“Non
ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal male” (Matteo 6, 13)
E’
questo sicuramente il passaggio più equivocato e talora anche maltrattato del
Padre nostro, l’unica preghiera che Gesù abbia esplicitamente consegnato ai
cristiani. Seguiremo, tra poco, uno studio biblico molto interessante quanto
poco conosciuto di cui fu autore Dietrich Bonhoeffer, nel giugno del 1938 (lo
si trova ora anche tradotto in italiano nell’edizione critica delle opere del
teologo – ODB – volume 10, pp. 391-423).
Ma incominciamo, per
inquadrare bene la questione, da alcune essenziali osservazioni lessicali. Il
testo greco recita: m¾ e„senšgkVj ¹m©j e„j peirasmÒj. E„senšgkVj è l’aoristo di e„sfšrw - fšrw, portare, con la
preposizione di moto a luogo e„j. Dunque, traduzione letterale;
“portare dentro, portare verso qualcosa”. Il qualcosa è peirasmÒj, da peir£zw, provare, mettere alla prova e anche tentare, cercare
di corrompere. Quindi, si tratta di una prova e di una tentazione, insieme.
Bonhoeffer leggeva la Bibbia tradotta in tedesco da Lutero, che traduce Matteo
13,6 così: und führe uns nicht in Versuchung. Versuchung è la tentazione, ma in altri casi Lutero
esprime l’idea della tentazione con un altro termine – specie quando si
riferisce alle tentazioni da lui stesso tormentosamente sperimentate: Anfechtung, che oltre al significato di
tentazione ha innanzitutto quelli di contestazione e impugnazione, in senso
giuridico. E Bonhoeffer, di sicuro aveva ben presenti nel suo studio entrambi i
termini – Versuchung e Anfechtung. Dunque è confermato che si
tratta di tentazioni che sono anche delle prove.
Del resto, la preghiera di Gesù fa sicuramente riferimento all’esperienza
della tentazione nelle Scritture ebraiche. Vari personaggi dell’Antico
Testamento sono esposti alla tentazione – da Adamo ed Eva ad Abramo a Saul a
Giobbe. Nel caso di Abramo e nel celebre passo del sacrificio di Isacco (Genesi
22) si dice esplicitamente che la tentazione a cui Dio espone Abramo è una
prova: la radice verbale ebraica nsh, specie
con il raddoppiamento della seconda radicale proprio della forma piel che troviamo in Genesi 22,1 (nissah), ha proprio il significato di
“mettere alla prova” (sebbene anche in questo caso Lutero traduca con versuchen).
Possiamo ora passare allo studio biblico di Bonhoeffer.
Bonhoeffer comincia con una affermazione molto netta: “L’uomo naturale e
l’uomo etico non riescono a comprendere questa preghiera”. L’”uomo naturale”,
infatti cerca la conferma della propria forza nella lotta, nel confronto con il
nemico e si espone spontaneamente al rischio della prova. L’uomo etico pure
sfida il male, per saggiarsi come virtuoso, e quindi la sua preghiera
quotidiana suona proprio come il contrario del Padre nostro: “inducimi in
tentazione, affinché io metta alla prova la forza del bene che è in me”.
Se la tentazione fosse ciò che sostengono l’uomo naturale e l’uomo etico,
questa preghiera cristiana sarebbe totalmente incomprensibile. Ciò vale anche e
soprattutto per il cristiano che si vive come uomo etico. Certamente il
cristiano è anche impegnato a vincere il male con la forza del bene, ma questo
non ha nulla a che fare con la tentazione di cui parla Gesù. La prova che
troviamo in tutta la Bibbia non è affatto una verifica della propria forza,
naturale o etica che sia, perché l’essenza della tentazione biblica consiste
precisamente nel fatto che in essa, con nostra grande costernazione, siamo
privati di tutte le nostre forze oppure le nostre stesse forze, e soprattutto
quelle buone e pie, quelle della fede, si rivoltano contro di noi e cadono
nelle mani della potenza ostile che ci domina. La mia forza, dice Bonhoeffer,
mi è sottratta prima ancora che io possa metterla alla prova. Di ciò parlano
numerosi salmi. Nella tentazione e nella prova, dunque, il cristiano si sente
caratteristicamente abbandonato,
abbandonato da tutte le sue forze, abbandonato dagli uomini e abbandonato anche
e soprattutto da Dio. Nella tentazione l’uomo è completamente solo ed è
completamente caduto nelle mani di quella potenza ostile, di quel Male che la
Bibbia, Lutero e Bonhoeffer chiamano “il diavolo”.
Questa terminologia potrà spiacere a certa sensibilità moderna, ma è quella
usata dalla Bibbia e che adotta anche Bonhoeffer, tutt’altro che un teologo
arcaico o tradizionalista e per nulla un uomo superstizioso. E’ un termine
adeguato, se ovviamente non viene deformato in modo fantastico, a far
comprendere che qui si sta parlando non del male che nasce dalla libera scelta
dell’uomo, ma al contrario del Male che assoggetta la libertà di scelta
dell’uomo; che si sta parlando non di una creatura di Dio, ma della Potenza che
è ostile alla creatura, fino a volerla perdere e annientare; che si sta
parlando non già di un aspetto della volontà di Dio, ma della Potestà che – pur
vanamente e condannandosi alla sconfitta – resiste e lotta contro la volontà di
Dio. Una terminologia più “moderna” rischierebbe fatalmente di confondere
questi elementi decisivi.
Il cristiano, riprendendo il filo centrale del discorso, sa dunque che
nell’ora vera della tentazione tutte le sue forze lo abbandoneranno e dunque
non vuole metterle alla prova e perciò prega affinché non sia esposto alla
tentazione.
La prova/tentazione è un evento concreto che irrompe improvvisamente nella
vita, che sorprende e sgomenta proprio perché giunge inatteso. Evidentemente,
però, l’ora della tentazione non è qualcosa che deve fatalmente accadere e che
quindi bisogna accettare con passiva rassegnazione: se così fosse Gesù non ci
avrebbe certo invitati a pregare per scongiurarla!
Le ore della tentazione sono ben distinte da quelle della “protezione”:
nelle prime il cristiano si sente abbandonato, in queste ultime, invece, si
sente protetto. Bisogna capire, qui, che mentre per l’uomo naturale o l’uomo
etico ciò che conta è come va la vita, per il cristiano ciò che più importa è
“il modo in cui Dio agisce adesso con me”, ossia l’abbandono o la protezione di
Dio.
La Scrittura, nota Bonhoeffer, a rigor di termini contiene solo due
racconti di tentazione, la tentazione del
primo uomo e la tentazione di Gesù
Cristo, ossia la tentazione che porta l’uomo a cadere e la tentazione che
porta Satana a cadere. Tutti gli altri racconti, e dunque tutte le esperienze
umane di tentazione, stanno sotto il segno dell’uno o dell’altro di questi
racconti: o noi siamo tentati in Adamo, oppure
siamo tentati in Cristo. Se siamo
tentati in Adamo siamo noi a cadere, se siamo tentati in Cristo, se ad essere
tentato è il Cristo che è in noi, allora sarà invece Satana a cadere.
Occorre ora capire meglio l’uno e l’altro tipo di tentazione, per evitare
fraintendimenti.
Il racconto di Genesi 3 ci mostra tre cose:
1) Il tentatore si trova non tanto dove c’è
la colpa – qui ha già ottenuto il suo scopo – ma dove c’è l’innocenza. La tentazione non è dunque
tipicamente una esperienza dell’uomo dichiaratamente colpevole, dell’empio, ma
accade dove c’è l’innocenza.
2) La voce del tentatore non viene dall’abisso
dell’”inferno”: egli appare d’improvviso nel “paradiso terrestre” e in tal modo
cela la sua origine e vera natura.
3) La negazione dell’origine viene portata
fino in fondo, il tentatore si presenta in nome di Dio, pretende di essere un interprete
della Parola di Dio: “è vero che Dio ha detto…” E’ nell’abisso di questa
subdola domanda sulla Parola di Dio, è nell’abisso della parola “devota” che
cade l’uomo e non nel baratro di una tentazione manifestamente “infernale”,
blasfema, empia.
La scena della tentazione di Gesù si svolge, invece, nel deserto (Mt 4,1).
Lo Spirito conduce Gesù nel deserto, ossia nella solitudine e nell’abbandono di
Dio. Così sarà anche per Abramo sul monte Moria. Ecco il concetto “destinato a
rimanere incomprensibile per ogni pensiero umano etico-religioso: nella tentazione
Dio “non si manifesta come il Dio benigno e vicino”, ma come il Dio che ci
abbandona, ci è completamente lontano e ci lascia nel deserto.
La prima tentazione a cui è esposto Gesù è quella della carne: Gesù dopo quaranta giorni di
digiuno ha fame. Satana, allora, lo tenta facendo leva sulla debolezza della
sua carne umana: “Se sei il Figlio di Dio, allora ordina a queste pietre di
diventare pane”. In tal modo vuole mettere la carne contro lo spirito. Gesù
risponde servendosi della Parola di Dio, alla quale anche il Figlio di Dio è
sottomesso. A maggior ragione è sottoposta alla Parola la carne: “non di solo
pane vive l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio”.
La seconda tentazione rivela un “salto di qualità” da parte del tentatore,
che si serve sfacciatamente della stessa Parola di Dio (Mt 4,5). Gesù accetta
la sfida e contrappone la Parola di Dio alla Parola di Dio citata dal diavolo, non
in modo che ne risulti un’incertezza, ma facendo risaltare la verità opposta
alla menzogna, l’uso autentico contro l’uso disonesto e manipolante della
Parola. Attraverso la sua subdola citazione, il diavolo voleva poi condurlo a
cercare un segno o una conferma, voleva indurre la fede a volere qualcosa di
più della Parola di Dio. Gesù smaschera la trappola e la definisce un tentare Dio (Mt 4,7).
Nella terza tentazione, Satana non fa leva sulla comune debolezza della
carne, né strumentalizza la Parola, ma dispiega tutta la sua potenza
contrapposta alla potenza di Dio, presentandosi come principe di questo mondo,
e allettando in tal modo il tentato. E’ questa la tentazione radicale, nella
quale il diavolo chiede l’apostasia, il rinnegamento consapevole e definitivo
di Dio. Gesù risponde scacciando Satana e ribadendo la fede nell’unico Signore.
E’ importante, a questo punto, capire correttamente il racconto e non
cadere in equivoco: nemmeno la lotta di Gesù è la lotta eroica dell’uomo
naturale o dell’uomo etico contro l’assalto del male; nemmeno Gesù può fare
affidamento sulle proprie forze, perché anche lui ne rimane totalmente sprovvisto,
anche lui si trova abbandonato e indifeso. Ciò che lo regge, lo sostiene, lo
salva, lo mantiene saldo è solo e
unicamente la Parola di Dio a cui si aggrappa e si affida. Solo per mezzo della
Parola di Dio Satana è spodestato; solo per mezzo della Parola di Dio la prova
è superata, la tentazione è vinta: “allora il diavolo lo lasciò” – come all’inizio
Dio lo aveva lasciato – “ed ecco gli angeli gli si accostarono e lo servirono”.
Nell’ora della prova e della tentazione, i cristiani devono dunque scegliere
se vivere la tentazione come Adamo – e soccombere – o viverla, non già come Cristo, ossia mettendosi al posto
di Cristo o assumendo Cristo come proprio modello, ma in Cristo, concependo cioè la propria tentazione come tentazione di
Cristo, partecipando alla tentazione che Egli ha già preso su di sé e superata,
partecipando alla sua vittoria. “Voi siete quelli che avete perseverato con me
nelle mie tentazioni”, dice in modo inequivocabile Gesù ai suoi discepoli.
E’ così raggiunto un primo punto decisivo: il compito pratico del cristiano
è considerare le tentazioni che lo assalgono, le prove che irrompono nella sua
vita, come tentazioni e prove di Gesù Cristo che è in lui. Solo così troverà
quell’aiuto che non può sperare dalle sue proprie forze.
Ma a questo punto si pone la domanda: chi è l’autore delle tentazioni del cristiano? Da dove provengono? Se non
diamo, di volta in volta, la risposta corretta a questa domanda precipitiamo,
anche in questo caso, in equivoci catastrofici. (continua)
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