo”. La Giornata della  Memoria è così diventata un atto, un rituale di omaggio – postumo – alle vittime dello sterminio, l’occasione per metterci in pace con la coscienza, per vestire i panni dei buoni. Doveva avere, nota ancora la Loewenthal, un significato “introspettivo” e ha invece assunto un valore “transitivo”; doveva riguardare noi e invece riguarda gli ebrei. E questo omaggio sembra poi destinato – questo mi permetto di aggiungerlo io – soltanto agli ebrei già morti o ai pochissimi superstiti tra i sopravvissuti, ma non sembra affatto riguardare gli ebrei vivent; tantomeno induce a guardare con un po’ di rispetto lo stato di Israele– che non significa evidentemente che non si possa e non si debba criticare, quando è il caso, la politica di questo Stato.
Pertanto, un cattivo uso e una esorcizzazione della memoria portano soprattutto a non evidenziare le nostre responsabilità collettive, ma al contrario ad eluderle e rimuoverle.  E tuttavia la giornata della memoria può dare un contributo al mai più soltanto se ci porta ad assumerci le nostre responsabilità, collettive e storiche. Purtroppo questo non avviene quasi mai: la shoah viene ricostruita e rievocata come un crimine perpetrato nel passato e da un altro popolo, un popolo ammaliato da una ideologia demoniaca. Noi, in fondo, che colpa abbiamo? Noi siamo i “buoni”, noi siamo quelli che si commuovono dinanzi al film e dinanzi al sopravvissuto, noi siamo quelli che celebrano la giornata della Memoria!
Le stesse modalità della celebrazione, molto spesso, rinforzano questa rimozione: si parla di Auschwitz, che è piuttosto lontana da noi, si va ad Auschwitz, non si parla quasi mai dei luoghi italiani della Shoah e non si va in questi luoghi che pure sono ben più vicini e facili da raggiungere e talvolta stanno proprio a un passo da casa.
Le più alte cariche dello Stato, ha detto il rabbino Laras, “dovrebbero annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma vittima del rastrellamento nazifascista, per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il plauso, la collaborazione, l’assenso e i silenzi di moltissimi –troppi- italiani. Organizzata come è attualmente, sembra riguardare un qualcosa lontano nel tempo, accaduto soltanto in Germania o in Polonia”
Temo, quindi, che la Giornata della Memoria, così come viene celebrata contribuisca a questa autoassoluzione e autocelebrazione,  che si basano su una formidabile rimozione storica e su un uso mistificante della memoria.
Si dice: la colpa del fascismo italiano furono le leggi razziali del 1938. Una colpa gravissima, certo, ma queste leggi – si dice, ancora – furono adottate solo per “imitazione” della Germania nazista, perché Mussolini si era ormai sciaguratamente legato al carro di Hitler. Il fascismo italiano, si sostiene, prima del 1938 non aveva conosciuto l’antisemitismo, anche perché gli italiani sono refrattari al razzismo, gli italiani sono “brava gente”.
Prima di smontare queste teoria di luoghi comuni assolutamente infondati occorre comunque sottolineare adeguatamente la barbarie delle leggi razziali del 1938, una barbarie che resterebbe intatta, seppure queste leggi fossero state soltanto “importate” dalla Germania e non rispondessero, come invece è vero, alla reale essenza politica del fascismo. Che cosa significarono queste leggi per gli ebrei italiani? Gli studenti ebrei, da un giorno all’altro, furono cacciati dalle scuole; gli impiegati pubblici persero il lavoro; gli ebrei non poterono più avere una licenza commerciale, né esercitare una professione e furono vietati i cosiddetti matrimoni “misti”, quelli fra ebrei ed “ariani”. Badate che non furono colpiti degli “stranieri”, né, in molti casi, degli oppositori del regime, cosa che ovviamente sarebbe stata comunque esecrabile: la persecuzione si abbatté su tutti coloro che avevano almeno un genitore di stirpe ebraica, senza tenere in nessun conto il fatto che si trattasse di cittadini italiani, che fino a quel momento avevano goduto degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini italiani, senza considerare minimamente l’importante contributo che gli ebrei italiani avevano dato al Risorgimento o il loro sacrificio nelle trincee della prima guerra mondiale, senza badare nemmeno alla loro fede religiosa, perché in molti casi si trattava di persone che non praticavano la religione ebraica, senza tener conto neanche delle loro idee politiche, perché furono discriminati anche gli ebrei fedeli al regime fascista. Si trattava, insomma, di leggi fondate sul più puro razzismo, che, come dice la storica Anna Foa, distrussero quanto ancora restava del Risorgimento e dei suoi principi ispiratori.
Ma guardiamo ora ciò che era accaduto prima e ciò che purtroppo accadrà dopo il 1938, per sgombrare il campo da certi luoghi comuni senza base storica.
Non è vero, anzitutto, che il fascismo italiano sia stato estraneo all’antisemitismo e più in generale al razzismo fino al 1938 e comunque nel periodo che precede l’alleanza con il nazismo. Al contrario, se si considerano certe correnti e certi personaggi del fascismo si potrebbe finanche rovesciare l’idea convenzionale e sostenere che sono queste correnti e questi personaggi che hanno contribuito al razzismo nazista e non viceversa. Dopo le leggi razziali si cominciò a pubblicare anche una famigerata rivista razzista e antisemita che si chiamava La difesa della razza. E anche questa rivista, per quanto odiosa, non sarebbe altro che una imitazione delle pubblicazioni antisemite del nazismo, quasi che il fascismo volesse accreditarsi in questo triste modo agli occhi del potente alleato.  La vita italiana precede di molto La difesa della razza, dato che esce a partire dall’inizio degli anni Venti - in un periodo in cui Hitler è ancora un oscuro personaggio, noto solo per un ridicolo tentativo di golpe, e il nazismo è una formazione politica del tutto irrilevante. Quando poi i nazisti prendono il potere, gli autori de La vita italiana, guardano con un po’ di sufficienza al loro razzismo, li trattano come dei rozzi apprendisti, pretendono di insegnar loro il “vero” razzismo. Anni fa, molti anni fa, studiai questa rivista alla Biblioteca Provinciale di Avellino, che ne possiede l’intera collezione. Il suo direttore e fondatore, personaggio emblematico dell’antisemitismo italiano e fascista, era infatti un irpino, di Torella dei Lombardi. Si dice, però, che Mussolini addirittura si sforzasse di evitare ogni contatto e ogni incontro con questo Preziosi, benché lui gli fosse fanaticamente devoto (infatti, alla caduta del fascismo fu uno dei pochi che coerentemente si suicidò). Ma non è che Mussolini non volesse incontrarlo perché gli ripugnava l’antisemitismo del Preziosi: no, il motivo era un altro ed era ben più frivolo. Preziosi aveva una funesta fama di grande iettatore e Mussolini era piuttosto superstizioso: per questo lo evitava! A proposito di Mussolini e a riprova del fatto che egli sarebbe stato estraneo ai pregiudizi razziali si citano sempre le sue relazioni intime con donne ebree. Solo che si trattava di donne, e in certi casi come quello di Margherita Sarfatti, anche di donne molto affascinanti, mentre non risultano grandi amicizie fra il Duce ed ebrei maschi. Quindi questo dato non attesta affatto che Mussolini fosse immune da pregiudizi razziali, ma dimostra solo ciò che era già ampiamente noto: che non aveva pregiudizi nei confronti delle donne con cui intrecciare relazioni di un certo tipo, come del resto altri uomini politici, anche più vicini ai nostri tempi!
Comunque, è vero, Giovanni Preziosi non è un personaggio di primissimo piano nel regime fascista. Ma fra gli alti gerarchi non mancano altri casi di antisemiti della primissima ora. Uno è Roberto Farinacci, il ras di Cremona, secondo lo storico Renzo De Felice  l’unico vero antagonista interno di Mussolini. Nemmeno Edmondo Rossoni, il principale esponente del sindacalismo fascista, sembra estraneo al razzismo: il giornale delle corporazioni, da lui diretto, si chiama, non a caso, “La stirpe”. E del resto non si tratta solo di singoli personaggi, ma di tutta una corrente razzista che il fascismo eredita dal nazionalismo del primo Novecento e anche – qualcuno si stupirà – da certi ambienti socialisti (Rossoni, come Mussolini, veniva dal socialismo e, precisamente, dal sindacalismo rivoluzionario). Il problema, con il quale occorre fare i conti, al di là delle comode rimozioni, è che la politica e la cultura europea, e quindi la politica e la cultura italiana, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono largamente permeate dal razzismo e dall’antisemitismo, che sono tipiche espressioni del nazionalismo che fiorisce in quel periodo, ma sono anche correnti “trasversali” che inquinano anche il socialismo. Ad esempio c’è un diffuso antisemitismo nel socialismo e nel sindacalismo cristiano a Vienna, che è poi la città dove si forma il giovane Hitler.

Purtroppo, è ben più significativo ciò che accade dopo il 1938, dopo le leggi razziali. Intanto, quale fu la reazione degli altri italiani alla discriminazione degli ebrei? Questi italiani “brava gente”, che certo non espressero il minimo cenno di protesta nei confronti di quei provvedimenti (non si poteva protestare, si dice, perché si viveva sotto una dittatura, si correvano grandi rischi… ma su questo ci torneremo) si affrettarono a manifestare almeno una personale, privata solidarietà a quegli ebrei che tante volte erano i loro vicini di casa o i loro compagni di banco o i loro colleghi di lavoro? A leggere le preziosi e toccanti testimonianze raccolte in un libro, diffuso anche in edicola tempo fa, e che si intitola significativamente La shoah italiana, non si direbbe proprio. Molti che allora erano studenti, e come dicevamo si trovarono cacciati dalle loro scuole da un giorno all’altro, dovettero dolorosamente notare come i vecchi compagni di classe fingessero di non conoscerli quando li incontravano per strada. Una ragazza, un giorno, incontra il suo professore, il professore che – lei dice – “l’adorava”, perché lei era “la prima della classe”. Gli corre incontro e gli fa: “professore, avete visto che cosa ci hanno fatto?” E il professore, gelido: “Sì, ma Mussolini ha sempre ragione…”.
Poi arriva la guerra, poi l’armistizio, l’occupazione tedesca. Il 16 ottobre del 1943 c’è il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, i nazisti catturano e deportano gran parte degli abitanti. Come si è detto, la Giornata della Memoria ricorre nell’anniversario della agghiacciante scoperta del lager di Auschwitz. Ci sono delle motivazioni in questa scelta che possono essere anche valide, ma essa, come abbiamo visto, rischia anche di avvalorare certi stereotipi. Se si fosse scelta la data del 16 ottobre questo rischio si sarebbe evitato, perché quello che accadde il 16 ottobre del 1943 accadde a Roma, nel cuore di Roma. Forse le scuole sarebbero state incoraggiate ad organizzare qualche visita in più a Roma, al ghetto, dove si possono vedere ed ascoltare, dalla voce delle bravissime guide ebree, molte cose importanti sulla shoa’ italiana, cose che demoliscono molti luoghi comuni e che soprattutto ci fanno capire che la shoa’ non è una vicenda lontana da noi, ma ci riguarda direttamente.
Il 16 ottobre incomincia, appunto, la shoah  italiana. Anche qui c’è una ricostruzione di comodo: una parte dell’Italia era sotto l’occupazione nazista e furono i tedeschi a catturare gli ebrei e a deportarli nei campi di concentramenti. Gli italiani, al contrario, si impegnarono come poterono, per nascondere gli ebrei, ne salvarono parecchi. Gli italiani, “brava gente”… Purtroppo, la storia non andò così.  Anzitutto, i nazisti, dopo essersi occupati direttamente del rastrellamento del ghetto di Roma, nei mesi, negli anni successivi, lasciarono questo compito ai fascisti italiani. I tedeschi davano le direttive, ma erano gli italiani in camicia nera che facevano il “lavoro sporco” e solitamente non lo facevano affatto malvolentieri, ma con zelo, con accanimento. Questi, si dirà, erano i fascisti della prima o dell’ultima ora, fanatici, invasati, criminali… una minoranza, in fondo, nella popolazione italiana. Gli altri italiani non parteciparono a questo abominio e quando poterono lo ostacolarono. Certamente, ci furono parecchi italiani che si adoperarono, correndo anche seri rischi, per nascondere e salvare gli ebrei. Ma dovremmo avere l’onesta di non contare e di non ricordare solo loro, ma di contare e ricordare tutti quelli, e sono purtroppo molto numerosi, che fecero la spia, che tradirono e denunciarono gli ebrei che conoscevano e li consegnarono alla morte nei lager. Nel libro che ho prima citato vi sono tante testimonianze di sopravvissuti: quasi sempre raccontano di come siano stati arrestati traditi e venduti da qualche conoscente, da un vicino, dal loro fruttivendolo, dal portiere del loro palazzo, da una persona di servizio... Venduti, letteralmente, perché il governo di Salò mise una taglia sugli ebrei: per ogni ebreo denunciato alle autorità si intascavano 5000 lire e purtroppo molti italiani si adoperarono per intascare la taglia. Altri italiani denunciarono gli ebrei, non per la taglia, ma per liberarsi di un rivale o un nemico personale, di un concorrente, di un collega o di un dirigente scomodo o odioso. Anche in questo caso, la memoria storica ha funzionato per lo più in modo molto parziale e quindi deformante, accreditando lo stereotipo degli “italiani brava gente”. Un film che in questi giorni viene continuamente trasmesso sui canali satellitari – si intitola “Concorrenza sleale” – racconta di un commerciante di tessuti, italiano ed “ariano” – che si rifiuta di denunciare il bottegaio vicino, sebbene lo avesse francamente detestato fino a quel momento, accusandolo appunto di “concorrenza sleale”. Non mi risulta che siano stati fatti film sui commercianti italiani che, al contrario, denunciarono i loro concorrenti ebrei.
Sempre in una certa rappresentazione di maniera, in un certo diffusissimo stereotipo dell’italiano si vuole che gli italiani siano certo meno ordinati, meno disciplinati, meno dotati di senso civico dei popoli del nord Europa, ma in compenso siano dotati di più “umanità”, di un maggiore senso di solidarietà. Questo stereotipo viene smentito, e purtroppo solo nella parte che sarebbe a noi favorevole, da un altro libro uscito lo scorso anno e che racconta la vicenda della deportazione degli ebrei in un paese del Nord Europa, la Danimarca. Anche la Danimarca era sotto l’occupazione nazista, anche in Danimarca correva gravi rischi chi fosse stato sorpreso ad aiutare un ebreo. Eppure i danesi si comportarono un po’ meglio di noi, di noi italiani “brava gente”: sui 7000 ebrei che vivevano lì, soltanto 500 furono catturati dai nazisti e deportati. 6500, oltre il 90% si salvarono, perché furono protetti dai danesi.
Un altro libro, uscito in queste settimane, cerca invece di collocare le cose nella giusta prospettiva: si intitola significativamente I carnefici italiani. Storia del genocidio degli ebrei, 1943-1945. Collocarsi nella giusta prospettiva significa capire che se la Shoah fu pianificata e diretta dai nazisti e dalla Germania, essa poi si realizzò in gran parte d’Europa, Italia compresa: nella comunità ebraica italiana furono eliminate quasi  9000 persone su un totale di 47000, circa il 19%. Un ebreo italiano su cinque venne quindi ucciso. E’ come se ad Avellino o a Benevento fossero uccise 12000 persone, nello spazio di pochi mesi. Per realizzare la Shoah fu necessaria la collaborazione attiva delle popolazioni locali, in questo caso degli italiani. Anzitutto, sarebbe bene ricordare che metà degli arresti di ebrei non furono realizzati da tedeschi, ma direttamente da italiani. Poi occorre pensare a tutta la macchina organizzativa che fu necessario allestire in tutta Europa, Italia compresa: “fondamentale fu dunque la collaborazione di vasti settori della società europea” – scrive Simon Levis Sullam, autore del libro appena citato – dalle burocrazie all’economia, dai servizi alle infrastrutture, uomini e donne delle più varie nazionalità – migliaia di cittadini comuni – parteciparono alle operazioni di arresto, depredazione, deportazione, sterminio”.

Come italiani, dunque, dovremmo fare i conti con la shoa’, assumendoci le nostre responsabilità storiche, perché in questa vicenda certamente non fu innocente il regime fascista, né si può dire che esso si macchiò solo di peccati veniali o di colpe secondarie, ma non furono innocenti neanche gli italiani, sebbene ovviamente si possano e si debbano distinguere vari gradi di responsabilità. La rimozione è invece incominciata subito. Non furono colpiti nemmeno i responsabili diretti del genocidio, salvo ovviamente Mussolini e gli altri gerarchi fascisti fucilati dai partigiani o coloro che furono colpiti da azioni di vendetta (Giovanni Preziosi, mostrando almeno una certa coerenza, decise di mettere fine alla propria esistenza, proprio il 25 aprile del 1945). Ma, a parte questi, fra tutti coloro che avevano partecipato e collaborato alla politica antiebraica italiana, dal 1938 al 1956, praticamente nessuno fu processato e scontò una pena. Infatti, la rimozione delle responsabilità fu attuata anche per legge: va qui ricordato il D.P.R. del 22 giugno 1946, meglio noto come amnistia Togliatti – dal nome del suo autore, segretario e leader del PCI e a quel tempo Ministro della Giustizia. Nella sua relazione, Togliatti scrisse che il provvedimento doveva servire alla riconciliazione e alla pacificazione “di tutti i buoni italiani”, offrendo così il suo personale contributo alla formazione del ben noto stereotipo. L’amnistia, rileva Levis Sullam, fu estesa anche ai reati di strage, saccheggio, devastazione, collaborazionismo coi nazisti. Fra i 13000 imputati – alcuni già condannati – dell’estate del 1946, ben 10000 furono amnistiati, e fra questi alti gerarchi del regime, come Bottai e Federzoni. Dei rimanenti, molti furono prosciolti sulla base di giudizi particolarmente benevoli, altri ebbero pene molto lievi e godettero di ingiustificate attenuanti. Del resto, la magistratura che li doveva giudicare era rimasta essa stessa ingiudicata ed era la stessa del Ventennio.
E c’è dell’altro. I responsabili della politica antiebraica in certi casi fecero pure carriera: Carlo Alliney, capo gabinetto di Giovanni Preziosi all’ispettorato per la razza e consulente del governo della RSI per la legislazione razziale, divenne prima procuratore generale a Palermo e poi giudice di Cassazione. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale per la razza dal 1938 al 1943, negli anni Cinquanta divenne presidente della Corte Costituzionale.
Infine, la rimozione e la generale autoassoluzione ha usato la stessa Giornata della Memoria: nella legge che l’ha istituita si citano le vittime della carneficina, ma non si parla dei loro carnefici. Si parla solo, genericamente, di una “persecuzione italiana”. E’ molto strano che vi siano vittime di un eccidio e non vi siano carnefici! Non si parla dei carnefici, ma si parla invece espressamente dei “salvatori” e dei “giusti”, di quegli italiani che si prodigarono per proteggere gli ebrei. E da alcuni anni, la celebrazione di questi salvatori, di questi “soccorritori” ha trovato vasta eco sui mass media, basti pensare alla figura di Giorgio Perlasca, e ciò purtroppo è servito ad occultare la memoria di quegli altri italiani, che invece collaborarono allo sterminio. E va anche detto che qualcuna delle figure celebrate è quantomeno controversa, come nel caso di Palatucci.  
E così la giornata della Memoria è diventata l’occasione per rendere omaggio alle vittime, per celebrare i loro salvatori e per dimenticare i carnefici. Tutto ciò, evidentemente, impedisce che la ricorrenza sia quello che dovrebbe essere: l’occasione per una assunzione di responsabilità.


Se poi leggiamo la cosa in una prospettiva storica più ampia, come è necessario fare, dobbiamo riconoscere che non solo abbiamo delle responsabilità e non siamo innocenti come italiani, ma soprattutto abbiamo delle responsabilità e non siamo innocenti come cristiani. L’antisemitismo contemporaneo, che culmina nel genocidio nazista, ha infatti il suo retroterra storico nell’antigiudaismo che la chiesa cristiana ha inventato, elaborato, propagandato e praticato per secoli. Quando si parla della shoah vengono in mente cose come la stella di Davide gialla usata come segno di riconoscimento per gli ebrei; vengono in mente i ghetti, quello di Roma appena citato, quello di Varsavia, dove sono ambientate le storie di alcuni film; magari vengono in mente anche i manifesti di propaganda, con le caricature che raffigurano l’ebreo col naso grosso, lo sguardo rapace, le mani adunche, e le accuse negli aritcoli di giornale e nei comizi con le descrizioni stereotipate del presunto carattere ebraico: l’ebreo avaro, avido, lussurioso, e così via. Ebbene, nessuna di queste cose fu inventata dai nazisti, i nazisti utilizzarono i materiali e le simbologie che nei secoli precedenti erano stati costruiti dalla chiesa. Nel IV Concilio lateranense, anno 1215, si deplorò il fatto che gli ebrei non portassero alcun segno che consentisse di distinguerli dal resto della popolazione, sicché, cito testualmente “succede talvolta che, per errore, dei cristiani si uniscano a donne giudee, o dei giudei a donne cristiane”. Per evitare “unioni tanto riprovevoli”, continua il documento, si stabilì che gli ebrei dovessero portare nell’abito un chiaro segno di riconoscimento. Nel 1555, poi, il papa Paolo IV, al secolo cardinale Giampietro Carafa, di famiglia napoletana e nato, ahimè, a Capriglia Irpina, promotore del Santo Offizio dell’Inquisizione, notò – cito dalla bolla papale Cum nimis absurdum – che gli ebrei di Roma erano giunti “a tale livello di insolenza da presumere di poter coabitare mescolati ai cristiani e vicini alle loro chiese”, quegli ebrei “condannati per loro colpa alla schiavitù eterna”. Ed allora istituì il ghetto, uno dei primi in Europa,  costruito proprio a Roma e per volontà di un papa. Si potrebbe pensare che questi errori ed orrori appartengano a un remoto passato, ai cosiddetti “secoli bui”. Ma, a parte il fatto che con Paolo IV siamo in pieno Rinascimento, non è affatto così. Nel 1893, al culmine dell’epoca del positivismo, che celebra l’idea di progresso e il primato della civile Europa moderna, con il trionfo della ragione, della scienza e della tecnica, Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, in fondo l’elite culturale della chiesa cattolica, riprende in alcuni articoli l’infame leggenda dell’omicidio rituale che sarebbe perpetrato dagli ebrei. Per secoli si era accreditata la diceria secondo cui gli ebrei, per celebrare la loro Pasqua, usassero uccidere un neonato cristiano ed usarne il sangue per impastare il pane azzimo. Ebbene la Civiltà cattolica, nel 1893 non nei “secoli bui” medioevali, afferma riferendosi alla grande diffusione di questa tristissima fandonia, che “una così universale persuasione deve avere un fondamento”!
E veniamo così all’atteggiamento della chiesa cattolica negli anni in cui il nazismo organizzava lo sterminio. E’ ben nota la polemica sulle responsabilità e sulle omissioni del papa del tempo che era Pio XII. Del suo predecessore, Pio XI, si sa che prima di morire stava preparando un’enciclica di dura condanna del nazismo per la persecuzione antiebraica e che si apprestava anche a tenere un discorso nel quale avrebbe condannato la stessa politica razziale del fascismo. Si sa pure che Pio XII, una volta salito sulla cattedra di San Pietro, non pubblicò né l’enciclica, né il discorso. Quello che invece non viene quasi mai ricordato è che è vero che Pio XI condannava la politica della razza, ma d’altra parte ribadiva il tradizionale antigiudaismo su base religiosa. Poco prima di morire aveva scritto che gli ebrei erano “un malaugurato popolo, che è affondato da solo nella disgrazia, i cui capi accecati hanno chiamato sulle proprie teste la maledizione divina”.
Padre Agostino Gemelli, che tra l’altro scriveva anche sulla rivista La difesa della razza, in quegli stessi giorni, precisamente il 9 gennaio del 1939, tiene  una conferenza all’università di Bologna, sottolineando la tragica e dolorosa condizione degli ebrei italiani, che in seguito alle leggi razziali, non potevano far parte “e per il loro sangue, e per la loro religione di questa magnifica patria”. Ma in questa tragica condizione, prosege, “noi vediamo, una volta di più come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé […] e le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo”. Parole che fanno davvero rabbrividire.
Il Concilio Vaticano II ha certamente rappresentato una svolta e messo fine a questa storia vergognosa, deplorando nella dichiarazione che si intitola Nostra aetate, tutte le manifestazioni antisemite. Spesso, però, i lodatori del Vaticano II mancano di ricordare come in quella stessa dichiarazione si afferma ancora che è la chiesa “il nuovo popolo di Dio” e gli ebrei non sono definiti pur essi popolo di Dio, ma semplicemente, si dice, non devono essere presentati come “rigettati da Dio” e “maledetti”.
Oggi in molte scuole la giornata della Memoria viene organizzata dagli insegnanti di religione cattolica. La cosa, lo confesso, un po’ mi sorprende, ma non entro nelle scelte e nelle sensibilità altrui, e capisco che alcuni intenderanno così rimarcare il pentimento della loro chiesa per gli errori e gli orrori del passato. Mi limito a dire che, se fossi a mia volta cattolico, sceglierei forse di passare questa giornata soltanto in silenzio e in preghiera.
Le altre confessioni cristiane, peraltro, non sono certo esenti da colpe. Lutero che inizialmente  aveva mostrato una certa comprensione per gli ebrei, magari solo per polemizzare con il papato, e soprattutto aveva sperato nella loro conversione, in vecchiaia scrisse un tristissimo libello – Degli ebrei e delle loro menzogne - nel quale esortava i principi tedeschi a cacciare gli ebrei e a bruciare le sinagoghe e delineava, usando purtroppo tutta l’efficacia della sua parola, un tremendo stereotipo negativo dell’ebreo. Così, l’ebreo non era un Deutscher, un tedesco, ma un Teutscher, un impostore; non un Welscher, uno straniero, ma un Felscher, un falsario; non un Bürger, un cittadino, ma un Würger, uno strozzino. I motivi, non superficiali, ma teologici dell’antigiudaismo di Lutero sono stati ricordati, come l’influenza che questo antigiudaismo ha esercitato per lungo tempo sulla cultura e sulla filosofia tedesca, nel fondamentale e recentissimo libro di Donatella Di Cesara (Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri”).
Un po’ diversa appare, invece, la situazione nell’altra corrente protestante, quella delle chiese riformate, nate dall’opera di Calvino, Zwingli e Bucero. Queste ebbero subito un atteggiamento molto più tollerante nei confronti degli ebrei, anzi manifestarono quasi un “filo ebraismo” e l’Olanda riformata, nel ‘600, fu il primo paese del mondo a concedere agli ebrei la libertà religiosa. Ma da cosa dipende questa differenza? Non è che i protestanti riformati fossero “buoni” e i cattolici o i luterani “cattivi”. Il motivo, anche qui, è teologico: mentre la chiesa cattolica e quella luterana ponevano una radicale differenza fra l’Antico e il Nuovo Testamento, la Legge e il Vangelo, il Patto stretto da Dio con il popolo ebraico e la nuova alleanza che si realizza grazie a Gesù, Calvino, invece, riteneva che vi fosse un unico Patto che aveva assunto storicamente due forme diverse e successive. Questo spinse le chiese riformate a valorizzare l’Antico Testamento, che è innanzitutto – non bisogna dimenticarlo – il libro sacro degli ebrei e che narra la vicenda di Dio, dell’unico Dio, con il popolo di Israele. Fin dal XVI secolo si sono quindi cominciati ad utilizzare i passi dell’Antico Testamento nella liturgia delle chiese riformate e questi passi, come in tutti i paesi della Riforma, erano letti nelle varie lingue volgari. Nella chiesa cattolica, invece, fino agli anni Sessanta del Novecento, fino al Concilio Vaticano II, la liturgia è in latino e l’Antico Testamento è quasi assente dalle letture domenicali e dalla predicazione.  Allora la differenza vera e decisiva non è tra bontà e malvagità, ma tra conoscenza e ignoranza: la conoscenza delle Scritture ebraiche, e quindi anche della storia e della cultura di Israele, favorisce l’apertura e la tolleranza nei confronti del popolo ebraico, mentre l’ignoranza, come sempre, genera pregiudizi, fanatismo, ostilità.
In Italia gli ebrei si sono trovati accomunati e spesso affratellati all’altra storica minoranza religiosa, vittima pur essa di persecuzioni violente e tentativi di genocidio: si tratta dei Valdesi, una comunità che ha origini medioevali, ma che nel Cinquecento è divenuta una chiesa protestante riformata. Si racconta l’aneddoto di un professore della Facoltà Valdese di Teologia, il quale, da ragazzo, quando dal paese di origine, in una della valli alpine dove è forte la presenza valdese, scese a Torino per frequentare l’università, si sentì così apostrofare dalla madre “Adesso te ne vai in città e sicuramente te ne torni con qualche ragazza che vorrai poi sposare: ma non portarmela cattolica! Se non è valdese, che sia almeno ebrea!”. Un pregiudizio al contrario, insomma! I pregiudizi sono sempre negativi, e, tuttavia, c’è una differenza fra i pregiudizi dei persecutori e i pregiudizi dei perseguitati. In questo caso, si tratta del pregiudizio dei perseguitati e quindi ci turba di meno e ci fa persino sorridere. Dobbiamo comunque liberarci da tutti i pregiudizi, questo è ovvio, dobbiamo coltivare da un lato il pentimento e dall’altro il perdono e favorire la riconciliazione, ma questo non vuol dire che si debba anche dimenticare chi sono stati storicamente i persecutori e chi siano stati i perseguitati: non si deve dimenticare e non si deve far confusione. La Tavola Valdese e il Sinodo, purtroppo, pur restando distanti dal fascismo, non ritennero di dover fare alcuna esplicita dichiarazione di condanna per la politica antisemita del regime, neanche quando se ne ebbe l’occasione, nei giorni del settembre 1943, a cavallo dell’armistizio e alla vigilia dell’inizio della Shoah italiana. Tuttavia, tra coloro che nei mesi successivi si adoperarono veramente per proteggere gli ebrei vi furono certamente i Valdesi delle Valli alpine: a Rorà, un intero paese – un paese che peraltro era stato secoli prima roccaforte della resistenza valdese contro le persecuzioni scatenate dai Savoia – divenne un rifugio di ebrei: ogni famiglia valdese nascose una famiglia ebrea, salvandola.

Questi cenni sommari al retroterra storico su cui si innesta la shoah pongono un serissimo problema: quando andiamo a sottolineare le radici e le premesse dell’antisemitismo contemporaneo che poi culmina nello sterminio nazista, rischiamo di relativizzare quest’ultimo, sicché rischiamo di perdere di vista le sue caratteristiche di male radicale, incommensurabile e che deve suscitare in noi un orrore assoluto. Se però prescindiamo da quel retroterra storico rischiamo di trasformare la shoah in un fenomeno unico e quindi irripetibile, siamo indotti ad abbassare la guardia rispetto al rischio che esso si possa ripresentare e soprattutto eludiamo la questione delle nostre responsabilità. Siamo quindi costretti a muoverci tra questi due rischi opposti, come tra Scilla e Cariddi. Con un difficile equilibrio dobbiamo tener conto sia degli elementi di continuità, sia delle differenze. A livello di continuità abbiamo visto come i nazisti utilizzino i pregiudizi, gli stereotipi, i materiali simbolici costruiti per secoli dall’antigiudaismo cristiano. A livello delle differenze dobbiamo sottolineare quella tra l’antigiudaismo cristiano (e anche pagano, perché il fenomeno riguardò anche il mondo antico, sia pure in modo differente) e l’antisemitismo contemporaneo: l’antigiudaismo è l’avversione, non agli ebrei come “razza” o come gruppo socio-culturale, ma come comunità religiosa. L’antisemitismo è invece l’ostilità all’ebreo come appartenente a un determinato ceppo etnico ed è dunque vero e proprio “razzismo”. Questa differenza implica una conseguenza che non è certo di poco conto: in secoli e secoli di persecuzioni antigiudaiche si erano anche verificati stragi e massacri di ebrei – come quelli in occasione della prima crociata o durante la peste del Trecento – ma non si era mai giunti a progettare lo sterminio totale del popolo ebraico, la cosiddetta “soluzione finale”, secondo l’inquietante espressione coniata dai nazisti. L’antigiudaismo, infatti, non mira alla eliminazione dell’ebreo, ma alla sua conversione. Anzi, l’antigiudaismo prevede la sopravvivenza di una certa quota di ebrei, di un nucleo di giudei irriducibili, ma ciò, purtroppo, non per spirito di tolleranza, ma per quella concezione del “popolo testimone”, che risale ad Agostino e che poi è stata ripresa e riformulata numerose volte all’interno della chiesa. “Popolo testimone” significa che la stessa esistenza storica degli ebrei, le loro disgrazie, il loro andare raminghi per il mondo, testimonierebbe della loro presunta iniquità, del loro errore, della loro cecità e della conseguente maledizione divina. E testimoniando questo, indirettamente gli ebrei attesterebbero la verità della chiesa; smascherando se stessi come popolo rinnegato da Dio, testimonierebbero la chiesa come vero Israele, come vero popolo di Dio. In quest’ottica si riteneva necessario che Israele continuasse ad esistere ,e non se ne voleva la totale distruzione, ma doveva esistere in condizioni marginali e di inferiorità, a propria vergogna e in modo che fosse immediatamente riconoscibile rispetto al resto della popolazione (da qui i segni di riconoscimento). Scriverà papa Innocenzo III nella sua bolla del 17 gennaio 1206: “Dio ha fatto di Caino un errante e un fuggiasco. Ma l’ha segnato affinché non venga ucciso. Così gli ebrei, contro i quali il sangue di Cristo grida vendetta, anche se non devono essere uccisi, affinché il popolo cristiano non dimentichi la legge divina, devono restare gli erranti sulla terra, finché il loro volto sia coperto di vergogna e cerchino Gesù Cristo, il Signore”.
L’antigiudaismo della chiesa fornisce quindi ai nazisti il materiale simbolico della persecuzione antiebraica e questo è l’elemento di continuità che chiama in causa le responsabilità del cristianesimo. Hitler, su questa base materiale e storica, costruirà l’idea follemente criminale dello sterminio sistematico e scientifico, del genocidio, dell’eliminazione di tutto il popolo ebraico. E questo è l’elemento di differenza che deve indurci a guardare alla shoah come a un male assoluto, al di là di ogni doverosa storicizzazione del fenomeno.

La memoria della shoah deve quindi chiamarci in causa, deve porci di fronte alle nostre responsabilità storiche e collettive, di italiani e di cristiani. Immagino l’obiezione che si presenta nella testa di molti: “d’accordo, ma non siamo noi quegli italiani e quei cristiani che hanno contribuito, attivamente o passivamente, direttamente o indirettamente, a quel crimine. Noi non eravamo neppure nati!”
Questa obiezione è comprensibile e legittima, in quanto è figlia, in fondo, di quel principio della responsabilità individuale e personale che è una importante e anche preziosa conquista dell’epoca moderna. Io sono chiamato a rispondere soltanto di ciò di cui sono personalmente responsabile e ciò non solo individua un cardine dello stato di diritto, ma implica pure che io sia riconosciuto come persona, che siano riconosciuti il mio libero arbitrio e la mia libertà personale. Tuttavia, in certi casi e quello di cui parliamo oggi è forse uno di questi casi, sarebbe bene non opporre, ma almeno associare al principio moderno della responsabilità individuale quello ben più antico della responsabilità collettiva. Un principio ben noto al mondo classico, ma che troviamo chiaramente espresso e applicato anche nell’Antico Testamento, ossia proprio nel libro sacro condiviso da ebrei e cristiani. Chi conosce l’Antico Testamento sa che l’iniquità di alcuni, di pochi e persino di uno solo si ripercuote spesso su tutto il popolo di Israele, attira su Israele il castigo divino e persino la rovina. Se ragioniamo soltanto con la categoria moderna della responsabilità personale e individuale troviamo tutto ciò insensato ed anzi profondamente ingiusto. Ma proviamo a collocarci nell’altra ottica. Il ragionamento, allora, è quest’altro: se in una comunità qualcuno – fosse pure una piccola minoranza - commette un grave, esecrabile delitto, un’azione nefanda e se quella di cui stiamo parlando è davvero una comunità e non un aggregato di individui, famiglie e gruppi estranei gli uni agli altri, allora tutti i membri di quella comunità si devono sentire interpellati, chiamati in causa e di fronte a quel crimine di cui pure non sono direttamente autori devono chiedersi che cosa hanno fatto e anche e soprattutto che cosa non hanno fatto, devono chiedersi come hanno contribuito anche loro con la loro condotta quotidiana, con le loro opere e le loro omissioni, a  creare le condizioni per  perché quel crimine avvenisse. Perché, nella logica della responsabilità collettiva, è tutta la comunità che viene macchiata, lesa, compromessa dall’azione nefanda di pochi. E quindi anche le generazioni che vengono dopo devono porsi il problema e sentirsi responsabili perché nascono in una comunità che ha perduto la sua integrità: ciò non è avvenuto per loro colpa, non è avvenuto per nostra colpa, ma sarebbe una nostra colpa non prendere atto del problema e non dare il nostro contributo al risanamento della comunità di cui siamo parte.
A Gerusalemme, nell’area del museo di Yad Vashem, dedicato alla memoria della shoah , c’è un giardino con tanti alberi. E’ chiamato Giardino dei giusti, perché ognuno di quegli alberi porta un’iscrizione con un nome ed è dedicato ad uno degli uomini giusti, di quegli uomini e quelle donne, non ebrei, che si prodigarono per salvare gli ebrei dalla morte nei campi di concentramento. Comportarsi da uomini giusti è certamente difficile: sotto un regime totalitario comporta gravissimi pericoli, ma anche ai nostri tempi è complicato e non solo perché tante volte significa mettere in secondo piano i propri interessi egoistici ma soprattutto perché un dubbio ci assale ogni volta che ci proponiamo di comportarci da uomini giusti: “Sì va bene” diciamo a noi stessi,  “se faccio questa cosa e non faccio quell’altra, starò pure in pace con la mia coscienza, ma dopotutto che cosa cambierà? Che cosa cambierà concretamente, visto che tanti altri, un’immensa maggioranza continueranno tranquillamente a rubare, a truffare, a inquinare, a esercitare violenza e prepotenza?” E’ la riflessione elementare che correva sulla bocca di un contadino di una terra dove forse si sta consumando un nuovo genocidio, un genocidio e un ecocidio, la terra che chiamano “terra dei fuochi”. Questo contadino, in cambio di denaro, aveva lasciato interrare dei veleni nel suo terreno e all’intervistatore diceva: “se non l’avessi fatto io, l’avrebbe fatto certamente il mio vicino, avremmo avuto ugualmente questi rifiuti tossici qui sotto e i soldi se li sarebbe presi lui”.
Ci chiediamo: è possibile un altro punto di vista? Sì, c’è, e anche stavolta lo troviamo nel libro che condividiamo con gli ebrei. Nella Bibbia si racconta la storia di Sodoma e Gomorra, due città dominate dalla peggiore corruzione ed empietà. Dio decide perciò di distruggerle, ma Abramo insinua un dubbio nella mente del Signore: “e se a Sodoma ci fossero cinquanta giusti, faresti perire quei giusti insieme agli empi”. E Dio  si convince di ciò che dice Abramo e alla fine gli promette che se a Sodoma si troveranno anche soltanto dieci giusti tutta la città sarà risparmiata. A Sodoma, i dieci giusti non c’erano e quindi fu distrutta, ma il punto è un altro: su quale principio di giustizia si basa qui la promessa divina? Se ci pensate bene questa promessa è piuttosto sconcertante, perché noi ci saremmo aspettati che Dio dicesse: “se si troveranno dieci giusti li salverò e farò morire tutti gli altri”. Perché invece la presenza di dieci giusti dovrebbe rendere tutta la città meritevole di salvezza? Perché dopo aver deciso di castigarli, Dio dovrebbe salvare gli empi per un merito che non è loro? Quale è la logica, quale è questo punto di vista che non ci è familiare, ma che potrebbe essere assai importante considerare? Si tratta di questo: se in una comunità si trova anche una piccola minoranza di giusti, dato che il giusto di solito è uno che, come si dice, non si fa i fatti suoi, non volta il capo dall’altra parte, non attacca il ciuccio dove vuole il padrone, allora questa minoranza può essere capace di incidere positivamente sui malvagi e sulla comunità tutta! E’ un punto di vista, quello che ci suggerisce il racconto biblico, che io credo valga proprio la pena di adottare se vogliamo cercare di migliorare un poco questo mondo o, quantomeno, di non peggiorarlo ulteriormente.

venerdì 23 gennaio 2015

LA SVALUTAZIONE DELL'EURO E LE FROTTOLE DI REGIME

L'Euro oggi è sceso sotto il valore di 1,12 dollari. A luglio aveva un valore superiore a 1,37 dollari. Si è così svalutato di circa il 20% nei confronti della valuta statunitense. Ricordate le leggende terroristiche che vi hanno sempre propinato i pasdaran della moneta unica? Uscire dall'euro e tornare a una moneta nazionale significava esporsi a una "paurosa" svalutazione... ricordate quelli che più posavano da esperti come quantificavano questa svalutazione "paurosa"? 20%! Ricordate il loro sarcasmo contro le "svalutazioni competitive"? Ricordate che, giocando sul senso comune (che molto spesso inganna) e sulla diffusa ignoranza degli italiani in materia di macroeconomia, vi hanno propinato l'equivalenza moneta forte = economia forte, moneta debole = economia debole? Se avessero avuto ragione, dovremmo ora subire, noi europei ,"paurose", "catastrofiche" conseguenze sui mercati mondiali nei confronti del "super-dollaro". Ricordate che vi dicevano pure che la svalutazione avrebbe determinato una inflazione ("paurosa", ovviamente) e che come argomento decisivo portavano quello del petrolio: il petrolio si acquista in dollari, dunque svalutare rispetto al dollaro significa pagare molto di più il petrolio e tutti i derivati. Vi pare che stia accadendo questo, ora che il dollaro si è apprezzato del 20% nei confronti dell'euro? In realtà quegli stessi politici, economisti di regime e organi di disinformazione che vi hanno propinato per mesi queste frottole ora vi raccontano una storia completamente diversa e in palese contraddizione con quella precedente: quella dell'euro è una svalutazione "competitiva" (ma come, dopo aver detto peste e vituperio delle svalutazioni competitive!) che serve a "ridare ossigeno" all'economia europea, a stimolare la crescita, ecc. ecc. Sono scomparse (momentaneamente) le profezie delle piaghe bibliche legate alla svalutazione: niente spesa con i soldi portati nella carriola, niente risparmi liquefatti, niente invasione di locuste...
Le misure di Draghi che ha stabilito l'acquisto di titoli di stato nazionali da parte della BCE (peraltro con una esposizione soltanto del 20%), sono state addirittura salutate come una svolta storica. Ebbene, l'unico effetto di queste misure è di assecondare un po' la svalutazione dell'euro già in atto.
Vogliamo allora cercare di capire che cosa sta veramente accadendo, al di fuori da leggende metropolitane e frottole di regime? Draghi, di concerto con la Merkel, e non a dispetto della Merkel come vi raccontano, sta solo ritardando la fine ormai scontata dell'euro, sostanzialmente perchè, sebbene le banche e gli altri grandi affaristi abbiano già lucrato abbastanza e siano pienamente rientrati dalla loro esposizione, c'è ancora qualcosa da spolpare in qualche paese, prima di chiudere definitivamente con la moneta unica. Quale paese? Non lo indovinate??? In secondo luogo bisogna attendere i probabili successi elettorali di Tsipras in Grecia e, soprattutto, di Le Pen in Francia, in modo da attribuire ad altri o a condizioni oggettive il fallimento della moneta unica. In terzo luogo, svalutando la moneta unica si mira ad evitare che qualcuno - non certo l'Italia servile di Renzusconi, né la Grecia di Mao-Tse-Tsipras, che ormai non è più un problema e può anche uscire dall'euro se proprio ci tiene, ma piuttosto la Francia - giochi a fare il furbo e anticipi i tempi della fuoriuscita, lucrando sulla svalutazione della propria restaurata moneta nazionale.
In definitiva, poi, questa svalutazione cui prodest? Non certo, genericamente, alle "esportazioni europee" o alla "competitività europea", ma alle esportazioni e alla competitività di quel paese che più esporta e più è competitivo fuori dall'area Euro. Scommetto che anche questa volta avete indovinate quale è quest'altro paese! Ma a noi proprinano la messinscena della Merkel che subisce a malincuore le formidabili, epocali misure di Draghi!
Purtroppo, prima di diventare adulti e di smettere di credere alle favole che vengono loro raccontate, gli italiani rischiano di trovarsi in completa rovina...

giovedì 22 gennaio 2015

LE DOMANDE FONDAMENTALI SULL'ISLAM (1)



Giorni fa avevo segnalato l’intervento di rav Laras, rabbino di Milano, come il più lucido e condivisibile, dal mio punto di vista, sulla tragica vicenda di Parigi. Ora si registra l’intervento nel dibattito di un'altra voce autorevolissima, quella di Enzo Bianchi - priore della comunità di Bose – che, con rammarico, afferma di non condividere il parere di rav Laras. Per la verità, non mi è chiarissimo il punto di dissenso rimarcato dal priore. Ma andiamo con ordine.
Enzo Bianchi esordisce con una precisazione, molto opportuna, sui rapporti fra cristianesimo ed ebraismo, riprendendo la ben nota metafora dei “fratelli gemelli”. In realtà, il priore, in poche righe, riassume il nocciolo dei risultati a cui sono giunti, già da qualche decennio, gli studi storici sul periodo del mediogiudaismo, studi che hanno messo fine a una lunga stagione di pregiudizi, equivoci e convinzioni infondate sulle origini del cristianesimo e sui suoi rapporti con l’ebraismo. Il merito di ciò va soprattutto a uno studioso italiano che da molti anni insegna negli U.S.A.; Gabriele Boccaccini.
Nel mondo accademico e tra gli studiosi del settore si tratta di cose ormai scontate, ma è bene che vi sia una seria opera di divulgazione, perché una autentica e profonda consapevolezza delle comuni origini di ebraismo e cristianesimo è forse il migliore antidoto al pregiudizio antigiudaico e antisemita, che è tanto radicato da insinuarsi anche nelle persone meno “sospettabili” e da esprimersi nelle forme più varie e spesso “mascherate” (ad esempio, il double standard quando si tratta di valutare i comportamenti degli ebrei e quelli di altri popoli o gli atti del governo di Israele e quelli di altri governi o regimi).
 Non si tratta solo di prendere coscienza della “ebraicità” di Gesù, dei suoi discepoli o di Paolo – questa coscienza per fortuna si sta diffondendo, dopo secoli di sostanziale rimozione di questo dato, giunta fino agli estremi rappresentati dai deliri sul “Gesù ariano”. Si tratta di capire che, almeno sul piano storico, il cristianesimo – come afferma Boccaccini – non è altro che una forma di giudaismo, una delle due forme di giudaismo – l’altro è quello che noi chiamiamo “ebraismo” – che sono sopravvissute alla catastrofe del 70 e.v. e alla distruzione del Tempio. E’ auspicabile, quindi, che Enzo Bianchi ed altri che hanno accesso ai grandi organi di informazione compiano questa meritoria opera di divulgazione, che può essere molto più efficace di tante celebrazioni meramente rituali della “Giornata della Memoria”.
Sorvolo sul breve passaggio che Bianchi dedica ai figli di Abramo e allo stato di Israele, in quanto mi è risultato del tutto incomprensibile. Finalmente, il priore giunge al punto e dice di voler pronunciare “una parola” sulle vicende di Parigi o sulle reazioni ad esse. Solo che poi questa parola, per quanto mi riguarda, suscita sconcerto, e anche, lo confesso, un po’ di dolore e di tristezza. Perché essa viene da una persona che tante volte è stata capace di mostrarci in modo autenticamente magistrale come la croce di Cristo sia anche e soprattutto criterio di discernimento fra i carnefici e le vittime. E in questa vicenda, prima di ogni altra e pur importante considerazione, dovremmo parlare delle vittime e della violenza che li ha tolti dal mondo, per qualche vignetta o per il solo fatto di essere ebrei. E invece che cosa ci dice Enzo Bianchi, al suo primo intervento sul quotidiano torinese dopo quei fatti? Ci dice che “abbiamo parlato troppo”, che “abbiamo sfigurato una religione, l’islam”. Ci dice che dovremmo ricominciare dal precetto aureo – non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te – e che ciò dovrebbe “vietarci caricature offensive verso l’Islam”. Fortunatamente, il priore concede che “una caricatura, anche offensiva, non può mai essere vendicata con la violenza e l’omicidio” e che “questa è barbarie criminale!”, ma solo per poi appoggiare la metafora del papa, quella del pugno e della madre, con la quale metafora egli “si è fatto capire dalle persone più semplici e quotidiane”. Difatti: il papa si è fatto capire fin troppo bene  e proprio da quelle persone “semplici” che già dicevano, più o meno a mezza voce, che in fondo quei giornalisti se l’erano un po’ cercata (e gli ebrei dell’ipercasher, verrebbe da chiedere, se l’erano forse cercata anche loro, magari perché avevano l’impudenza di essere ebrei?). Come ho già scritto giorni fa, la dichiarazione del papa non solo non può essere condivisa, ma non può neanche essere liquidata, come hanno fatto taluni, alla stregua di una “battuta infelice”, o criticata come incoerente rispetto al precetto di Gesù del porgere l’altra guancia. Il Papa non parlava in generale, ma si riferiva alla vicenda di Parigi, ben sapendo quali erano state le diverse reazioni e quali i diversi commenti. Ha scelto consapevolmente di avallare certe reazioni e commenti (probabilmente per un motivo di realpolitik nei confronti del mondo islamico). Perciò, la sua battuta merita solo un aggettivo: agghiacciante.
A prescindere dalla dichiarazione del Papa, Bianchi, come molti, condivide l’idea che una vignetta possa oggettivamente “offendere” qualcuno nel suo credo religioso e sembra quindi suggerire una sorta di autocensura. L’autocensura, quando non riguarda parole o gesti che costituiscano reato – e la satira sulla religione evidentemente non è reato, nei paesi occidentali - non è meno preoccupante della censura, in quanto configura una situazione totalitaria. La censura sta alla autocensura, potremmo dire, come un tradizionale regime autoritario sta a un regime totalitario. Inoltre, mi ripeto ancora, una volta ammesso che si possa legittimamente considerare una grave offesa una vignetta, dobbiamo anche mettere in conto che qualcuno pensi di dover lavare con il sangue una tale offesa. Ma è possibile criticare e superare il presupposto che tanti, e tra essi il nostro priore, danno quasi per scontato, che cioè delle manifestazioni del pensiero o della creatività possano urtare e offendere la sensibilità religiosa, tanto che la libertà d’opinione e di espressione entri in conflitto con il diritto di ogni persona a professare liberamente e senza subire molestie di sorta il proprio credo? Ciò mi pare assolutamente necessario, se vogliamo mantenere i nostri ordinamenti liberali e preservare i valori fondanti delle società occidentali, nel contesto di una società multireligiosa. Il mondo occidentale un tale problema lo ha già affrontato e risolto una volta: si trattava allora di conflitti interni al cristianesimo, ma essi erano ancor più violenti e distruttivi di quelli attuali. La formula che ci ha salvati e ci ha consentito di convivere tra confessioni religiose diverse, prima, e poi tra credenti e agnostici o atei, la formula che ci ha consentito di sviluppare i nostri ordinamenti civili, è stata “inventata” già all’inizio del Seicento, ma su essa si sono poi fondati l’Illuminismo, la Rivoluzione, le dichiarazioni dei diritti, gli stati liberali e le costituzioni democratiche. La formula è quella secondo cui gli ordinamenti civili, politici e giuridici restano validi etsi Deus non daretur, anche se Dio non fosse dato, se non esistesse. Qualcuno potrebbe erroneamente attribuire questa frase ad un ateo: in realtà essa è del giusnaturalista Grozio, un fervente calvinista, che per ragioni di fede subì anche una lunga prigionia (e tra l’altro per colpa di altri calvinisti). Grozio cercava appunto una risposta a un problema che ora torna di grande attualità: come si fa a convivere pacificamente in una stessa comunità tra individui che professano co0nfessioni religiose diverse e persino contrapposte? La risposta, implicita nella formula citata, è che occorre separare la sfera del credo religioso da quella dello Stato.
In fin dei conti, è questa la prima grande questione che il rabbino Laras poneva all’islam, ma che Enzo Bianchi ha lasciato del tutto cadere: è possibile per l’Islam, ed è possibile per motivi teologici, anteporre il concetto di  “cittadinanza politica”, che si può condividere con persone di diverso credo religioso, a quello di “cittadinanza religiosa”, che invece confligge apertamente con i valori occidentali? Ciò presuppone evidentemente che si possa distinguere tra cittadinanza politica e cittadinanza religiosa e che le due dimensioni non siano sovrapposte o coincidenti (il che pare, invece, il problema dell’Islam). Presuppone, quindi, quel cammino che l’Occidente ha fatto a partire appunto da Grozioo, più indietro ancora, dalla Riforma.
Occorre, però, ancora un passaggio. L’Islam, come è noto, prescrive, fin dal termine stesso, l’assoluta “sottomissione” a Dio. Non si tratta di una peculiarità, magari negativa, dell’Islam: ebraismo e cristianesimo si fondano su un’analoga idea della assoluta signoria di Dio, dal primo comandamento allo shema’ Israel, e conoscono un medesimo concetto di obbedienza. Questa obbedienza, per un credente, non solo non contrasta con la libertà, ma ne è precisamente la condizione. Il problema, dunque, non riguarda solo l’islam, in questo caso, ma anche l’ebraismo e il cristianesimo: pur volendo accettare i principi fondanti della convivenza con chi non crede nello stesso Dio in cui credo io, come faccio poi ad accettare anche le “offese” che costoro lanciano a un Dio al quale devo assoluta sottomissione o obbedienza? Se ne esce solo in un modo: se si capisce che quelle frasi o quei disegni satirici rappresentano una critica, più o meno violenta, più o meno condivisibile, alla religione, a qualche suo aspetto o rappresentante, a situazioni e costruzioni umane, dunque, ma non possono affatto riguardare, colpire e tantomeno insultare e offendere il mio Signore e la fede che ho in lui. Ma per questo ulteriore passaggio è indispensabile un’altra fondamentale distinzione (anche di questo ho già parlato in un post precedente): quella tra fede e religione.
Questa distinzione veniva richiamata nell’articolo di rav Laras, che citava una serie di grandi personalità del pensiero e della teologia, sia ebraici che cristiani, per sostenere che ebraismo e cristianesimo sono prima fedi che religioni. Su questo il priore concorda, anche se preferisce citare Marcel Gauchet, piuttosto che Barth o Bonhoeffer, Buber o Rosenzweig. Il cristianesimo, aggiunge, è capace di una critica, di una distanza alla stessa religione e ciò perché non ha al centro un libro, ma Gesù Cristo. Bianchi riconosce che l’Islam ha ancora da fare un lungo cammino di confronto con la modernità, ma rileva che anche per il cristianesimo questo cammino è stato lungo, è stato travagliato e non è certo concluso (si pensi ai fondamentalismi cristiani).
Queste osservazioni non mi sembrano tuttavia sufficienti a focalizzare il vero centro del problema, che invece rav Laras mi pare cogliere assai bene. Cristianesimo ed ebraismo hanno potuto compiere questo cammino, non solo e non tanto per sollecitazioni ed esigenze esterne, ma per intrinseche ragioni teologiche. Anzi, proprio la teologia cristiana ed il pensiero ebraico hanno contribuito in modo decisivo alla formazione di quel mondo che definiamo “moderno” ed il pensiero politico o le istituzioni civili di questo mondo moderno nascono in buona misura dalla secolarizzazione della teologia cristiana e del pensiero ebraico. Non si è quindi trattato né di un cammino forzato, né di un adattamento o un compromesso con una realtà esterna ed estranea (anche se questo, mi verrebbe da osservare un po’ malignamente, è in buona parte vero per quella componente specifica, ma così importante e pervasiva, del mondo cristiano che è l’istituzione ecclesiastica romana). Pertanto, è rav Laras, e non Enzo Bianchi, che si pone la vera domanda, quando si chiede se per l’Islam questo cammino è possibile “in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani”. In altri termini, mentre Bianchi, e molti altri con lui, pare ritenere che l’Islam si trovi sulla medesima linea retta e marci nella stessa direzione di ebraismo e cristianesimo, trovandosi solo un po’ più indietro (e mi chiedo se poi questa prospettiva non sia nella sostanza più “offensiva” di tutte le vignette di Charlie Hebdo e non tradisca il vecchio vizio dell’imperialismo religioso, mascherato da ecumenismo o dialogo), rav Laras si pone ben altro problema: è possibile per l’Islam effettuare quel cammino che può portare a una convivenza pacifica e ad un incontro reale con le altre due religioni monoteistiche, non per acquiescenza o necessità, ma per motivi teologici? E dato che la teologia delle religioni monoteistiche altro non è che esegesi del Libro sacro o, almeno, ha questa esegesi come suo fondamento e criterio, le questioni fondamentali riguardano proprio il Corano: esso è Sacra Scrittura ed è parola autoritativa, allo stesso modo in cui lo sono la Torah per gli ebrei e la Bibbia per i cristiani? Quale è, nel Corano, il rapporto tra parola divina e parola umana e in che senso il Libro media fra Dio e l’uomo? La risposta a queste domande, nell’ebraismo e nel cristianesimo, ha reso non solo possibile, ma addirittura necessaria l’esegesi critica, storica e letteraria. Si tratta di capire se per il Corano la situazione è analoga - ed allora i ritardi, le difficoltà, le tensioni e le incomprensioni dipenderebbero solo da contingenze storiche e politiche e da interpretazioni erronee o parziali - o se invece il cammino auspicato è ostacolato, se non reso addirittura impraticabile, da profonde ragioni teologiche. Se fosse vera la seconda ipotesi, ciò non dovrebbe certo chiudere le prospettive del dialogo e tantomeno della convivenza pacifica e solidale, ma questo dialogo e questa convivenza se devono essere solidi e autentici devono fondarsi sulla verità e non sulla retorica.
In secondo luogo, si tratta di capire che cosa dice veramente il Corano, riguardo ai rapporti dei musulmani con ebrei e cristiani, sgombrando il campo da ogni semplificazione di comodo sul “vero islam” (semplificazioni oltretutto operate molto spesso da personaggi che si improvvisano esperti di islam senza conoscere neanche una lettera dell’alfabeto arabo). Si tratta ad esempi di capire se, oltre ad avere una certa utilità nel dialogo interreligioso, le espressioni “religioni del Libro” e “religioni abramitiche” abbiano anche un vero significato teologico. Abramo è davvero un padre comune? Ma di questo, in una prossima puntata!