Ci sono eventi che
hanno un potere rivelatorio fuori dal comune, una portata di demistificazione, eventi
che strappano le maschere, sollevano i veli. Uno di questi si è consumato a
Colonia, lo scorso Capodanno; un altro è accaduto in questi giorni, in occasione
della visita in Italia del presidente della Repubblica islamica dell’Iran,
Rohani. Questi eventi hanno manifestato un elemento strutturale del regime
attualmente vigente in Italia e nel resto dell’Occidente. Questo elemento è l’autocensura.
Oggetto dell’autocensura
è stata, in questo caso, la vera e cruda realtà del regime iraniano. Soggetti
dell’autocensura anzitutto le alte cariche istituzionali che hanno accolto
Rohani – Mattarella, Renzi, il Papa – i mass-media (in buona parte) e
soprattutto l’opinione pubblica “progressista”. In fondo, i più scusabili, sono
i primi, che potrebbero invocare il protocollo diplomatico e la ragion di
stato. Va però ricordato che il protocollo diplomatico consolidato conosce
formule cortesi, ma inequivocabili, per esprimere la deplorazione per i
comportamenti politici dell’ospite, come la violazione dei diritti umani o
l’aggressione bellica. Queste formule sono state usate un’infinità di volte,
talora di fronte a personaggi ancora più potenti (Putin), ma sono state
completamente dimenticate in questa circostanza, sia da Mattarella, sia da
Renzi, sia da Bergoglio. Si sono anzi accreditati un’immagine e un ruolo
dell’Iran e del suo Presidente del tutto fasulli. A quest’ultimo è stata cucito
addosso l’abito del “moderato”, che gli sta davvero strettissimo, che è
smentito da fatti inoppugnabili. E di conseguenza il suo paese è stato
presentato come un affidabile elemento di stabilizzazione della critica
situazione mediorientale e addirittura come un fattore di pace. Il vertice
della mistificazione, da questo punto di vista, lo ha indubbiamente raggiunto
il comunicato ufficiale del Vaticano.
Vale allora la pena di
ricordare almeno i punti essenziali della posizione geopolitica dell’Iran.
Anzitutto, l’Iran capeggia l’islamismo sciita, impegnato ormai da anni in una
terribile guerra civile con l’islam sunnita (a sua volta guidato dall’Arabia
Saudita). Questa guerra, che si combatte direttamente, costantemente e
sanguinosamente su vari teatri - dalla Siria allo Yemen, all’Iraq - e in modo
più occasionale e sotterraneo, ma pur sempre drammatico in quasi tutti gli
altri paesi islamici, è il principale fattore di destabilizzazione e il primo
ostacolo alla pace in una vasta area del mondo. Come si può allora considerare
l’Iran, che guida attivamente uno dei due schieramenti, un fattore di
stabilizzazione? L’Iran è al centro di un’alleanza sciita o filo-sciita che ha
come altri fondamentali componenti il regime (sanguinario) di Assad e la
milizia degli Hezbollah; un’alleanza che è sostenuta dalla Russia, che in tal
modo è rientrata prepotentemente nel grande gioco mediorientale,
destabilizzando ancor più il quadro complessivo. Se Assad non fosse stato
appoggiato militarmente e finanziariamente dall’Iran e dalla Russia e difeso
dalle milizie di Hezbollah, a loro volta armate dal regime di Rohani, sarebbe
già caduto e la guerra civile in Siria non avrebbe avuto gli sviluppi tragici
che ha avuto. L’Iran, inoltre, finanzia ed arma anche Hamas, con missili sempre
più moderni e di più lunga gittata, che periodicamente vengono lanciati sulle
città israeliane e che farebbero danni immani alla popolazione e alle
infrastrutture della vita civile senza l’efficace sistema difensivo israeliano.
Hamas, che per statuto si propone la distruzione dello Stato ebraico e la
cacciata o lo sterminio di tutti gli ebrei dalla Palestina, è il primo fattore
che impedisce alla radice qualunque ipotesi negoziale e percorso di pace,
compromettendo non solo la sicurezza degli israeliani, ma lo stesso futuro dei
palestinesi che pure dice di difendere e che in realtà strumentalizza in modo
disumano, servendosene anche come scudi umani. Scaricato dall’Egitto di Al
Sisi, dopo la breve e funesta parentesi del regime islamista di Morsi, il
regime sanguinario e oscurantista di Hamas a Gaza, rispetto al passato, non
gode più degli stessi appoggi nella Lega Araba e senza il sostegno iraniano,
che in questo caso supera il pregiudizio religioso, dato che Hamas è sunnita,
sarebbe già crollato, con immenso sollievo di chi desidera sinceramente la
pace.
La politica estera di
Rohani è quindi in assoluta continuità con quella del suo predecessore
Ahmadinejad. Come mai allora lo si presenta come un “moderato” e un
“riformatore” che avrebbe riportato il suo paese nel consorzio civile dopo la
parentesi di “follia” del suo predecessore?
Accreditare l’Iran e considerarlo un partner ineludibile, se non del
tutto affidabile, potrebbe avere qualche fondata ragione, visto che, proprio
per la guerra interislamica di cui si diceva, la repubblica islamica sciita è
acerrimo nemico dello Stato islamico di al-Baghdadi. E difatti sia il papa che
il governo italiano hanno rimarcato l’importante collaborazione che il paese di
Rohani potrebbe dare alla lotta contro il terrorismo. Salvo il fatto che questa
strategia assomiglia in modo inquietante al tragico errore dell’asino della
favola che un bel giorno decise di andare a caccia insieme al leone.
Non si considera, per
ignoranza, per opportunismo o per errore di calcolo, che se è vero che il
fondamentalismo contemporaneo ha il suo bacino di coltura nel mondo sunnita –
il wahabismo saudita sul piano teologico e i Fratelli musulmani egiziani sul
piano politico-religioso - il fondamentalismo che ha trovato come sbocco il
terrorismo e l’espansionismo jihadista è invece il frutto avvelenato della
rivoluzione iraniana del 1979 e del regime khomeinista. E’ da quel momento che
si è rinfocolata la guerra civile fra sunniti e sciiti ed è a partire da lì che
il fondamentalismo ha assunto connotati aggressivi verso l’Occidente e ha
cominciato a coltivare progetti espansionistici e sogni di dominio planetario. L’Iran
degli Ayatollah si è subito messo all’opera per “esportare la rivoluzione”, con
la guerra all’Iraq e la costituzione di gruppi terroristici in Libano. Il mondo
sunnita è stato coinvolto in questa deriva, innanzitutto per reazione: Hamas
nasce negli anni Ottanta e negli anni Ottanta l’integralismo islamico sunnita
compie i primi attentati spettacolari, a cominciare dall’uccisione del
presidente egiziano Sadat, che aveva stabilito finalmente la pace fra il suo
paese e Israele. Poi, prima con Al Qaeda e ora con l’Isis, il jihadismo sunnita
ha raggiunto livelli di pericolosità ed efferatezza che hanno spinto a
sottovalutare la minaccia del jihadismo sciita, che ha invece una portata
potenzialmente ancor più grande. Da questo punto di vista, il passaggio
dall’amministrazione Bush a quella Obama, con l’appeasement con l’Iran, è stato
certamente negativo. L’Europa si è passivamente accodata al presidente
americano, alla disperata ricerca di un presunto successo dopo otto anni a dir
poco fallimentari in politica estera, e solo Israele e il mondo ebraico hanno
mantenuto alto il livello di allerta rispetto al pericolo iraniano. Non a caso,
la più lucida analisi che sia stata pubblicata di recente sulle rispettive
minacce rappresentate dal Califfato islamico e dal regime degli Ayatollah si
deve a Fiamma Nirenstein (Il Califfo e
l’Ayatollah. Assedio al nostro mondo, Mondadori, 2015).
La Nirenstein ricorda
che gli sciiti, relegati da secoli a minoranza perseguitata, hanno da sempre
coltivato la dottrina della jihad. La jihad è una deriva possibile, e oggi
altamente probabile, nel mondo sunnita, ma è addirittura connaturata all’islamismo
sciita, che – aggiungo da parte mia - ha assunto storicamente i caratteri
militanti che hanno tutte le minoranza religiose perseguitate. E’ accaduto
anche nel cristianesimo – in epoca moderna il calvinismo è un preciso esempio
di questa antropologia religiosa. Con la differenza, che il processo di
secolarizzazione e la conseguente separazione fra la sfera della fede e quella
della legge, tra la sfera politica e quella religiosa, hanno portato i
calvinisti a impegnarsi, da un lato in un combattimento spirituale, dall’altro
in una lotta politica e civile, talora rivoluzionaria. Ciò non poteva accadere
nell’islam, proprio per la mancanza di questo processo di secolarizzazione.
Il jihadismo sciita ha,
inoltre, una pericolosità dirompente perché tende ad assumere connotati
messianici. E’ noto che lo scisma sciita nasce perché una parte dei seguaci di
Maometto, alla sua morte, avvenuta nel 632, si rifiutano di riconoscere come
califfo Abu Bakr, ritenendo che la successione dovesse spettare al genero del
Profeta, Ali. Costoro presero a definirsi come seguaci della “casa di Alì”, shiat’Ali – sciiti, e furono
perseguitati e cacciati dai territori arabi, trovando rifugio innanzitutto nei
territori del vecchio impero persiano (l’attuale Iran). Sorvolando su correnti minori
interne allo sciismo, ricordiamo che la grande maggioranza degli sciiti crede
nella successione di dodici imam, dopo Maometto e a partire da Ali, se non che
il dodicesimo imam - Muhammad ibn Hossein al-Mahdi - secondo la credenza,
sarebbe scomparso misteriosamente per sfuggire ai nemici. Da allora ha inizio
“il divino nascondimento” di questo dodicesimo imam – detto anche il Mahdi –
del quale si attende il ritorno nel giorno finale, nel giorno del giudizio. Lo
sciismo ha così una essenziale componente escatologica e “messianica”, ma anche
un tratto apocalittico. Difatti, molti ritengono che il ritorno del Mahdi sarà
preceduto da segni inequivocabili. Vediamo di quali segni si tratta, perché
questo ci porta al cuore del nostro problema. Il predecessore di Rohani,
Ahmadinejad – che era un fanatico seguace di questa dottrina escatologica –
ripeteva spesso che “quando il mondo sarà caduto nel caos e divamperà la guerra
fra le razze umane” allora il ritorno del dodicesimo imam sarà vicino. Come è
tipico dei movimenti apocalittici e come è inevitabile per una confessione
religiosa che ha il carattere militante di cui dicevamo, non si tratta di
attendere passivamente il compimento escatologico, ma occorre collaborare
attivamente per accelerarlo, occorre favorire le condizioni che porteranno
all’avvento del Mahdi. Vale a dire che bisogna alimentare il caos e la guerra
fra i popoli. Ciò può non bastare, evidentemente, visto che disordine e guerra
sono purtroppo elementi costanti della storia umana e, in particolare, di
quella del Medio Oriente contemporaneo. E difatti Ahmadinejad e la corrente
iraniana più direttamente legata a queste attese sapevano bene che tutte le
previsioni passate su una imminente venuta del Mahdi sono state smentite. Oggi,
però, si possono portare guerra e caos al livello definitivo, al punto di non
ritorno. Come? E’ molto semplice: con l’arma atomica, con la minaccia atomica.
Neanche questo, tuttavia, potrebbe bastare: nel mondo ci sono già parecchie
potenze nucleari e almeno una di queste è anche islamica, benché a maggioranza
sunnita – il Pakistan. Per produrre il “caos apocalittico” la bomba non bisogna
solo costruirla, ma bisogna anche usarla, o almeno minacciare di usarla su una
posizione nevralgica dell’assetto internazionale, un paese che una volta
colpito o gravemente e seriamente minacciato, sarebbe costretto a ricorrere a
tutta la sua forza e a tutte le sue relazioni per sopravvivere, innescando
così, suo malgrado, quella spirale distruttiva che né il jihadismo, né la
potenza iraniana possono da soli innescare; questo paese è Israele! Vedete,
come i progetti nucleari iraniani e le minacce di distruzione di Israele
acquistino, in questa luce, una portata ancora più inquietante.
Certo, l’Iran è mosso,
sullo scenario mediorientale, anche e soprattutto da ordinari obiettivi
politici di potenza ed interessi economici. Tuttavia, il presunto realismo
politico non basta a interpretare e a spiegare tutto. Non spiega adeguatamente,
ad esempio, l’accanimento contro Israele, con cui l’Iran – a differenza del
mondo arabo - non ha nemmeno motivi territoriali di conflitto. Non si può
pensare che le minacce ad Israele siano solo retorica propagandistica, tesa a
guadagnare consensi nel mondo arabo, perché questi consensi l’Iran o li ha già,
quando si tratta dell’islamismo arabo sciita o filo-sciita, in virtù della sua
indiscussa leadership in questo campo, o non li potrà mai avere, quando si
tratta dell’islamismo arabo sunnita che guarda all’Iran come ad una potenza
eretica. Il legame con Hamas è motivato solo dall’interesse, da parte di Hamas,
di uscire dall’isolamento. Ma quale è l’interesse dell’Iran? Perché finanziare
ed armare un gruppo sunnita che, una volta conquistata la Palestina,
perseguiterebbe non solo gli ebrei, ma gli stessi sciiti? Nella razionale
partita a scacchi della geopolitica e dei contrapposti interessi economici
Israele costituirebbe addirittura per l’Iran un vantaggioso alleato contro il
principale antagonista regionale, che è lo schieramento arabo sunnita! Lo scià di Persia, che non era ottenebrato
dall’ideologia religiosa, questo lo aveva ben capito. Dunque, il “messianismo”
apocalittico è, purtroppo, una chiave di lettura imprescindibile per decifrare la
politica iraniana, una chiave di lettura che deve essere applicata anche alla
presidenza Rohani, che sta perpetuando le dichiarazioni minacciose e ostili
contro lo Stato ebraico del suo predecessore (nel giorno del suo insediamento
ha marciato su una passerella che recava la scritta “morte ad Israele”). Si
può, infine, pensare che solo settori limitatissimi della classe dirigente
iraniana, espressione comunque di una millenaria civiltà, possano voler
assecondare il progetto di un Olocausto nucleare. Questa autorassicurazione è
però pericolosamente vicina a quella, tragicamente errata, che molti coltovarono
nei confronti della Germania nazista: dovremmo sempre ricordare che l’orrore
assoluto del Novecento non è nato in un paese barbarico, ma in una nazione che
era al centro della civiltà.
Ma lasciamo il terreno
della geopolitica e della politica estera e veniamo al punto, al momento più
scottante, e più occultato durante questa visita di stato, che riguarda la
sistematica violazione dei diritti umani da parte del regime degli ayatollah.
Il “moderato e
riformatore” Rohani ha continuato a comminare la massima pena, come e anzi più
del predecessore, il “folle” Ahmadinejad. Da quando è stato eletto 2227 sono
state le condanne a morte eseguite (ma si tratta solo di quelle “ufficiali”,
occorrerebbe aggiungere quelle “segrete” che riguardano soprattutto gli
oppositori politici, i “desaparecidos” iraniani). Le condanne a morte nel 2015 sono
state 980: il doppio rispetto all’Arabia Saudita, che pure è stata –
giustamente – attaccata per le recenti esecuzioni. Come mai tanti generosi
cavalieri dei diritti umani si mobilitano contro il regime saudita e si
distraggono, invece, quando si tratta dell’Iran? Non sarà anche questo double standard condizionato dal vecchio
vizio dell’antiamericanismo pregiudiziale?
Ma non basta ricordare
le cifre delle condanne a morte in Iran, occorre sottolineare non solo la
quantità, ma la orribile qualità di queste esecuzioni, che non riguardano, per
la massima parte, dei pluriomicidi o dei responsabili di delitti
particolarmente efferati. Riguardano, spesso, dei minori, come ha ricordato
Amnesty International; riguardano donne accusate di adulterio e uccise per
lapidazione (anche quando sono state violentate e non hanno commesso
l’adulterio di loro volontà); riguardano omosessuali che hanno compiuto l’atto
sessuale “completo” (per quello “parziale”, se si pentono, se la cavano con un
centinaio di frustate) e si sono rifiutati di “cambiare sesso”; si tratta di
persone accusate di blasfemia, offese al Corano e a Maometto.
Le autorità italiane e
vaticane non hanno speso nemmeno una frase diplomaticamente obliqua o criptica
per marcare una distanza rispetto a questo orrore, di fronte all’ospite in
turbante. Ma soprattutto sconcerta e indigna l’assenza di quei soggetti
“progressisti” in altre occasioni così sensibili. Dove sono finiti i tanti che
un anno fa erano Charlie, mentre a via della Conciliazione sfilava con il suo
nutrito seguito di auto blu il presidente di un regime che condanna la
blasfemia con la pena di morte? Dove sono finiti tutti quelli che sono così
attenti alle offese di ogni tipo ai minori quando avvengono in Occidente, dove
sono finiti tutti quelli che si sono giustamente commossi per i bambini
profughi annegati nel Mediterraneo, per il piccolo Aylan, mentre a Roma
atterrava il capo di uno stato che manda sul patibolo i ragazzini anche per una
bestemmia?
Dove sono le neo o post
femministe che denunciano come “femminicidio” ogni assassinio di una donna
commesso dal criminale occidentale di turno, che vigilano instancabili contro
ogni manifestazione di violenza ai danni delle donne, censurando persino le
presunte violenze “linguistiche” e cercando di obbligarci a dire la “ministra”,
la “sindaca” e così via, mentre a Palazzo Chigi veniva ricevuto il presidente
di quel regime che stabilisce, per legge, anche la grandezza delle pietre che
servono a lapidare le adultere: né troppo grandi, per evitare che la vittima
muoia subito, né troppo piccole, per risultare sufficientemente dolorose.
Tacevano queste neo o post-femministe, forse perché avevano ancora la lingua
intorpidita dal silenzio che si sono imposte sui sordidi fatti di Colonia.
Dove sono finite quelle
centinaia di migliaia di manifestanti "arcobaleno" di sabato scorso,
quelli che si indignano contro le gerarchie cattoliche, le “sentinelle in
piedi” e i partecipanti tutti al “family day”, quelli che sputano l’accusa di
“omofobia” contro chiunque osi mettere in discussione il “sacrosanto” diritto
delle coppie gay all’adozione, mentre a Roma piombava il presidente di un paese
che i gay li impicca per legge (islamica), attaccati alle gru? Nemmeno una
piazzetta, neanche uno striscioncino arcobaleno o una mezza frase contro
l’”omofobia” islamica?
Dove sono finiti,
infine, tutti quelli che il giorno dopo avrebbero celebrato, commossi e
partecipi, il giorno della Memoria, avrebbero ricordato gli ebrei sterminati
nei campi di concentramento e accolto con fragorosi applausi il sopravvissuto
di turno, tutti quelli che avrebbero citato come ogni anno il brano usato e
abusato di “Questo è un uomo”? Perché non hanno usato nemmeno una parola di
indignazione per l'indecente, sottomessa, deferente accoglienza riservata al
boia Rouhani, capo di un regime che professa il negazionismo di stato sulla
shoah, che annualmente indice un infame concorso che premia lautamente la “migliore”
vignetta negazionista, che ha come obiettivo dichiarato la distruzione dello
Stato ebraico e lo sterminio degli ebrei?
Non ci sono state
manifestazioni di piazza, non ci sono stati cortei dei giovani dei centri
sociali, non è stata bruciata la bandiera iraniana, come tante volte è stata
invece bruciata la bandiera di Israele, ossia dell’unico stato democratico del
Medio Oriente, l’unico paese che rispetta e tutela i diritti umani, l’unico
paese dove l’emancipazione femminile è ai più alti standard mondiali e dove gli
omosessuali sono al sicuro (anzi Tel Aviv pare sia una delle città più
gay-friendly del mondo).
Gli unici a scendere in
piazza sono stati i radicali di “Nessuno tocchi Caino” (onore a loro) e gli
sparuti gruppi dell’emigrazione e della resistenza iraniani, lasciati
vergognosamente soli. Fossero stati curdi del PKK avremmo invece visto tanti
giovanotti con kefiah e bandiera rossa d’ordinanza…
Alla fine, l’ospite in
turbante ha fatto la sua conferenza stampa, con domande preconfezionate,
preventivamente sottoposte al suo entourage e approvate. Una pagina vergognosa
del giornalismo nostrano, che solo uno dei presenti ha reso meno amara e ha
riscattato con dignità e coraggio. Si tratta del giornalista di “Notizie
ebraiche” il notiziario dell’Unione delle Comunità Ebraiche, Adam Smulevich, che
alla fine ha rivolto a Rouhani la seguente domanda, in inglese: “Presidente,
come pensa che possiamo avere fiducia nelle sue parole, nei suoi annunci
propagandistici, nel fatto che oggi ‘a Roma splende il sole’, come ha detto
poco fa, se il paese sotto la sua presidenza continua ad essere nelle prime
posizioni delle classifiche mondiali della negazione dei diritti?”. Rouhani, a
questo punto, ha alzato lo sguardo, frugando la sala con sguardo indispettito.
I guardiani della rivoluzione erano pronti a scattare. Qualche secondo di
tensione. Quindi il presidente ha abbandonato la sala, senza dare una risposta.
Onore, dunque, ad Adam Smulevich: il suo gesto ha ricordato quello della grande
Oriana Fallaci, che si tolse il velo dal capo dinanzi all’Ayatollah Khomeini.
E a proposito di veli
imposti e autoimposti, l’autocensura ha avuto poi il suo risvolto grottesco,
ridicolo, ma non per questo meno inquietante, con la vicenda delle statue dei
Musei Capitolini, coperte in modo che le loro nudità non offendessero la
sensibilità dell’ospite.
Qui, però, i deferenti
autocensori hanno commesso un errore: non hanno previsto le reazioni nazionali
e soprattutto internazionali (Le Monde, Le Figaro, Der Spiegel, il New York
Times, il Guardian…la stampa estera ha fatto a gara per mettere alla berlina le
autorità italiane). Ma prima che si potesse apprezzare la portata dell’autogoal
e provare una goffa marcia indietro, uno degli intellettuali volenterosamente
organici al “politically correct” si era già ingegnato a giustificare
l’ingiustificabile. E’ accaduto su "Repubblica", organo di stampa del
Min.pol.cor. (Ministero per il politicamente corretto), ove Tommaso Montanari
ha scritto che coprire delle statue "in occasione della visita di un
ospite che ne sarebbe ferito è un atto che si iscrive benissimo in quella
stessa tolleranza, che è la parte migliore della nostra civiltà". Se
Montanari, oltre che esperto di storia dell’arte, sapesse o ricordasse qualcosa
anche della storia del pensiero filosofico, saprebbe anche che i maestri e i
fondatori della moderna idea di tolleranza – da Locke a Voltaire – pongono dei
precisi limiti alla tolleranza stessa, che non può estendersi agli intolleranti
che hanno il potere e la capacità di sopprimerla. Da parte mia, aggiungo ciò
che Locke e Voltaire certamente davano per scontato, ma che oggi scontato non è
più: la tolleranza deve arrestarsi e incontra un limite anche di fronte alla
stupidità.
Resta la domanda di
fondo: perché? Molti hanno trovato risposte un po’ sbrigative: tutto
risalirebbe alla mole di affari che si spera di poter concludere con l’Iran
(per un ammontare di almeno 17 miliardi di euro, a quanto pare) ed anche al
servilismo, “tara” congenita dell’italica costituzione. Il più brillante tra
quelli che hanno percorso questa seconda pista è stato forse Massimo
Gramellini: i “geni del cerimoniale” che hanno inscatolato le sculture sono “i
degni eredi di un certo modo di essere italiani: senza dignità. Quella
vocazione a trattare l’ospite come fosse un padrone. A fare i tedeschi con i
tedeschi, gli iraniani, con gli iraniani, gli esquimesi con gli esquimesi. A
chiamare “rispetto” la smania tipica dei servi di compiacere chi li spaventa e
si accingono a fregare. Su questa tradizione, figlia di mille invasioni e
battaglie perdute anche con la propria coscienza, si innesta il tema
modernissimo del comportamento asimmetrico con gli stati musulmani”.
Tutto ciò è molto vero
e giusto, ma non spiega tutto e, probabilmente, non spiega l’essenziale. Se
solo si ricordasse ciò che è avvenuto poche settimane fa a Colonia, se solo si
associassero le due vicende, salterebbero certe facili soluzioni. Anche in quel
caso la nuda verità è stata coperta da veli non pietosi, ma indecenti e anche
in quel caso si è palesato un comportamento “asimmetrico” con i musulmani, ma
lì non si aveva a che fare con un potente capo di stato che portava con sé la
promessa di investimenti e commesse, ma con un’orda di immigrati misogeni e
violenti, i quali, peraltro, non erano neanche ospiti nostri, ma della
Germania.
Il double standard, il comportamento asimmetrico, come lo chiama Gramellini,
emerge in realtà ogni volta che si ha a
che fare con l’islam e, preferibilmente, proprio con l’islam più violento e
intollerante. E allora la mia tesi è che si ha tanto pudore a denunciare i vizi
di questo mondo islamico perché sono i vizi che certo mondo occidentale ama
ancora, ancora sente suoi e ai quali però non si può più abbandonare, non
apertamente, almeno; i vizi che è costretto a mascherare spesso dietro le virtù
contrarie, così ostentate, così prepotentemente imposte sulla scena pubblica
che finiscono per assomigliare, quelle virtù, proprio ai vizi che vorrebbero
condannare, ma solo a corrente alternata, e dai quali in realtà sono
alimentate. Un mondo occidentale che quindi, simpatizza, consapevolmente o
inconsapevolmente, con l’islam più retrivo. Questo inquietante mondo
occidentale non è quello dichiaratamente conservatore o reazionario, ma è
proprio quello sedicente progressista. Il mondo degli intolleranti che hanno
dovuto vestire, per restare nella mainstream,
la maschera della tolleranza, dei violenti che hanno dovuto indossare l’abito
della mansuetudine, dei bigotti che hanno dovuto mettersi il cappello
dell’apertura mentale. Da noi è quel mondo che una volta si chiamava, non senza
efficacia, “catto-comunista”, che è uscito indenne e anzi trionfante dallo
sfascio della prima repubblica. Ambienti eredi dello stalinismo da un lato, dell’Inquisizione cattolica dall’altro,
che prima si sono affratellati tra loro per affinità elettive, e ora
percepiscono l’irresistibile richiamo di tali affinità elettive anche con
l’islam, che in fondo è nel mondo odierno l’ultimo rifugio degli intolleranti.
Non potendo più usare
gli strumenti diretti e più brutali, ma almeno sinceri, della repressione,
costoro – e veniamo al punto di partenza che è anche quello centrale nel nostro
discorso – usano l’arma dell’autocensura. Un’arma rivolta contro se stessi,
contro la tentazione di tornare a palesare le proprie più autentiche
inclinazioni, ma soprattutto contro gli altri. Contro tutti coloro che osano
avanzare una critica, anche sotto forma di semplice perplessità, di punto di
domanda, di questione aperta, al pensiero politicamente corretto dominante. In
modo da spingerli all’autocensura – strumento principe di ogni totalitarismo soft – non tanto per il timore della
condanna esplicita, che raramente avviene, ma per evitare l’isolamento, l’emarginazione,
l’esclusione, che colpisce ogni voce realmente, fastidiosamente critica,
proprio ad opera di coloro che si mostrano così ipocritamente “inclusivi” e
dialoganti, nella loro esibita e artefatta immagine pubblica.
Un’epoca di barbarie è
questa, come dice giustamente una cara amica, barbarie alla quale
contribuiscono anche molti che sono in buona fede. E questo è il peggio, perché
è su quelli in buona fede che si sono sempre retti i regimi barbarici, i
peggiori dispotismi; quelli in malafede, da soli, non ce la potrebbero mai fare.
Il Signore ci guardi,
allora, dalla intolleranza dei finti tolleranti, dalla violenza dei finti
mansueti, e ci consenta innanzitutto di riconoscerli, di percepire sempre il
tanfo del bigottismo, che cercano di coprire con una spruzzata di profumo liberal.