giovedì 28 gennaio 2016

L'AUTOCENSURA, MALATTIA SENILE DELL'OCCIDENTE



Ci sono eventi che hanno un potere rivelatorio fuori dal comune, una portata di demistificazione, eventi che strappano le maschere, sollevano i veli. Uno di questi si è consumato a Colonia, lo scorso Capodanno; un altro è accaduto in questi giorni, in occasione della visita in Italia del presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Rohani. Questi eventi hanno manifestato un elemento strutturale del regime attualmente vigente in Italia e nel resto dell’Occidente. Questo elemento è l’autocensura.
Oggetto dell’autocensura è stata, in questo caso, la vera e cruda realtà del regime iraniano. Soggetti dell’autocensura anzitutto le alte cariche istituzionali che hanno accolto Rohani – Mattarella, Renzi, il Papa – i mass-media (in buona parte) e soprattutto l’opinione pubblica “progressista”. In fondo, i più scusabili, sono i primi, che potrebbero invocare il protocollo diplomatico e la ragion di stato. Va però ricordato che il protocollo diplomatico consolidato conosce formule cortesi, ma inequivocabili, per esprimere la deplorazione per i comportamenti politici dell’ospite, come la violazione dei diritti umani o l’aggressione bellica. Queste formule sono state usate un’infinità di volte, talora di fronte a personaggi ancora più potenti (Putin), ma sono state completamente dimenticate in questa circostanza, sia da Mattarella, sia da Renzi, sia da Bergoglio. Si sono anzi accreditati un’immagine e un ruolo dell’Iran e del suo Presidente del tutto fasulli. A quest’ultimo è stata cucito addosso l’abito del “moderato”, che gli sta davvero strettissimo, che è smentito da fatti inoppugnabili. E di conseguenza il suo paese è stato presentato come un affidabile elemento di stabilizzazione della critica situazione mediorientale e addirittura come un fattore di pace. Il vertice della mistificazione, da questo punto di vista, lo ha indubbiamente raggiunto il comunicato ufficiale del Vaticano.
Vale allora la pena di ricordare almeno i punti essenziali della posizione geopolitica dell’Iran. Anzitutto, l’Iran capeggia l’islamismo sciita, impegnato ormai da anni in una terribile guerra civile con l’islam sunnita (a sua volta guidato dall’Arabia Saudita). Questa guerra, che si combatte direttamente, costantemente e sanguinosamente su vari teatri - dalla Siria allo Yemen, all’Iraq - e in modo più occasionale e sotterraneo, ma pur sempre drammatico in quasi tutti gli altri paesi islamici, è il principale fattore di destabilizzazione e il primo ostacolo alla pace in una vasta area del mondo. Come si può allora considerare l’Iran, che guida attivamente uno dei due schieramenti, un fattore di stabilizzazione? L’Iran è al centro di un’alleanza sciita o filo-sciita che ha come altri fondamentali componenti il regime (sanguinario) di Assad e la milizia degli Hezbollah; un’alleanza che è sostenuta dalla Russia, che in tal modo è rientrata prepotentemente nel grande gioco mediorientale, destabilizzando ancor più il quadro complessivo. Se Assad non fosse stato appoggiato militarmente e finanziariamente dall’Iran e dalla Russia e difeso dalle milizie di Hezbollah, a loro volta armate dal regime di Rohani, sarebbe già caduto e la guerra civile in Siria non avrebbe avuto gli sviluppi tragici che ha avuto. L’Iran, inoltre, finanzia ed arma anche Hamas, con missili sempre più moderni e di più lunga gittata, che periodicamente vengono lanciati sulle città israeliane e che farebbero danni immani alla popolazione e alle infrastrutture della vita civile senza l’efficace sistema difensivo israeliano. Hamas, che per statuto si propone la distruzione dello Stato ebraico e la cacciata o lo sterminio di tutti gli ebrei dalla Palestina, è il primo fattore che impedisce alla radice qualunque ipotesi negoziale e percorso di pace, compromettendo non solo la sicurezza degli israeliani, ma lo stesso futuro dei palestinesi che pure dice di difendere e che in realtà strumentalizza in modo disumano, servendosene anche come scudi umani. Scaricato dall’Egitto di Al Sisi, dopo la breve e funesta parentesi del regime islamista di Morsi, il regime sanguinario e oscurantista di Hamas a Gaza, rispetto al passato, non gode più degli stessi appoggi nella Lega Araba e senza il sostegno iraniano, che in questo caso supera il pregiudizio religioso, dato che Hamas è sunnita, sarebbe già crollato, con immenso sollievo di chi desidera sinceramente la pace.
La politica estera di Rohani è quindi in assoluta continuità con quella del suo predecessore Ahmadinejad. Come mai allora lo si presenta come un “moderato” e un “riformatore” che avrebbe riportato il suo paese nel consorzio civile dopo la parentesi di “follia” del suo predecessore?  Accreditare l’Iran e considerarlo un partner ineludibile, se non del tutto affidabile, potrebbe avere qualche fondata ragione, visto che, proprio per la guerra interislamica di cui si diceva, la repubblica islamica sciita è acerrimo nemico dello Stato islamico di al-Baghdadi. E difatti sia il papa che il governo italiano hanno rimarcato l’importante collaborazione che il paese di Rohani potrebbe dare alla lotta contro il terrorismo. Salvo il fatto che questa strategia assomiglia in modo inquietante al tragico errore dell’asino della favola che un bel giorno decise di andare a caccia insieme al leone.
Non si considera, per ignoranza, per opportunismo o per errore di calcolo, che se è vero che il fondamentalismo contemporaneo ha il suo bacino di coltura nel mondo sunnita – il wahabismo saudita sul piano teologico e i Fratelli musulmani egiziani sul piano politico-religioso - il fondamentalismo che ha trovato come sbocco il terrorismo e l’espansionismo jihadista è invece il frutto avvelenato della rivoluzione iraniana del 1979 e del regime khomeinista. E’ da quel momento che si è rinfocolata la guerra civile fra sunniti e sciiti ed è a partire da lì che il fondamentalismo ha assunto connotati aggressivi verso l’Occidente e ha cominciato a coltivare progetti espansionistici e sogni di dominio planetario. L’Iran degli Ayatollah si è subito messo all’opera per “esportare la rivoluzione”, con la guerra all’Iraq e la costituzione di gruppi terroristici in Libano. Il mondo sunnita è stato coinvolto in questa deriva, innanzitutto per reazione: Hamas nasce negli anni Ottanta e negli anni Ottanta l’integralismo islamico sunnita compie i primi attentati spettacolari, a cominciare dall’uccisione del presidente egiziano Sadat, che aveva stabilito finalmente la pace fra il suo paese e Israele. Poi, prima con Al Qaeda e ora con l’Isis, il jihadismo sunnita ha raggiunto livelli di pericolosità ed efferatezza che hanno spinto a sottovalutare la minaccia del jihadismo sciita, che ha invece una portata potenzialmente ancor più grande. Da questo punto di vista, il passaggio dall’amministrazione Bush a quella Obama, con l’appeasement con l’Iran, è stato certamente negativo. L’Europa si è passivamente accodata al presidente americano, alla disperata ricerca di un presunto successo dopo otto anni a dir poco fallimentari in politica estera, e solo Israele e il mondo ebraico hanno mantenuto alto il livello di allerta rispetto al pericolo iraniano. Non a caso, la più lucida analisi che sia stata pubblicata di recente sulle rispettive minacce rappresentate dal Califfato islamico e dal regime degli Ayatollah si deve a Fiamma Nirenstein (Il Califfo e l’Ayatollah. Assedio al nostro mondo, Mondadori, 2015).
La Nirenstein ricorda che gli sciiti, relegati da secoli a minoranza perseguitata, hanno da sempre coltivato la dottrina della jihad. La jihad è una deriva possibile, e oggi altamente probabile, nel mondo sunnita, ma è addirittura connaturata all’islamismo sciita, che – aggiungo da parte mia - ha assunto storicamente i caratteri militanti che hanno tutte le minoranza religiose perseguitate. E’ accaduto anche nel cristianesimo – in epoca moderna il calvinismo è un preciso esempio di questa antropologia religiosa. Con la differenza, che il processo di secolarizzazione e la conseguente separazione fra la sfera della fede e quella della legge, tra la sfera politica e quella religiosa, hanno portato i calvinisti a impegnarsi, da un lato in un combattimento spirituale, dall’altro in una lotta politica e civile, talora rivoluzionaria. Ciò non poteva accadere nell’islam, proprio per la mancanza di questo processo di secolarizzazione.
Il jihadismo sciita ha, inoltre, una pericolosità dirompente perché tende ad assumere connotati messianici. E’ noto che lo scisma sciita nasce perché una parte dei seguaci di Maometto, alla sua morte, avvenuta nel 632, si rifiutano di riconoscere come califfo Abu Bakr, ritenendo che la successione dovesse spettare al genero del Profeta, Ali. Costoro presero a definirsi come seguaci della “casa di Alì”, shiat’Ali – sciiti, e furono perseguitati e cacciati dai territori arabi, trovando rifugio innanzitutto nei territori del vecchio impero persiano (l’attuale Iran). Sorvolando su correnti minori interne allo sciismo, ricordiamo che la grande maggioranza degli sciiti crede nella successione di dodici imam, dopo Maometto e a partire da Ali, se non che il dodicesimo imam - Muhammad ibn Hossein al-Mahdi - secondo la credenza, sarebbe scomparso misteriosamente per sfuggire ai nemici. Da allora ha inizio “il divino nascondimento” di questo dodicesimo imam – detto anche il Mahdi – del quale si attende il ritorno nel giorno finale, nel giorno del giudizio. Lo sciismo ha così una essenziale componente escatologica e “messianica”, ma anche un tratto apocalittico. Difatti, molti ritengono che il ritorno del Mahdi sarà preceduto da segni inequivocabili. Vediamo di quali segni si tratta, perché questo ci porta al cuore del nostro problema. Il predecessore di Rohani, Ahmadinejad – che era un fanatico seguace di questa dottrina escatologica – ripeteva spesso che “quando il mondo sarà caduto nel caos e divamperà la guerra fra le razze umane” allora il ritorno del dodicesimo imam sarà vicino. Come è tipico dei movimenti apocalittici e come è inevitabile per una confessione religiosa che ha il carattere militante di cui dicevamo, non si tratta di attendere passivamente il compimento escatologico, ma occorre collaborare attivamente per accelerarlo, occorre favorire le condizioni che porteranno all’avvento del Mahdi. Vale a dire che bisogna alimentare il caos e la guerra fra i popoli. Ciò può non bastare, evidentemente, visto che disordine e guerra sono purtroppo elementi costanti della storia umana e, in particolare, di quella del Medio Oriente contemporaneo. E difatti Ahmadinejad e la corrente iraniana più direttamente legata a queste attese sapevano bene che tutte le previsioni passate su una imminente venuta del Mahdi sono state smentite. Oggi, però, si possono portare guerra e caos al livello definitivo, al punto di non ritorno. Come? E’ molto semplice: con l’arma atomica, con la minaccia atomica. Neanche questo, tuttavia, potrebbe bastare: nel mondo ci sono già parecchie potenze nucleari e almeno una di queste è anche islamica, benché a maggioranza sunnita – il Pakistan. Per produrre il “caos apocalittico” la bomba non bisogna solo costruirla, ma bisogna anche usarla, o almeno minacciare di usarla su una posizione nevralgica dell’assetto internazionale, un paese che una volta colpito o gravemente e seriamente minacciato, sarebbe costretto a ricorrere a tutta la sua forza e a tutte le sue relazioni per sopravvivere, innescando così, suo malgrado, quella spirale distruttiva che né il jihadismo, né la potenza iraniana possono da soli innescare; questo paese è Israele! Vedete, come i progetti nucleari iraniani e le minacce di distruzione di Israele acquistino, in questa luce, una portata ancora più inquietante.
Certo, l’Iran è mosso, sullo scenario mediorientale, anche e soprattutto da ordinari obiettivi politici di potenza ed interessi economici. Tuttavia, il presunto realismo politico non basta a interpretare e a spiegare tutto. Non spiega adeguatamente, ad esempio, l’accanimento contro Israele, con cui l’Iran – a differenza del mondo arabo - non ha nemmeno motivi territoriali di conflitto. Non si può pensare che le minacce ad Israele siano solo retorica propagandistica, tesa a guadagnare consensi nel mondo arabo, perché questi consensi l’Iran o li ha già, quando si tratta dell’islamismo arabo sciita o filo-sciita, in virtù della sua indiscussa leadership in questo campo, o non li potrà mai avere, quando si tratta dell’islamismo arabo sunnita che guarda all’Iran come ad una potenza eretica. Il legame con Hamas è motivato solo dall’interesse, da parte di Hamas, di uscire dall’isolamento. Ma quale è l’interesse dell’Iran? Perché finanziare ed armare un gruppo sunnita che, una volta conquistata la Palestina, perseguiterebbe non solo gli ebrei, ma gli stessi sciiti? Nella razionale partita a scacchi della geopolitica e dei contrapposti interessi economici Israele costituirebbe addirittura per l’Iran un vantaggioso alleato contro il principale antagonista regionale, che è lo schieramento arabo sunnita!  Lo scià di Persia, che non era ottenebrato dall’ideologia religiosa, questo lo aveva ben capito. Dunque, il “messianismo” apocalittico è, purtroppo, una chiave di lettura imprescindibile per decifrare la politica iraniana, una chiave di lettura che deve essere applicata anche alla presidenza Rohani, che sta perpetuando le dichiarazioni minacciose e ostili contro lo Stato ebraico del suo predecessore (nel giorno del suo insediamento ha marciato su una passerella che recava la scritta “morte ad Israele”). Si può, infine, pensare che solo settori limitatissimi della classe dirigente iraniana, espressione comunque di una millenaria civiltà, possano voler assecondare il progetto di un Olocausto nucleare. Questa autorassicurazione è però pericolosamente vicina a quella, tragicamente errata, che molti coltovarono nei confronti della Germania nazista: dovremmo sempre ricordare che l’orrore assoluto del Novecento non è nato in un paese barbarico, ma in una nazione che era al centro della civiltà.
Ma lasciamo il terreno della geopolitica e della politica estera e veniamo al punto, al momento più scottante, e più occultato durante questa visita di stato, che riguarda la sistematica violazione dei diritti umani da parte del regime degli ayatollah.
Il “moderato e riformatore” Rohani ha continuato a comminare la massima pena, come e anzi più del predecessore, il “folle” Ahmadinejad. Da quando è stato eletto 2227 sono state le condanne a morte eseguite (ma si tratta solo di quelle “ufficiali”, occorrerebbe aggiungere quelle “segrete” che riguardano soprattutto gli oppositori politici, i “desaparecidos” iraniani). Le condanne a morte nel 2015 sono state 980: il doppio rispetto all’Arabia Saudita, che pure è stata – giustamente – attaccata per le recenti esecuzioni. Come mai tanti generosi cavalieri dei diritti umani si mobilitano contro il regime saudita e si distraggono, invece, quando si tratta dell’Iran? Non sarà anche questo double standard condizionato dal vecchio vizio dell’antiamericanismo pregiudiziale?
Ma non basta ricordare le cifre delle condanne a morte in Iran, occorre sottolineare non solo la quantità, ma la orribile qualità di queste esecuzioni, che non riguardano, per la massima parte, dei pluriomicidi o dei responsabili di delitti particolarmente efferati. Riguardano, spesso, dei minori, come ha ricordato Amnesty International; riguardano donne accusate di adulterio e uccise per lapidazione (anche quando sono state violentate e non hanno commesso l’adulterio di loro volontà); riguardano omosessuali che hanno compiuto l’atto sessuale “completo” (per quello “parziale”, se si pentono, se la cavano con un centinaio di frustate) e si sono rifiutati di “cambiare sesso”; si tratta di persone accusate di blasfemia, offese al Corano e a Maometto.
Le autorità italiane e vaticane non hanno speso nemmeno una frase diplomaticamente obliqua o criptica per marcare una distanza rispetto a questo orrore, di fronte all’ospite in turbante. Ma soprattutto sconcerta e indigna l’assenza di quei soggetti “progressisti” in altre occasioni così sensibili. Dove sono finiti i tanti che un anno fa erano Charlie, mentre a via della Conciliazione sfilava con il suo nutrito seguito di auto blu il presidente di un regime che condanna la blasfemia con la pena di morte? Dove sono finiti tutti quelli che sono così attenti alle offese di ogni tipo ai minori quando avvengono in Occidente, dove sono finiti tutti quelli che si sono giustamente commossi per i bambini profughi annegati nel Mediterraneo, per il piccolo Aylan, mentre a Roma atterrava il capo di uno stato che manda sul patibolo i ragazzini anche per una bestemmia?
Dove sono le neo o post femministe che denunciano come “femminicidio” ogni assassinio di una donna commesso dal criminale occidentale di turno, che vigilano instancabili contro ogni manifestazione di violenza ai danni delle donne, censurando persino le presunte violenze “linguistiche” e cercando di obbligarci a dire la “ministra”, la “sindaca” e così via, mentre a Palazzo Chigi veniva ricevuto il presidente di quel regime che stabilisce, per legge, anche la grandezza delle pietre che servono a lapidare le adultere: né troppo grandi, per evitare che la vittima muoia subito, né troppo piccole, per risultare sufficientemente dolorose. Tacevano queste neo o post-femministe, forse perché avevano ancora la lingua intorpidita dal silenzio che si sono imposte sui sordidi fatti di Colonia.
Dove sono finite quelle centinaia di migliaia di manifestanti "arcobaleno" di sabato scorso, quelli che si indignano contro le gerarchie cattoliche, le “sentinelle in piedi” e i partecipanti tutti al “family day”, quelli che sputano l’accusa di “omofobia” contro chiunque osi mettere in discussione il “sacrosanto” diritto delle coppie gay all’adozione, mentre a Roma piombava il presidente di un paese che i gay li impicca per legge (islamica), attaccati alle gru? Nemmeno una piazzetta, neanche uno striscioncino arcobaleno o una mezza frase contro l’”omofobia” islamica?
Dove sono finiti, infine, tutti quelli che il giorno dopo avrebbero celebrato, commossi e partecipi, il giorno della Memoria, avrebbero ricordato gli ebrei sterminati nei campi di concentramento e accolto con fragorosi applausi il sopravvissuto di turno, tutti quelli che avrebbero citato come ogni anno il brano usato e abusato di “Questo è un uomo”? Perché non hanno usato nemmeno una parola di indignazione per l'indecente, sottomessa, deferente accoglienza riservata al boia Rouhani, capo di un regime che professa il negazionismo di stato sulla shoah, che annualmente indice un infame concorso che premia lautamente la “migliore” vignetta negazionista, che ha come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato ebraico e lo sterminio degli ebrei?
Non ci sono state manifestazioni di piazza, non ci sono stati cortei dei giovani dei centri sociali, non è stata bruciata la bandiera iraniana, come tante volte è stata invece bruciata la bandiera di Israele, ossia dell’unico stato democratico del Medio Oriente, l’unico paese che rispetta e tutela i diritti umani, l’unico paese dove l’emancipazione femminile è ai più alti standard mondiali e dove gli omosessuali sono al sicuro (anzi Tel Aviv pare sia una delle città più gay-friendly del mondo).
Gli unici a scendere in piazza sono stati i radicali di “Nessuno tocchi Caino” (onore a loro) e gli sparuti gruppi dell’emigrazione e della resistenza iraniani, lasciati vergognosamente soli. Fossero stati curdi del PKK avremmo invece visto tanti giovanotti con kefiah e bandiera rossa d’ordinanza…
Alla fine, l’ospite in turbante ha fatto la sua conferenza stampa, con domande preconfezionate, preventivamente sottoposte al suo entourage e approvate. Una pagina vergognosa del giornalismo nostrano, che solo uno dei presenti ha reso meno amara e ha riscattato con dignità e coraggio. Si tratta del giornalista di “Notizie ebraiche” il notiziario dell’Unione delle Comunità Ebraiche, Adam Smulevich, che alla fine ha rivolto a Rouhani la seguente domanda, in inglese: “Presidente, come pensa che possiamo avere fiducia nelle sue parole, nei suoi annunci propagandistici, nel fatto che oggi ‘a Roma splende il sole’, come ha detto poco fa, se il paese sotto la sua presidenza continua ad essere nelle prime posizioni delle classifiche mondiali della negazione dei diritti?”. Rouhani, a questo punto, ha alzato lo sguardo, frugando la sala con sguardo indispettito. I guardiani della rivoluzione erano pronti a scattare. Qualche secondo di tensione. Quindi il presidente ha abbandonato la sala, senza dare una risposta. Onore, dunque, ad Adam Smulevich: il suo gesto ha ricordato quello della grande Oriana Fallaci, che si tolse il velo dal capo dinanzi all’Ayatollah Khomeini.
E a proposito di veli imposti e autoimposti, l’autocensura ha avuto poi il suo risvolto grottesco, ridicolo, ma non per questo meno inquietante, con la vicenda delle statue dei Musei Capitolini, coperte in modo che le loro nudità non offendessero la sensibilità dell’ospite.
Qui, però, i deferenti autocensori hanno commesso un errore: non hanno previsto le reazioni nazionali e soprattutto internazionali (Le Monde, Le Figaro, Der Spiegel, il New York Times, il Guardian…la stampa estera ha fatto a gara per mettere alla berlina le autorità italiane). Ma prima che si potesse apprezzare la portata dell’autogoal e provare una goffa marcia indietro, uno degli intellettuali volenterosamente organici al “politically correct” si era già ingegnato a giustificare l’ingiustificabile. E’ accaduto su "Repubblica", organo di stampa del Min.pol.cor. (Ministero per il politicamente corretto), ove Tommaso Montanari ha scritto che coprire delle statue "in occasione della visita di un ospite che ne sarebbe ferito è un atto che si iscrive benissimo in quella stessa tolleranza, che è la parte migliore della nostra civiltà". Se Montanari, oltre che esperto di storia dell’arte, sapesse o ricordasse qualcosa anche della storia del pensiero filosofico, saprebbe anche che i maestri e i fondatori della moderna idea di tolleranza – da Locke a Voltaire – pongono dei precisi limiti alla tolleranza stessa, che non può estendersi agli intolleranti che hanno il potere e la capacità di sopprimerla. Da parte mia, aggiungo ciò che Locke e Voltaire certamente davano per scontato, ma che oggi scontato non è più: la tolleranza deve arrestarsi e incontra un limite anche di fronte alla stupidità.
Resta la domanda di fondo: perché? Molti hanno trovato risposte un po’ sbrigative: tutto risalirebbe alla mole di affari che si spera di poter concludere con l’Iran (per un ammontare di almeno 17 miliardi di euro, a quanto pare) ed anche al servilismo, “tara” congenita dell’italica costituzione. Il più brillante tra quelli che hanno percorso questa seconda pista è stato forse Massimo Gramellini: i “geni del cerimoniale” che hanno inscatolato le sculture sono “i degni eredi di un certo modo di essere italiani: senza dignità. Quella vocazione a trattare l’ospite come fosse un padrone. A fare i tedeschi con i tedeschi, gli iraniani, con gli iraniani, gli esquimesi con gli esquimesi. A chiamare “rispetto” la smania tipica dei servi di compiacere chi li spaventa e si accingono a fregare. Su questa tradizione, figlia di mille invasioni e battaglie perdute anche con la propria coscienza, si innesta il tema modernissimo del comportamento asimmetrico con gli stati musulmani”.
Tutto ciò è molto vero e giusto, ma non spiega tutto e, probabilmente, non spiega l’essenziale. Se solo si ricordasse ciò che è avvenuto poche settimane fa a Colonia, se solo si associassero le due vicende, salterebbero certe facili soluzioni. Anche in quel caso la nuda verità è stata coperta da veli non pietosi, ma indecenti e anche in quel caso si è palesato un comportamento “asimmetrico” con i musulmani, ma lì non si aveva a che fare con un potente capo di stato che portava con sé la promessa di investimenti e commesse, ma con un’orda di immigrati misogeni e violenti, i quali, peraltro, non erano neanche ospiti nostri, ma della Germania.
Il double standard, il comportamento asimmetrico, come lo chiama Gramellini,  emerge in realtà ogni volta che si ha a che fare con l’islam e, preferibilmente, proprio con l’islam più violento e intollerante. E allora la mia tesi è che si ha tanto pudore a denunciare i vizi di questo mondo islamico perché sono i vizi che certo mondo occidentale ama ancora, ancora sente suoi e ai quali però non si può più abbandonare, non apertamente, almeno; i vizi che è costretto a mascherare spesso dietro le virtù contrarie, così ostentate, così prepotentemente imposte sulla scena pubblica che finiscono per assomigliare, quelle virtù, proprio ai vizi che vorrebbero condannare, ma solo a corrente alternata, e dai quali in realtà sono alimentate. Un mondo occidentale che quindi, simpatizza, consapevolmente o inconsapevolmente, con l’islam più retrivo. Questo inquietante mondo occidentale non è quello dichiaratamente conservatore o reazionario, ma è proprio quello sedicente progressista. Il mondo degli intolleranti che hanno dovuto vestire, per restare nella mainstream, la maschera della tolleranza, dei violenti che hanno dovuto indossare l’abito della mansuetudine, dei bigotti che hanno dovuto mettersi il cappello dell’apertura mentale. Da noi è quel mondo che una volta si chiamava, non senza efficacia, “catto-comunista”, che è uscito indenne e anzi trionfante dallo sfascio della prima repubblica. Ambienti eredi dello stalinismo da un  lato, dell’Inquisizione cattolica dall’altro, che prima si sono affratellati tra loro per affinità elettive, e ora percepiscono l’irresistibile richiamo di tali affinità elettive anche con l’islam, che in fondo è nel mondo odierno l’ultimo rifugio degli intolleranti.
Non potendo più usare gli strumenti diretti e più brutali, ma almeno sinceri, della repressione, costoro – e veniamo al punto di partenza che è anche quello centrale nel nostro discorso – usano l’arma dell’autocensura. Un’arma rivolta contro se stessi, contro la tentazione di tornare a palesare le proprie più autentiche inclinazioni, ma soprattutto contro gli altri. Contro tutti coloro che osano avanzare una critica, anche sotto forma di semplice perplessità, di punto di domanda, di questione aperta, al pensiero politicamente corretto dominante. In modo da spingerli all’autocensura – strumento principe di ogni totalitarismo soft – non tanto per il timore della condanna esplicita, che raramente avviene, ma per evitare l’isolamento, l’emarginazione, l’esclusione, che colpisce ogni voce realmente, fastidiosamente critica, proprio ad opera di coloro che si mostrano così ipocritamente “inclusivi” e dialoganti, nella loro esibita e artefatta immagine pubblica.
Un’epoca di barbarie è questa, come dice giustamente una cara amica, barbarie alla quale contribuiscono anche molti che sono in buona fede. E questo è il peggio, perché è su quelli in buona fede che si sono sempre retti i regimi barbarici, i peggiori dispotismi; quelli in malafede, da soli, non ce la potrebbero mai fare.
Il Signore ci guardi, allora, dalla intolleranza dei finti tolleranti, dalla violenza dei finti mansueti, e ci consenta innanzitutto di riconoscerli, di percepire sempre il tanfo del bigottismo, che cercano di coprire con una spruzzata di profumo liberal.




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