giovedì 28 gennaio 2016

L'AUTOCENSURA, MALATTIA SENILE DELL'OCCIDENTE



Ci sono eventi che hanno un potere rivelatorio fuori dal comune, una portata di demistificazione, eventi che strappano le maschere, sollevano i veli. Uno di questi si è consumato a Colonia, lo scorso Capodanno; un altro è accaduto in questi giorni, in occasione della visita in Italia del presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Rohani. Questi eventi hanno manifestato un elemento strutturale del regime attualmente vigente in Italia e nel resto dell’Occidente. Questo elemento è l’autocensura.
Oggetto dell’autocensura è stata, in questo caso, la vera e cruda realtà del regime iraniano. Soggetti dell’autocensura anzitutto le alte cariche istituzionali che hanno accolto Rohani – Mattarella, Renzi, il Papa – i mass-media (in buona parte) e soprattutto l’opinione pubblica “progressista”. In fondo, i più scusabili, sono i primi, che potrebbero invocare il protocollo diplomatico e la ragion di stato. Va però ricordato che il protocollo diplomatico consolidato conosce formule cortesi, ma inequivocabili, per esprimere la deplorazione per i comportamenti politici dell’ospite, come la violazione dei diritti umani o l’aggressione bellica. Queste formule sono state usate un’infinità di volte, talora di fronte a personaggi ancora più potenti (Putin), ma sono state completamente dimenticate in questa circostanza, sia da Mattarella, sia da Renzi, sia da Bergoglio. Si sono anzi accreditati un’immagine e un ruolo dell’Iran e del suo Presidente del tutto fasulli. A quest’ultimo è stata cucito addosso l’abito del “moderato”, che gli sta davvero strettissimo, che è smentito da fatti inoppugnabili. E di conseguenza il suo paese è stato presentato come un affidabile elemento di stabilizzazione della critica situazione mediorientale e addirittura come un fattore di pace. Il vertice della mistificazione, da questo punto di vista, lo ha indubbiamente raggiunto il comunicato ufficiale del Vaticano.
Vale allora la pena di ricordare almeno i punti essenziali della posizione geopolitica dell’Iran. Anzitutto, l’Iran capeggia l’islamismo sciita, impegnato ormai da anni in una terribile guerra civile con l’islam sunnita (a sua volta guidato dall’Arabia Saudita). Questa guerra, che si combatte direttamente, costantemente e sanguinosamente su vari teatri - dalla Siria allo Yemen, all’Iraq - e in modo più occasionale e sotterraneo, ma pur sempre drammatico in quasi tutti gli altri paesi islamici, è il principale fattore di destabilizzazione e il primo ostacolo alla pace in una vasta area del mondo. Come si può allora considerare l’Iran, che guida attivamente uno dei due schieramenti, un fattore di stabilizzazione? L’Iran è al centro di un’alleanza sciita o filo-sciita che ha come altri fondamentali componenti il regime (sanguinario) di Assad e la milizia degli Hezbollah; un’alleanza che è sostenuta dalla Russia, che in tal modo è rientrata prepotentemente nel grande gioco mediorientale, destabilizzando ancor più il quadro complessivo. Se Assad non fosse stato appoggiato militarmente e finanziariamente dall’Iran e dalla Russia e difeso dalle milizie di Hezbollah, a loro volta armate dal regime di Rohani, sarebbe già caduto e la guerra civile in Siria non avrebbe avuto gli sviluppi tragici che ha avuto. L’Iran, inoltre, finanzia ed arma anche Hamas, con missili sempre più moderni e di più lunga gittata, che periodicamente vengono lanciati sulle città israeliane e che farebbero danni immani alla popolazione e alle infrastrutture della vita civile senza l’efficace sistema difensivo israeliano. Hamas, che per statuto si propone la distruzione dello Stato ebraico e la cacciata o lo sterminio di tutti gli ebrei dalla Palestina, è il primo fattore che impedisce alla radice qualunque ipotesi negoziale e percorso di pace, compromettendo non solo la sicurezza degli israeliani, ma lo stesso futuro dei palestinesi che pure dice di difendere e che in realtà strumentalizza in modo disumano, servendosene anche come scudi umani. Scaricato dall’Egitto di Al Sisi, dopo la breve e funesta parentesi del regime islamista di Morsi, il regime sanguinario e oscurantista di Hamas a Gaza, rispetto al passato, non gode più degli stessi appoggi nella Lega Araba e senza il sostegno iraniano, che in questo caso supera il pregiudizio religioso, dato che Hamas è sunnita, sarebbe già crollato, con immenso sollievo di chi desidera sinceramente la pace.
La politica estera di Rohani è quindi in assoluta continuità con quella del suo predecessore Ahmadinejad. Come mai allora lo si presenta come un “moderato” e un “riformatore” che avrebbe riportato il suo paese nel consorzio civile dopo la parentesi di “follia” del suo predecessore?  Accreditare l’Iran e considerarlo un partner ineludibile, se non del tutto affidabile, potrebbe avere qualche fondata ragione, visto che, proprio per la guerra interislamica di cui si diceva, la repubblica islamica sciita è acerrimo nemico dello Stato islamico di al-Baghdadi. E difatti sia il papa che il governo italiano hanno rimarcato l’importante collaborazione che il paese di Rohani potrebbe dare alla lotta contro il terrorismo. Salvo il fatto che questa strategia assomiglia in modo inquietante al tragico errore dell’asino della favola che un bel giorno decise di andare a caccia insieme al leone.
Non si considera, per ignoranza, per opportunismo o per errore di calcolo, che se è vero che il fondamentalismo contemporaneo ha il suo bacino di coltura nel mondo sunnita – il wahabismo saudita sul piano teologico e i Fratelli musulmani egiziani sul piano politico-religioso - il fondamentalismo che ha trovato come sbocco il terrorismo e l’espansionismo jihadista è invece il frutto avvelenato della rivoluzione iraniana del 1979 e del regime khomeinista. E’ da quel momento che si è rinfocolata la guerra civile fra sunniti e sciiti ed è a partire da lì che il fondamentalismo ha assunto connotati aggressivi verso l’Occidente e ha cominciato a coltivare progetti espansionistici e sogni di dominio planetario. L’Iran degli Ayatollah si è subito messo all’opera per “esportare la rivoluzione”, con la guerra all’Iraq e la costituzione di gruppi terroristici in Libano. Il mondo sunnita è stato coinvolto in questa deriva, innanzitutto per reazione: Hamas nasce negli anni Ottanta e negli anni Ottanta l’integralismo islamico sunnita compie i primi attentati spettacolari, a cominciare dall’uccisione del presidente egiziano Sadat, che aveva stabilito finalmente la pace fra il suo paese e Israele. Poi, prima con Al Qaeda e ora con l’Isis, il jihadismo sunnita ha raggiunto livelli di pericolosità ed efferatezza che hanno spinto a sottovalutare la minaccia del jihadismo sciita, che ha invece una portata potenzialmente ancor più grande. Da questo punto di vista, il passaggio dall’amministrazione Bush a quella Obama, con l’appeasement con l’Iran, è stato certamente negativo. L’Europa si è passivamente accodata al presidente americano, alla disperata ricerca di un presunto successo dopo otto anni a dir poco fallimentari in politica estera, e solo Israele e il mondo ebraico hanno mantenuto alto il livello di allerta rispetto al pericolo iraniano. Non a caso, la più lucida analisi che sia stata pubblicata di recente sulle rispettive minacce rappresentate dal Califfato islamico e dal regime degli Ayatollah si deve a Fiamma Nirenstein (Il Califfo e l’Ayatollah. Assedio al nostro mondo, Mondadori, 2015).
La Nirenstein ricorda che gli sciiti, relegati da secoli a minoranza perseguitata, hanno da sempre coltivato la dottrina della jihad. La jihad è una deriva possibile, e oggi altamente probabile, nel mondo sunnita, ma è addirittura connaturata all’islamismo sciita, che – aggiungo da parte mia - ha assunto storicamente i caratteri militanti che hanno tutte le minoranza religiose perseguitate. E’ accaduto anche nel cristianesimo – in epoca moderna il calvinismo è un preciso esempio di questa antropologia religiosa. Con la differenza, che il processo di secolarizzazione e la conseguente separazione fra la sfera della fede e quella della legge, tra la sfera politica e quella religiosa, hanno portato i calvinisti a impegnarsi, da un lato in un combattimento spirituale, dall’altro in una lotta politica e civile, talora rivoluzionaria. Ciò non poteva accadere nell’islam, proprio per la mancanza di questo processo di secolarizzazione.
Il jihadismo sciita ha, inoltre, una pericolosità dirompente perché tende ad assumere connotati messianici. E’ noto che lo scisma sciita nasce perché una parte dei seguaci di Maometto, alla sua morte, avvenuta nel 632, si rifiutano di riconoscere come califfo Abu Bakr, ritenendo che la successione dovesse spettare al genero del Profeta, Ali. Costoro presero a definirsi come seguaci della “casa di Alì”, shiat’Ali – sciiti, e furono perseguitati e cacciati dai territori arabi, trovando rifugio innanzitutto nei territori del vecchio impero persiano (l’attuale Iran). Sorvolando su correnti minori interne allo sciismo, ricordiamo che la grande maggioranza degli sciiti crede nella successione di dodici imam, dopo Maometto e a partire da Ali, se non che il dodicesimo imam - Muhammad ibn Hossein al-Mahdi - secondo la credenza, sarebbe scomparso misteriosamente per sfuggire ai nemici. Da allora ha inizio “il divino nascondimento” di questo dodicesimo imam – detto anche il Mahdi – del quale si attende il ritorno nel giorno finale, nel giorno del giudizio. Lo sciismo ha così una essenziale componente escatologica e “messianica”, ma anche un tratto apocalittico. Difatti, molti ritengono che il ritorno del Mahdi sarà preceduto da segni inequivocabili. Vediamo di quali segni si tratta, perché questo ci porta al cuore del nostro problema. Il predecessore di Rohani, Ahmadinejad – che era un fanatico seguace di questa dottrina escatologica – ripeteva spesso che “quando il mondo sarà caduto nel caos e divamperà la guerra fra le razze umane” allora il ritorno del dodicesimo imam sarà vicino. Come è tipico dei movimenti apocalittici e come è inevitabile per una confessione religiosa che ha il carattere militante di cui dicevamo, non si tratta di attendere passivamente il compimento escatologico, ma occorre collaborare attivamente per accelerarlo, occorre favorire le condizioni che porteranno all’avvento del Mahdi. Vale a dire che bisogna alimentare il caos e la guerra fra i popoli. Ciò può non bastare, evidentemente, visto che disordine e guerra sono purtroppo elementi costanti della storia umana e, in particolare, di quella del Medio Oriente contemporaneo. E difatti Ahmadinejad e la corrente iraniana più direttamente legata a queste attese sapevano bene che tutte le previsioni passate su una imminente venuta del Mahdi sono state smentite. Oggi, però, si possono portare guerra e caos al livello definitivo, al punto di non ritorno. Come? E’ molto semplice: con l’arma atomica, con la minaccia atomica. Neanche questo, tuttavia, potrebbe bastare: nel mondo ci sono già parecchie potenze nucleari e almeno una di queste è anche islamica, benché a maggioranza sunnita – il Pakistan. Per produrre il “caos apocalittico” la bomba non bisogna solo costruirla, ma bisogna anche usarla, o almeno minacciare di usarla su una posizione nevralgica dell’assetto internazionale, un paese che una volta colpito o gravemente e seriamente minacciato, sarebbe costretto a ricorrere a tutta la sua forza e a tutte le sue relazioni per sopravvivere, innescando così, suo malgrado, quella spirale distruttiva che né il jihadismo, né la potenza iraniana possono da soli innescare; questo paese è Israele! Vedete, come i progetti nucleari iraniani e le minacce di distruzione di Israele acquistino, in questa luce, una portata ancora più inquietante.
Certo, l’Iran è mosso, sullo scenario mediorientale, anche e soprattutto da ordinari obiettivi politici di potenza ed interessi economici. Tuttavia, il presunto realismo politico non basta a interpretare e a spiegare tutto. Non spiega adeguatamente, ad esempio, l’accanimento contro Israele, con cui l’Iran – a differenza del mondo arabo - non ha nemmeno motivi territoriali di conflitto. Non si può pensare che le minacce ad Israele siano solo retorica propagandistica, tesa a guadagnare consensi nel mondo arabo, perché questi consensi l’Iran o li ha già, quando si tratta dell’islamismo arabo sciita o filo-sciita, in virtù della sua indiscussa leadership in questo campo, o non li potrà mai avere, quando si tratta dell’islamismo arabo sunnita che guarda all’Iran come ad una potenza eretica. Il legame con Hamas è motivato solo dall’interesse, da parte di Hamas, di uscire dall’isolamento. Ma quale è l’interesse dell’Iran? Perché finanziare ed armare un gruppo sunnita che, una volta conquistata la Palestina, perseguiterebbe non solo gli ebrei, ma gli stessi sciiti? Nella razionale partita a scacchi della geopolitica e dei contrapposti interessi economici Israele costituirebbe addirittura per l’Iran un vantaggioso alleato contro il principale antagonista regionale, che è lo schieramento arabo sunnita!  Lo scià di Persia, che non era ottenebrato dall’ideologia religiosa, questo lo aveva ben capito. Dunque, il “messianismo” apocalittico è, purtroppo, una chiave di lettura imprescindibile per decifrare la politica iraniana, una chiave di lettura che deve essere applicata anche alla presidenza Rohani, che sta perpetuando le dichiarazioni minacciose e ostili contro lo Stato ebraico del suo predecessore (nel giorno del suo insediamento ha marciato su una passerella che recava la scritta “morte ad Israele”). Si può, infine, pensare che solo settori limitatissimi della classe dirigente iraniana, espressione comunque di una millenaria civiltà, possano voler assecondare il progetto di un Olocausto nucleare. Questa autorassicurazione è però pericolosamente vicina a quella, tragicamente errata, che molti coltovarono nei confronti della Germania nazista: dovremmo sempre ricordare che l’orrore assoluto del Novecento non è nato in un paese barbarico, ma in una nazione che era al centro della civiltà.
Ma lasciamo il terreno della geopolitica e della politica estera e veniamo al punto, al momento più scottante, e più occultato durante questa visita di stato, che riguarda la sistematica violazione dei diritti umani da parte del regime degli ayatollah.
Il “moderato e riformatore” Rohani ha continuato a comminare la massima pena, come e anzi più del predecessore, il “folle” Ahmadinejad. Da quando è stato eletto 2227 sono state le condanne a morte eseguite (ma si tratta solo di quelle “ufficiali”, occorrerebbe aggiungere quelle “segrete” che riguardano soprattutto gli oppositori politici, i “desaparecidos” iraniani). Le condanne a morte nel 2015 sono state 980: il doppio rispetto all’Arabia Saudita, che pure è stata – giustamente – attaccata per le recenti esecuzioni. Come mai tanti generosi cavalieri dei diritti umani si mobilitano contro il regime saudita e si distraggono, invece, quando si tratta dell’Iran? Non sarà anche questo double standard condizionato dal vecchio vizio dell’antiamericanismo pregiudiziale?
Ma non basta ricordare le cifre delle condanne a morte in Iran, occorre sottolineare non solo la quantità, ma la orribile qualità di queste esecuzioni, che non riguardano, per la massima parte, dei pluriomicidi o dei responsabili di delitti particolarmente efferati. Riguardano, spesso, dei minori, come ha ricordato Amnesty International; riguardano donne accusate di adulterio e uccise per lapidazione (anche quando sono state violentate e non hanno commesso l’adulterio di loro volontà); riguardano omosessuali che hanno compiuto l’atto sessuale “completo” (per quello “parziale”, se si pentono, se la cavano con un centinaio di frustate) e si sono rifiutati di “cambiare sesso”; si tratta di persone accusate di blasfemia, offese al Corano e a Maometto.
Le autorità italiane e vaticane non hanno speso nemmeno una frase diplomaticamente obliqua o criptica per marcare una distanza rispetto a questo orrore, di fronte all’ospite in turbante. Ma soprattutto sconcerta e indigna l’assenza di quei soggetti “progressisti” in altre occasioni così sensibili. Dove sono finiti i tanti che un anno fa erano Charlie, mentre a via della Conciliazione sfilava con il suo nutrito seguito di auto blu il presidente di un regime che condanna la blasfemia con la pena di morte? Dove sono finiti tutti quelli che sono così attenti alle offese di ogni tipo ai minori quando avvengono in Occidente, dove sono finiti tutti quelli che si sono giustamente commossi per i bambini profughi annegati nel Mediterraneo, per il piccolo Aylan, mentre a Roma atterrava il capo di uno stato che manda sul patibolo i ragazzini anche per una bestemmia?
Dove sono le neo o post femministe che denunciano come “femminicidio” ogni assassinio di una donna commesso dal criminale occidentale di turno, che vigilano instancabili contro ogni manifestazione di violenza ai danni delle donne, censurando persino le presunte violenze “linguistiche” e cercando di obbligarci a dire la “ministra”, la “sindaca” e così via, mentre a Palazzo Chigi veniva ricevuto il presidente di quel regime che stabilisce, per legge, anche la grandezza delle pietre che servono a lapidare le adultere: né troppo grandi, per evitare che la vittima muoia subito, né troppo piccole, per risultare sufficientemente dolorose. Tacevano queste neo o post-femministe, forse perché avevano ancora la lingua intorpidita dal silenzio che si sono imposte sui sordidi fatti di Colonia.
Dove sono finite quelle centinaia di migliaia di manifestanti "arcobaleno" di sabato scorso, quelli che si indignano contro le gerarchie cattoliche, le “sentinelle in piedi” e i partecipanti tutti al “family day”, quelli che sputano l’accusa di “omofobia” contro chiunque osi mettere in discussione il “sacrosanto” diritto delle coppie gay all’adozione, mentre a Roma piombava il presidente di un paese che i gay li impicca per legge (islamica), attaccati alle gru? Nemmeno una piazzetta, neanche uno striscioncino arcobaleno o una mezza frase contro l’”omofobia” islamica?
Dove sono finiti, infine, tutti quelli che il giorno dopo avrebbero celebrato, commossi e partecipi, il giorno della Memoria, avrebbero ricordato gli ebrei sterminati nei campi di concentramento e accolto con fragorosi applausi il sopravvissuto di turno, tutti quelli che avrebbero citato come ogni anno il brano usato e abusato di “Questo è un uomo”? Perché non hanno usato nemmeno una parola di indignazione per l'indecente, sottomessa, deferente accoglienza riservata al boia Rouhani, capo di un regime che professa il negazionismo di stato sulla shoah, che annualmente indice un infame concorso che premia lautamente la “migliore” vignetta negazionista, che ha come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato ebraico e lo sterminio degli ebrei?
Non ci sono state manifestazioni di piazza, non ci sono stati cortei dei giovani dei centri sociali, non è stata bruciata la bandiera iraniana, come tante volte è stata invece bruciata la bandiera di Israele, ossia dell’unico stato democratico del Medio Oriente, l’unico paese che rispetta e tutela i diritti umani, l’unico paese dove l’emancipazione femminile è ai più alti standard mondiali e dove gli omosessuali sono al sicuro (anzi Tel Aviv pare sia una delle città più gay-friendly del mondo).
Gli unici a scendere in piazza sono stati i radicali di “Nessuno tocchi Caino” (onore a loro) e gli sparuti gruppi dell’emigrazione e della resistenza iraniani, lasciati vergognosamente soli. Fossero stati curdi del PKK avremmo invece visto tanti giovanotti con kefiah e bandiera rossa d’ordinanza…
Alla fine, l’ospite in turbante ha fatto la sua conferenza stampa, con domande preconfezionate, preventivamente sottoposte al suo entourage e approvate. Una pagina vergognosa del giornalismo nostrano, che solo uno dei presenti ha reso meno amara e ha riscattato con dignità e coraggio. Si tratta del giornalista di “Notizie ebraiche” il notiziario dell’Unione delle Comunità Ebraiche, Adam Smulevich, che alla fine ha rivolto a Rouhani la seguente domanda, in inglese: “Presidente, come pensa che possiamo avere fiducia nelle sue parole, nei suoi annunci propagandistici, nel fatto che oggi ‘a Roma splende il sole’, come ha detto poco fa, se il paese sotto la sua presidenza continua ad essere nelle prime posizioni delle classifiche mondiali della negazione dei diritti?”. Rouhani, a questo punto, ha alzato lo sguardo, frugando la sala con sguardo indispettito. I guardiani della rivoluzione erano pronti a scattare. Qualche secondo di tensione. Quindi il presidente ha abbandonato la sala, senza dare una risposta. Onore, dunque, ad Adam Smulevich: il suo gesto ha ricordato quello della grande Oriana Fallaci, che si tolse il velo dal capo dinanzi all’Ayatollah Khomeini.
E a proposito di veli imposti e autoimposti, l’autocensura ha avuto poi il suo risvolto grottesco, ridicolo, ma non per questo meno inquietante, con la vicenda delle statue dei Musei Capitolini, coperte in modo che le loro nudità non offendessero la sensibilità dell’ospite.
Qui, però, i deferenti autocensori hanno commesso un errore: non hanno previsto le reazioni nazionali e soprattutto internazionali (Le Monde, Le Figaro, Der Spiegel, il New York Times, il Guardian…la stampa estera ha fatto a gara per mettere alla berlina le autorità italiane). Ma prima che si potesse apprezzare la portata dell’autogoal e provare una goffa marcia indietro, uno degli intellettuali volenterosamente organici al “politically correct” si era già ingegnato a giustificare l’ingiustificabile. E’ accaduto su "Repubblica", organo di stampa del Min.pol.cor. (Ministero per il politicamente corretto), ove Tommaso Montanari ha scritto che coprire delle statue "in occasione della visita di un ospite che ne sarebbe ferito è un atto che si iscrive benissimo in quella stessa tolleranza, che è la parte migliore della nostra civiltà". Se Montanari, oltre che esperto di storia dell’arte, sapesse o ricordasse qualcosa anche della storia del pensiero filosofico, saprebbe anche che i maestri e i fondatori della moderna idea di tolleranza – da Locke a Voltaire – pongono dei precisi limiti alla tolleranza stessa, che non può estendersi agli intolleranti che hanno il potere e la capacità di sopprimerla. Da parte mia, aggiungo ciò che Locke e Voltaire certamente davano per scontato, ma che oggi scontato non è più: la tolleranza deve arrestarsi e incontra un limite anche di fronte alla stupidità.
Resta la domanda di fondo: perché? Molti hanno trovato risposte un po’ sbrigative: tutto risalirebbe alla mole di affari che si spera di poter concludere con l’Iran (per un ammontare di almeno 17 miliardi di euro, a quanto pare) ed anche al servilismo, “tara” congenita dell’italica costituzione. Il più brillante tra quelli che hanno percorso questa seconda pista è stato forse Massimo Gramellini: i “geni del cerimoniale” che hanno inscatolato le sculture sono “i degni eredi di un certo modo di essere italiani: senza dignità. Quella vocazione a trattare l’ospite come fosse un padrone. A fare i tedeschi con i tedeschi, gli iraniani, con gli iraniani, gli esquimesi con gli esquimesi. A chiamare “rispetto” la smania tipica dei servi di compiacere chi li spaventa e si accingono a fregare. Su questa tradizione, figlia di mille invasioni e battaglie perdute anche con la propria coscienza, si innesta il tema modernissimo del comportamento asimmetrico con gli stati musulmani”.
Tutto ciò è molto vero e giusto, ma non spiega tutto e, probabilmente, non spiega l’essenziale. Se solo si ricordasse ciò che è avvenuto poche settimane fa a Colonia, se solo si associassero le due vicende, salterebbero certe facili soluzioni. Anche in quel caso la nuda verità è stata coperta da veli non pietosi, ma indecenti e anche in quel caso si è palesato un comportamento “asimmetrico” con i musulmani, ma lì non si aveva a che fare con un potente capo di stato che portava con sé la promessa di investimenti e commesse, ma con un’orda di immigrati misogeni e violenti, i quali, peraltro, non erano neanche ospiti nostri, ma della Germania.
Il double standard, il comportamento asimmetrico, come lo chiama Gramellini,  emerge in realtà ogni volta che si ha a che fare con l’islam e, preferibilmente, proprio con l’islam più violento e intollerante. E allora la mia tesi è che si ha tanto pudore a denunciare i vizi di questo mondo islamico perché sono i vizi che certo mondo occidentale ama ancora, ancora sente suoi e ai quali però non si può più abbandonare, non apertamente, almeno; i vizi che è costretto a mascherare spesso dietro le virtù contrarie, così ostentate, così prepotentemente imposte sulla scena pubblica che finiscono per assomigliare, quelle virtù, proprio ai vizi che vorrebbero condannare, ma solo a corrente alternata, e dai quali in realtà sono alimentate. Un mondo occidentale che quindi, simpatizza, consapevolmente o inconsapevolmente, con l’islam più retrivo. Questo inquietante mondo occidentale non è quello dichiaratamente conservatore o reazionario, ma è proprio quello sedicente progressista. Il mondo degli intolleranti che hanno dovuto vestire, per restare nella mainstream, la maschera della tolleranza, dei violenti che hanno dovuto indossare l’abito della mansuetudine, dei bigotti che hanno dovuto mettersi il cappello dell’apertura mentale. Da noi è quel mondo che una volta si chiamava, non senza efficacia, “catto-comunista”, che è uscito indenne e anzi trionfante dallo sfascio della prima repubblica. Ambienti eredi dello stalinismo da un  lato, dell’Inquisizione cattolica dall’altro, che prima si sono affratellati tra loro per affinità elettive, e ora percepiscono l’irresistibile richiamo di tali affinità elettive anche con l’islam, che in fondo è nel mondo odierno l’ultimo rifugio degli intolleranti.
Non potendo più usare gli strumenti diretti e più brutali, ma almeno sinceri, della repressione, costoro – e veniamo al punto di partenza che è anche quello centrale nel nostro discorso – usano l’arma dell’autocensura. Un’arma rivolta contro se stessi, contro la tentazione di tornare a palesare le proprie più autentiche inclinazioni, ma soprattutto contro gli altri. Contro tutti coloro che osano avanzare una critica, anche sotto forma di semplice perplessità, di punto di domanda, di questione aperta, al pensiero politicamente corretto dominante. In modo da spingerli all’autocensura – strumento principe di ogni totalitarismo soft – non tanto per il timore della condanna esplicita, che raramente avviene, ma per evitare l’isolamento, l’emarginazione, l’esclusione, che colpisce ogni voce realmente, fastidiosamente critica, proprio ad opera di coloro che si mostrano così ipocritamente “inclusivi” e dialoganti, nella loro esibita e artefatta immagine pubblica.
Un’epoca di barbarie è questa, come dice giustamente una cara amica, barbarie alla quale contribuiscono anche molti che sono in buona fede. E questo è il peggio, perché è su quelli in buona fede che si sono sempre retti i regimi barbarici, i peggiori dispotismi; quelli in malafede, da soli, non ce la potrebbero mai fare.
Il Signore ci guardi, allora, dalla intolleranza dei finti tolleranti, dalla violenza dei finti mansueti, e ci consenta innanzitutto di riconoscerli, di percepire sempre il tanfo del bigottismo, che cercano di coprire con una spruzzata di profumo liberal.




sabato 16 gennaio 2016

I MIGRANTI "ESERCITO INDUSTRIALE DI RISERVA"



Vorrei partire da un commento alla più stretta attualità per poi cercare di fare una riflessione un po’ più profonda e arrivare a qualche problema strutturale. Ha fatto clamore, nei giorni scorsi, la pubblicazione sul sito gay. it di nomi e facce dei parlamentari del PD - cosiddetti catto-dem - contrari alle adozioni per le coppie omosessuali.  Si e’ parlato di “liste di proscrizione” e addirittura di un’ azione “squadristica”. Io credo che si sia trattato,  invece, di una sorta di azione lobbystica, condotta forse in forma alquanto brutale. Infatti, se si trattasse soltanto del tema delle unioni civili si dovrebbe parlare di una sacrosanta battaglia per i diritti, ma visto che la questione che divide, a quanto pare, è solo quella specifica delle adozioni in una coppia omosessuale, mi pare invece più corretto parlare appunto di una azione lobbistica. Il  problema è che riconoscere che, almeno in certi casi, le associazioni gay funzionano come una lobby porterebbe piu’ chiarezza nel dibattito pubblico, ma avrebbe un prezzo: significherebbe riconoscere che esse agiscono, in quei casi specifici, come portatrici di legittimi interessi e di un  legittimo punto di vista, ma non come soggetti protagonisti di lotte per i diritti o addirittura di "battaglie di civiltà" e di azioni rivolte al trionfo dell’amore cristiano. E significherebbe riconoscere che chi invece ha un altro punto di vista, non è necessariamente afflitto dal terribile morbo dell’omofobia, tantomeno si colloca fuori dalla civiltà e dalla legge dell’amore cristiano, ma ritiene che vadano considerati altri legittimi interessi, come quelli del bambino, questione la cui soluzione non è scontata, ma neanche può essere così sbrigativa come vorrebbero i fautori senza se e senza ma delle adozioni.
Ma vi è un’altra questione che è adombrata dalla iniziativa di gay.it.  Essa lascia trasparire ancora una volta, a pochi giorni dalle reazioni e dalle non-reazioni ai fatti di Colonia, le stridenti contraddizioni del fronte “progressista”. Vista, infatti, la nuova legge sul diritto di cittadinanza fortemente voluta da quei settori "progressisti" che sostengono anche le adozioni gay, visto che tale legge nei prossimi anni potrebbe dare diritto di voto a centinaia di migliaia di islamici, divenuti cittadini italiani, il sito gay.it dovrà prepararsi a pubblicare liste più numerose, che comprenderanno accanto agli attuali deputati di tendenza "catto-dem", nuovi deputati "islam-dem", probabilmente non favorevoli ai "diritti gay" ( e contrari anche ad altri diritti cari non solo ai progressisti, ma a qualsiasi buon cittadino occidentale).

La contraddizione sul terreno dei diritti è già emersa, ma è destinata a divenire esplosiva, salvo casi gravi, ma ancora episodici, solo nei prossimi anni. Vi è invece una contraddizione sul terreno economico-sociale che è già dirompente e riguarda gli effetti della massiccia ondata migratoria sulle condizioni del lavoro e dei lavoratori autoctoni. La sinistra, in tutte le sue articolazioni, ha sbrigativamente liquidato il problema, trattandolo come una mera mistificazione delle destre xenofobe. E ha contrapposto al rozzo slogan di queste ultime – che però fa molta presa sulla popolazione - “gli immigrati tolgono il lavoro agli italiani”, slogan altrettanto stolti, tipo “gli immigrati fanno i lavori che gli italiani si rifiutano di fare”, “gli immigrati rappresentano una risorsa per il nostro futuro”. Una risorsa lo sono certamente, ma per chi?
Sono anni che con profondo sconcerto noto che nessuno o quasi degli “intellettuali” progressisti ricorda certe fondamentali categorie del pensiero marxiano, che sarebbero invece utilissime oggi a dare una corretta lettura “da sinistra” del fenomeno dell’immigrazione e a progettare una politica coerente. Per esempio, la formidabile categoria di “esercito industriale di riserva”. Marx ne parla nel I libro del Capitale, riferendosi ai disoccupati. La disoccupazione, dice Marx in sostanza, non è un incidente di percorso dell’economia capitalistica e non è nemmeno legata alle crisi congiunturali, sebbene ovviamente sia più elevata in queste crisi, ma è un elemento strutturale dell’economia capitalistica. Il capitalista, infatti, deve investire il suo capitale sia in forza-lavoro – i salari pagati agli operai – sia in macchine, attrezzature tecnologiche, e oggi anche pubblicità, spese di marketing, ecc.. Il primo, secondo la definizione già data da David Ricardo, è il “capitale variabile”, il secondo è il “capitale fisso”. Ora mentre il capitalista può anche diminuire la spesa in capitale variabile, ossia la quota salari, mentre può trovare, ad esempio, aree del mondo ove il costo del lavoro è inferiore e l’investimento più conveniente, può far poco per diminuire la quota di capitale fisso, che invece tende immancabilmente a salire. Se un capitalista investisse di meno in macchinari, attrezzature o pubblicità sarebbe schiacciato dalla concorrenza. Dunque il capitale fisso non può che crescere. Ma se cresce il capitale fisso investito, diminuisce proporzionalmente il profitto del capitalista, perché aumentano i costi di produzione. Come se ne esce? In teoria è molto semplice, agendo sull’altra quota di capitale investito, il cosiddetto capitale mobile, la retribuzione dei lavoratori. Ovviamente non è facile convincere i lavoratori ad accontentarsi di salari più bassi, ma la disoccupazione è un efficace strumento di compressione dei salari. Marx definisce, infatti, i disoccupati “esercito industriale di riserva”, perché la loro semplice presenza fornisce ai capitalisti una formidabile arma nella lotta di classe contro i lavoratori, un’arma che consente di tener bassi i livelli salariali, sia con una sorta di ricatto psicologico (detto semplicemente: “sappiate che se protestate per avere salari più alti, potreste essere licenziati e allora assumerò quelli che sono disoccupati che certamente pur di lavorare si accontenteranno di essere pagati di meno”), sia, soprattutto, per una elementare legge dell’economia di mercato, che è la legge della domanda e dell’offerta. Dato che il lavoro è ridotto a merce, il suo valore – a cui corrisponde, in parte, il salario del lavoratore – tende a diminuire quando l’offerta supera la domanda, come avviene per ogni altra merce. E questa è appunto la condizione che si crea sul mercato del lavoro quando vi è una diffusa disoccupazione.
Se Marx fosse ancora vivo, capirebbe immediatamente che il sistema capitalistico è divenuto molto più complesso e che gli strumenti adottati dai capitalisti per tenere alti i profitti sono oggi più raffinati. Capirebbe immediatamente che dell’esercito industriale di riserva, oggi, non fanno più parte soltanto i disoccupati, ma anche le varie tipologie di lavoratori precari e i lavoratori “in nero”. La funzione di questo lavoro precario e in nero che si unisce all’esercito dei disoccupati veri e propri è però sempre la stessa: comprimere i salari dei lavoratori e con i salari anche diritti e garanzie (che per il capitalista hanno sempre un “costo”). Ora, il mio sconcerto è che nessuno o quasi si ricordi di questa analisi marxiana e capisca che gli immigrati vanno esattamente ad accrescere l’odierno esercito industriale di riserva, ponendosi oggettivamente in conflitto con gli altri lavoratori, non perché “rubano” loro il lavoro, ma perché, ovviamente loro malgrado, danno ulteriore forza alla parte che è già più forte nel conflitto sociale.
Ho detto quasi nessuno, perché finalmente ho trovato di recente un paio di eccezioni. Uno che si è ricordato dell’”esercito industriale di riserva” è l’antipaticissimo Diego Fusaro, filosofo da talk show, che tuttavia qualche libro l’ha letto e l’ha capito pure.
“L’esercito industriale di riserva dei migranti”, ha scritto Fusaro in ottobre, sul “Fatto quotidiano” “rappresenta un immenso bacino di manodopera a buon mercato, peraltro estranea alla tradizione della lotta di classe: permette di esercitare una radicale pressione al ribasso sui salari dei lavoratori, spezza l’unità – ove essa ancora sussista – nel movimento operaio e, ancora, consente ai padroni di sottrarsi ai crescenti obblighi di diritto al lavoro”. Per questo, “nella sua logica generale, l’immigrazione è oggi promossa strutturalmente dal capitale e difesa sovrastrutturalmente dalla “retorica del migrante” propria del pensiero unico”.
Perfetto, direi!
E con sintesi altrettanto lucida ed efficace, Fusaro coglie il motivo di fondo per cui, al di là della disorganizzazione, dell’incuria, dell’incompetenza, risulta così difficile trasformare l’accoglienza in integrazione: “il capitale non mira a integrare i migranti, aspira, invece, a disintegrare, tramite i migranti, i non-migranti, riducendo anche questi ultimi al rango dei primi”.
La retorica dell’accoglienza pura e semplice è quindi funzionale allo sfruttamento, tanto dei migranti che dei lavoratori autoctoni.
L’articolo di Fusaro, che in altri tempi avrebbe quantomeno suscitato un po’ di dibattito, è purtroppo caduto nel vuoto, nessuno, che io sappia, ha ripreso le sue tesi (magari per contestarle con argomentazioni!), eccetto un interessante sito, denominato “la via culturale al socialismo” . Ecco cosa si legge, tra l’altro, su queste pagine:

“Non sentiamo parlare mai di “competizione fra lavoratori” o “esercito industriale di riserva”, eppure queste categorie marxiane sarebbero utilissime per capire molti fenomeni, Marx infatti aveva capito che quel processo che noi oggi chiamiamo globalizzazione e che lui chiama fraternità universale, era in realtà “lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale.

Ma la sinistra odierna è troppo impegnata a scrivere post contro Salvini o a festeggiare Tsipras e le unioni civili della Grecia, scollandosi completamente dalla base storica del suo elettorato, non vedendo che queste politiche di accoglienza indiscriminata provocano solo una deregolamentazione del mercato del lavoro, il proliferare del caporalato nel Sud e una competitività sleale che va ad alimentare una inutile guerra tra poveri.
L'imperativo categorico della sinistra italiana”, conclude l’articolo,  “diventa l'accoglienza totalitaria, con la scusa che dobbiamo accogliere perché il multiculturalismo fa bene, quando invece limitare e regolare l’immigrazione dovrebbe essere il compito di qualsiasi forza che voglia rappresentare e portare avanti gli interessi delle classi popolari, le quali del resto chiedono delle regole a gran voce e sempre più insistentemente”.

Ovviamente, neanche questo articolo, che pochissimi leggeranno, sveglierà la sinistra dal suo coma culturale. Si continuerà a spacciare la politica dell’accoglienza pura e semplice per politica “di sinistra”, laddove essa è precisamente l’opposto: una politica funzionale agli interessi dei più ricchi e dei più forti e contraria a quelli dei lavoratori, siano migranti o cittadini italiani. Si continuerà a confondere il piano etico con quello politico, senza comprendere che se è doveroso per un singolo o per una chiesa, quando ne hanno la possibilità, soccorrere chi arriva in condizioni di bisogno nel nostro paese e fuggendo, se non sempre dalla guerra, perlomeno da condizioni di miseria, ben altra cosa è trasformare il dovere etico dell’accoglienza in una politica. La politica non deve essere certo svincolata dall’etica, per quanto mi riguarda, ma deve essere solidamente agganciata ad un’etica della responsabilità, ad un’etica, cioè, che si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni e non solo delle conseguenze immediate e particolari ma di quelle generali e a medio o lungo termine. In altre parole, se io singolo individuo, associazione o chiesa aiuto un migrante bisognoso il mio gesto soddisfa sia l’etica dei principi che quella della responsabilità ed è un gesto encomiabile. Ma se un governo, o lo stesso singolo cittadino quando esprime un’opinione politica, o la stessa chiesa, quando passa dal livello della diaconia all’intervento nel dibattito pubblico, sostengono come politica l’accoglienza senza se e senza ma, l’accoglienza che non si traduce in integrazione, seguono allora un’etica dei principi che nella sua astrattezza si scontra catastroficamente con l’etica della responsabilità. Lasciando così alla destra peggiore la denuncia di un problema che i lavoratori, senza certo bisogno di leggere e conoscere Marx, avvertono sulla propria pelle e che non deriva da nessun pregiudizio razziale, da nessuna ossessione xenofoba, ma dalle crude leggi del mercato e dell’economia. Sarà allora solo questa destra, ed è già in parte questa destra, a fornire ai lavoratori una chiave di lettura e una presunta soluzione al problema.
Hanno quindi proprio ragione quelli di “la via culturale al socialismo” (ai quali peraltro non affiderei mai il governo del paese, questo sia chiaro, dato che in quel caso la loro via culturale si trasformerebbe immancabilmente in una via già tristemente sperimentata), quando scrivono che “la verita è che la sinistra se ne frega dei lavoratori perché non è fatta di lavoratori, ma è fatta di benestanti radical chic, hipster, luminari da circolo ricreativo e poco altro, impantanata tra la retorica del “buon migrante” e del "fascioleghista", novelli Cappuccetto Rosso e lupo cattivo”.

martedì 12 gennaio 2016

IL FEMMINICIDIO DI COLONIA



Ciò che è accaduto a Colonia, e come è ormai noto in parecchie altre città tedesche, al di là della oggettiva, terribile gravità, ha la portata di un evento straordinariamente rivelatore e destinato probabilmente a segnare uno spartiacque. Bisogna precisare, innanzitutto, quali siano i fatti, perché la macchina della manipolazione e dell’occultamento mai come stavolta ha operato con notevole efficacia.
La notte di capodanno un migliaio di uomini, di origine araba e nordafricana, in parte profughi e richiedenti asilo giunti da poco in Germania, si sono concentrati nella grande piazza che sta tra la stazione centrale e la cattedrale neogotica, e hanno incominciato a circondare le donne di passaggio, che hanno subito pesanti molestie sessuali, insulti e sono state spesso anche derubate. In qualche caso la violenza sessuale è giunta allo stupro. La vicenda è del tutto inusitata e non può essere paragonato ai tanti e pur deprecabilissimi episodi di molestie e violenze contro le donne, che accadono quasi quotidianamente in Occidente, Germania compresa. La specifica “qualità” di questo atto barbaro sta in due fondamentali caratteristiche che non consentono di confonderlo con nessun altro; il primo è nel numero di assalitori – non singoli o piccoli “branchi”, ma una vera orda tribale, che ha compiuto un abuso di massa: le denunce a Colonia sono già oltre cinquecento ed altre donne, come è facile immaginare, rinunceranno a sporgere denuncia.
La stolta argomentazione secondo cui non ci sarebbe nulla di nuovo e di diverso in questi episodi che risalirebbero al “sessismo” diffuso anche nella cultura occidentale e sarebbero paragonabili, ad esempio, a quanto ogni anno accade nell’Oktoberfest, è demolita dalla cruda evidenza di questi dati. Una mia amica ha fatto un po’ di conti: “a Colonia  siamo già ad una media di 1 episodio di aggressione ogni 2 uomini che vi hanno partecipato. All'Oktoberfest ci sono stati 20 episodi di aggressione su 5,6 milioni di partecipanti. Se supponiamo che gli uomini siano stati 3,5 milioni, la media è di 1 aggressione ogni 175.000 uomini birrofili. Chi mette le due cose sullo stesso livello o è stupido o è in malafede. E se lo fa per proteggere gli stranieri, a costo di far passare il messaggio che mancare di rispetto alle donne non è grave, allora è un cretino pericoloso”.
Mi limito ad aggiungere che stupidità e malafede sono spesso fenomeni concomitanti.
 Il secondo elemento specifico e che rende i fatti di Capodanno irriducibile a qualunque altro episodio che accada ordinariamente, purtroppo, nelle società occidentali è l’organizzazione, il coordinamento e quindi la premeditazione, che presto sono emersi con chiarezza dalle indagini: nelle tasche di alcuni tra i fermati sono stati trovati bigliettini-promemoria con le frasi da dire in tedesco alle donne che si aveva intenzione di aggredire, frasi oscene, insulti, minacce; episodi simili, in scala più ridotta, si sono verificati contemporaneamente in altre città tedesche: soltanto ad Amburgo ci sono state altre 130 denuncie per molestie sessuali e 500 uomini arabi e nordafricani hanno fatto irruzione in una discoteca di  Bielefeld, molestando in modo simile le donne presenti. Infine, l’11 gennaio, persino un giornale come Repubblica ha dovuto titolare, come in altri tempi avrebbe fatto solo “Libero”: “Colonia, attacco pianificato: ‘molestate la donna bianca’”. Secondo le ultime ricostruzioni l’ordine di questo pogrom contro le donne tedesche è partito dal web. Il progetto prevedeva l’attacco in dodici città europee, di cui sette tedesche. Il termine sinistramente appropriato che è stato usato è Taharrush Gamea. In arabo indica le molestie sessuali di gruppo contro le donne, in luoghi pubblici.
L’unico precedente noto, in tempo di pace, è quanto accadde circa tre anni fa a piazza Tahrir e anche in altre piazze arabe. Piazza Tahrir è la piazza del Cairo elevata a simbolo delle strabilianti “primavere arabe”, strabilianti solo nello sguardo miope e strabico di tanti “progressisti”, a cominciare dall’inquilino della Casa Bianca. Ebbene a Piazza Tahrir, nel momento del riflusso della evanescente “primavera araba” laica e riformatrice e dopo il trionfo elettorale dei Fratelli musulmani, si verificarono scene simili (replicate anche in altre piazze arabe), ci fu un Taharrush gamea: le donne, che nei mesi precedenti avevano osato comportamenti emancipati, furono oltraggiate e violentate. Come a Colonia, le orde maschili non agirono semplicemente sospinte da “ormoni fuori controllo” o animate dalla frustrazione sessuale. L’azione ebbe un chiaro significato simbolico: le donne frequentatrici della piazza erano ritenute responsabili di comportamenti e gesti che la società tribale arabo-islamica non accetta: ora la violenza doveva punirle per questo e ricordare quale doveva essere il loro ruolo nella società. Quel segnale inquietante non fu colto e non se ne volle tener conto nelle politiche dell’accoglienza. I “progressisti” erano distratti o ancora impegnati a raccontarsi la favola bella delle “primavere arabe” che essi stessi avevano inventato.
Le donne di Colonia sono oggi vittime della retorica irresponsabile dell’accoglienza senza integrazione, oltre che dei loro diretti assalitori e lo saranno ancor più quelle che immancabilmente in futuro saranno vittima di episodi simili, episodi che si verificheranno inevitabilmente, incoraggiati dall’emulazione, dalla sostanziale impunità, dal “giustificazionismo” imperante.
Occorre dunque partire dalla corretta definizione dei fatti, se vogliamo provare ad arrestare questa deriva.
Ciò che è accaduto la notte di capodanno è un atto programmato di terrorismo, rivolto come sempre accade, a un obiettivo altamente simbolico: le donne, il corpo delle donne, le donne liberate ed emancipate come simbolo, a loro volta, della nostra civiltà, un atto di guerra e di dominio, dunque, che attraverso le donne ha voluto colpire la civiltà occidentale tutta.
Si è trattato di un rito collettivo di umiliazione e di disprezzo. Un rito di sopraffazione culturale, non un mero sfogo barbarico di pulsioni incontrollate.
Si è trattato, se proprio vogliamo usare i termini della neolingua politically correct, di un femminicidio culturale, in quanto teso a distruggere immagine, ruolo e libertà della donna occidentale.
L’assalto di gruppo alle donne di Colonia, come ha scritto con la consueta lucidità, competenza e assenza di remore e pregiudizi Maurizio Molinari, “è un atto tribale che si origina dall’implosione degli Stati arabi in Nordafrica e Medio Oriente. Il domino di disintegrazione di queste nazioni fa riemergere tribù e clan come elementi di aggregazione, esaltando forme primordiali di violenza”
“Gli Stati arabi-musulmani sono le prime vittime di questo processo: lacerati da un confronto interno fra modernità e tribalismo che è un conflitto di civiltà. L’Europa ne è investita a causa delle migrazioni di massa verso la sponda Nord del Mediterraneo. Fra chi arriva vi sono portatori di usi e costumi che si originano dalle lotte ataviche per pozzi d’acqua, donne e bestiame. Le conseguenze sono nelle cronache di questi giorni: dagli abusi di massa a Colonia al grido di «Allah hu-Akbar» per intimorire il prossimo a Brescia e Vignola”
A questo punto chi si ostina a negare al riparo della propria scrivania lo scontro di civiltà dovrebbe almeno prendere atto che una parte, non maggioritaria, ma neanche irrilevante del mondo islamico, non perde tempo con le analisi e lo scontro di civiltà lo sta mettendo in atto.
Il caso Colonia rappresenta comunque un formidabile spartiacque perché fa esplodere le contraddizioni, come si sarebbe detto una vita fa. Ma non le contraddizioni del sistema, come si sarebbe detto in quell’altra epoca, bensì le contraddizioni dell’Occidente instupidito dal politicamente corretto. Le contraddizioni, in particolare, della sedicente sinistra (essa sì che è sedicente, non lo stato islamico!), di certi cristiani progressisti, dei giovani e meno giovani di area no-global e centri sociali, delle neofemministe (da non confondere con alcune ‘veterofemministe’ che hanno invece assunto in questi giorni posizioni di verità e di coraggio), del movimento dei gay-pride, degli intellettuali radical-chic (qualche mio amico dice radical-shit) che in mancanza di partiti che siano tali non trovano di meglio che essere organici al politicamente corretto.
La contraddizione che prima o poi non poteva non deflagrare è innanzitutto questa: i soggetti sopra citati sbandierano valori e principi e si impegnano in battaglie come la parità di genere, i diritti delle coppie “omoaffettive”, la tolleranza e l’accoglienza del “diverso”, il dialogo fra le varie religioni e denunciano costantemente discriminazioni e violenze ai danni di donne e gay. Ebbene, questi stessi soggetti giustificano poi in ogni modo coloro che appartengono alla cultura che oggi più violentemente offende e calpesta quei valori e quei principi, prendendone costantemente le difese, rimuovendo violenze e discriminazioni quando non vengono dagli occidentali, ma dagli immigrati musulmani. Questi stessi soggetti si schierano costantemente contro l’occidente che ha inventato e che tuttora, bene o male, tutela e garantisce i valori e i principi che dicono di avere a cuore e si schierano dalla parte di chi quei valori e principi non li riconosce, li combatte, li ha già cancellati dove governa e aspira a cancellarli in tutto il mondo.
Vediamo, allora, la grande narrazione mistificate dopo la notte di Capodanno. Innanzitutto, c’è stato un maldestro tentativo di occultamento del fatto criminale che si era verificato. Per diversi giorni (fino al 5 gennaio) la notizia è stata tenuta nascosta. Quando, inevitabilmente, sono circolate le prime voci ufficiose, si è cercato di minimizzare e di manipolare l’accaduto. In Italia si sono distinti il Corriere della Sera (che tuttavia ha poi corretto la sua posizione, ospitando interventi intelligenti e critici) e, come al solito, la Repubblica, gazzetta ufficiale del politicamente corretto. Si è parlato genericamente di “uomini ubriachi”, tacendone o riferendone con riserve e ampie formule dubitative, l’origine etnica e l’appartenenza religiosa, che pure era stata già dichiarata dal capo della polizia, oltre che da tutti i testimoni. Secondo i sacerdoti del politicamente corretto, dire che un fatto criminale è stato compiuto da un arabo o da un musulmano, significherebbe discriminare e offendere l’intera categoria etnica o religiosa, e rivelerebbe addirittura un latente razzismo. Ma qui c’è il solito double standard, perché se il fatto criminale viene compiuto, poniamo, da olandesi – come è accaduto nei mesi scorsi a piazza di Spagna – queste stesse riserve non valgono più! Di un’orda di olandesi si può dire che sono “criminali olandesi”; di un’orda di maghrebini, non si può dire che sono “criminali maghrebini”…
Solo a fatica sono trapelate le vere dimensioni del fenomeno- quelle a cui accennavamo in apertura – e l’assenza di reazione della polizia, a cui sono stati rifiutati rinforzi, certamente per il solito timore di tirarsi addosso l’accusa di razzismo e xenofobia, da parte stavolta delle autorità tedesche. Anche qui è presto emerso il double standard: qualche giorno dopo la polizia tedesca si è presentata, invece, in forze e, come per incantesimo, ha ritrovato idranti e manganelli, quando è stata inviata a fronteggiare una manifestazione di Pegida – il movimento politico descritto come xenofobo, che certamente usa slogan rozzi ed odiosi, ma che stava solo esercitando un suo diritto costituzionale. Evidentemente i cittadini tedeschi militanti di questo movimento non godono della stessa protezione e tolleranza di cui godono mille immigrati autori di furti, molestie e violenze sessuali.
L’origine etnico-religiosa dei criminali di Colonia, a un certo punto, non si è potuta più nascondere o citare con formule dubitative ed è emerso anche che una buona parte di essi era costituito da profughi e richiedenti asilo da poco giunti in Germania, “invitati dalla signora Merkel”, come ha detto uno di loro, invitando, o meglio intimando, ai poliziotti di usare con lui modi cortesi.
E allora i progressisti 2.0 hanno cominciato a sparare tutto il loro nutrito armamentario di luoghi comuni. I fatti non andavano attribuiti alla responsabilità di culture, etnie o religioni particolari (“l’islam non c’entra nulla!”, slogan buono in tutte le occasioni), ma a quella del “sessismo” che esisterebbe anche in occidente, anzi soprattutto in occidente. E via una gara di stupidaggini, come la bufala sull’Oktoberfest o la foto, certamente disgustosa ma usata in modo strumentale per non  parlare del vero problema di Colonia, di un italiano, turista in Thailandia, che palpa i seni di una ragazzina indigena, a dimostrazione che i veri stupratori etnici sarebbero gli occidentali; o la vignetta dell’immancabile Vauro, con la didascalia “le nostre donne ce le violentiamo noi!”. La specifica, diversa e inquietante “qualità” del fenomeno è stata così occultata dietro il muro dei luoghi comuni e delle abissali sciocchezze. La conclusione di questo stupidario era prevedibile: il vero problema non è quello che hanno fatto i mille di Colonia o i cinquecento di Bielefeld, il vero problema è il razzismo, il vero problema è la xenofobia, il vero problema è l’islamofobia. E’ il solito ritornello: dei giornalisti vengono trucidati per una vignetta satirica? Il vero problema è l’islamofobia. Un kamikaze si fa esplodere in un teatro parigino? Il vero problema è il razzismo. Mille arabi e nordafricani molestano e violentano tutte le donne di passaggio? Il vero problema è la xenofobia.
Puntuale è poi emerso il “complottismo”, stavolta in forme particolarmente grottesche. Si è scritto, da più parti (singoli, centri sociali, sedicenti “osservatori antifascisti”) che il pogrom contro le donne era organizzato, è vero, ma non dagli islamici, poverini, bensì dai movimenti xenofobi, che avrebbero teso una trappola ai poveri immigrati, per poi cavalcare e strumentalizzare l’immancabile reazione di sdegno! La stessa polizia era complice del complotto e magari dietro si intravedeva l’ombra del Mossad e della CIA, che non guasta mai. Una versione aggiornata, ma ugualmente farneticante, del “complotto giudaico-massonico” di sinistra memoria.
I più imbarazzati sono stati quei soggetti che hanno fatto sia del neofemminismo che dell’accoglienza ai migranti senza se e senza ma le loro bandiere. Immaginate che tripudio di commenti, editoriali, comunicati, petizioni, manifestazioni pubbliche, fiaccolate ci sarebbe stato da parte di questi soggetti se a Colonia la scena si fosse svolta a parti invertite e mille tedeschi, magari di movimenti xenofobi, avessero aggredito i migranti e le migranti di passaggio! Ma è accaduto l’inverso e allora come hanno reagito quelli e quelle del “neofemminismo” e dell’accoglienza incondizionata”, quelli e quelle che hanno inventato la nuova tipologia di reato del femminicidio e sono così meritoriamente solerti a denunciare ogni episodio di sessismo e di discriminazione, a cominciare da quelli, certo gravissimi, che avvengono nella lingua italiana (non si permetta di chiamarmi “signor Presidente” ha urlato recentemente madama Boldrini a un deputato: io sono una donna!)? Molti, la maggior parte, non hanno reagito affatto, restando nel silenzio più assoluto. Altri hanno malvolentieri partorito comunicati o dichiarazioni ove, certo, si condannavano i fatti di Colonia, però… e qui partiva la tiritera già citata contro il sessismo non certo degli islamici, ma dei maschi occidentali e specialmente degli italiani. Ci hanno ricordato, per esempio, che D’Annunzio incitava allo “stupro etnico” e che i soldati italiani in Somalia o in Etiopia talora lo prendevano in parola. Per non parlare naturalmente di ciò che hanno fatto i tedeschi durante il nazismo… ovviamente, quando si tratta di italiani e di tedeschi non è razzismo generalizzare, per giunta sulla base di episodi risalenti a un’altra epoca storica, ma guai a farlo con gli arabi, per fatti accaduti l’altro ieri! Altre o altri ancora hanno prodotto dei veri capolavori di reticenza, ove si esprimeva sdegno per l’ennesima aggressione alle donne, prede di tutte le guerre (ma allora si sta davvero combattendo questa guerra di civiltà?), vittime del sessismo universale ed ecumenico, ma non si nominavano neanche di sfuggita gli aggressori. Persino che fossero maschi bisognava intuirlo, perché non veniva detto. Le donne erano le vittime, certo, ma i loro carnefici restavano indefiniti e invisibili. O meglio, il carnefice è l’inguaribile sessismo del maschio di ogni etnia e latitudine.
Il fatto che il “sessismo” in occidente non abbia riconoscimento sociale e tantomeno giuridico, per cui i maschi che assumono comportamenti sessisti saranno pure ancora relativamente numerosi, ma sono dei devianti, mentre nelle società arabo-islamiche la situazione è precisamente opposta, questo fatto, stranamente, non viene mai considerato.
Per la verità qualche rara voce fuori dal coro si è sentita, anche negli ambienti della sedicente sinistra. Persone che ancora conservano una dignità intellettuale, che forse ancora pensano a come potrebbero reggere anche la sola vista della propria immagine nello specchio se facessero annegare nell’ipocrisia, nei silenzi, nei sofismi, nelle manipolazioni della realtà quei valori su cui hanno costruito la loro immagine pubblica, la loro credibilità, la loro professione, la loro testimonianza. Ne cito due, la prima non mi è mai stata particolarmente simpatica, la seconda, per mia ignoranza, non la conoscevo neanche. La prima è Lucia Annunziata.

"Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza.
 Un'operazione di molestie così vasta, continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e non solo la Germania.
Il pericolo dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della "normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo.
La prima idea su cui lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po' nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma realistiche.
Le regole attuali, e possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle cose.
È un momento delicato, in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo perso i diritti che avevamo conquistato per loro".


La seconda voce che vorrei riportare è quella di Élisabeth Badinter, filosofa e femminista francese di 71 anni (non una neofemminista, quindi):

"La prima reazione delle autorità e dei media agli incidenti di Colonia è stata, subito, difendere l’immagine dei rifugiati e degli stranieri in generale. Non le donne. Non posso dirvi quanto questo mi abbia dato fastidio. Come se la tutela delle donne possa venire dopo. I commenti si concentravano sul proteggere gli stranieri dalla xenofobia, e questo è uno scopo nobile. Ma il risultato è che nessuno si è dichiarato inorridito per le donne aggredite. L’integrazione è possibile, ma solo se i nuovi arrivati adottano i valori che sono i nostri, e che noi dobbiamo difendere. Il caso di Colonia è un esempio perfetto".

Entrambe, Annunziata e Badinter, colgono il problema centrale, quello che tutte le altre, tutti gli altri, non accettano nemmeno di discutere, investendo con le accuse di “islamofobia”, “xenofobia” e “razzismo” chi osa soltanto accennare a una simile discussione. Il problema è come trasformare l’accoglienza in integrazione, visto il rapporto a dir poco problematico del mondo arabo-islamico con la donna, con la libertà che le donne occidentali hanno ormai conquistato, con il ruolo che hanno nella società (e, aggiungerei, visto il rapporto altrettanto problematico con la laicità e con la democrazia); il problema è che l’accoglienza è in teoria cosa bellissima, ma l’accoglienza praticata (o soltanto proclamata) senza percorsi di integrazione è solo retorica pericolosa, una retorica oltretutto che non è affatto di sinistra, che non ha nulla a che vedere con le tradizioni e i valori di quella che era una volta la sinistra occidentale (si provi a ricordare cosa è stato il concetto giacobino e mazziniano di nazione), ma semmai appartiene al vecchio filantropismo aristocratico o a una lettura piuttosto superficiale e manipolante della Bibbia. Retorica pericolosa per i cittadini europei, pericolosa per i valori fondanti della nostra civiltà, ma pericolosa, pericolosissima per gli stessi migranti e per i tanti islamici pacifici che sono già qui residenti. Perché crea ghetti ed emarginazione, da un lato, e, dall’altro, fomenta l’ostilità anche nei confronti di chi si è già integrato o sta davvero cercando di farlo. E’ questa retorica il vero germe del razzismo. In ogni caso, si lasciano così tutte le risposte alla destra più becera. La cui crescita di popolarità è direttamente proporzionale alla nullità della proposta culturale della attuale sedicente sinistra. Già si hanno notizie delle ritorsioni contro i migranti, delle spedizioni punitive che colpiscono nel mucchio, organizzate, pare, da gruppi neonazisti. Chi ha condannato con forza i fatti di Colonia, potrà ora condannare con uguale forza questi atti di rappresaglia. Chi non lo ha fatto, ora condannerà solo la rappresaglia, condannerà la reazione senza aver spesso neanche parlato dell’azione (situazione surreale, ma ormai frequente) o avendola minimizzata e mistificata. D’altra parte, ognuno fa quel che vuole della propria credibilità.
Questa spirale perversa di azione-reazione ha solo due sbocchi entrambi perversi: l’omologazione dell’occidente al “modello Colonia”, ossia al vero e più crudo sessismo, in nome di un presunto rispetto per le “differenze culturali”. Oppure, la reazione violenta in nome dei vagheggiamenti di stato etnico e “purezza” delle identità. Per rompere la spirale occorrerebbe una vera politica dell’integrazione, come quella a cui accennavano per esempio la Annunziata e la Badinter. Quella politica del’immigrazione che deve portare i nuovi arrivati ad un percorso che ha come meta la condivisione dei valori occidentali di laicità, uguaglianza di diritti, libertà individuale, tolleranza religiosa e non quella che vorrebbe costringere gli occidentali ad adeguarsi ai costumi degli immigrati islamici. Occorrerebbe quindi abbandonare la retorica dell’accoglienza e del “multiculturalismo”: non esiste da nessuna parte la pacifica convivenza l’una accanto all’altra di culture diverse o addirittura contrastanti. Esiste solo nelle menti ottenebrate dall’ideologia. Nella realtà, i casi più riusciti di integrazione di popoli e culture diverse, e piaccia o non piaccia gli USA sono uno di questi esempi, si fondano comunque sulla condivisione di un tessuto, minimo o massimo, di valori e di principi di fondo, di norme e di regole. Questo è il modello di nazione autenticamente “progressista” e di sinistra e non ha niente a che vedere con il cosiddetto “multiculturalismo” come lo si intende oggi.
Ma a questo punto bisogna interrogarsi sulle reali e profonde motivazioni di questi silenzi, di queste reticenze, di queste manipolazioni grossolane. Che continueranno, nonostante la dimensione sempre più impressionante dei fatti di capodanno. Continueranno, perché il politicamente corretto è un’ideologia, e l’ideologia non teme la smentita dei fatti, perché i fatti li ignora o li manipola. Certo, anche le ideologia a un certo punto crollano. Succede quando cadono, cambiano o sono sconfitti gli interessi e i poteri a cui sono funzionali. E allora per capirci qualcosa in questo istupidimento collettivo bisogna seguire gli interessi in gioco e le potenze che sono in scena. Di qui in avanti, formulo solo ipotesi e tentativi di interpretazione: sarei felice se qualcuno volesse contribuire a questa ricerca.
E’ chiaro, anzitutto, che l’accoglienza non è solo retorica e non è solo nobile ideale, ma è anche un grande business. O meglio: è l’ideologia funzionale a quel business, è il nobile ideale che almeno in certi casi bisogna smascherare e demistificare per risalire al nudo interesse, come avrebbe detto il vecchio Marx. Un business, un giro di danari, che solo in infima parte (e qui Salvini ha torto marcio) finiscono nelle tasche dei migranti e solo in quote modeste servono davvero ai servizi e alle strutture a loro destinati. Un business su cui lucrano a monte le grandi organizzazioni mafiose internazionali (mentre noi al massimo vediamo gli scafisti) e a valle le cooperative e associazioni dell’accoglienza, “rosse” o “bianche” che siano. Ovviamente, coloro che sono legati a questo business non sono certo tutti quelli che credono nell’accoglienza e non sono neanche la maggioranza – ci mancherebbe altro. Ma sono comunque una percentuale non trascurabile, né per quantità, né soprattutto per qualità. Una quota di persone sul “libro-paga” del business-immigrazione che è influente e che contribuisce ad alimentare l’ideologia suddetta. Questo soprattutto se si tiene presente che per “libro-paga” non bisogna intendere solo il denaro vero e proprio, ma anche i posti di lavoro, i ruoli sociali, le carriere pubbliche che vengono costruite sulla questione- migranti. La Boldrini o la Kyenge sono solo gli esempi di punta, ma sono tanti altri i personaggi che devono lavoro, posizione sociale e carriera al business migranti e che quindi non hanno alcun interesse a una discussione critica ed anzi devono cercare in ogni modo di bloccarla questa discussione, anche con l’uso intimidatorio del “politically correct”.
Ciò non basta a spiegare tutto, perché esiste pur sempre quell’ampia maggioranza che non è coinvolta nel giro di affari, che pare animata solo da convinzioni etiche e che non può essere ridotta al ruolo di “utili idioti”, sebbene a costoro non farebbe male tenere gli occhi un po’ più aperti su ciò che si muove intorno ai nobili sforzi e alle nobili parole.
C’è un filo islamismo dei “progressisti” occidentali che non si spiega certo con il business dei migranti, se non in minima parte.
Provo a fare qualche ipotesi. Questo filo islamismo a me pare il cimelio archeologico, malamente restaurato, di tutti i vecchi tic ideologici della sinistra novecentesca, o almeno di una sua parte: il terzomondismo, l’anticapitalismo, l’antiamericanismo, l’antisionismo (che poi è quasi sempre la maschera relativamente “rispettabile” del latente, radicato, inconfessato, impresentabile antisemitismo). Una riprova sta nel fatto che l’unico paese islamico che viene regolarmente attaccato in questi ambienti è l’Arabia Saudita, in quanto lo si ritiene uno stretto e fedele alleato degli USA, il che non è più vero da tempo, ma ovviamente, chi guarda al mondo con gli occhi dell’ideologia, si accorge molto tardi o non si accorge affatto dei mutamenti. Saddam, i talebani, Assad, l’Isis, gli ayatollah iraniani, Hamas e i terroristi palestinesi si potranno anche macchiare dei crimini più efferati, potranno anche calpestare tutti i valori che la sinistra dovrebbe giudicare sacri, ma verranno sempre “giustificati”. Perché sono ritenuti nemici degli USA e di Israele; perché sono considerati rappresentanti di quel mondo che l’imperialismo occidentale avrebbe oppresso e depredato e dunque ogni loro azione, pur nefanda, viene letta nell’ottica della “rivalsa”; perché l’islamismo è l’unica vera forza che oggi sfida e attacca il sistema occidentale capitalistico (la distinzione fra attacco all’occidente e attacco al capitalismo è forse troppo sottile per certe menti), a meno di non affidarsi al comunista pazzo della Corea del Nord, e quindi all’islamismo si applica, più o meno consapevolmente, il principio secondo cui i nemici del mio nemico sono miei amici.
Il filo islamismo è dunque il frutto grottesco e avvelenato della desertificazione culturale della sinistra post-novecentesca, ma ripete anche i vecchi vizi di una certa sinistra novecentesca. Non è forse così simile il double standard con cui oggi si giudicano occidente e mondo islamico, al double standard con cui ieri si giudicavano lo stesso occidente e l’URSS? Quelli che organizzano fiaccolate e manifestazioni di piazza per i migranti islamici (giustissima reazione, peraltro, al dramma dei naufragi in mare), ma tacciono sui fatti di Colonia o sul genocidio dei cristiani d’Africa e del Medio Oriente, non sono forse quegli stessi – o i loro ideali figli e nipoti – che in passato manifestavano per la pace quando gli USA intervenivano in Corea o in Vietnam, ma non lo facevano quando l’URSS mandava i carri armati a Budapest, a Praga o in Afghanistan? Non sono sempre quelli che protestavano contro i Cruise americani, ma non certo contro gli SS-20 sovietici, che li avevano preceduti?
La critica più calzante e più severa a costoro viene da quegli autori che hanno dimenticato o che non hanno mai letto. Alcuni si ritengono rivoluzionari, rivoluzionari comunisti o rivoluzionari no-global o rivoluzionari della pace o rivoluzionari dell’amore e della fratellanza, ma, al di là delle belle intenzioni, fanno il grave errore di non tener conto dei reali rapporti di forza, pensano di opporre alla realtà un ideale astratto e così finiscono per cadere, avrebbe detto Bonhoeffer, nel “più stolto donchisciottismo”. Senza un progetto politico realistico si finisce per subire di fatto l’egemonia di quelle forze e di quei gruppi che il progetto politico non solo ce l’hanno, ma lo portano avanti, talora, con spietata determinazione. Gramsci ricordava la frase di Vittorio Emanuele II che si vantava di “avere in tasca” Mazzini e il Partito d’Azione e commentava che era vero, perché non avendo un programma politico realistico, il Partito d’Azione era di fatto diretto dai moderati, che traevano indirettamente vantaggio da ogni sua azione e da ogni suo proclama.
E così ieri l’URSS aveva “in tasca” e di fatto dirigeva tante anime belle occidentali, oggi l’islamismo ha “in tasca” e dirige tante altre anime belle occidentali. Fra le anime belle di ieri e quelle di oggi c’è, infine, una analogia e una differenza. Nell’uno e nell’altro caso, esse credevano e credono di essere soggetti di presunte lotte di liberazione, di marce per la pace, di proclami di uguaglianza, di battaglie per i diritti, se nonché tutte queste belle cose, fatte nel modo in cui sono fatte, rischiano di essere funzionali a una potenza che non è una forza di liberazione, ma di oppressione e che la pace, l’uguaglianza e i diritti li calpesta e li cancella.
Mentre, però, alcune almeno di quelle anime belle di allora erano ben consapevoli di porsi al servizio di una tale potenza, anche se ne avevano un’immagine del tutto falsa, e volentieri le facevano da sponda, quelle di oggi non sanno e non capiscono chi stanno veramente servendo, con la loro indignazione e il loro “impegno” a corrente alternata, con il loro strabismo, con i loro silenzi e reticenze. Del resto, fra i tanti miti distrutti nel Novecento c’è anche quello del progresso. Non esiste, purtroppo, il progresso come legge necessaria della storia e tantomeno esiste il progresso dell’intelligenza.