Ciò che è accaduto a
Colonia, e come è ormai noto in parecchie altre città tedesche, al di là della
oggettiva, terribile gravità, ha la portata di un evento straordinariamente
rivelatore e destinato probabilmente a segnare uno spartiacque. Bisogna precisare,
innanzitutto, quali siano i fatti, perché la macchina della manipolazione e
dell’occultamento mai come stavolta ha operato con notevole efficacia.
La notte di capodanno
un migliaio di uomini, di origine araba e nordafricana, in parte profughi e
richiedenti asilo giunti da poco in Germania, si sono concentrati nella grande
piazza che sta tra la stazione centrale e la cattedrale neogotica, e hanno
incominciato a circondare le donne di passaggio, che hanno subito pesanti
molestie sessuali, insulti e sono state spesso anche derubate. In qualche caso
la violenza sessuale è giunta allo stupro. La vicenda è del tutto inusitata e
non può essere paragonato ai tanti e pur deprecabilissimi episodi di molestie e
violenze contro le donne, che accadono quasi quotidianamente in Occidente,
Germania compresa. La specifica “qualità” di questo atto barbaro sta in due
fondamentali caratteristiche che non consentono di confonderlo con nessun
altro; il primo è nel numero di assalitori – non singoli o piccoli “branchi”,
ma una vera orda tribale, che ha compiuto un abuso di massa: le denunce a
Colonia sono già oltre cinquecento ed altre donne, come è facile immaginare,
rinunceranno a sporgere denuncia.
La stolta
argomentazione secondo cui non ci sarebbe nulla di nuovo e di diverso in questi
episodi che risalirebbero al “sessismo” diffuso anche nella cultura occidentale
e sarebbero paragonabili, ad esempio, a quanto ogni anno accade
nell’Oktoberfest, è demolita dalla cruda evidenza di questi dati. Una mia amica
ha fatto un po’ di conti: “a Colonia siamo già ad una media di 1 episodio di
aggressione ogni 2 uomini che vi hanno partecipato. All'Oktoberfest ci sono
stati 20 episodi di aggressione su 5,6 milioni di partecipanti. Se supponiamo
che gli uomini siano stati 3,5 milioni, la media è di 1 aggressione ogni
175.000 uomini birrofili. Chi mette le due cose sullo stesso livello o è
stupido o è in malafede. E se lo fa per proteggere gli stranieri, a costo di
far passare il messaggio che mancare di rispetto alle donne non è grave, allora
è un cretino pericoloso”.
Mi limito ad aggiungere
che stupidità e malafede sono spesso fenomeni concomitanti.
Il secondo elemento specifico e che rende i
fatti di Capodanno irriducibile a qualunque altro episodio che accada
ordinariamente, purtroppo, nelle società occidentali è l’organizzazione, il
coordinamento e quindi la premeditazione, che presto sono emersi con chiarezza
dalle indagini: nelle tasche di alcuni tra i fermati sono stati trovati bigliettini-promemoria
con le frasi da dire in tedesco alle donne che si aveva intenzione di
aggredire, frasi oscene, insulti, minacce; episodi simili, in scala più
ridotta, si sono verificati contemporaneamente in altre città tedesche:
soltanto ad Amburgo ci sono state altre 130 denuncie per molestie sessuali e
500 uomini arabi e nordafricani hanno fatto irruzione in una discoteca di Bielefeld, molestando in modo simile le donne
presenti. Infine, l’11 gennaio, persino un giornale come Repubblica ha dovuto
titolare, come in altri tempi avrebbe fatto solo “Libero”: “Colonia, attacco
pianificato: ‘molestate la donna bianca’”. Secondo le ultime ricostruzioni
l’ordine di questo pogrom contro le donne tedesche è partito dal web. Il
progetto prevedeva l’attacco in dodici città europee, di cui sette tedesche. Il
termine sinistramente appropriato che è stato usato è Taharrush Gamea. In arabo indica le molestie sessuali di gruppo contro
le donne, in luoghi pubblici.
L’unico precedente
noto, in tempo di pace, è quanto accadde circa tre anni fa a piazza Tahrir e
anche in altre piazze arabe. Piazza Tahrir è la piazza del Cairo elevata a
simbolo delle strabilianti “primavere arabe”, strabilianti solo nello sguardo
miope e strabico di tanti “progressisti”, a cominciare dall’inquilino della Casa
Bianca. Ebbene a Piazza Tahrir, nel momento del riflusso della evanescente
“primavera araba” laica e riformatrice e dopo il trionfo elettorale dei
Fratelli musulmani, si verificarono scene simili (replicate anche in altre
piazze arabe), ci fu un Taharrush gamea:
le donne, che nei mesi precedenti avevano osato comportamenti emancipati,
furono oltraggiate e violentate. Come a Colonia, le orde maschili non agirono
semplicemente sospinte da “ormoni fuori controllo” o animate dalla frustrazione
sessuale. L’azione ebbe un chiaro significato simbolico: le donne
frequentatrici della piazza erano ritenute responsabili di comportamenti e
gesti che la società tribale arabo-islamica non accetta: ora la violenza doveva
punirle per questo e ricordare quale doveva essere il loro ruolo nella società.
Quel segnale inquietante non fu colto e non se ne volle tener conto nelle
politiche dell’accoglienza. I “progressisti” erano distratti o ancora impegnati
a raccontarsi la favola bella delle “primavere arabe” che essi stessi avevano
inventato.
Le donne di Colonia
sono oggi vittime della retorica irresponsabile dell’accoglienza senza
integrazione, oltre che dei loro diretti assalitori e lo saranno ancor più
quelle che immancabilmente in futuro saranno vittima di episodi simili, episodi
che si verificheranno inevitabilmente, incoraggiati dall’emulazione, dalla
sostanziale impunità, dal “giustificazionismo” imperante.
Occorre dunque partire
dalla corretta definizione dei fatti, se vogliamo provare ad arrestare questa
deriva.
Ciò che è accaduto la
notte di capodanno è un atto programmato di terrorismo, rivolto come sempre
accade, a un obiettivo altamente simbolico: le donne, il corpo delle donne, le
donne liberate ed emancipate come simbolo, a loro volta, della nostra civiltà, un
atto di guerra e di dominio, dunque, che attraverso le donne ha voluto colpire
la civiltà occidentale tutta.
Si è trattato di un
rito collettivo di umiliazione e di disprezzo. Un rito di sopraffazione
culturale, non un mero sfogo barbarico di pulsioni incontrollate.
Si è trattato, se proprio vogliamo usare i termini della neolingua politically correct, di un femminicidio culturale, in quanto teso a distruggere immagine, ruolo e libertà della donna occidentale.
L’assalto di gruppo
alle donne di Colonia, come ha scritto con la consueta lucidità, competenza e
assenza di remore e pregiudizi Maurizio Molinari, “è un atto tribale che si
origina dall’implosione degli Stati arabi in Nordafrica e Medio Oriente. Il
domino di disintegrazione di queste nazioni fa riemergere tribù e clan come
elementi di aggregazione, esaltando forme primordiali di violenza”
“Gli Stati
arabi-musulmani sono le prime vittime di questo processo: lacerati da un confronto
interno fra modernità e tribalismo che è un conflitto di civiltà. L’Europa ne è
investita a causa delle migrazioni di massa verso la sponda Nord del
Mediterraneo. Fra chi arriva vi sono portatori di usi e costumi che si
originano dalle lotte ataviche per pozzi d’acqua, donne e bestiame. Le
conseguenze sono nelle cronache di questi giorni: dagli abusi di massa a
Colonia al grido di «Allah hu-Akbar» per intimorire il prossimo a Brescia e
Vignola”
A questo punto chi si
ostina a negare al riparo della propria scrivania lo scontro di civiltà
dovrebbe almeno prendere atto che una parte, non maggioritaria, ma neanche
irrilevante del mondo islamico, non perde tempo con le analisi e lo scontro di
civiltà lo sta mettendo in atto.
Il caso Colonia
rappresenta comunque un formidabile spartiacque perché fa esplodere le
contraddizioni, come si sarebbe detto una vita fa. Ma non le contraddizioni del
sistema, come si sarebbe detto in quell’altra epoca, bensì le contraddizioni
dell’Occidente instupidito dal politicamente corretto. Le contraddizioni, in
particolare, della sedicente sinistra (essa sì che è sedicente, non lo stato
islamico!), di certi cristiani progressisti, dei giovani e meno giovani di area
no-global e centri sociali, delle neofemministe (da non confondere con alcune
‘veterofemministe’ che hanno invece assunto in questi giorni posizioni di
verità e di coraggio), del movimento dei gay-pride, degli intellettuali radical-chic (qualche mio amico dice radical-shit) che in mancanza di partiti
che siano tali non trovano di meglio che essere organici al politicamente
corretto.
La contraddizione che prima
o poi non poteva non deflagrare è innanzitutto questa: i soggetti sopra citati
sbandierano valori e principi e si impegnano in battaglie come la parità di genere,
i diritti delle coppie “omoaffettive”, la tolleranza e l’accoglienza del
“diverso”, il dialogo fra le varie religioni e denunciano costantemente
discriminazioni e violenze ai danni di donne e gay. Ebbene, questi stessi
soggetti giustificano poi in ogni modo coloro che appartengono alla cultura che
oggi più violentemente offende e calpesta quei valori e quei principi,
prendendone costantemente le difese, rimuovendo violenze e discriminazioni
quando non vengono dagli occidentali, ma dagli immigrati musulmani. Questi
stessi soggetti si schierano costantemente contro l’occidente che ha inventato
e che tuttora, bene o male, tutela e garantisce i valori e i principi che
dicono di avere a cuore e si schierano dalla parte di chi quei valori e
principi non li riconosce, li combatte, li ha già cancellati dove governa e
aspira a cancellarli in tutto il mondo.
Vediamo, allora, la
grande narrazione mistificate dopo la notte di Capodanno. Innanzitutto, c’è
stato un maldestro tentativo di occultamento del fatto criminale che si era
verificato. Per diversi giorni (fino al 5 gennaio) la notizia è stata tenuta
nascosta. Quando, inevitabilmente, sono circolate le prime voci ufficiose, si è
cercato di minimizzare e di manipolare l’accaduto. In Italia si sono distinti
il Corriere della Sera (che tuttavia ha poi corretto la sua posizione,
ospitando interventi intelligenti e critici) e, come al solito, la Repubblica,
gazzetta ufficiale del politicamente corretto. Si è parlato genericamente di
“uomini ubriachi”, tacendone o riferendone con riserve e ampie formule
dubitative, l’origine etnica e l’appartenenza religiosa, che pure era stata già
dichiarata dal capo della polizia, oltre che da tutti i testimoni. Secondo i
sacerdoti del politicamente corretto, dire che un fatto criminale è stato
compiuto da un arabo o da un musulmano, significherebbe discriminare e offendere
l’intera categoria etnica o religiosa, e rivelerebbe addirittura un latente
razzismo. Ma qui c’è il solito double
standard, perché se il fatto criminale viene compiuto, poniamo, da olandesi
– come è accaduto nei mesi scorsi a piazza di Spagna – queste stesse riserve
non valgono più! Di un’orda di olandesi si può dire che sono “criminali
olandesi”; di un’orda di maghrebini, non si può dire che sono “criminali
maghrebini”…
Solo a fatica sono
trapelate le vere dimensioni del fenomeno- quelle a cui accennavamo in apertura
– e l’assenza di reazione della polizia, a cui sono stati rifiutati rinforzi,
certamente per il solito timore di tirarsi addosso l’accusa di razzismo e
xenofobia, da parte stavolta delle autorità tedesche. Anche qui è presto emerso
il double standard: qualche giorno
dopo la polizia tedesca si è presentata, invece, in forze e, come per
incantesimo, ha ritrovato idranti e manganelli, quando è stata inviata a
fronteggiare una manifestazione di Pegida – il movimento politico descritto
come xenofobo, che certamente usa slogan rozzi ed odiosi, ma che stava solo
esercitando un suo diritto costituzionale. Evidentemente i cittadini tedeschi
militanti di questo movimento non godono della stessa protezione e tolleranza
di cui godono mille immigrati autori di furti, molestie e violenze sessuali.
L’origine
etnico-religiosa dei criminali di Colonia, a un certo punto, non si è potuta
più nascondere o citare con formule dubitative ed è emerso anche che una buona
parte di essi era costituito da profughi e richiedenti asilo da poco giunti in
Germania, “invitati dalla signora Merkel”, come ha detto uno di loro,
invitando, o meglio intimando, ai poliziotti di usare con lui modi cortesi.
E allora i progressisti
2.0 hanno cominciato a sparare tutto il loro nutrito armamentario di luoghi
comuni. I fatti non andavano attribuiti alla responsabilità di culture, etnie o
religioni particolari (“l’islam non c’entra nulla!”, slogan buono in tutte le
occasioni), ma a quella del “sessismo” che esisterebbe anche in occidente, anzi
soprattutto in occidente. E via una gara di stupidaggini, come la bufala
sull’Oktoberfest o la foto, certamente disgustosa ma usata in modo strumentale
per non parlare del vero problema di
Colonia, di un italiano, turista in Thailandia, che palpa i seni di una
ragazzina indigena, a dimostrazione che i veri stupratori etnici sarebbero gli
occidentali; o la vignetta dell’immancabile Vauro, con la didascalia “le nostre
donne ce le violentiamo noi!”. La specifica, diversa e inquietante “qualità”
del fenomeno è stata così occultata dietro il muro dei luoghi comuni e delle
abissali sciocchezze. La conclusione di questo stupidario era prevedibile: il
vero problema non è quello che hanno fatto i mille di Colonia o i cinquecento
di Bielefeld, il vero problema è il razzismo, il vero problema è la xenofobia,
il vero problema è l’islamofobia. E’ il solito ritornello: dei giornalisti
vengono trucidati per una vignetta satirica? Il vero problema è l’islamofobia.
Un kamikaze si fa esplodere in un teatro parigino? Il vero problema è il
razzismo. Mille arabi e nordafricani molestano e violentano tutte le donne di
passaggio? Il vero problema è la xenofobia.
Puntuale è poi emerso
il “complottismo”, stavolta in forme particolarmente grottesche. Si è scritto,
da più parti (singoli, centri sociali, sedicenti “osservatori antifascisti”)
che il pogrom contro le donne era organizzato, è vero, ma non dagli islamici, poverini,
bensì dai movimenti xenofobi, che avrebbero teso una trappola ai poveri
immigrati, per poi cavalcare e strumentalizzare l’immancabile reazione di
sdegno! La stessa polizia era complice del complotto e magari dietro si
intravedeva l’ombra del Mossad e della CIA, che non guasta mai. Una versione
aggiornata, ma ugualmente farneticante, del “complotto giudaico-massonico” di
sinistra memoria.
I più imbarazzati sono
stati quei soggetti che hanno fatto sia del neofemminismo che dell’accoglienza
ai migranti senza se e senza ma le loro bandiere. Immaginate che tripudio di
commenti, editoriali, comunicati, petizioni, manifestazioni pubbliche,
fiaccolate ci sarebbe stato da parte di questi soggetti se a Colonia la scena
si fosse svolta a parti invertite e mille tedeschi, magari di movimenti
xenofobi, avessero aggredito i migranti e le migranti di passaggio! Ma è
accaduto l’inverso e allora come hanno reagito quelli e quelle del
“neofemminismo” e dell’accoglienza incondizionata”, quelli e quelle che hanno
inventato la nuova tipologia di reato del femminicidio e sono così
meritoriamente solerti a denunciare ogni episodio di sessismo e di
discriminazione, a cominciare da quelli, certo gravissimi, che avvengono nella
lingua italiana (non si permetta di chiamarmi “signor Presidente” ha urlato
recentemente madama Boldrini a un deputato: io sono una donna!)? Molti, la
maggior parte, non hanno reagito affatto, restando nel silenzio più assoluto.
Altri hanno malvolentieri partorito comunicati o dichiarazioni ove, certo, si
condannavano i fatti di Colonia, però… e qui partiva la tiritera già citata
contro il sessismo non certo degli islamici, ma dei maschi occidentali e
specialmente degli italiani. Ci hanno ricordato, per esempio, che D’Annunzio
incitava allo “stupro etnico” e che i soldati italiani in Somalia o in Etiopia
talora lo prendevano in parola. Per non parlare naturalmente di ciò che hanno
fatto i tedeschi durante il nazismo… ovviamente, quando si tratta di italiani e
di tedeschi non è razzismo generalizzare, per giunta sulla base di episodi
risalenti a un’altra epoca storica, ma guai a farlo con gli arabi, per fatti
accaduti l’altro ieri! Altre o altri ancora hanno prodotto dei veri capolavori
di reticenza, ove si esprimeva sdegno per l’ennesima aggressione alle donne,
prede di tutte le guerre (ma allora si sta davvero combattendo questa guerra di
civiltà?), vittime del sessismo universale ed ecumenico, ma non si nominavano
neanche di sfuggita gli aggressori. Persino che fossero maschi bisognava
intuirlo, perché non veniva detto. Le donne erano le vittime, certo, ma i loro
carnefici restavano indefiniti e invisibili. O meglio, il carnefice è l’inguaribile
sessismo del maschio di ogni etnia e latitudine.
Il fatto che il
“sessismo” in occidente non abbia riconoscimento sociale e tantomeno giuridico,
per cui i maschi che assumono comportamenti sessisti saranno pure ancora
relativamente numerosi, ma sono dei devianti, mentre nelle società
arabo-islamiche la situazione è precisamente opposta, questo fatto, stranamente,
non viene mai considerato.
Per la verità qualche
rara voce fuori dal coro si è sentita, anche negli ambienti della sedicente
sinistra. Persone che ancora conservano una dignità intellettuale, che forse
ancora pensano a come potrebbero reggere anche la sola vista della propria
immagine nello specchio se facessero annegare nell’ipocrisia, nei silenzi, nei
sofismi, nelle manipolazioni della realtà quei valori su cui hanno costruito la
loro immagine pubblica, la loro credibilità, la loro professione, la loro
testimonianza. Ne cito due, la prima non mi è mai stata particolarmente
simpatica, la seconda, per mia ignoranza, non la conoscevo neanche. La prima è
Lucia Annunziata.
"Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza.
Un'operazione di molestie così vasta,
continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le
donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato
nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di
sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e
non solo la Germania.
Il pericolo
dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della
"normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo
discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema
devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme
più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più
allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo.
La prima idea su cui
lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po'
nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e
immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In
qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un
percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per
altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e
clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e
irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti
decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma
realistiche.
Le regole attuali, e
possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro
che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti
necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste
definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un
paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa
entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a
una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle
cose.
È un momento delicato,
in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare
di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i
diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa
chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati
vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio
pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo
perso i diritti che avevamo conquistato per loro".
La seconda voce che
vorrei riportare è quella di Élisabeth Badinter, filosofa e femminista francese
di 71 anni (non una neofemminista, quindi):
"La prima reazione delle
autorità e dei media agli incidenti di Colonia è stata, subito, difendere
l’immagine dei rifugiati e degli stranieri in generale. Non le donne. Non posso
dirvi quanto questo mi abbia dato fastidio. Come se la tutela delle donne possa
venire dopo. I commenti si concentravano sul proteggere gli stranieri dalla
xenofobia, e questo è uno scopo nobile. Ma il risultato è che nessuno si è
dichiarato inorridito per le donne aggredite. L’integrazione è possibile, ma
solo se i nuovi arrivati adottano i valori che sono i nostri, e che noi
dobbiamo difendere. Il caso di Colonia è un esempio perfetto".
Entrambe, Annunziata e
Badinter, colgono il problema centrale, quello che tutte le altre, tutti gli
altri, non accettano nemmeno di discutere, investendo con le accuse di
“islamofobia”, “xenofobia” e “razzismo” chi osa soltanto accennare a una simile
discussione. Il problema è come trasformare l’accoglienza in integrazione, visto
il rapporto a dir poco problematico del mondo arabo-islamico con la donna, con
la libertà che le donne occidentali hanno ormai conquistato, con il ruolo che
hanno nella società (e, aggiungerei, visto il rapporto altrettanto problematico
con la laicità e con la democrazia); il problema è che l’accoglienza è in
teoria cosa bellissima, ma l’accoglienza praticata (o soltanto proclamata) senza
percorsi di integrazione è solo retorica pericolosa, una retorica oltretutto
che non è affatto di sinistra, che non ha nulla a che vedere con le tradizioni
e i valori di quella che era una volta la sinistra occidentale (si provi a
ricordare cosa è stato il concetto giacobino e mazziniano di nazione), ma
semmai appartiene al vecchio filantropismo aristocratico o a una lettura
piuttosto superficiale e manipolante della Bibbia. Retorica pericolosa per i
cittadini europei, pericolosa per i valori fondanti della nostra civiltà, ma
pericolosa, pericolosissima per gli stessi migranti e per i tanti islamici
pacifici che sono già qui residenti. Perché crea ghetti ed emarginazione, da un
lato, e, dall’altro, fomenta l’ostilità anche nei confronti di chi si è già
integrato o sta davvero cercando di farlo. E’ questa retorica il vero germe del
razzismo. In ogni caso, si lasciano così tutte le risposte alla destra più
becera. La cui crescita di popolarità è direttamente proporzionale alla nullità
della proposta culturale della attuale sedicente sinistra. Già si hanno notizie
delle ritorsioni contro i migranti, delle spedizioni punitive che colpiscono
nel mucchio, organizzate, pare, da gruppi neonazisti. Chi ha condannato con forza
i fatti di Colonia, potrà ora condannare con uguale forza questi atti di
rappresaglia. Chi non lo ha fatto, ora condannerà solo la rappresaglia,
condannerà la reazione senza aver spesso neanche parlato dell’azione
(situazione surreale, ma ormai frequente) o avendola minimizzata e mistificata.
D’altra parte, ognuno fa quel che vuole della propria credibilità.
Questa spirale perversa
di azione-reazione ha solo due sbocchi entrambi perversi: l’omologazione dell’occidente
al “modello Colonia”, ossia al vero e più crudo sessismo, in nome di un
presunto rispetto per le “differenze culturali”. Oppure, la reazione violenta
in nome dei vagheggiamenti di stato etnico e “purezza” delle identità. Per
rompere la spirale occorrerebbe una vera politica dell’integrazione, come
quella a cui accennavano per esempio la Annunziata e la Badinter. Quella
politica del’immigrazione che deve portare i nuovi arrivati ad un percorso che
ha come meta la condivisione dei valori occidentali di laicità, uguaglianza di
diritti, libertà individuale, tolleranza religiosa e non quella che vorrebbe
costringere gli occidentali ad adeguarsi ai costumi degli immigrati islamici. Occorrerebbe
quindi abbandonare la retorica dell’accoglienza e del “multiculturalismo”: non
esiste da nessuna parte la pacifica convivenza l’una accanto all’altra di
culture diverse o addirittura contrastanti. Esiste solo nelle menti ottenebrate
dall’ideologia. Nella realtà, i casi più riusciti di integrazione di popoli e
culture diverse, e piaccia o non piaccia gli USA sono uno di questi esempi, si
fondano comunque sulla condivisione di un tessuto, minimo o massimo, di valori
e di principi di fondo, di norme e di regole. Questo è il modello di nazione
autenticamente “progressista” e di sinistra e non ha niente a che vedere con il
cosiddetto “multiculturalismo” come lo si intende oggi.
Ma a questo punto
bisogna interrogarsi sulle reali e profonde motivazioni di questi silenzi, di
queste reticenze, di queste manipolazioni grossolane. Che continueranno,
nonostante la dimensione sempre più impressionante dei fatti di capodanno.
Continueranno, perché il politicamente corretto è un’ideologia, e l’ideologia
non teme la smentita dei fatti, perché i fatti li ignora o li manipola. Certo,
anche le ideologia a un certo punto crollano. Succede quando cadono, cambiano o
sono sconfitti gli interessi e i poteri a cui sono funzionali. E allora per
capirci qualcosa in questo istupidimento collettivo bisogna seguire gli
interessi in gioco e le potenze che sono in scena. Di qui in avanti, formulo
solo ipotesi e tentativi di interpretazione: sarei felice se qualcuno volesse
contribuire a questa ricerca.
E’ chiaro, anzitutto,
che l’accoglienza non è solo retorica e non è solo nobile ideale, ma è anche un
grande business. O meglio: è l’ideologia funzionale a quel business, è il
nobile ideale che almeno in certi casi bisogna smascherare e demistificare per
risalire al nudo interesse, come avrebbe detto il vecchio Marx. Un business, un
giro di danari, che solo in infima parte (e qui Salvini ha torto marcio)
finiscono nelle tasche dei migranti e solo in quote modeste servono davvero ai
servizi e alle strutture a loro destinati. Un business su cui lucrano a monte
le grandi organizzazioni mafiose internazionali (mentre noi al massimo vediamo
gli scafisti) e a valle le cooperative e associazioni dell’accoglienza, “rosse”
o “bianche” che siano. Ovviamente, coloro che sono legati a questo business non
sono certo tutti quelli che credono nell’accoglienza e non sono neanche la
maggioranza – ci mancherebbe altro. Ma sono comunque una percentuale non
trascurabile, né per quantità, né soprattutto per qualità. Una quota di persone
sul “libro-paga” del business-immigrazione che è influente e che contribuisce
ad alimentare l’ideologia suddetta. Questo soprattutto se si tiene presente che
per “libro-paga” non bisogna intendere solo il denaro vero e proprio, ma anche
i posti di lavoro, i ruoli sociali, le carriere pubbliche che vengono costruite
sulla questione- migranti. La Boldrini o la Kyenge sono solo gli esempi di
punta, ma sono tanti altri i personaggi che devono lavoro, posizione sociale e
carriera al business migranti e che quindi non hanno alcun interesse a una
discussione critica ed anzi devono cercare in ogni modo di bloccarla questa
discussione, anche con l’uso intimidatorio del “politically correct”.
Ciò non basta a
spiegare tutto, perché esiste pur sempre quell’ampia maggioranza che non è
coinvolta nel giro di affari, che pare animata solo da convinzioni etiche e che
non può essere ridotta al ruolo di “utili idioti”, sebbene a costoro non
farebbe male tenere gli occhi un po’ più aperti su ciò che si muove intorno ai
nobili sforzi e alle nobili parole.
C’è un filo islamismo dei
“progressisti” occidentali che non si spiega certo con il business dei
migranti, se non in minima parte.
Provo a fare qualche
ipotesi. Questo filo islamismo a me pare il cimelio archeologico, malamente
restaurato, di tutti i vecchi tic ideologici della sinistra novecentesca, o
almeno di una sua parte: il terzomondismo, l’anticapitalismo, l’antiamericanismo,
l’antisionismo (che poi è quasi sempre la maschera relativamente “rispettabile”
del latente, radicato, inconfessato, impresentabile antisemitismo). Una riprova
sta nel fatto che l’unico paese islamico che viene regolarmente attaccato in
questi ambienti è l’Arabia Saudita, in quanto lo si ritiene uno stretto e
fedele alleato degli USA, il che non è più vero da tempo, ma ovviamente, chi
guarda al mondo con gli occhi dell’ideologia, si accorge molto tardi o non si
accorge affatto dei mutamenti. Saddam, i talebani, Assad, l’Isis, gli ayatollah
iraniani, Hamas e i terroristi palestinesi si potranno anche macchiare dei
crimini più efferati, potranno anche calpestare tutti i valori che la sinistra
dovrebbe giudicare sacri, ma verranno sempre “giustificati”. Perché sono
ritenuti nemici degli USA e di Israele; perché sono considerati rappresentanti
di quel mondo che l’imperialismo occidentale avrebbe oppresso e depredato e
dunque ogni loro azione, pur nefanda, viene letta nell’ottica della “rivalsa”; perché
l’islamismo è l’unica vera forza che oggi sfida e attacca il sistema
occidentale capitalistico (la distinzione fra attacco all’occidente e attacco
al capitalismo è forse troppo sottile per certe menti), a meno di non affidarsi
al comunista pazzo della Corea del Nord, e quindi all’islamismo si applica, più
o meno consapevolmente, il principio secondo cui i nemici del mio nemico sono
miei amici.
Il filo islamismo è
dunque il frutto grottesco e avvelenato della desertificazione culturale della
sinistra post-novecentesca, ma ripete anche i vecchi vizi di una certa sinistra
novecentesca. Non è forse così simile il double
standard con cui oggi si giudicano occidente e mondo islamico, al double standard con cui ieri si
giudicavano lo stesso occidente e l’URSS? Quelli che organizzano fiaccolate e
manifestazioni di piazza per i migranti islamici (giustissima reazione, peraltro,
al dramma dei naufragi in mare), ma tacciono sui fatti di Colonia o sul
genocidio dei cristiani d’Africa e del Medio Oriente, non sono forse quegli
stessi – o i loro ideali figli e nipoti – che in passato manifestavano per la
pace quando gli USA intervenivano in Corea o in Vietnam, ma non lo facevano
quando l’URSS mandava i carri armati a Budapest, a Praga o in Afghanistan? Non
sono sempre quelli che protestavano contro i Cruise americani, ma non certo
contro gli SS-20 sovietici, che li avevano preceduti?
La critica più calzante
e più severa a costoro viene da quegli autori che hanno dimenticato o che non
hanno mai letto. Alcuni si ritengono rivoluzionari, rivoluzionari comunisti o
rivoluzionari no-global o rivoluzionari della pace o rivoluzionari dell’amore e
della fratellanza, ma, al di là delle belle intenzioni, fanno il grave errore
di non tener conto dei reali rapporti di forza, pensano di opporre alla realtà
un ideale astratto e così finiscono per cadere, avrebbe detto Bonhoeffer, nel “più
stolto donchisciottismo”. Senza un progetto politico realistico si finisce per
subire di fatto l’egemonia di quelle forze e di quei gruppi che il progetto
politico non solo ce l’hanno, ma lo portano avanti, talora, con spietata
determinazione. Gramsci ricordava la frase di Vittorio Emanuele II che si
vantava di “avere in tasca” Mazzini e il Partito d’Azione e commentava che era
vero, perché non avendo un programma politico realistico, il Partito d’Azione
era di fatto diretto dai moderati, che traevano indirettamente vantaggio da
ogni sua azione e da ogni suo proclama.
E così ieri l’URSS
aveva “in tasca” e di fatto dirigeva tante anime belle occidentali, oggi l’islamismo
ha “in tasca” e dirige tante altre anime belle occidentali. Fra le anime belle
di ieri e quelle di oggi c’è, infine, una analogia e una differenza. Nell’uno e
nell’altro caso, esse credevano e credono di essere soggetti di presunte lotte
di liberazione, di marce per la pace, di proclami di uguaglianza, di battaglie
per i diritti, se nonché tutte queste belle cose, fatte nel modo in cui sono
fatte, rischiano di essere funzionali a una potenza che non è una forza di
liberazione, ma di oppressione e che la pace, l’uguaglianza e i diritti li
calpesta e li cancella.
Mentre, però, alcune
almeno di quelle anime belle di allora erano ben consapevoli di porsi al
servizio di una tale potenza, anche se ne avevano un’immagine del tutto falsa, e
volentieri le facevano da sponda, quelle di oggi non sanno e non capiscono chi
stanno veramente servendo, con la loro indignazione e il loro “impegno” a
corrente alternata, con il loro strabismo, con i loro silenzi e reticenze. Del
resto, fra i tanti miti distrutti nel Novecento c’è anche quello del progresso.
Non esiste, purtroppo, il progresso come legge necessaria della storia e
tantomeno esiste il progresso dell’intelligenza.
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