lunedì 31 agosto 2015
Siate il sale della terra, non lo zucchero o il burro. ..
Vi è un falso amore cristiano che vede il suo compito nel tacere la verità, nel debole perdono, nell'abbellire o nascondere la realtà.
Esso aumenta la corruzione del mondo, invece di impedirla.
Intendete bene: nei Vangeli non sta scritto "voi siete il burro o lo zucchero della terra", ma "voi siete il sale della terra".
Poichè il sale del cristianesimo si è corrotto e non è più una forza della verità, ha la sorte del sale guasto.
Leonhard Ragaz.
"INIZIO DEL VANGELO DI GESU' CRISTO...".
In un tempo in cui i
cristiani delle varie confessioni e le chiese delle diverse denominazioni
celebrano, a seconda dei casi, il “vangelo” di papa Francesco o quello della
madonna di Mediugorje, il “vangelo” dei migranti o quello dei gay – e
ovviamente a nessuno sfuggono le sostanziali differenze fra questi differenti “vangeli”
- l’impresa più temeraria e più
necessaria è quella tentata da chi voglia tornare ad ascoltare e ad annunciare
il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio (Mc, 1,1), per poi eventualmente
decidere sulla base di quell’ascolto e di quell’annuncio che cosa pensare e che
cosa fare di e con papi o madonne miracolose, migranti e omosessuali. In un
tempo in cui le comunità credenti reagiscono ai processi di secolarizzazione e
alla caduta di credibilità del messaggio religioso con due atteggiamenti opposti
e specularmente fallimentari - da un
lato, chiusura settaria e proselitismo brutale, dall’altro una testimonianza eticamente
e civilmente pure meritoria, ma che per
ottenere ascolto negli ambienti laici rinuncia del tutto a parlare di ciò che
veramente si dovrebbe annunciare e testimoniare (“Gesù Cristo e lui crocefisso”,
1 Cor, 2,2) – in questo tempo, l’impresa rischiosa e irrinunciabile è quella di
chi vuol provare a proporre – proporre e non imporre – la parola del Vangelo, senza
“vergognarsi” di essa (Rom. 1, 16) senza nasconderla dietro parole umane che hanno magari più facile mercato. E
possibilmente senza utilizzare un linguaggio religioso che suona ormai vuoto e
retorico, se non addirittura fastidioso e irritante alle orecchie dei più.
La serie di queste riflessioni bibliche è
rivolta a chi sia interessato a tale impresa, semplicemente perché è credente o
anche perché, da ateo o agnostico, vorrebbe confrontarsi con quella parola che
da secoli mobilita gli uomini che spesso sono accanto a lui e che invece credono,
e non vuole che questo confronto sia sempre e solo mediato dalle parole umane
che di volta in volta sono di moda e riscuotono successo. Queste riflessioni
sono rivolte a chi vuole risalire ad
fontes, cosa che è sempre auspicabile, se non addirittura necessaria, in
tempi di confusione e smarrimento.
Ho scelto, per cominciare
a percorrere questo cammino, il Vangelo di Marco e ciò per diversi motivi.
Anzitutto, quello di Marco tra i Vangeli canonici è il primo ad esser stato
composto, come la ricerca scientifica ha accertato fin dalla prima metà del XIX
secolo. In secondo luogo, secondo la ricostruzione ormai pressoché unanimemente
accreditata presso i biblisti e nota come “ipotesi delle due fonti”, Marco è appunto
una delle due fonti principali di cui si servono gli altri Vangeli sinottici –
Matteo e Luca (l’altra è la cosiddetta fonte Q e a queste due Matteo e Luca
aggiungono poi ciascuno un proprio materiale originale e personale di
tradizioni).
Ma esistono ragioni
ancora più sostanziali per questa scelta, sebbene legate a quelle già citate, e
in particolare alla priorità cronologica di Marco. Il “Vangelo”, sia come
termine con un preciso significato – significato di cui ora parleremo – sia
come “genere letterario” è essenzialmente creazione di Marco. Riguardo al
termine, nel suo significato cristiano, Marco per la verità dovrebbe quantomeno
dividere i “diritti di autore” con Paolo, se non cederglieli in buona parte,
dato che Paolo scrive prima di lui. Ma non dovrebbe dividere proprio nulla con
gli altri autori che pure definiamo “evangelisti”. Abituati a pensare che tutti
gli autori e i libri del Nuovo Testamento parlino del Vangelo di Cristo – il
che nella sostanza è verissimo – potremmo infatti trovare sorprendente un dato:
il termine euanghélion in fondo non è
molto frequente nel Nuovo Testamento; esso ricorre 76 volte e in ben 60 casi si
trova in lettere di Paolo o a lui attribuite (48 ricorrenze nelle lettere autentiche
e 12 nelle deutero-paoline). Marco usa il termine 8 volte, ricorrenze che
sembrano poche rispetto a quelle dell’epistolario paolino ma che in realtà
qualificano la sua narrazione in modo decisivo. In tutti gli altri autori
neotestamentari il termine è del tutto assente o è usato occasionalmente e di
seconda mano. E’ il caso di Matteo che lo adopera quattro volte, ma
riprendendolo da Marco (che come si diceva è una sua fonte). In Luca e in
Giovanni – gli altri due evangelisti – il termine “vangelo” non si trova mai!
Se poi parliamo del
Vangelo come genere letterario, non ci sono dubbi: si tratta di un’invenzione –
assolutamente geniale – che è tutta di Marco (Paolo scrive lettere, come è
noto, seguendo e rielaborando un altro e ben diverso genere letterario).
Vediamo allora, per
concludere questa breve, ma necessaria introduzione e passare poi a leggere il
racconto di Marco, quale è il significato del termine, nell’accezione cristiana
e in che consiste questo genere letterario.
Il termine euanghélion deriva da euànghelos del greco classico. Euànghelos era letteralmente il buon
messaggero, ossia il messaggero di buone notizie. A quanto pare, a un certo
punto si cominciò a indicare con la parola non solo il messaggero, ma tutto
quello che lo riguardava, ad esempio la ricompensa che egli riceveva per la
missione svolta oppure la buona notizia che aveva recato. Proprio quest’ultimo
significato è quello che a noi interessa perché è quello che si impone tra le
prime generazioni dei cristiani, per i quali, tuttavia, euanghélion è non già “una” buona notizia, ma “la” buona notizia,
che è stata annunciata al mondo prima da Gesù e poi dagli apostoli.
Riflettere sulla storia
e l’etimologia del termine non è semplice erudizione o generica informazione: è
qui in gioco la sostanza stessa dell’annuncio e della fede cristiana. Storia ed
etimologia del termine ci fanno infatti capire che la fede cristiana non si
fonda su una dottrina, su un sistema di precetti etico-religiosi o una
concezione filosofica e cosmologica, ma su un annuncio, sull’annuncio di una buona notizia. Questo annuncio,
occorre subito aggiungere, ha una dimensione pubblica e una portata dirompente.
E’ pubblico – non privato, e tantomeno segreto ed esoterico – come ci mostra
l’origine del termine dal messaggero di buone notizie della Grecia classica e
come ci conferma un altro termine ancora, quello che viene impiegato per
indicare per l’appunto la predicazione di questa buona notizia: il sostantivo kerygma, con il verbo keryssomai, che indicava in origine
l’attività del pubblico banditore, il personaggio incaricato di percorrere
strade e piazze per informare i cittadini di qualche novità (e in tal caso non
sempre si trattava di buone notizie). La fede cristiana, pertanto, ha origine
dall’ascolto di un simile annuncio e una volta che lo ha ascoltato non può fare
a meno di rilanciarlo, altrettanto pubblicamente: un annuncio fatto alla luce
del sole e ad alta voce, nei luoghi pubblici, in mezzo al popolo. Un annuncio
di portata dirompente, perché per Paolo, così come per Marco, si tratta della
potenza, della signoria di Dio che fa irruzione nel mondo, rivendicandolo a sé,
e provocando trasformazioni e cambiamenti nelle persone, nella società, nella
storia, nella natura.
Come il termine, anche
il genere letterario del Vangelo qualifica in modo peculiarissimo la fede
cristiana. Come si diceva, si tratta di una geniale invenzione che i dati
storici in nostro possesso inducono ad attribuire proprio a Marco. In base alle
fonti e ai modelli letterari che aveva a disposizione Marco poteva scegliere
vari modi per organizzare la sua narrazione; avrebbe potuto compilare una
raccolta di detti memorabili di Gesù o una rassegna delle sue opere potenti
(guarigioni miracolose, esorcismi,
prodigi compiuti sulle forze e gli elementi della natura, ecc.); avrebbe potuto
scrivere una storia della sua vita o inquadrarne la figura nel periodo storico
e nella storia di Israele. Audacemente, scarta tutte queste possibilità e
decide di non seguire nessun modello presistente. Se avesse raccolto soltanto i
detti di Gesù, questi sarebbe stato tramandato come un maestro autorevole, un
maestro di sapienza, una figura comparabile a molte altre del mondo antico, una
sorta di Confucio dell’Occidente o un Socrate giudaico. L’eco del suo messaggio
si sarebbe probabilmente diffusa solo in una cerchia limitata e non sarebbe
durata a lungo. Ai giudei ben disposti nei suoi confronti, Gesù sarebbe apparso
solo un rabbi autorevole, ma non certo il Messia. Se Marco avesse invece scelto
di narrare solo le opere prodigiose di Gesù, egli sarebbe apparso come un
taumaturgo, un guaritore divino ed anche in questo caso la sua figura sarebbe
rimasta piuttosto convenzionale. Soprattutto, la sua grandezza sarebbe stata
legata solo alla potenza delle sue opere e sarebbe caduta definitivamente con
la passione e sulla croce. Come vedremo, a Marco preme in particolar modo di
scongiurare questo rischio ed egli tende addirittura a rovesciare questa
possibile interpretazione di Gesù: non le opere potenti, ma le sofferenze, non
i trionfi, ma la sconfitta, non il successo, ma l’umiliazione lo qualificano
come il Figlio di Dio. Se poi avesse scritto una comune biografia, l’attenzione
sarebbe andata alla persona di Gesù e non al suo annuncio del Regno di Dio. Se
infine avesse adottato un qualche modello storiografico avrebbe consegnato la
vicenda di Gesù alla precarietà e alla relatività che caratterizza ogni vicenda
storica. Marco, invece, inventa un nuovo genere letterario che narra detti e
opere di Gesù, che contiene elementi di biografia, che ha una cornice storica e
soprattutto si svolge nella storia, ma non si esaurisce in nessuno di questi
elementi e li utilizza solo per renderli funzionali all’annuncio che è origine
e scopo della narrazione, l’annuncio appunto del Vangelo, della buona notizia
di Gesù Cristo.
Detto con altre parole,
fine della sua opera è la proclamazione della buona notizia di Gesù Cristo che
deve indurre alla fede e al discepolato. Marco ritiene, però, che per raggiungere
questo obiettivo sia necessario narrare la vicenda di Gesù ed ecco che la
narrazione si sofferma sui suoi detti e le sue opere e contiene elementi
biografici e storici, ma solo per mettere tutta questa materia al servizio dell’annuncio.
Sbaglierebbe, dunque – e su questo avremo modo di tornare spesso e a lungo –
chi leggesse il Vangelo – anzi i Vangeli, perché discorso analogo vale anche
per gli altri – come se si trattasse di biografie o di opere storiografiche
nell’accezione moderna, prendendo alla lettera e accettando acriticamente i
dati biografici e storici che essi contengono o, al contrario, andando a
verificarli per poi valutare su questa base la credibilità o meno del racconto.
Per chi crede, la narrazione evangelica è ovviamente “vera” e “reale”, anzi
verissima e realissima, ma non sul piano storico-biografico, bensì su quello
teologico.
Il termine Vangelo, nel
significato che abbiamo esposto, trova così con Marco il modello letterario che
gli è più congeniale. E Marco può inaugurare il suo racconto indicandone subito
il tema: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo (Figlio di Dio)”. Questo primo
versetto, come vedremo la prossima volta, nella sua apparente banalità riassume
e contiene già tutto ciò di cui occorre parlare. La profondità e la complessità
nascoste dietro una veste umile, semplice, quasi sommessa. Come è tipico di
questo grande narratore popolare che è Marco.
sabato 1 agosto 2015
L'amore forse vince tutto, ma non giustifica tutto
Quando
entrai per la prima volta in una chiesa valdese, e precisamente in quella che
sarebbe diventata la mia chiesa, sapevo già con una certa precisione quello che
avrei trovato all’interno dell’edificio, anzi quello che non vi avrei trovato. Non avrei trovato immagini – statue o dipinti
– di santi, della madonna, di Gesù; non avrei trovato il crocefisso; non avrei
trovato marmi pregiati e ricchi mosaici. Sarei entrato in un ambiente spoglio,
nudo: il pulpito al posto dell’altare delle chiese cattoliche, il tavolo con la
Bibbia e la candela, le panche e nulla più. Questo lo sapevo già, per averlo
letto, studiato e anche insegnato per lunghi anni, prima ancora di essere
cristiano e protestante. Non ebbi quindi alcuna sorpresa. Ciò che invece mi
colpì e mi impressionò favorevolmente fu la grande scritta sulla parete di
fondo: “Dio è amore”. Approfondendo gli studi teologici, compresi che quella scritta
era perfetta, in quanto, per dirla con Gesù, l’amore racchiude tutta la legge e
i profeti e condensa il suo stesso Vangelo. L’amore di Dio, però, non l’amore
degli uomini! La scritta, quindi, non andrebbe equivocata e – come leggeremo
fra poco anche in Bonhoeffer - andrebbe letta correttamente ponendo l’accento
sulla parola “Dio” e non sul termine “amore”: Dio è amore, non Dio è amore.
Questo
equivoco, invece, dilaga oggi nelle chiese e tra i cristiani. Le chiese e i cristiani
tendono, infatti, a usare indiscriminatamente, acriticamente e talora anche un
po’ strumentalmente il concetto di “amore” per giustificare, approvare, sostenere
ciò che piace agli uomini – o almeno ad alcuni uomini - ma che non è affatto
certo che piaccia anche a Dio.
Il
primo problema sta nella definizione estremamente generica, approssimativa,
finanche confusa dell’amore, parola che può quindi essere piegata in qualunque
direzione e funzionare come uno scudo per mettere al riparo preventivamente da
qualunque possibile obiezione critica. Mi dichiaro per l’accoglienza senza
condizioni per qualunque migrante e di fronte al minimo accenno critico
controbatto che ciò è imposto dall’”amore cristiano”. Mi si avanzano delle
perplessità sulle unioni omosessuali, o almeno su alcuni aspetti, tipo il
diritto di adozione, o sulle manifestazioni cosiddette del “gay pride” e
rispondo, troncando ogni dibattito, che se una coppia si ama, tutto è lecito,
anzi che addirittura tutto è benedetto da Dio.
Il
punto debole, non ancora sul piano biblico, ma semplicemente su quello logico,
di questo concetto onnicomprensivo e di questo uso indiscriminato del concetto
di amore è che non si capisce perché l’amore per migranti o omosessuali debba
valere di più rispetto all’amore per altre categorie umane, perché le chiese protestanti
in Italia si mobilitino su questi due temi, mentre restano in silenzio su tanti
altri. Perché, per fare un solo esempio fra i mille che si potrebbero fare, non
si dedichi neanche un millesimo del tempo e delle energie che vengono
legittimamente dedicati a gay o migranti alla condizione di quei cittadini
gravemente ammalati che non possono più curarsi adeguatamente a causa dei tagli
alla sanità pubblica. Nella mia città esiste un reparto di oncologia che, come
si dice, è un’”eccellenza a livello nazionale” ed è anche guidato da una
celebrità internazionale, il professor Ghidelli. Ebbene, questo reparto, che
potrebbe consentire a tanti ammalati campani di evitare i tristissimi “viaggi
della speranza”, sconta croniche e sempre più gravi carenze di personale e nel mese di agosto sarà anche costretto a
chiudere le degenze, con il risultato che malati di cancro in gravissime condizioni
resteranno senza cure adeguate, se non potranno permettersi la sanità privata.
Questi malati sono forse meno degni di amore, e quindi di interesse e
mobilitazione, delle coppie gay? Non esiste forse una parola di Gesù,
inequivocabile e impegnativa, che riguarda proprio l’assistenza ai malati?
Ovviamente,
non si tratta affatto di mettere in concorrenza malati e gay, poveri italiani e
poveri stranieri! Si tratta di capire che quest’uso indiscriminato dell’idea di
amore è esposto a gravi rischi.
Il
rischio più grave, per un uomo qualunque animato da nobili sentimenti, è che
ben presto non si sappia neanche più che cosa significhi amore e ci si lasci
trascinare semplicemente dalla corrente dominante, dalla moda del momento.
Il
rischio più grave, per un cristiano, è che l’amore di cui si parla, l’amore in
base a cui si sceglie di fare o di non fare qualcosa, l’amore che guida il
proprio impegno, le proprie lotte e soprattutto il proprio annuncio, ammesso
pure che conservi una sua valenza secondo la misura umana, abbia però poco o
nulla a che vedere con l’amore biblico. E’ il rischio, antico e terribile, che
si finisca per predicare “un altro Vangelo”, piuttosto che il Vangelo di
Cristo.
E
qui, cedo volentieri e doverosamente la parola a Bonhoeffer, citando da uno dei
manoscritti di quella straordinaria opera – l’Etica - che il suo arresto lasciò purtroppo incompiuta. Questo
manoscritto si intitola L’amore di Dio e
la dissoluzione del mondo.
Scrive
Bonhoeffer, tra l’altro:
“cadono qui tutte quelle definizioni che
fanno consistere l’essenza dell’amore in un comportamento umano, in un
atteggiamento, nella dedizione, nel sacrificio, nella volontà di comunione, nel
sentimento, nella passione, nel servizio, nell’azione. Tutto questo, senza
eccezione, può, come abbiamo appena udito esistere senza ‘amore’. Tutto ciò che
siamo abituati a chiamare amore, quanto vive negli abissi dell’anima e
nell’azione visibile, anzi pure quello che scaturisce dal cuore pio sotto forma
di servizio fraterno verso il prossimo - può essere senza amore”
Nulla
di nuovo, direte: lo sappiamo già che esistono gesti formalmente fraterni,
opere esteriormente caritatevoli, che si fanno per pura ostentazione o per un
malinteso senso del dovere o sperando in un tornaconto – qui o nell’altro mondo
– e che quindi possono essere “senza amore”.
Bonhoeffer,
tuttavia, sta esprimendo un’idea molto meno comune e scontata. Ciò accade,
continua,
“non perché in ogni
comportamento umano sia ancora sempre presente un ‘residuo’ di egocentrismo che
oscura completamente l’amore, ma perché l’amore è qualcosa di totalmente
diverso da quanto con quel nome si intende qui”.
Bonhoeffer
vuol dire, semplificando, che si scambia l’amore secondo il metro umano con l’amore
secondo la misura di Dio e che il primo – l’amore secondo gli uomini - è
completamente, radicalmente diverso dal secondo – l’amore secondo la Bibbia.
Ma
allora,
“Se dunque non esiste
alcun immaginabile comportamento umano che in quanto tale possa essere detto
senza ambiguità ‘amore’, se l’’amore’ si colloca al di là di ogni divisione in
cui l’uomo vive, se d’altra parte tutto ciò che gli uomini intendono per amore
e sono in grado di praticare è concepibile solo e sempre come comportamento
umano in seno alla divisione data, rimane qui un enigma, una questione aperta
che cosa possa mai essere per la bibbia l’’amore’.
La Bibbia non ci fa
mancare la sua risposta. Questa risposta ci è anche abbastanza nota, solo che
la fraintendiamo sempre di nuovo”.
Essa
suona (e qui torniamo alla scritta che campeggia nella mia chiesa): Dio è amore (1 Gv 4,16). Tale proposizione, precisa Bonhoeffer, per amore di
chiarezza,
“va anzitutto letta
facendo cadere l’accento sulla parola Dio,
mentre noi siamo abituati a farlo cadere sulla parola amore. Dio è amore, cioè non un comportamento
umano, un atteggiamento, un’azione, bensì Dio stesso è amore”.
L’amore
si può quindi conoscere solo come rivelazione di Dio, anzi nell’autorivelazione
di Dio. Ma la rivelazione di Dio è Gesù Cristo. Pertanto:
“Non in noi, ma in Dio
l’amore ha la sua origine: non un comportamento dell’uomo, ma un comportamento
di Dio è l’amore. ‘In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma
è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio per perdonare i nostri
peccati’ (1 Gv 4,10).
“L’amore è
indissolubilmente legato al nome di Gesù Cristo quale rivelazione di Dio”.
“Alla domanda che cosa
sia l’amore il Nuovo Testamento risponde molto chiaramente rinviando
esclusivamente a Gesù Cristo. Lui è
l’unica definizione dell’amore”.
Non
mi pare che servano chiose o commenti. Mi limito a sottolineare ulteriormente
che se quindi siamo capaci di amore autentico, nella debole misura in cui lo
siamo, non è in virtù di una nostra capacità, ma solo grazie a “Cristo che vive
in noi”;
Ne
deriva una semplice conseguenza: non tutto l’amore, non qualunque cosa gli
uomini chiamino amore o percepiscano come amore è santificato da Dio, dato che in
tanto è possibile ed è degno della benedizione di Dio l’amore degli uomini in
quanto esso risponde al suo amore nei loro confronti.
Ovviamente,
i cristiani sono anche cittadini e le chiese sono comunità di cittadini e come
tali – come cittadini e come comunità di cittadini – possono bene impegnarsi – anzi
devono farlo - per il riconoscimento e
la regolamentazione di diritti, si tratti di migranti, di coppie omosessuali o
di altri. Ma perché confondere i piani e cercare giustificazioni teologiche
stravaganti (letteralmente extra vaganti rispetto
alla Bibbia), perché voler aggiungere una benedizione di Dio, della quale
comunque non disponiamo, a situazioni ed istituti a cui basta e avanza la
semplice “benedizione” delle leggi civili? Perché mettere questi temi al
primissimo posto della propria attività pubblica, diciamo così extracultuale,
riducendola ad attività mono o bi-tematica e rischiando di generare incresciosi
fraintendimenti ed evitabili malcontenti e proteste da parte di chi pensa, certo
equivocando, che al Vangelo di Cristo si vada sostituendo il Vangelo dei
migranti e dei gay?
L’amore
forse vince tutto, ma certo non giustifica tutto.
Piuttosto
che ridurre Bonhoeffer a un santino, da celebrare a ogni anniversario della
tragica morte, dimenticando, rimuovendo o travisando per gli altri 364 giorni
dell’anno il suo pensiero folgorante, le chiese e i cristiani farebbero bene a
lasciarsi interpellare, e anche positivamente inquietare, da queste – come da
altre – sue riflessioni.
Non
un concetto indiscriminato, generico e onnicomprensivo dell’amore, non ciò che
gli uomini – siano essi migranti o autoctoni, omo oppure eterosessuali -
pensano, sentono e vivono come amore, che può avere pure la sua grande bellezza
e certamente la sua legittimità morale e civile, ma che resta interamente sotto
l’egida del peccato, ma l’amore come ci viene presentato nella Bibbia, l’amore
che è Dio e che ci è stato rivelato e
donato in Gesù Cristo, il quale è allora l’unica definizione dell’amore, questo
amore dovrebbe essere il punto di partenza, il fondamento, il metro di misura
dei cristiani e delle chiese, quando pensano, quando parlano, quando fanno le
loro scelte di campo, quando si mobilitano, quando cercano di essere “luce del
mondo”.
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