Il
libro di Luca Ricolfi, Sinistra e popolo.
Il conflitto politico nell’era dei populismi, uscito lo scorso anno, offre
un’analisi magistrale e una preziosa chiave di lettura dell’attuale quadro
politico non solo italiano ma del mondo occidentale tutto, in particolare per
quanto riguarda la crisi della sinistra e il nuovo fenomeno cosiddetto
populista. Leggendo fra le righe vi si potrà anche trovare una interpretazione
pressoché profetica del risultato elettorale del 4 marzo, della disfatta del PD
e delle vicende successive fino al
prospettato governo Lega-5Stelle.
Le categorie di destra
e sinistra nei modelli di Bobbio e di Hayek
Occorre
partire dalla efficace ricostruzione di Ricolfi sull’evoluzione delle categorie
di destra e sinistra.
Ricolfi
ricorda come abbia avuto larghissima fortuna la definizione contenuta nel
libricino di Norberto Bobbio, del 1984, intitolato appunto Destra e sinistra, anche perché essa ha fornito alla sinistra una
comoda e lusinghiera autorappresentazione. Bobbio
adotta uno schema bipolare, incentrato sul valore di uguaglianza: questa costituirebbe il valore della sinistra, mentre
la destra tenderebbe alla disuguaglianza. E’ già evidente il fascino che questa
semplicissima classificazione ha potuto esercitare sulla sinistra,
alimentandone l’autostima fino al punto di ritenere se stessa il campo del
bene, della generosità, dell’altruismo e relegare l’antagonista politica nel
campo della cinica, egoistica difesa dei propri privilegi. Bobbio elude, però,
un paio di questioni cruciali: anzitutto, il problema della dicotomia libertà/autorità,
che considera trasversale a quella destra/sinistra. Esistono, infatti, per lui
una sinistra liberale, la socialdemocrazia, e una sinistra autoritaria, il
comunismo, così come, nell’altro campo, esiste una destra liberaldemocratica
contrapposta a una destra autoritaria (i regimi fascisti o le dittature di
stampo più tradizionale). In tal modo, lo schema di Bobbio è indubbiamente una
efficace tavolozza riassuntiva dei regimi politici del Novecento, inteso come
«secolo breve»: un campo democratico al cui interno il conflitto politico è fra
una sinistra socialdemocratica e una destra liberale, e un campo dei regimi
totalitari, fascismo e comunismo.
Lo
schema bipolare di Bobbio si fonda dunque sull’idea che la libertà non sia
prerogativa della destra o della sinistra, ma sia trasversale ai due campi, e
che l’elemento distintivo fra destra e sinistra sia soltanto l’uguaglianza.
Questa idea a sua volta si basa sulla riduzione del concetto di libertà a
quello di libertà politica, ossia di democrazia. E proprio riconducendo la
libertà alla libertà politica, ossia alla democrazia, Bobbio può eludere
l’altra questione fondamentale, quella della tensione, se non della
contraddizione, fra libertà ed uguaglianza. Per il filosofo torinese, infatti,
libertà ed uguaglianza erano perfettamente conciliabili ed il suo regime
politico ideale era quindi una forma di liberalsocialismo, un ideale a cui si
avvicinavano le grandi socialdemocrazie occidentali, ma che per Bobbio avrebbe
potuto affermarsi persino nel blocco sovietico: qui era già realizzato il
valore dell’uguaglianza e si trattava solo di favorire un processo di
democratizzazione.
La
critica dell’analisi di Bobbio e lo smascheramento delle rimozioni che essa
contiene si può effettuare, secondo Ricolfi, servendosi di un altro grande
pensatore politico del Novecento, Hayek
(La società libera). Per Hayek la dicotomia libertà/autorità non è
affatto trasversale a quella fra uguaglianza e disuguaglianza e quindi, secondo
lo schema di Bobbio, a destra e sinistra: ogni tentativo dello Stato di
affermare l’uguaglianza o addirittura di imporla, rischia di limitare la
libertà e, viceversa, ogni limitazione dei poteri dello Stato in nome della
libertà rischia di compromettere l’uguaglianza. Il socialismo (o almeno il
socialismo statalista) si serve dello Stato per promuovere l’uguaglianza, anche
a costo di sacrificare parte delle nostre libertà. Il liberalismo vuole invece
limitare i poteri dello stato, anche a costo di accettare un significativo
grado di disuguaglianza. Il sogno di una «libertà uguale», di una virtuosa
combinazione fra l’ideale di uguaglianza e quello di libertà, di un socialismo
liberale, per Hayek resta quindi un sogno. Libertà
ed uguaglianza sono incompatibili, o almeno sono in tensione e hanno un certo grado
di incompatibilità. Siamo quindi chiamati ad una scelta di fondo fra libertà ed
uguaglianza.
Se
Bobbio sembra invece riuscire nel miracolo della conciliazione fra libertà ed
uguaglianza è perché compie un doppio salto lessicale e concettuale. Anzitutto
riduce la libertà alla libertà positiva, la libertà politica, la cosiddetta
“libertà degli antichi”, ossia la partecipazione paritaria alla vita pubblica.
In secondo luogo chiama uguaglianza e riconduce sotto tale concetto la libertà
negativa, senza neanche distinguere peraltro fra le sue due diverse componenti:
la libertà da – libertà dalla
costrizione, sia come ingerenza dello stato, sia come prevaricazione da parte
di gruppi e singoli – e libertà di – libertà
di perseguire il proprio piano di vita, con la rimozione degli ostacoli che vi
si frappongono. Si può dire che la libertà da
è la libertà liberale e la libertà di
è la libertà socialista – con la sfera dei diritti sociali (istruzione,
salute, previdenza, assistenza). Le libertà liberali sono per Bobbio ricondotte
nel campo delle libertà socialiste e quindi in quello dell’uguaglianza. In tal
modo, Bobbio aggira il problema dell’incompatibilità fra libertà – intesa come
libertà da – e uguaglianza: la
libertà da viene nascosta dietro la
libertà di, annegata nell’uguaglianza
e così si rimuove il problema cruciale: ogni espansione della libertà di richiede l’ingerenza e l’intervento
dello Stato e quindi minaccia la libertà da
e ogni rafforzamento della libertà da
– limitando quella ingerenza e quell’intervento - comporta una rinuncia
parziale o totale alla libertà di.
Individuare
la competizione e il conflitto fra libertà ed uguaglianza significa, come si
diceva, dover effettuare una scelta, che però dal punto di vista liberale di
Hayek non comporta la rinuncia all’ideale dell’uguaglianza, ma la sua
subordinazione a quello della libertà. Solo il liberalismo estremo, quello
dello “Stato minimo” rifiuta, infatti, ogni forma di welfare e di
redistribuzione della ricchezza.
Lo
schema di Bobbio risulta così gratificante per la sinistra, ma non rende
giustizia alle ragioni della destra che viene associata alla disuguaglianza,
quindi al privilegio, quindi alla conservazione. In tal modo, la
classificazione di Bobbio, se riesce a inquadrare bene i regimi politici della
parte centrale del Novecento, non tiene conto dell’emergere e del divenire
egemone, nel penultimo decennio del secolo, di una destra tutt’altro che
conservatrice ed anzi a suo modo rivoluzionaria, quella liberista della
Thatcher e di Reagan.
Qui
interviene lo schema tripolare di Hayek: a una destra conservatrice si
contrappone non solo la sinistra progressista e socialista ma anche la destra
liberale.
Tuttavia,
gli sviluppi più recenti mandano in crisi non solo la classificazione di
Bobbio, ma anche quella di Hayek (del resto, stiamo parlando di un volume del
1960). Tra questi sviluppi due sono decisivi. Il primo è la “conversione” della
sinistra, in Europa come in America (Blair e Clinton sono le figure
emblematiche) alla filosofia del libero mercato. Qui lo schema di Hayek, pur
mostrando i suoi limiti, potrebbe ancora essere adottato con opportune
modifiche. Hayek riconosceva l’esistenza di due destre, una liberale e l’altra
conservatrice, ma di una sola sinistra. Occorrerebbe ora distinguere anche
nella sinistra, analogamente a quanto è accaduto nella destra, una corrente “innovatrice”,
quella che si è aperta al libero mercato, e una corrente conservatrice che al
mercato resta ostile, la cosiddetta sinistra radicale.
Il
secondo fatto importante rende però obsoleta anche questa versione allargata
dello schema di Hayek (per non parlare di quello di Bobbio). Questo fatto è l’irruzione dei movimenti “populisti”.
Prima
di vedere come ciò cambi radicalmente le nozioni di destra e sinistra e la
relativa dicotomia, occorre però chiarirsi le idee sulla categoria politica di
“populismo” oggi usata in modo indiscriminato.
La categoria politica
di populismo
La
definizione di populismo proposta da Ricolfi è nell’ottica della sociologia
politica, ma tiene conto sia della storia del fenomeno, sia delle dinamiche
politiche attuali. Il modello astratto è quindi opportunamente storicizzato.
Per Ricolfi il tratto distintivo dei movimenti populisti è la loro visione del sistema sociale come una
comunità, con un forte senso dell’identità e i cui valori e tradizioni
vanno salvaguardati. Questa visione del sistema sociale è di matrice romantica
ed in effetti storicamente il populismo nasce nell’Ottocento in Russia. A tale
concezione romantica comunitaria si contrappone quella di matrice illuminista:
qui il fondamento del legame sociale non è la comunità, ma è il contratto
sociale stipulato fra individui autonomi, portatori sia di diritti che di
interessi. La visione populista di una comunità sociale organica respinge
l’idea che all’interno di questa comunità vi possa essere un conflitto fra
parti di essa, portatrici di interessi e progetti contrastanti, ma parimenti legittimi. Il
populismo, quindi, non accetta la lotta di classe, ma non accetta neanche
quella conflittualità e competizione economica, sociale e politica che è invece
il cardine tanto della visione politica liberale che di quella
socialdemocratica e che da liberali e socialisti democratici è ritenuta non
solo legittima, quando si svolge in un certo quadro normativo e istituzionale,
ma addirittura necessaria. Il
fondamentale conflitto per i populisti è quello tra il popolo, inteso appunto
come comunità organica e ritenuto sempre fondamentalmente “sano”, e gli agenti
“contaminanti” che possono essere sia “interni” che “esterni”. Tra quelli
interni vi sono le élites politiche e
le stesse istituzioni rappresentative. Da qui la preferenza per forme di
democrazia diretta o plebiscitaria e la diffidenza per la democrazia
rappresentativa. Da qui anche la diffidenza per il “professionismo” politico:
per governare bastano buon senso e onestà e non è necessaria alcuna specifica
formazione. I nemici esterni sono tutti quei soggetti che minacciano
l’integrità della comunità di appartenenza: le istituzioni sovranazionali,
innanzitutto, e anche gli altri popoli se pretendono di esercitare una
qualsiasi forma di potere, di controllo o di ingerenza nei confronti del
proprio paese o quando si presentano come immigrati. Questa latente
conflittualità con gli altri popoli è però prettamente “difensiva”: il
populismo non ha alcuna aspirazione imperialistica, di dominio, di espansione.
Per questo, accomunarlo al fascismo e al nazismo è fuori luogo, nonostante
alcune somiglianze.
Le fasi storiche del
fenomeno populista.
Dopo
le origini ottocentesche in Russia, il populismo si esprime nel pieno Novecento
soprattutto in vari movimenti dell’America Latina (il più importante è il
peronismo) e ha espressioni anche in Europa: il poujadismo in Francia e il
Movimento dell’Uomo Qualunque in Italia, ad esempio. Si tratta più che altro di
un fiume carsico che riemerge improvvisamente negli anni Settanta-Ottanta e
dilaga nel periodo ancora successivo. Secondo la cronologia di Ricolfi si può
distinguere tra una «fase di
riapparizione» (1972-1984), una «fase di proliferazione» (1984-2008) e una
«fase di sfondamento» (dal 2008 a oggi).
Nella
fase di proliferazione, si rafforzano movimenti populisti già esistenti (ad
esempio il Front National in Francia), appaiono nuovi movimenti di marca
populista (in Italia il M5S, ma soprattutto una serie di partiti dell’Europa
dell’Est) o evolvono in senso populista movimenti che prima non lo erano (ad
esempio l’UDC svizzera).
Nella
fase di sfondamento i populisti sono presenti ovunque e ottengono risultati
elettorali spesso superiori al 10% e talora al 20%. Inoltre, accanto ai
populismi che riprendono e rilanciano temi tradizionalmente ascrivibili alla
destra politica, emergono movimenti populisti trasversali (come il M5S) e
movimenti populisti che si collocano a sinistra, come Syriza in Grecia, gli
Indignados e poi Podemos in Spagna. Tratto comune a tutti, sembra essere il
rilancio delle identità nazionale, come reazione di difesa, a volte contro il
fenomeno dell’immigrazione, a volte contro le istituzioni e le politiche
dell’Unione Europea, a volte contro entrambi. Infine il populismo ottiene due
straordinarie vittorie nel mondo anglosassone: la Brexit e l’elezione di Trump.
Ricolfi,
però, non si ferma alle impressioni e analizza scientificamente (si veda anche
l’appendice statistica al suo volume) i dati elettorali riportati dalle varie
formazioni populiste. I risultati, in parte prevedibili e in parte sorprendenti
dicono che il primo fattore di successo dei movimenti populisti è la crisi
economica – sia per i suoi effetti reali, sia per la paura che essa suscita. Il
secondo fattore è collocabile fra paura del terrorismo, paura
dell’immigrazione, paura della criminalità, ma tra questi quello più importante
è inaspettatamente il primo, la paura del terrorismo, che naturalmente è però
anche legata alla paura dell’immigrazione.
La
richiesta che i partiti populisti sembrano comunque in grado di accogliere e
che li premia nei consensi è comunque fondamentalmente una domanda di protezione.
Prima
di tornare alla dicotomia destra-sinistra e a come essa vada aggiornata
rispetto agli schemi di Bobbio ed Hayek e tenendo conto dell’emergere del
fenomeno populista, vediamo la parte centrale del discorso di Ricolfi che
riguarda lo spiazzamento della sinistra e la sua incapacità di leggere tale
fenomeno e di trovare una risposta politica ad esso.
La deriva della
sinistra
Ricolfi
si chiede perché gli elettori in cerca di protezione si rivolgono ai movimenti
populisti e non alla sinistra. La sua analisi sulle carenze della sinistra è
magistrale e vale la pena di riportarla testualmente:
Per offrire
protezione bisognerebbe riconoscere l’esistenza di un pericolo. E la sinistra
questo passo non pare in grado di compierlo. Anzi, con i suoi politici, , i
suoi giornalisti, i suoi intellettuali più o meno organici, la sinistra impegna
le sue migliori energie comunicative per dissolvere i problemi che la gente
normale percepisce come tali. Lo strumento principe di questa dissoluzione è il
paradigma retorico che potremmo definire dell’”inversione” o del
“capovolgimento”, per cui quello che al senso comune pare negativo viene
ricodificato nel registro opposto.
La gente pensa che
gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un
valore e gli immigrati sono una straordinaria occasione di arricchimento
culturale.
La gente pensa che
la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una
grande opportunità.
La gente pensa che
l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che lì Europa non è il
problema, l’Europa è la soluzione.
La gente pensa che
il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le
spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra nulla […]
A tutti costoro la
sinistra invece di offrire la propria promessa di protezione, eventualmente
diversa o alternativa a quella della destra, presenta invece uno straordinario
repertorio di non-risposte, in un registro che va dal negazionismo alla
derisione, dal disprezzo alla supponenza e al nichilismo.
Negazionista è la
sinistra quando, anziché vedere i drammi prodotti dalla globalizzazione sugli
strati più deboli della popolazione usa lo schema retorico dell’inversione: la
globalizzazione è un’opportunità, i migranti sono una ricchezza.
Derisoria è la
sinistra quanto derubrica a mere “percezioni” irrazionali e non basate su una
conoscenza scientifica della realtà, le preoccupazioni della gente comune sulla
presenza dei migranti.
Sprezzante è la
sinistra quando accusa di rozzezza, razzismo, egoismo chi ha paura degli
immigrati, come se xenofobia e razzismo fossero la stessa cosa, e la paura
fosse una colpa.
Supponente è la
sinistra quando, spesso in sintonia con la chiesa cattolica e il suo papa,
invita al dovere morale dell’accoglienza, e tratta come esseri moralmente
inferiori quanti non sentono il medesimo dovere, o semplicemente pensano che
l’accoglienza non possa essere incondizionata.
Nichilista è la
sinistra quando, di fronte agli attentati terroristici e alla paura che
suscitano nelle persone comuni, non trova di meglio che declinare in tutte le
salse la “strategia del rospo”. Che reagisce con l’immobilità (simulazione
della morte) a chi lo prende a sassate: “un intervento militare contro l’Isis
farebbe il gioco dei terroristi”; non dobbiamo cambiare la nostra vita, è
questo che vorrebbero i terroristi”; “Voi terroristi vorreste che i avessi
paura, ma non vi farò il regalo di odiarvi”.
Per non parlare
dei sermoni con cui, dai più prestigiosi quotidiani nazionali, editorialisti,
politici e più o meno venerati maestri ci spiegano che la gente non ha capito
nulla. Non ha capito che doveva votare per il Remain e non per il Leave. Non
ha capito che doveva scegliere Hillary Clinton e si è fatta ingannare dalle
promesse di Trump. Non ha capito che gli immigrati sono una ricchezza e
occupano i posti di lavoro che i nativi non sono più disposti ad occupare. Non
ha capito che l’apertura ai mercati e la concorrenza internazionale promuovono
la prosperità dei popoli. Non ha capito che quella dell’Isis non è una guerra
di religione, e che l’Islam non c’entra nulla….
La
sinistra, quindi, non prende sul serio le rivendicazioni popolari che gonfiano
le vele dei movimenti populisti, bollandole come irrazionali, viscerali e
regressive. Sbaglia, però, scrive Ricolfi,
a leggere tutto
nel registro dell’irrazionalità o dell’emotività popolare. Il ritorno dei
popoli al centro della scena politica non è il frutto di una improvvisa
proliferazione di pulsioni irrazionali, ma la conseguenza logica (e forse
prevedibile) di un fallimento: quello delle élite che hanno preteso di guidare
il processo di integrazione fra le economie del pianeta, ma non hanno ancora
trovato il modo di fronteggiarne le conseguenze più spiazzanti.
L’insicurezza
dei ceti popolari ha «una robusta base di realtà»
Che interi
segmenti produttivi e mestieri siano stati spazzati via dalla globalizzazione è
un dato di fatto. Che gli immigrati si concentrino in quartieri periferici, e
lascino relativamente tranquilli i ceti medi urbani, è anche esso un dato di
fatto. Che la concorrenza degli immigrati nell’accesso alle prestazioni
sanitarie e a i sussidi tocchi soprattutto i ceti popolari è, ancora una volta,
un dato di fatto. Che una parte dei posti di lavoro conquistati dagli immigrati
siano sottratti ai nativi, e che in alcuni settori la presenza di un “esercito
industriale di riserva” fatto di immigrati possa comprimere i salari e
peggiorare le condizioni di lavoro di tutti è, di nuovo, nell’ordine delle cose
pacifiche, perché così funziona l’economia. Quanto alla criminalità e alle
paure che suscita,come abbiamo già ricordato, i pochi studi disponibili
rivelano che in Europa il tasso di criminalità medio degli immigrati è 4 volte
quello dei nativi (in Italia oltre 6 volte).
Pertanto
il divorzio fra la sinistra e il popolo è semplicemente una scelta razionale.
Ciò non significa necessariamente che i
partiti populisti siano davvero in grado di fare gli interessi del popolo, ma
non c’è dubbio che alla sinistra la domanda popolare di protezione non
interessa proprio. «Strano sarebbe che il popolo, ignorato, catechizzato,
deriso dalla sinistra ufficiale, ostinatamente continuasse a votarla».
Tuttavia,
in questo divorzio vi è qualcosa di più che non è solo razionale ed è
l’insofferenza ormai dilagante per quel politicamente
corretto con cui la sinistra da anni pretende di controllare il linguaggio
e di conseguenza il pensiero.
Il
politicamente corretto è stato adottato dagli abitanti di quello che si può
definire “il mondo di sopra”, traducendosi in una sorta di “razzismo etico”
(Marcello Veneziani) verso gli abitanti del “mondo di sotto”.
I
ceti superiori sono stati sedotti dal politicamente corretto perché è un
«formidabile generatore di autostima» e soprattutto non costa nulla a quei
ceti, che, per esempio, vivono in quartieri che non sono popolati da immigrati.
La sinistra, in particolare, ha adottato il politicamente corretto precisamente
quando ha abbandonato la difesa degli ultimi, ha cambiato radicalmente il suo
blocco sociale di riferimento e si è aperta alla filosofia del mercato. Che
cosa poteva consentirle di mantenere l’autostima, la convinzione di essere
dalla parte della giustizia e la pretesa di superiorità morale, dopo aver
disertato le lotte per i diritti dei lavoratori? Il politicamente corretto ha
fornito la soluzione, innanzitutto con la politica dell’accoglienza: «proprio
perché non si occupava più di operai, braccianti e disoccupati nativi alla
sinistra non è parso vero di avere a disposizione degli “ultimi” di cui farsi
paladina». Soprattutto perché questa generosità è, come si diceva, a costo
zero. Ma tutto il politicamente corretto – con le battaglie su diritti dei gay,
coppie di fatto, quote rosa, aborto, fecondazione assistita, riscaldamento
globale, eutanasia, testamento biologico, linguaggio sessista, omofobia,
diritti degli animali, ecc. – ha permesso alla sinistra di gestire – o di
illudersi di gestire – i propri problemi di identità, confermando e rafforzando
la pretesa della propria superiorità morale e quella di incarnare la parte
migliore del paese, impegnata in battaglie di civiltà, contro la parte
peggiore, incivile, barbarica.
La
“rivolta dei popoli” è anche indirizzata contro l’oppressione del politicamente
corretto.
Quel che dovremo
abituarci a pensare, quando parleremo di destra e sinistra, è che il divorzio
fra sinistra ufficiale e popolo è ormai irreversibile, e quel che la sinistra
bolla con l’etichetta di “populismo” […] altro non è che l’arcipelago di forze
politiche che alla sinistra ufficiale si sono sostituite, o tentano di
sostituirsi, nel ruolo di veicolo delle istanze degli strati più deboli e
periferici della popolazione. Come ebbe a notare ironicamente Jean-Michel
Naulot più di venti anni fa, “populista” altro non è che “l’aggettivo usato
dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”.
Pensare che tali
forze siano semplicemente di “destra” è frutto di una curiosa miscela , fatta
di arroganza e ingenuità. Arroganza, perché nel mondo immaginario in cui vive
la cultura progressista attribuire all’altro l’etichetta “di destra” ha un
inequivocabile sapore dispregiativo. Ma anche ingenuità, perché pensare di
avere il monopolio del bene e della difesa dei deboli significa aver messo la
testa sotto la sabbia per almeno tre decenni di storia, senza accorgersi di
quel che stava avvenendo: il distacco progressivo dalla sensibilità popolare,
il lento ma inesorabile allontanamento da quei ceti che pure, per lungo tratto,
la sinistra era riuscita mirabilmente a rappresentare.
La sinistra è
convinta che, in quanto è stata l’unica e migliore rappresentante del popolo,
ancora lo sia e sempre lo sarà. E’ come se la storia del suo glorioso passato,
a mo’ di incantesimo, la proteggesse in eterno dalle intemperie del presente e
del futuro. Una visione ove non scorre il tempo, insomma: com’è nella stupenda,
cristallizzata, atemporalità delle favole.
La nuova dicotomia,
trasversale a destra/sinistra: apertura/chiusura
Tornando
dunque alla classificazione destra/sinistra, l’irrompere dei populismo rende
inservibili sia lo schema di Bobbio, sia quello di Hayek. La dicotomia attuale
è trasversale a destra e sinistra ed è fra “apertura” e “chiusura”. Da un lato,
abbiamo le forze politiche dell’”apertura”, che sostengono la globalizzazione e
con essa la libera circolazione di merci, capitali e uomini, la competizione
globale, la tolleranza e l’accoglienza, l’innovazione e gli scambi in tutti i
campi. Queste forze sono sia di destra che di sinistra e, ad esempio,
comprendono in Europa sia i partiti che aderiscono al raggruppamento socialista
sia quelli che aderiscono al raggruppamento popolare. Da qui la tendenza
diffusa a formare governi “di grande coalizione”. Dall’altro lato le forze
della “chiusura”, che però non la vogliono in ogni campo, ma solo in certi
settori ben individuati e che rivendicano soprattutto protezione. Anche queste forze si collocano sia a destra che a
sinistra. In molti casi sono xenofobe, ma non razziste (la sovrapposizione e la
confusione delle due definizioni è inaccettabile), sovraniste ma tutt’altro che
imperialiste e guerrafondaie. Tra i “ponti” e i “muri” scelgono le “porte”,
che, come ebbe a dire Marine Le Pen, si possono aprire e chiudere secondo
necessità.
Il fattore decisivo: la
globalizzazione economica
Da
tutto ciò che si è detto è chiaro che l’esplosione del fenomeno populista e la
deriva della sinistra sono legati alla globalizzazione economica. Qualsiasi
tentativo di individuare delle prospettive e delle soluzioni non può quindi che
partire da una corretta valutazione delle dinamiche e degli effetti della
globalizzazione. Il libro di Ricolfi contiene alcuni dati e alcuni elementi di
analisi importanti.
La
svolta è legata alla caduta del blocco sovietico e all’entusiasmo per una
rapida unificazione e integrazione delle economie mondiali e dei mercati. L’Occidente
ha favorito e cavalcato la globalizzazione senza rendersi conto di tutte le sue
conseguenze e senza riuscire a governarle. La prima e fondamentale conseguenza
è stata l’irruzione sulla scena mondiale dei paesi “intermedi” fra quello
avanzati e quelli poveri, primi fra tutti Cina e India.
Se
si considerano le due grandezze della crescita del Pil e del gradi di
disuguaglianza e si confrontano su questa base i paesi avanzati con il resto
del mondo si può suddividere la storia recente in tre grandi epoche. La prima va dal dopoguerra alla crisi degli anni
Settanta e vede un tasso di crescita dei paesi avanzati superiore a quello del
resto del mondo e una netta crescita anche del grado di disuguaglianza. Sono i
trenta anni gloriosi delle economie occidentali che sembrano crescere a scapito
del resto del mondo.
Questo
modello di sviluppo (ben descritto da Wallerstein, fra gli altri) si spezza
verso la metà degli anni Settanta con la fine del gold standard e la crisi petrolifera. Nel ventennio successivo,
fino ai primi anni Novanta, la velocità di crescita dei paesi avanzati è ancora
significativamente superiore a quella del resto del mondo, ma il grado di
disuguaglianza incomincia a ridursi. Incominciano i primi venti anni gloriosi
del resto del mondo.
La
svolta decisiva avviene all’inizio degli anni Novanta: si intensifica il
processo di convergenza fra le economie di tutto il mondo, con la progressiva
riduzione delle disuguaglianze, e i paesi avanzati perdono il testimone della
crescita.
Contrariamente
alla narrazione dominante, le disuguaglianze fra l’Occidente e il resto del
mondo non solo non sono cresciute, ma sono crollate. Sono invece aumentate le
disuguaglianze all’interno di alcuni paesi, ma sono proprio quelli emergenti,
come Cina e India, mentre nei paesi avanzati non c’è alcun segno né di un
aumento, né di una diminuzione delle disuguaglianze.
La
crisi è divenuta evidente dopo il crollo del 2007, ma in termini relativi la
crisi delle economie occidentali era dunque già incominciata da una quindicina
di anni. Le diagnosi divergono: si oppongono una interpretazione keynesiana –
la crisi sarebbe figlia delle politiche liberiste, dell’austerità, dei tagli
alla spesa, delle liberalizzazioni del mercato del lavoro, delle
privatizzazioni – e una interpretazione liberista – le politiche keynesiane,
mai veramente interrottesi, non sarebbero la soluzione, ma l’origine della
crisi, e il liberismo non sarebbe l’origine della crisi, ma la sua soluzione.
Tutti però sono apparentemente d’accordo su una cosa: per risolvere la crisi bisogna
riattivare la crescita. Ricolfi pone, però, una domanda inquietante, ma
estremamente lucida: e se il problema
non fosse quando e come tornerà la crescita, ma se potrà mai tornare?
La fine della crescita:
una società “a somma zero”.
Si
continua a ragionare sulle vecchie alternative di fondo: è meglio spendere in
deficit o tenere sotto controllo i bilanci? Ridurre le tasse o espandere il
welfare? Redistribuire ricchezza o agevolare le imprese perché la producano?
Queste alternative avevano un senso quando l’80% del Pil era prodotto nei paesi
avanzati, le recessioni erano brevi e temporanee e la torta del reddito
nazionale cresceva. In sostanza, il futuro era nelle nostre mani. Oggi, invece,
il futuro del mondo e anche il nostro è largamente nelle mani degli altri.
Ricolfi ne conclude, correttamente, che questa nuova situazione spiazza
completamente la sinistra, incapace di pensare se non nell’ottica della
crescita: infatti, non ha senso parlare di redistribuzione se la torta del
reddito non cresce più. La sinistra si
avviluppa su se stessa obiettando che la torta non cresce perché non c’è
abbastanza redistribuzione, perché le politiche neoliberiste hanno accresciuto le
disuguaglianze. Da qui si dovrebbe ripartire da una politica espansiva che
riduca le disuguaglianze e faccia ripartire il motore della crescita. In
sostanza: la crescita non c’è perché non c’è abbastanza redistribuzione, la redistribuzione
non c’è perché si è arrestata la crescita.
Questo
corto circuito di pensiero dipende da due errori di valutazione: il primo sta
nel credere che la crisi sia stata preceduta da una forte crescita delle
disuguaglianze. Ciò è assolutamente errato, come si è detto. L’aumento delle
disuguaglianze non è la spiegazione della crisi. Il secondo errore è di sottovalutazione
del declino: la sinistra non riesce a pensare in un orizzonte diverso da quello
della crescita.
A
me pare, tuttavia, che questo secondo errore di valutazione accomuni sinistra e
destra, neokeynesiani e neoliberisti, entrambi incapaci di pensare se non in un
quadro di crescita. La globalizzazione sembra aver spiazzato in primo luogo la
sinistra, ma in seconda battuta anche le destre liberiste.
Ricolfi,
del resto, rileva come ritorni oggi di attualità, ma in altro senso, il
classico testo di Polanyi, La grande
trasformazione: per Polanyi il mercato era solo uno dei tre modi in cui gli
uomini hanno cercato storicamente di regolare i loro rapporti e il capitalismo
basato sull’economia di mercato si sarebbe potuto rivelare solo una parentesi
nella storia dell’umanità. Oggi si incomincia ad avanzare il sospetto che la
crescita finirà per essere solo una parentesi nella storia dell’umanità. Per
millenni gli uomini sono del resto vissuti in un mondo senza crescita, nelle
cosiddette società fredde di cui
parla Lévi-Strauss, caratterizzate da crescita nulla o lentissima e da una
forte stabilità nei modi di produzione, nelle istituzioni e nelle relazioni
sociali. Ricolfi rileva però che quelle di oggi non sono società fredde, in quanto continuano ad essere fondate su un
elemento assente nelle società pre-capitalistiche: la competizione mediante il
mercato. La trasformazione in atto potrebbe dunque consistere non già in un
ritorno anacronistico a modelli sociali del passato, ma in un passaggio a una società competitiva senza crescita.
Questo tipo di società è una società “a somma zero” dove, come nelle teorie dei
giochi, non possono vincere tutti, ma ad un vincitore deve corrispondere un
perdente. Ciò sia a livello della concorrenza fra gli individui che al livello
della concorrenza fra le varie economie. Una società in cui le risorse da
distribuire non aumentano, ma i modi di appropriazione e distribuzione restano
quelli dell’era delle risorse crescenti.
Conclude
Ricolfi:
Questa,
sfortunatamente, è la cifra della società a somma zero. Lungi dal restituirci
il mondo sognato da Polanyi, con il contenimento della logica dello scambio
mercantile e l’affermazione di quella della reciprocità, la fine della crescita
ci getta in un mondo strutturalmente costruito per generare perdenti, con tutto
il carico di frustrazione e insicurezza che le sconfitte inevitabilmente
portano con sé. Un carico che è reso socialmente esplosivo dal fatto che, in
molti casi, gli sconfitti, gli esclusi, i lasciati indietro non sono individui
singoli, che come tali potrebbero essere propensi ad accusare delle proprie
disgrazie se stessi o la cattiva sorte, ma intere categorie e settori, gruppi
professionali, porzioni di territorio tagliate fuori dal “progresso”. E’ questo
l’humus permanente su cui crescono i movimenti populisti, perché l’insicurezza
genera richiesta di protezione e la società a somma zero secerne insicurezza.
Ricolfi
scrive un saggio di sociologia politica e dunque non indica la terapia, ma
offre finalmente una corretta diagnosi del male che è preliminare a qualsiasi
tentativo terapeutico che voglia avere un minimo di efficacia.