Dopo
i terribili avvenimenti di Parigi, confortante e liberatoria è stata la vasta e
solidale partecipazione che ha portato molti a scendere in piazza e tantissimi
a manifestare da casa, attraverso lo strumento dei social network, con il motto
“Je suis Charlie Hebdo”. Ben presto, tuttavia, si è capito come quella
solidarietà fosse tutt’altro che unanime e comunque non fosse certo priva di
riserve. Accanto a coloro che si sono apertamente dissociati - soprattutto a
sinistra, e ne riparleremo – accanto a chi ha chiaramente proclamato: “Je ne
suis pas Charlie Hebdo”, esiste una vastissima maggioranza silenziosa, una
moltitudine che ha pensato e detto a mezza voce: “Oui, je suis Charlie Hebdo,
mais…”. Il motivo di questa riserva? Esso è stato variamente declinato, dalla
connotazione “estetica” – le vignette sarebbero state di cattivo gusto – a quella
“etica” – esse risultavano “offensive” – a quella di semplice e comune “buon
senso” – non erano “opportune”, erano una inutile “provocazione”. In ogni caso,
gli autori del giornale satirico avrebbero “esagerato”, avrebbero superato ogni
limite. In alcuni casi, in queste posizioni si è intravista l’idea inquietante
che in fondo Charbonnier e gli altri un po’ se la sarebbero cercata…insomma
hanno fatto come le donne che vanno in giro in minigonna, si sarebbe detto un
tempo, e che poi si lamentano pure se vengono violentate…
Naturalmente,
nessuno tra quelli del “Oui, je suis Charlie Hebdo, mais…” ha mancato di
esprimere la propria assoluta, ferma condanna per la violenza e il terrorismo e
l’altrettanto assoluto e convinto sostegno per la libertà di stampa: ci
mancherebbe altro! Senza spiegare, però, una volta ammesso, giustificato e
consacrato il principio che ci si possa legittimamente offendere per una
vignetta satirica, come si possa poi evitare che fra i tantissimi che si
offendono restando pacifici, ci sia qualcuno che, offendendosi, imbraccia il
kalashnikov. Senza sapere o senza ricordare che la libertà di stampa, nei
regimi autoritari, non è stata mai limitata o soppressa proclamando apertamente
che si voleva limitarla o abolirla, ma piuttosto usando precisamente le stesse
argomentazioni dei nostri “Charlie Hebdo con riserva”: la liberta' di stampa e'
sacrosanta, però non bisogna arrivare ad offendere la religione o la nazione o
il partito, la libertà non e' licenza di far tutto e scrivere tutto, bisogna stabilire dove finisce la liberta' tua
e dove incomincia la mia ecc. ecc. Su questa strada, ben presto la censura e' di fatto istituita,
magari già nella forma intimidatoria dell'autocensura. Perchè ciò che tanti non
capiscono è che libertà come quelle di stampa, di opinione e di espressione o
sono assolute o non sono più nulla. Non appena si incomincia a relativizzarle,
muoiono.
Purtroppo,
questa maggioranza più o meno silenziosa ha ricevuto adesso l’autorevole avallo
del sommo pontefice di Roma alle proprie idee o pregiudizi. Papa Bergoglio, del
resto, si è già ampiamente mostrato abilissimo a sintonizzarsi sul “comune
senso della banalità” e così non ha avuto certo esitazioni a dichiarare che sì
la libertà di espressione è sacrosanta, ma deve avere il limite di non
offendere e non “deridere” la fede altrui.
Dato
che un pontefice, a differenza di un comune cittadino, non può cavarsela con
una battuta da bar sport, Bergoglio avrebbe anche il dovere di chiarire chi
decide che cosa è offensivo e che cosa non lo è. E, inoltre, che cosa si dovrebbe
fare una volta accertato che l’”offesa” c’è stata: si censura il giornale, si fa
uscire con gli 'omissis', si persegue penalmente il giornalista, gli si commina
una multa? Si pone anche il problema di che cosa significhi “deridere o
offendere la fede altrui”: non è forse vero che nel mondo contemporaneo e nella
società di massa – come ci hanno spiegato storici come Chabod o Mosse – la politica
si è caricata di significati, aspetti e componenti religiose, è diventata essa
stessa “fede”, ha dato vita a “mistiche” e “liturgie”? Pertanto, la satira,
seguendo il pensiero di Bergoglio, non dovrebbe offendere nemmeno le fedi “politiche”
altrui. Senza potere, allora, stabilire un confine tra religione e politica,
tra ciò che è legittima caricatura e ciò che invece offende, la satira non
potrebbe che rassegnarsi a morire.
E
viene allora il sospetto che è proprio il principio informatore della satira,
se non addirittura quello della libertà di pensiero, che non è stato ancora ben
digerito dalla chiesa cattolica, o almeno dalle sue gerarchie.
Ma
se pure si voglia evitare di dar corpo a tale sospetto, non si dovrebbe
ignorare la successiva dichiarazione di Bergoglio, con la quale egli ha
legittimato anche la preoccupante posizione di chi è incline a pensare che i
giornalisti parigini in fondo un po’ se la sono cercata. Il papa ha detto: “se
qualcuno offende mia madre si deve aspettare che poi io gli dia un pugno”. A
parte l’improprio e stravagante accostamento tra madri e fedi religiose, questa
battuta, riferita agli eventi di cui si parla, ha una portata di una inaudita
gravità, che non è stata colta praticamente da nessuno di coloro che hanno
applaudito o comunque riportato con enfasi l’intervento di Bergoglio sulla
questione Charlie Hebdo.
Da
un papa circondato dalle credenziali e dal consenso di cui gode quello attuale,
qualcuno forse si aspettava una diversa presa di posizione: una difesa
autentica delle libertà e dei valori che sono stati così violentemente
oltraggiati dai terroristi islamisti; una distinzione tra ciò che è fede e ciò
che è religione (dopotutto Bonhoeffer è uno degli autori protestanti più amati,
a quel che sembra, dal mondo cattolico). Il papa ha invece preferito assecondare
e cavalcare il “si banale”, la “chiacchiera” dominante, per giunta nelle sue
manifestazioni più preoccupanti. E ha preferito, dietro la celia, mostrare il volto del boxeur. E tuttavia, come
pugile argentino, noi continuiamo a preferire Carlos Monzon.
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