Entriamo
dunque nel merito delle modifiche apportate alla Costituzione dalla legge sottoposta
a referendum. Le principali riguardano il titolo I della seconda parte della
Carta Costituzionale, ossia il Parlamento.
Secondo
Renzi e i sostenitori della riforma, essa supererebbe il bicameralismo
perfetto, eliminando quelle che a loro avviso sono inutili lentezze nell’iter
di discussione parlamentare delle leggi e consentendo una più rapida e incisiva
azione del governo.
Il
primo punto è che, se anche questo fosse vero, sarebbe comunque assai
discutibile. In una democrazia parlamentare, anzi in una democrazia tout court, vi sono due momenti
essenziali, quello della discussione e quello
della deliberazione, ed essi devono restare in equilibrio. La discussione e
valutazione delle proposte legislative non deve certamente impedire o ritardare
in maniera estrema la decisione, ma questa, d’altra parte, non deve strozzare
la discussione, né renderla superficiale e sbrigativa. Purtroppo, da parecchi
anni il pensiero dominante non riesce più a comprendere la necessità vitale di
questo equilibrio per la sana vita democratica e privilegia il momento della
decisione, fino a scadere spesso in una retorica dell’efficienza e dell’efficacia.
Ciò avviene ad ogni livello della vita civile e in qualunque istituzione od
organismo che sia o che dovrebbe essere retto da regole e procedure democratiche
(è un processo, che per fare un solo esempio, sperimentiamo anche nelle scuole).
La riforma costituzionale, o meglio gli slogan di cui è rivestita, non fanno
che raccogliere i risultati di questa tendenza ormai di lunga data.
Se
l’equilibrio fra i due momenti venisse alterato a favore della decisione e a
scapito della discussione ci sarebbe effettivamente un serio inquinamento della
vita democratica a livello delle sue istituzioni centrali. In tal caso, si
potrebbe fondatamente parlare di un eccessivo e pericoloso rafforzamento del
governo a spese del parlamento, fino a paventare quel rischio di deriva
autoritaria che molti autorevoli costituzionalisti, primo fra tutti Gustavo
Zagrebelskj, hanno effettivamente denunciato. Occorre anche aggiungere, però,
che il rischio autoritario non starebbe certo nel rafforzamento delle
prerogative o semplicemente delle capacità decisionali del governo, che è
assolutamente legittimo, ma nel fatto che a ciò non corrisponderebbe un analogo
rafforzamento delle prerogative del parlamento. L’ordinamento liberale si fonda,
infatti, su una dinamica di pesi e contrappesi fra i vari organi istituzionali
e se si vuole restare all’interno di tale ordinamento ogni volta che si rafforza
uno di questi organi occorre rafforzare anche l’organo istituzionale che ha sul
primo funzioni di controllo e che ne delimita i poteri. Tuttavia, questo
rischio autoritario semplicemente non esiste, perché nella legge di revisione
costituzionale, come può capire chiunque abbia la pazienza di leggerla e come
spero che possa risultare chiaro anche dalle note che seguono, non vi è affatto
un rafforzamento delle prerogative e delle capacità decisionali del governo o della
maggioranza della Camera di cui è espressione ed anzi quella farraginosità dell’iter
parlamentare delle leggi, che viene infondatamente denunciata nell’attuale
sistema bicamerale, rischia paradossalmente di essere generata proprio da
questa riforma!
Ma
è possibile che allora Zagrebelskj, Carlassare e altri autorevoli professori abbiano
preso una simile cantonata? In realtà, costoro fondano il loro allarme sul cosiddetto
combinato disposto fra la riforma costituzionale e la legge elettorale detta
Italicum. Al che, però, Renzi ha avuto facile gioco nel tristissimo dibattito
con Zagrebelsky ad aggirare la critica, dichiarando la sua disponibilità a modificare
la legge elettorale. Questa disponibilità, fino al 4 dicembre se non oltre,
resterà puramente teorica, ma anche così smaschera la debolezza di un attacco
alla riforma fondato sull’argomento della minaccia autoritaria. Infatti, la
dichiarazione di Renzi ricorda a tutti ciò che è ovvio: che la legge elettorale
è una legge ordinaria, che può essere cambiata con procedura ordinaria e che
quindi non è corretto considerarla come fosse parte integrante della riforma
costituzionale e servissi di questa per denunciare una poco plausibile minaccia
autoritaria. In secondo luogo, l’allarme di Zagrebelsky, rilanciato in forma e
in toni molto più grossolani da tanti sostenitori del No – che evocano il
solito complotto dei poteri forti – risulterebbe quantomeno esagerato anche se
l’Italicum dovesse restare in vigore. Il fatto stesso che i sondaggi attuali diano
vincente il M5S, ossia il principale partito di opposizione smentisce –
dispiace dirlo – l’autorevole costituzionalista e i meno autorevoli suoi
seguaci: quale sistema autoritario contemplerebbe mai l’alternanza al governo fra forze politiche
diverse e antagoniste? Addirittura, se la riforma prevedesse effettivamente un
rafforzamento esagerato del governo e della maggioranza, l’Italicum potrebbe
rappresentare un utile correttivo e contrappeso!
Questa
ultima condizione, tuttavia, non ricorre ed è proprio questo il vero punto
debole della legge di riforma: essa produce effetti esattamente opposti
rispetto a quelli dichiarati, intralciando l’azione del governo e della
maggioranza. Vediamo come.
Se
l’intento era quello di superare il bicameralismo “perfetto” la strada più
semplice e ovvia era quella dell’abolizione del Senato. Il Senato, invece,
resta in piedi, anche se se ne riducono i membri, che non vengono più eletti
direttamente dai cittadini. Al Senato restano importanti prerogative ed esso,
come recita il nuovo art. 55 “concorre all'esercizio della funzione legislativa
nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione”. Precisamente, in
che modo?
L’ormai
famigerato art. 70 stabilisce innanzitutto una serie di casi in cui “la
funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Si tratta
delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali,
dei referendum popolari, delle “leggi che determinano l'ordinamento, la
legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei
Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme
associative dei Comuni”, delle leggi che riguardano “le forme e i termini della
partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e
delle politiche dell'Unione europea” e di altre leggi ancora (rimando al testo
di legge per l’elenco completo: http://www.altalex.com/documents/news/2016/04/13/riforma-costituzionale-il-testo).
E’
vero che tutte le altre leggi sono approvate esclusivamente dalla Camera, ma
attenzione: “ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato
della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi
componenti, può disporre di esaminarlo”.
Il Senato ha “solo” 30 giorni per “deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei
deputati si pronuncia in via definitiva”. La Camera, tuttavia, ricevute le
proposte di modifica del Senato deve ovviamente provvedere a ricalendarizzare la legge in questione, deve a sua volta
esaminare le proposte di modifica e decidere se accoglierle o meno. In
sostanza, la discussione della legge si riapre.
Che
cosa cambia allora rispetto al tanto vituperato sistema attuale? A parte il
limite temporale dei 30 giorni, che però significa che comunque un progetto di
legge modificato dal Senato impiegherà ancora alcuni mesi per essere
definitivamente approvato, cambia solo una cosa: mentre oggi il Senato deve
esaminare ed anche approvare tutte le leggi, con la riforma il Senato non le
approva più e può anche decidere di non esaminarle. Ciò forse comporterebbe
effettivamente uno snellimento dell’iter legislativo, ma solo in un caso: se la
maggioranza fra le due camere fosse politicamente omogenea. E proprio qui sta
il problema! Il Senato non è espressione del voto alle elezioni politiche, ma –
peraltro indirettamente – di quello delle regionali. Cosa accadrebbe se ci
dovessimo trovare con una certa maggioranza alle elezioni politiche e quindi
alla Camera - e con un governo espressione di questa maggioranza, poniamo un
governo PD con una sua solida maggioranza alla Camera dei deputati – e dall’altro
lato con un Senato dove, in seguito alle elezioni regionali e alla composizione
dei consigli regionali più rappresentativi, questa maggioranza non ci fosse e
si creasse invece una diversa potenziale maggioranza “ostruzionistica” formata
dai partiti che sono all’opposizione – poniamo M5S, Lega e Forza Italia? E’ un
caso tutt’altro che accademico, perché una tale difformità politica fra il governo
centrale e le maggiori regioni si è verificata ripetutamente nell’ultimo
ventennio. Anzi, è stata quasi la regola! Una minoranza alla Camera che
diventasse maggioranza al Senato non potrebbe certo governare, ma avrebbe sufficiente forza per intralciare,
ostacolare, dal suo bastione parlamentare, l’azione del governo, con forme di
ostruzionismo rispetto alle quali quelle che hanno a disposizione le opposizioni
nelle attuali Camere sono ben poca cosa. Oltre a intervenire sulle leggi che
devono obbligatoriamente essere approvate dal Senato questa minoranza politica
che diventa maggioranza al Senato potrebbe
decidere di esaminare ed emendare sistematicamente tutte le leggi trasmesse
dalla Camera, modificandole in modo da costringere la Camera a nuovi interventi.
Ma
non è finita qui. Il Senato della Repubblica può “formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera”,
accendendo quindi continui conflitti politici Soprattutto, passando all’art.
71, “il Senato della Repubblica può, con deliberazione adottata a maggioranza
assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei deputati di procedere
all'esame di un disegno di legge. In tal caso, la Camera dei deputati procede
all'esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della
deliberazione del Senato”. Questa è la vera bomba ad alto potenziale
ostruzionistico: con la riforma, in sostanza, l’iniziativa legislativa resta
bicamerale e il Senato può proporre decine o centinaia di leggi che la Camera è
obbligata ad esaminare entro sei mesi, distogliendosi ovviamente dal percorso
legislativo teoricamente delineato dalla sua maggioranza e dal governo!
Parlare
di superamento del bicameralismo è quindi davvero una boutade: si passa dal
bicameralismo attentamente disegnato dai padri costituenti, che francamente
avevano una statura culturale un po’ diversa da Renzi o Boschi, a un bicameralismo demenziale.
Per
questo, il vero pericolo non mi pare affatto quello di una involuzione
autoritaria, ma quello della istituzionalizzazione della guerra tra bande nella
vita politica del paese. Certo, il nuovo Senato, non più eletto a suffragio
universale, configura una reale “compressione della rappresentanza dei
cittadini”, come dice ottimamente la mia amica Valeria Turra (per le sue
pertinenti considerazioni rinvio all’articolo pubblicato sul Ponte: http://www.ilponterivista.com/blog/2016/09/30/valeria-turra/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook).
Si tratta, in effetti, per il Senato, di un sistema elettorale a suffragio
indiretto: i consiglieri regionali fungeranno da “grandi elettori” dei senatori
sulla base di liste formate nell’ambito degli stessi consiglieri e dei sindaci
e votate con sistema proporzionale puro. Nulla di “autoritario”, quindi, ma
certo, nella situazione politica reale, ciò si traduce in un Senato che più che
essere rappresentativo delle “istituzioni territoriali”, come recita la
riforma, sarà rappresentativo delle varie maggioranze partitiche regionali,
come scrive giustamente Valeria.
Il
punto critico decisivo, tuttavia, a me pare quello già citato: queste
maggioranza regionali che andranno a formare il Senato potranno entrare in
conflitto con la maggioranza della Camera e con il governo che ne è
espressione. Va anche aggiunto che le dinamiche che si instaureranno fra Camera
e Senato, conflittuali o meno che siano, saranno anche estremamente instabili,
in quanto esposte al continuo mutare della composizione del Senato, i cui
membri non saranno eletti insieme a quelli della Camera, ma ad ogni diversa
scadenza elettorale regionale: l’art. 57 infatti dice che “la durata del
mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni
territoriali dai quali sono stati eletti”. Mi ripeto: è un bicameralismo
demenziale.
Pertanto,
cari amici che votate No, lanciando ferali grida di allarme sulle sorti della
nostra democrazia, io non riesco a credere che dietro la riforma costituzionale
di Renzi ci siano le multinazionali, la J.P. Morgan, gli eurocrati, gli USA, la
massoneria, il Mossad e i "poteri forti" tutti, per la semplice
ragione che se così fosse la riforma questi signori gliela avrebbero scritta
meglio. La riforma è invece semplicemente insulsa, è un tappeto falso spacciato
per persiano, perché non raggiunge gli obiettivi dichiarati e anzi rischia di
accentuare i difetti denunciati nell'attuale sistema bicamerale. Non ci sono
complotti e non ci sono pericoli autoritari: dietro c'è una cosa molto più
semplice che è quel fattore S di cui dicevo nella prima parte.
Una
stupida demagogia, certo analoga a quella del fronte politico che sostiene il
No. Con una differenza, però, che se vincono i demagoghi del No restiamo con un
sistema istituzionale che avrà i suoi difetti, ma tanto cattivo non deve essere,
visto che è quello con cui questo paese ha costruito, dopo la catastrofe del
fascismo, la sua via alla democrazia. Se vince la demagogia del Si passeremo
dal bicameralismo perfetto al bicameralismo demenziale, che peraltro viene più
o meno abilmente venduto come il suo esatto opposto: rapidità delle decisioni,
efficienza, ecc. Un tappeto falso spacciato per pregiato.
Questo
è tipico di Renzi: magari la traccia l'ha pure avuta da Morgan, eurocrati e
compagni, ma lo svolgimento è tutto suo. Come è suo il populismo che non è solo
nel modo di presentare la riforma, che sarebbe ancora pericolo relativo, ma anche
purtroppo in certi contenuti della stessa dei quali si parla pochissimo– e sui quali
magari ritornerò più ampiamente in una prossima occasione – come l’istituzione
dei “referendum popolari” e la sostanziale abolizione del quorum nei referendum
abrogativi. Come è sua la retorica e ricattatoria intimidazione: se non si fa
questa riforma non si fa nessuna riforma, se non volete questa riforma siete
contrari al cambiamento, siete degli ottusi conservatori da rottamare. La prima
cosa è palesemente falsa: pochi anni fa fu approvata una riforma costituzionale
dal Parlamento e fu respinta dai cittadini nel referendum, eppure già siamo qui
a discutere di un’altra e ben più ampia riforma della Costituzione. La seconda
cosa è stolta: non volere un cambiamento non significa essere contrari a
qualsiasi cambiamento. Io francamente, preferisco comprare ancora una
Costituzione un po’ malandata dai Costituenti del 1946-47, piuttosto che
comprarne una nuova da un tizio dal quale non comprerei mai la classica
macchina usata. Si dirà che allora mi contraddico e faccio quello che ho
dichiarato in apertura e per principio di non voler fare: voto No per votare
contro Renzi. Non è così: voto contro questa riforma costituzionale, per i
motivi che almeno in parte spero di aver chiariti. Non considero neanche il
fatto che il governo si sia deliberatamente intestato la riforma, ma non è
colpa mia se pure a voler considerare solo il “corpo del reato” su quest’ultimo
si trovino impronte digitali così caratteristiche ed evidenti.