giovedì 14 novembre 2019

DE FELICE E IL FASCISMO: OLTRE LO SCONTRO IDEOLOGICO DI IERI E LE MISERIE DI OGGI



Renzo De Felice rischierebbe oggi di passare per “i tribunali e le commissioni ideologiche dell’inquisizione” (politicamente corretta)? E’ il problema che pone provocatoriamente Marcello Veneziani in un suo recente articolo. Non è da escludersi, purtroppo. Certamente continuerebbero a passare per i tribunali di tutte le inquisizioni e ad essere emarginati, oggi come allora, tutti coloro che nel campo degli studi storici non si trovavano e non si trovano allineati né con la posizione dei suoi denigratori, gli storici di “sinistra”, né con quella dello stesso De Felice, dei suoi numerosi discepoli e dei suoi sempre numerosi sostenitori (perché non mi pare che il suo lavoro storico sia stata “calpestato e cancellato in modo rozzo e fazioso”. Mi pare che, oggi come ieri,  sia citato, per essere esaltato e denigrato, da chi non lo ha letto).

Ciò che voglio discutere in questo articolo non è tanto dell’inquisizione politicamente corretta – lo faccio di continuo - e di una damnatio memoriae di De Felice -che in verità non c’è, e non c’è perché, ahimè, manca la materia del contendere in quanto si è spento ogni serio e autentico dibattito sul fascismo - ma del contributo storiografico di De Felice. Il che potrebbe magari servire a parlare per una volta del fascismo in modo non banale, non volgare, non miserevolmente strumentale.

Avanzo in tutta franchezza la pretesa che la mia sia un’opinione “informata dei fatti”. E per due sostanziali motivi. Il primo è che quando si consumavano ancora gli ultimi fuochi della battaglia fra la storiografia “revisionista” di De Felice ed allievi e quella tradizionalista e ortodossa degli storici marxisti – una vera “guerra civile” degli storici – ero un giovane ricercatore che si occupava appunto del fascismo e, in particolare, di Mussolini, dell’immagine e del mito del Duce. E mi ero laureato con un docente – il compianto Aurelio Lepre – che, pur se di formazione marxista e più precisamente gramsciana, si era distaccato dalla ortodossia, aveva utilmente recepito alcuni aspetti del contributo di De Felice, ma si collocava in una posizione appartata e critica rispetto ai due schieramenti in lotta. E quella posizione, sia  per merito della sua lezione, sia per un autonomo percorso, era anche la mia. In ogni caso ho vissuto e conosciuto dall’interno la disputa e i suoi protagonisti, il che può servire ad evitare le deformazioni mediatiche e quelle della memoria. Il secondo motivo è che, al contrario dei tanti, sia sostenitori sia denigratori di De Felice, che ne parlano – bene o male - senza aver veramente compiuto l’impresa di leggere i quattro volumi e complessivi sei tomi (ciascuno di circa mille pagine) della sua monumentale biografia di Mussolini, io quei volumi e quei tomi li ho letti, anzi li ho studiati, perché questo era parte del mio lavoro. Come ho letto la sua “Intervista sul fascismo” – lo scritto al quale i più si sono limitati, esattamente come la massima parte dei marxisti e degli antimarxisti si sono fermati al Manifesto del Partito Comunista, senza azzardarsi a por mano al Capitale o ai Grundisse – e le sue “Interpretazioni del fascismo”, che forse sono il suo vero e miglior contributo alla storiografia sul fascismo.

Seguirò la traccia di Marcello Veneziani, con il quale stavolta ho parecchi motivi di divergenza. Secondo Veneziani, De Felice smonta una serie di tabù della storiografia sul fascismo. Vediamoli uno per uno

1.      “E’ vietato dire che il fascismo ha goduto per tanti anni di un reale consenso popolare”, scrive Veneziani.

In effetti fu questo uno dei motivi scatenanti della “guerra civile” degli storici. La questione è però più complessa. A De Felice veniva rimproverata la distinzione fra il “consenso attivo” al regime, quello dei fascisti militanti e convinti, che restò limitato e circoscritto anche per sua ammissione, e il “consenso passivo”, che invece almeno fino al 1936 e, in parte, fino alla guerra, fu a suo avviso molto ampio. Questa categoria di “consenso passivo” fu giudicata, non senza qualche ragione, alquanto ambigua e si disse che De Felice eludeva il fatto che questo consenso era in buona parte manipolato dalla propaganda di regime ed estorto con la violenza e con la minaccia della repressione. Ciò è vero, ma gli storici di sinistra a loro volta eludevano il fatto che, per estorto e manipolato che fosse, quel consenso era reale e almeno in parte andava oltre l’orchestrazione del regime e la minaccia dell’apparato repressivo. La grave colpa degli storici di sinistra, con poche ed isolate eccezioni (fra cui Aurelio Lepre), fu di aver dimenticato, forse in modo non innocente, che la questione del consenso al fascismo, o meglio della sua base di massa, era stata posta proprio da studiosi marxisti del fascismo e fin dagli anni Venti e Trenta. Ma si trattava di marxisti non ortodossi secondo i canoni della Terza Internazionale stalinista ed anzi addirittura “eretici”, in quanto sviluppavano certe tesi di Trotzsky sul fenomeno fascista. Tra di essi si devono citare almeno Otto Bauer e August Thalheimer. Thalheimer, Bauer e lo stesso Trotzsky interpretavano il fascismo, e in particolare il nazismo, alla luce di un modello “bonapartista”, tratto cioè da un’opera di Marx su Luigi Bonaparte (Napoleone III): Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. L’interpretazione bonapartista del fascismo consentiva di superare lo schematismo della interpretazione marxista ufficiale, ma anche della interpretazione liberale di Croce, e di dar conto della base di massa che il regime era stato capace di costruirsi, senza ridurlo a semplice “agente del capitale monopolistico” (o a una “malattia morale” e ad una barbarica invasione tipo quella degli Hyksos nell’Antico Egitto, secondo il punto di vista crociano).  Ma di questo non si parlò affatto nel furore della polemica ideologica fra De Felice e i suoi antagonisti e vanamente Lepre fece pubblicare da Liguori la preziosa rassegna di Richard Saage sulle “Interpretazioni del nazismo”, che dava spazio proprio a quelle letture del fenomeno, tra cui quella bonapartista, che già da tempo risultavano utili a porre seriamente la questione del consenso.

2.      “Non si può dire che il fascismo fu un regime di modernizzazione”.

In realtà, si poteva dire e lo dicevano anche gli storici marxisti, facendo ad esempio riferimento al classico studio di Polanyi, La grande trasformazione. Tutti gli studiosi, poi, che avevano interpretato il fascismo alla luce della categoria del “totalitarismo”, da Hannah Arendt a Friedrich e Brzezinski, mettevano poi in risalto la modernità del fascismo rispetto ai tradizionali regimi autoritari. Il merito di De Felice, semmai, fu di segnalare le interpretazioni sociologiche e psico-sociali del fascismo, in Italia fino a quel punto piuttosto trascurate, per la diffidenza verso le scienze sociali che era delle due correnti culturali lungamente egemoni, quella gramsciana e quella crociana.

3.      “Non si può dire che il razzismo e l’antisemitismo furono estranei al fascismo sino all’alleanza con Hitler e alle sciagurate leggi razziali”.

E difatti, caro Veneziani, questo non si può e non si deve dire, perché non è vero! Fin dalle origini fu presente nel fascismo una corrente razzista e antisemita , che ruotava intorno alla figura di un mio, purtroppo, comprovinciale, Giovanni Preziosi, e che pubblicava una rivista – “La Vita Italiana” – la quale pretese anche di dare lezioni ai nazisti, nei primi anni Trenta, su quale fosse il migliore “razzismo” (quello su base culturale e non etnica, secondo gli ideologi della “Vita Italiana”). Antisemite erano figure non certo secondarie del regime, e proprio del “fascismo movimento”, per usare un’espressione di De Felice: Farinacci, il ras di Cremona e antagonista-ombra di Mussolini, e Rossoni, il leader del sindacalismo fascista. Certamente, questa componente fu minoritaria nel fascismo, fino al 1938, ma fu anche decisiva nel determinare la funesta svolta delle leggi razziali, in quanto consentiva di presentarla come il coerente sviluppo di una linea già presente nel fascismo italiano, piuttosto che come una servile imitazione del nazismo.

4.      “Non si può dire che nazismo e fascismo furono due realtà distinte”.

Anche qui la questione è un po’ più complessa. La divergenza era un’altra: la storiografia di sinistra tendeva a usare in senso molto ampio la categoria di fascismo, applicandola a un notevole numero di regimi, partiti e movimenti. De Felice riteneva che in senso stretto la categoria dovesse applicarsi solo al fascismo italiano e al nazismo tedesco, tra i quali vi erano anche delle differenze. Qui certo De Felice pensava più genuinamente da storico dei suoi antagonisti. Il problema è che, suo malgrado, questa posizione è stata strumentalmente usata per avanzare la tesi di un fascismo relativamente “buono” (o che “fece anche cose buone”) rispetto a un nazismo totalmente “cattivo”. Quest’uso volgarmente strumentale della storia, a fini di polemica politica, francamente non apparteneva né a De Felice, né ai suoi avversari del tempo. Si volava più alto.

5.      “Non si può dire che le potenze occidentali spinsero Mussolini tra le braccia di Hitler, dopo che aveva vanamente tentato di porsi nel mezzo”.

Anche questo non si può dire semplicemente perché è piuttosto lontano dal vero. Gli errori tragici delle potenze occidentali furono molti, e sono anche ampiamente noti, e certamente questi errori contribuirono a consolidare l’alleanza italo-tedesca, ma nelle braccia di Hitler Mussolini si gettò da solo, a partire dalla campagna di Etiopia, con la quale si isolò dalle potenze occidentali. Fu allora che si cominciò a delineare l’Asse Roma-Berlino e quella scelta sciagurata innescò una dinamica che poi portò, per successivi passaggi (cruciale fu anche, appena conclusa la conquista dell’Etiopia, l’intervento nella guerra civile spagnola a fianco di Franco e accanto a Hitler), al Patto d’Acciaio e all’alleanza bellica. Certamente Mussolini non era mai stato filotedesco, diffidava dell’alleato, ne subiva lo strapotere con malcelata insofferenza, ma era stato lui stesso a cacciarsi in trappola.

Quanto al presunto ruolo di mediatore fra le potenze occidentali ed Hitler che si dovrebbe attribuire a Mussolini, esso è una leggenda. Sono due fondamentalmente gli episodi dai quali questo ruolo dovrebbe emergere: la conferenza di Stresa del 1935 e quella di Monaco del settembre 1938. Nel primo caso, Mussolini assunse effettivamente una posizione mediana fra i due contendenti, sul tema della revisione dei Trattati del 1919, posizione che era stata il punto forte delle aspirazioni di politica estera italiana negli anni precedenti e che in quel momento rappresentava un argine alle rivendicazioni hitleriana. Tuttavia, proprio a Stresa la possibilità di un ruolo centrale dell’Italia nello scenario internazionale naufragò definitivamente. A quella conferenza, infatti, Mussolini fronteggiò Hitler e costituì con i franco-britannici il cosiddetto ed effimero “fronte di Stresa”, soprattutto perché sperava di ottenere il lasciapassare franco-britannico per l’imminente impresa d’Etiopia, ossia per quella avventura che lo avrebbe consegnato definitivamente nelle mani di Hitler (e anche per dissuadere Hitler dal riprovare l’Anschluss con l’Austria, che già aveva bloccato l’anno prima). Quanto alla Conferenza di Monaco e al ruolo di mediazione che Mussolini vi avrebbe esercitato, scongiurando così, almeno per il momento, la guerra, ciò è davvero una invenzione propagandistica (peraltro non gradita allo stesso Mussolini, che non fu del tutto contento di sentirsi acclamare come “Salvatore della pace”, nel momento in cui amava presentarsi come Duce militare e voleva suscitare le presunte e latenti virtù guerresche del popolo italiano), un’invenzione della propaganda alleata e di quella tedesca. Francesi e inglesi dovevano lasciar credere che a Monaco Hitler fosse stato costretto ad arretrare rispetto alle sue rivendicazioni, mentre il Führer doveva a sua volta recitare la parte di chi si accontenta mentre in realtà si accaparrava tutta la posta in palio. La proposta di mediazione di Mussolini, infatti, concedeva a Hitler tutto ciò che aveva preteso per il momento (l’annessione dei Sudeti) senza dare nessuna garanzia reale ai cecoslovacchi, a cui neanche fu consentito di partecipare all’incontro (i rappresentanti cecoslovacchi dovettero attendere nella stanza accanto, mentre di decidevano le sorti del loro paese!). Per giunta, come la documentazione ha ormai evidenziato, questa proposta del tutto favorevole a Hitler non fu neanche autonomamente presentata da Mussolini, ma gli fu letteralmente dettata da Berlino! E questo dovrebbero saperlo quei sovranisti odierni nostalgici del Duce!

6.      “La Repubblica sociale fu un freno e un cuscino per attutire il nazismo e le ritorsioni agli italiani”.

 Qui francamente non vorrei neanche commentare, perché una tale affermazione sembra più degna di un reduce irriducibile di Salò che dell’intelligenza e dell’onestà intellettuale di Veneziani. Basterebbe solo pensare alla sorte degli ebrei italiani, che le camicie nere di Salò contribuirono a rastrellare e a deportare  (anzi furono soprattutto loro a fare il “lavoro sporco” per conto delle SS).

7.      “Non si può dire che la Resistenza fu un fenomeno minoritario e non sconfisse il fascismo, ma accompagnò la vittoria degli alleati”.

Qui non vorrei commentare per il motivo opposto: l’affermazione corrisponde ad una evidenza storica incontrovertibile e persino banale. Ogni lotta armata, ogni “resistenza”, è inevitabilmente fenomeno minoritario e d’altro canto è impensabile che i partigiani potessero sconfiggere i tedeschi da soli e anche che potessero risultare determinanti. L’affermazione banale però ha un significato, ed è per questo che Veneziani la fa: intende demolire la Resistenza come mito fondativo della Repubblica. Qui entriamo veramente nel terreno delle idee e delle scelte politiche e abbandoniamo quello della storiografia. Da parte mia, per restare invece su quest’ultimo piano, vorrei evidenziare come la Resistenza non fu solo affare dei comunisti, che ne hanno poi sequestrato la memoria, e che ci furono partigiani di diverso indirizzo politico. Ma per capire questo basterebbe leggere Fenoglio.

8.      “Non si può dire che la partitocrazia nasce già con la Resistenza e con i CLN”.

Alla fine, un punto che sottoscrivo in pieno e senza riserve, sebbene si trattasse evidentemente di ben altra “partitocrazia” e di ben altri leader politici! Per la verità, questo lo diceva già nel 1944 e poi negli anni successivi un tal Guglielmo Giannini, fondatore dell’”Uomo Qualunque”, un personaggio scomodo, troppo dileggiato, troppo sbrigativamente rimosso dalla storia di questo paese. Un vero impresentabile, per dirla con Veneziani.

In conclusione, questa discussione dovrebbe servire, oltre che naturalmente a puntualizzare alcune evidenze storiche sul fascismo, anche a collocare nella giusta dimensione l’opera storiografica di De Felice, che certamente non merita di essere sottovalutata e sbrigativamente liquidata, ma neanche va idolatrata, come tende a fare oggi una opinione pubblica moderata o di destra (ribadisco: senza leggerla). Quello che si consumò fra De Felice e gli storici marxisti negli anni Settanta e Ottanta fu in realtà uno scontro ideologico e l’ideologia non stava da una parte sola, anche se in una parte sola essa era dichiarata. Uno scontro che evidenziava l’ “uso pubblico” , cioè politico, della storia, come ebbe a dire Habermas. Un uso pubblico e politico della storia che è inevitabile (l' “obiettività” nella storiografianon può esistere nel senso di asettica neutralità, ma solo nel senso di onestà intellettuale e rigore scientifico), che va però esercitato con un  profilo alto – come fecero sicuramente De Felice e i migliori fra gli storici di formazione marxista – ma che espone altrettanto inevitabilmente a delle mancanze e a delle approssimazioni. E voglio concludere citandone una, importante, sulla quale pure credo di poter avere una “opinione informata”.

Un motivo di polemica fra De Felice e gli storici marxisti, che Veneziani non cita, riguardò la scelta e l’uso delle fonti – il cuore quindi del lavoro dello storico. Gli storici marxisti diffidavano delle fonti “fasciste”, ossia quelle prodotte dal regime stesso, e le usavano molto limitatamente – magari per studiare i meccanismi della propaganda fascista - o non le usavano affatto. De Felice ebbe facile gioco nell’attaccarli: è evidente che qui i suoi antagonisti cadevano in una ingenuità puerile per degli storici, se non fosse stata in realtà, lo schermo di un pregiudizio ideologico. Non esistono fonti “obiettive”, come dovrebbe sapere anche uno studente delle medie, e lo storico le fonti deve usarle tutte, sempre vagliandole criticamente. Gli storici marxisti rinunciavano ad esempio ad usare una documentazione molto importante, conservata all’Archivio Centrale dello Stato: i rapporti degli informatori dell’OVRA, la polizia politica fascista, gli agenti che giravano in incognita tra la gente, nelle piazze, nei bar, non solo e non tanto per individuare e denunciare gli oppositori del regime, ma per raccogliere opinioni e sentimenti della popolazione. De Felice ha avuto l’indiscutibile merito di aver individuato questa fonte, di averne sottolineato l’importanza e di aver incominciato ad usarla. Tuttavia, nella sua opera, De Felice non ha svolto un’indagine sistematica su questi rapporti, ma si è limitato ad estrapolarne e a citarne qualcuno (dando ai maligni l’impressione che selezionasse quelli che potevano confermare le sue tesi, ma a questo non vogliamo credere). Fu invece proprio Aurelio Lepre a indirizzarmi verso una ricerca sistematica su quelle fonti, in relazione al tema di cui mi occupavo allora (l’immagine e il mito di Mussolini). E così passai tante gratificanti, talora entusiasmanti giornate all’Archivio Centrale dello Stato e feci una scoperta di una certa importanza: i rapporti erano anonimi, ma qualcuno – non so se l’informatore stesso o il destinatario dell’informativa, il capo dell’OVRA Guido Leto – li contrassegnava con una sigla. Ogni informatore aveva la sua sigla (ad esempio “Milano 52/77”, “Genova 589” e così via). Questo dato è prezioso, perché Guido Leto, come ebbe anche a dire esplicitamente nelle sue memorie, reclutava informatori di ogni tipo, per avere un quadro completo della situazione. C’erano, quindi, tra loro dei fascisti militanti e anche fanatici ma anche degli irriducibili antifascisti. E c’erano, in buon numero, degli informatori di area, diciamo così afascista, che erano ovviamente i più attendibili. Ricollegare i vari rapporti informativi ai loro autori, stabilire ad esempio che “Milano 569” era un fanatico fascista o che “Firenze 52 Fieramosca” era un non meno fanatico antifascista, mentre “Milano 52 B 51” o “Genova 610” (e parecchi altri) erano equilibrati e attendibili, fu molto importante per la mia ricerca e lo è stato, credo, anche per ricerche successive. Ma questa scoperta non l’avevano fatta né De Felice e tantomeno i suoi antagonisti (che nemmeno li guardavano quei documenti), mentre la poté fare un giovane e oscuro ricercatore, non perché avesse particolari abilità, ma forse solo perché, estraneo come era alla furente battaglia che si stava ancora combattendo, aveva più tempo per concentrarsi sulle fonti ossia sulla linfa vitale del lavoro storico, e le poteva leggere con mente più libera. E se mi sono permesso di citare questo elemento biografico è perché ne trassi una lezione che non ho mai più dimenticato e che oggi mi pare più che mai di vitale importanza.

venerdì 8 novembre 2019

L'ASSASSINIO DEL FILOSOFO GIOVANNI GENTILE: UN BARBARICO ATTO FONDATIVO DELL'EGEMONIA CULTURALE COMUNISTA


Spesso viene ricordato e deprecato come atto barbarico l’episodio di piazzale Loreto, con l'esposizione al pubblico scempio dei cadaveri del Duce, di Claretta Petacci e di altri gerarchi del fascismo. Questo almeno da una parte dell’opinione pubblica, perché invece l'opposta fazione politica talora evoca invece quelle scene per indirizzare un macabro augurio e una minaccia agli avversari politici più detestati (e si tratta pure di quella parte politica che lancia campagne anti-odio con relative commissioni). C’è però un atto barbarico a mio avviso ben più grave e sinistramente importante, sia per il personaggio che ne fu vittima, sia perché, mentre piazzale Loreto può essere considerato l’atto conclusivo di una tragica e sordida storia (che era stata incominciata peraltro dal fascismo e ciò non va dimenticato) – non senza purtroppo lo strascico di vendette postume successive alla Liberazione – il delitto a cui alludo è invece in tutto e per tutto un terribile atto fondativo, è il presagio e l’annuncio di una egemonia culturale della sinistra comunista esercitata con intolleranza e spirito settario, volta all’emarginazione delle voci anticonformiste. Si tratta dell’uccisione del filosofo Giovanni Gentile il 15 aprile del 1944 ad opera di un commando dei Gap, formazione partigiana emanazione del PCI. A Marcello Veneziani va il merito – nel suo splendido Imperdonabili - di aver non solo ricordato la vicenda, ma di averle assegnato il suo reale e sinistro significato.

Veneziani cita la ricerca di Luciano Mecacci che ruota intorno a tre domande di fondo: chi uccise materialmente il filosofo? Chi ordinò il delitto? Per quali ragioni si decise di eliminare Gentile?

La risposta alla prima domanda è di gran lunga la più facile e anche la meno importante: Mecacci ritiene che l’autore materiale dell’omicidio non sia stato, come vuole invece la versione canonica, Bruno Fanciullacci, ma un altro partigiano, Giuseppe Martini, una figura minore. In ogni caso il delitto fu sicuramente eseguito dai Gap. Ma chi furono i mandanti? Qui la questione si complica perché Mecacci non tralascia nessuna ipotesi e parla di una “concatenazione di decisioni strategiche” che coinvolsero i soggetti più diversi, non esclusi i servizi segreti britannici e americani, i fascisti intransigenti e gli immancabili massoni. Tuttavia, è fuori discussione che il PCI fu “il principale attore dell’organizzazione materiale dell’attentato”, che, d’altronde, rivendicò apertamente.

Veneziani propone una “sintesi più calzante”, che a me pare la più utile soprattutto perché introduce la risposta alla terza domanda – perché e per quali scopi fu ucciso Gentile – che è quella veramente cruciale: il mandante dell’omicidio fu l’”Intellettuale collettivo”, che è la definizione che Gramsci aveva dato del partito comunista, ma è anche, più specificamente, il gruppo di dirigenti, intellettuali organici, professori che costituiva l’intellighenzia del PCI. Le parole usate da costoro, dopo la morte di Gentile, sono brutalmente, miseramente significative e lasciano intravedere, alla luce della storia successiva, i motivi profondi del delitto. A cominciare dalle frasi del segretario del PCI che rivendicò con orgoglio l’esecuzione. Togliatti definì Gentile “canaglia e camorrista, immondo e corruttore, bandito e bestione”. Fingendo di dimenticare che Lenin nella monografia su Marx, che proprio lui, Togliatti, aveva fatto pubblicare in Italia, citava il solo Gentile come interprete filosofico del pensatore di Treviri. Vanno poi ricordate le parole spregevoli che usarono nei confronti del filosofo dell'attualismo una serie di personaggi che erano in forte debito intellettuale con lui: Antonio Banfi (che fino a poco prima era impegnato a chiedergli e ottenerne favori), Concetto Marchesi, Eugenio Curiel, Giorgio Spini, Eugenio Garin. Per non parlare di Bianchi Bandinelli che di Gentile era stato amico e che aveva accompagnato Hitler nella sua visita in Italia, e di tanti altri, come Cesare Luporini, che furono quantomeno reticenti su quella brutale esecuzione di un uomo che era la più viva intelligenza filosofica italiana di quel momento e forse del secolo, una personalità che direttamente o indirettamente avevano avuto come maestro. Ma ora bisognava scegliere e chi non sceglieva il PCI, chi non accettava il ruolo di “intellettuale organico”, invece di far “carriera”, invece di continuare a pubblicare con Einaudi e con altre case editrici facenti parte dell’”Intellettuale collettivo”, invece di ottenere cattedre e riconoscimenti, sarebbe finito emarginato e rimosso. Come accadde a molti, da Volpe a Papini, a Soffici, a Pellizzi.

“L’uccisione di Gentile”, conclude Veneziani, “la denigrazione postuma, la rimozione della memoria, fu il peccato originale su cui si fondò il sistema ideologico-mafioso italiano, fu il parametro per misurare gli ammessi e gli esclusi, in accademia e non solo, fu il preambolo alle omertà successive e alle perduranti miserie partigiane della cultura italiana”.
Fu insomma un barbarico atto fondativo, che ancora segna profondamente la cultura italiana.