domenica 7 febbraio 2016

LE UNIONI CIVILI: IN MEMORIA DI PIER PAOLO PASOLINI



Il 10 giugno del 1974, Pier Paolo Pasolini pubblicò un memorabile articolo sul “Corriere della Sera” dal titolo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia. Pasolini interveniva, a modo suo, sui due eventi, entrambi di portata storica, ma di segno ben diverso, che erano accaduti nel mese di maggio: la vittoria del “No” al referendum per l’abrogazione della legge Fortuna sul divorzio e la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Lasciando da parte questo secondo tragico episodio, focalizziamo la nostra attenzione – nel momento in cui si discute al senato la legge sulle unioni civili che comprende anche la cosiddetta stepchild adoption per le coppie gay – sulla valutazione folgorante e quanto mai “controcorrente” che Pasolini dette del referendum sul divorzio.
Ovviamente, Pasolini era assolutamente contrario all’abrogazione della legge proposta dal socialista Fortuna qualche anno prima e che era invece ferocemente osteggiata dal Vaticano, dalla DC di Fanfani e dalla destra neofascista. Non per questo, tuttavia, ritenne di potersi associare al trionfalismo delle sinistre e dei laici e, in particolare, a quello dell’Unità, che il 2 giugno aveva usato il titolo delle grandi occasioni: “Viva la Repubblica antifascista!”, proprio in riferimento alle due vicende occorse in maggio. Pasolini in quella circostanza ingaggiò una nuova e aspra polemica con il giornale comunista e con alcuni intellettuali organici al PCI (primo fra tutti Maurizio Ferrara, padre di Giuliano).
Anzitutto, smascherò l’ipocrisia del principale partito della sinistra italiana, ricordando come in realtà Berlinguer avesse fieramente osteggiato il “referendum”, temendo una “guerra di religione” e una probabile sconfitta. Per cui, scriveva Pasolini, non era stato solo il Vaticano ad aver sbagliato completamente l’analisi della situazione, ma lo stesso PCI. D’altra parte – e questo lo aggiungo io – il PCI era il partito che fino a pochissimi anni prima aveva affisso manifesti “in difesa della famiglia”, quasi in concorrenza con la DC: il brillante disegnatore satirico Krancic – una delle poche voci fuori dal coro del giorno d’oggi e forse l’unica tra gli autori di satira – ha rispolverato uno di quei manifesti, in occasione delle manifestazioni “arcobaleno”, popolate da tanti ex-comunisti ed eredi di quella tradizione e animate talora da un bigottismo di segno diverso ma di uguale sostanza. Il PCI era il partito che superava per moralismo ottuso la stessa DC, era il partito che aveva “mormorato” sulla relazione fra il suo osannato segretario Togliatti e Nilde Jotti. Un moralismo bigotto ben descritto nell’affresco di Ermanno Rea, Mistero napoletano, e che lo stesso Pasolini, espulso anni prima dal partito per l’accusa di omosessualità, aveva sperimentato sulla sua pelle.
Ma il punto centrale dell’analisi di Pasolini era un altro: il PCI, scriveva, esulta per il trionfo. Ma è stato un vero trionfo? “La mia opinione”, scriveva, “è che il cinquantanove per cento dei “no” non sta a dimostrare, miracolisticamente una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia. Niente affatto” . Il risultato del referendum stava invece a dimostrare due cose. La prima era il “mutamento antropologico” dei ceti medi, passati da valori clericali e ‘sanfedisti’ “all’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano”. Un’ideologia costruita dallo stesso Potere, come del resto tutte le ideologie interpretate in chiave marxiana, che aveva prontamente gettato a mare i vecchi valori non più funzionali ai propri interessi. La seconda cosa era il crollo dell’Italia contadina e paleoindustriale che aveva lasciato un vuoto che attendeva di essere colmato da una completa “borghesizzazione” del tipo appena accennato ("modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante”).
Questa analisi, a distanza di tanti anni, torna ancora utile, a mio avviso, a leggere correttamente lo scontro sulle “unioni civili”. Con qualche differenza non irrilevante, che proverò, brevemente, a evidenziare.
Come ai tempi del divorzio – se posso consentirmi un inciso personale fu proprio in quella campagna elettorale referendaria che cominciai ad aprire gli occhi sulla scena pubblica e ad  interessarmi di politica, non nel senso della militanza attiva (avevo solo 12 anni!), ma nel senso di seguire i discorsi dei “grandi”, i dibattiti televisivi, gli articoli di giornale, stimolato anche da una famiglia unanimemente e molto appassionatamente schierata per il “no” – come ai tempi del divorzio, è fuori discussione la scelta a favore delle unioni civili e per determinate garanzie alle coppie di fatto, siano etero o omosessuali. Ben altra cosa è la questione delle adozioni per le coppie gay, ambiguamente profilata dalla norma sulla stepchild adoption. Non sappiamo se ci sarà una vittoria, un trionfo o una inopinata sconfitta della legge Cirinnà. Quel che a me pare certo, tuttavia, è che si è costituito un movimento di opinione favorevole non solo alle unioni civili, ma specificamente al matrimonio gay e anche alle adozioni (sebbene su quest’ultimo punto tale movimento sia probabilmente minoritario nel paese) e che a questo movimento ben si adatta il giudizio di Pasolini: esso è animato, in larga parte, non già dai valori del laicismo e della autentica tolleranza, ma da una ideologia edonistica, consumistica e di finta tolleranza.
Qui però risalta qualche importante differenza rispetto ai primi anni Settanta, che erano comunque un epoca “progressista”. Allora l’edonismo e la finta tolleranza reclamavano separazioni e divorzi, sicché potevano più facilmente assumere la maschera della scelta di libertà; oggi l’edonismo e la finta tolleranza rivendicano matrimoni e adozioni anche per i gay. Pasolini - che al fondatore del F.U.O.R.I. Angelo Pezzana il quale lo invitava a unirsi alla battaglia per i “diritti” degli omosessuali rispose un giorno che aveva cose più serie di cui occuparsi - ne resterebbe  inorridito e vi vedrebbe il segno che quella borghesizzazione modernizzante, americanizzante e ipocritamente tollerante da lui profetizzata, che trasforma con grande leggerezza desideri e bisogni in diritti, si è ormai tristemente compiuta.

mercoledì 3 febbraio 2016

E NON CI ESPORRE ALLA TENTAZIONE - PARTE TERZA



Il cristiano è dunque chiamato a comprendere le proprie tentazioni, in analogia alle tentazioni di Cristo. A questo punto Bonhoeffer premette alcune osservazioni che valgono per qualsiasi tentazione, per poi distinguere fra tentazioni nella carne, tentazioni nello spirito e giungere infine alla tentazione finale, che è quella dell’apostasia conclamata e sulla quale qui non mi soffermerò (Bonhoeffer stesso non si dilunga su questa ultima forma di tentazione) .

1)     Di fronte a ogni tentazione.
Valgono innanzitutto le parole di 1 Cor, 10, 12-13:

Perciò, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscirne, affinché la possiate sopportare.

Anche qui il termine greco tradotto con “tentazione” è peirasmòs, che vuol dire innanzitutto “prova” (comunque, anche in questo caso Lutero traduce Versuchung).
Il testo è un avvertimento a guardarci sia dalla falsa sicurezza, sia dalla falsa pusillanimità.
Nessuno può credere, neanche per un istante, di essere immune dalla prova e di stare sotto una speciale, assoluta, costante protezione divina. Nessuno pensi che Satana possa stare sempre alla larga da lui:

Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt, 5,8).

Occorre quindi una costante attenzione, che è fatta di vigilanza e di preghiera:

Vegliate e pregate per non cadere in tentazione (Mt 26,41).

L’altro errore da evitare è di avere, invece, paura della prova. Bisogna sempre sapere che Dio assegna ad ognuno soltanto la misura che egli può portare. Chi dunque di fronte all’assalto della tentazione subito si scoraggia e disarma, dimentica proprio l’essenziale: che Dio non permetterà che la prova superi le sue forze.
Per questo, conclude Bonhoeffer, occorre affrontare la tentazione sia con umiltà, che con la certezza della vittoria.

2)     Di fronte alla tentazione nella carne.
Qui va fatta un’ulteriore distinzione fra la tentazione del piacere e quella della sofferenza.
Alla tentazione del piacere si è già accennato: essa ha origine dalla concupiscenza che espone al tipico peccato della “carne”. “Carne”, biblicamente, non sta semplicemente per “corpo”, tantomeno riguarda esclusivamente la sfera sessuale, ma concerne tutto ciò che è caduco, che è mortale, che è già condannato a finire. “Carnale” è dunque anche la ricerca dell’onore e del successo, del potere o del denaro, è anche l’ambizione, la vanità, la voglia di vendetta. Tutto ciò può portare al peccato che, in questo caso, non consiste nell’aperta rivolta contro Dio, ma nella dimenticanza di Dio e della sua Parola. E’ questo il caso in cui le nostre forze nulla possono, perché esse “sono passate tutte quante dalla parte dell’avversario”.
Come si può allora affrontare questa prova e uscirne vincitori? Fissando lo sguardo su Cristo crocefisso, risponde Bonhoeffer. Qui occorre chiarire ciò che per un teologo di formazione luterana nato all’inizio del Novecento era del tutto evidente, ma che può non esserlo per tanti oggi. Lo sguardo su Cristo crocefisso vuol dire lo sguardo sulla carne – intesa come abbiamo appena detto – che è crocefissa in lui, lo sguardo sul destino che spetta a ciò che è carne, destino che è la morte. Ma anche, aggiungerei, lo sguardo alla resurrezione di questa carne, salvata dal peccato, dalla precarietà, dalla fragilità e dalla morte proprio mediante la croce di Cristo.
La conoscenza della croce non è però teorica, ma porta immediatamente a un atteggiamento pratico, a una risposta di vita. E questo atteggiamento, questa risposta si esprimono sorprendentemente nella fuga: fuggire nell’ora della tentazione carnale, questo ci insegna la Scrittura. Fuggire è l’unico modo per resistere, perché la lotta contro la concupiscenza che volesse affidarsi alle proprie forze sarebbe ineluttabilmente destinata allo scacco. Fuggire e rifugiarsi dove c’è protezione e aiuto, all’ombra del Crocefisso, dove si svela l’ingannevole lusinga della carne, di ciò che è effimero, precario, mortale.

Si ravvisa, però, una tentazione non solo nel piacere, ma anche nella sofferenza.
Quando il cristiano cade in una grave malattia, nella miseria o è colpito da qualche altra grave sventura deve sapere, scrive Bonhoeffer, che “qui c’è lo zampino del diavolo”. Ancora una volta il riferimento, apparentemente anacronistico, al diavolo ha una portata teorica e pratica decisiva e ci consente di evitare gravi errori. La tentazione nella sofferenza può, infatti, essere quella di lasciarsi andare ad una “rassegnazione stoica”, accettando tutto come un destino necessario, per non riconoscere né l’azione di quel male assoluto che è appunto costituito biblicamente dal diavolo, né l’azione di Dio, né il proprio peccato. Questa rassegnazione non ha nulla di cristiano, benché sia sempre stata molto popolare e diffusa nel cristianesimo “storico”. Dio, infatti, non vuole affatto la sofferenza e questa si è introdotta nel mondo a seguito della caduta e del peccato.
La tentazione nella sofferenza può portare addirittura a prendersela con Dio, a dubitare del suo amore: perché Dio permette questo, ci si chiede? Perché colpisce proprio me? Dove sta la sua giustizia? Nella tribolazione, Dio sembra farsi nostro nemico. Il modello biblico di questa tentazione è, ancora una volta, Giobbe: Satana gli toglie tutto per spingerlo a maledire Dio.
Come supera il cristiano questa temibile tentazione? Il finale del libro di Giobbe ci fornisce la risposta. Giobbe, che ha protestato fino alla fine la sua innocenza e la sua rettitudine di fronte agli amici, dopo l’ingresso in scena di Dio si riconosce colpevole e si pente (Gb 42,6). E l’ira di Dio, a questo punto, non investe lui, ma i suoi amici. Dio dà ragione a Giobbe, che si confessa colpevole dinanzi a lui, dopo aver protestato contro la sciagura che lo aveva colpito e contro le accuse degli amici! Qui sta la soluzione: noi, quando siamo tentati nella sofferenza, abbiamo tutto il diritto di protestare contro la sofferenza, nella misura in cui protestiamo così contro il “diavolo” e rivendichiamo la nostra innocenza: è il diavolo, infatti, è il Male, che ha fatto irruzione nella creazione di Dio e l’ha guastata. Qui Bonhoeffer ricorda pure che fu questo l’atteggiamento di Lutero quando fu colpito dalla disgrazia della morte della figlia Lena.  Nello stesso tempo, dinanzi a Dio dobbiamo riconoscere che la sofferenza è il Suo giudizio sul nostro peccato, non su uno specifico peccato, su un peccato individuale, ma sul peccato che abita in ogni carne e che va riconosciuto e manifestato per poter essere perdonato ed eliminato. Questo significa che chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto con il peccato (1 Pt 4,1).
Naturalmente, si può soffrire nel proprio corpo, senza affatto rompere con il peccato, perché non lo si riconosce, perché non si comprende la vera origine di quella sofferenza. E’ questo sicuramente il caso più frequente, mentre è molto più difficile superare la prova seguendo la strada che Bonhoeffer e la Bibbia ci indicano. Questa strada diventa però pienamente accessibile se ritorniamo all’analogia con la tentazione di Cristo, se cioè riconosciamo nella nostra sofferenza la sofferenza di Cristo in noi e la sua tentazione. Questo ci induce ad essere pazienti (pazienti come Cristo, non pazienti verso il diavolo e verso il peccato!), a sopportare in silenzio la tentazione, a mutare la nostra amarezza in gratitudine per la liberazione che alla fine scaturirà dalla morte dell’uomo vecchio e dalla comunione più stretta dell’uomo nuovo con Cristo.

3)     Le tentazioni spirituali
Anche qui occorre distinguere fra le tentazioni che ci fanno cadere nella superbia spirituale (securitas) e quelle che ci precipitano, invece, nella tristezza (desperatio).
Quando il diavolo ci tenta nella superbia, vuole spingerci a non prendere sul serio la Parola di Dio. Questa è la tentazione di Eva (“Dio ha veramente detto…”), questa è anche la tentazione della grazia a buon mercato. In fondo, questo ci viene insinuato nella mente, Dio nella sua misericordia non ci vorrà certo imputare il nostro peccato. Qui, come Bonhoeffer aveva già scritto in Sequela, la Grazia da risultato di un percorso, che comprende il riconoscimento del peccato, diviene il presupposto, che rende inutile il percorso stesso (la sequela, appunto). Qui siamo minacciati dal peccato della superbia nei confronti della grazia. Un altro tipo ancora di superbia spirituale è quella di chi si ritiene in grado di adempiere perfettamente al comandamento di Dio (giustizia delle opere).
Una diversa tentazione è poi quella della desperatio, della tristizia, della acedia (Bonhoeffer riconoscerà di essere particolarmente esposto a questa tentazione e ne soffrirà nel modo più serio nei primi tempi della carcerazione a Tegel: la grande teologia delle sue ultime lettere è il frutto della sua vittoria in questa terribile prova).
Qui non si prende alla leggera la grazia di Dio, come avveniva nel caso precedente, ma si dubita di essa, fino a disperarne. Qui non si confida con troppa sicurezza e con troppo anticipo sul perdono, ma si dispera del perdono. Il risultato è però identico ed è la ribellione alla Parola di Dio, la disobbedienza.
Questa tentazione è particolarmente insidiosa, perché sembra nascere dalla stessa Parola di Dio, che accusa l’uomo, che lo inchioda al suo peccato. Occorre, però, uscirne come ne uscì Lutero (dal superamento di questa tentazione nacque la Riforma): opponendo la Parola di Dio che salva alla Parola di Dio che sembra condannare e riconoscendo che dietro quest’ultima non c’è affatto Dio, ma c’è il diavolo, che cerca di servirsene per i propri fini, proprio come nell’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto.
Ciò non significa affatto dimenticare il nostro peccato, ma significa, scrive significativamente Bonhoeffer, che ne dobbiamo discutere non già con il diavolo, che ci farebbe precipitare, ma con Gesù, che ci salva. Azzardando una traduzione meno ostica alla sensibilità moderna di questo cruciale passaggio si potrebbe dire che la nostra colpa non deve portarci alla disperazione, ma che nemmeno possiamo illuderci di superare la disperazione negando la colpa. La dobbiamo riconoscere, esaminare e confessare, ma in modo costruttivo e non distruttivo, in modo consolante e non disperante, con gratitudine e non con amarezza, nell’obbedienza e non nella ribellione.
Tutto questo, però, rischia di restare molto astratto, intellettuale, accademico se, ancora una volta, non guardiamo alla croce di Cristo e non comprendiamo e viviamo la nostra tentazione in analogia con la sua.
Gesù precipitò nell’abisso della più profonda tentazione, raggiunse il culmine della tristitia, nel suo grido sulla croce che lamentava l’abbandono di Dio. Ma proprio lì dove si manifestarono l’ira e il giudizio di Dio avvenne la riconciliazione, si rivelò la grazia.
Per questo nella tribolazione dobbiamo sempre ascoltare la risposta che Dio dette un giorno a Paolo, anche lui afflitto probabilmente dalla più profonda tristitia:
ti basti la mia grazia, perché la mia potenza si manifesta nella debolezza (2 Cor 12,9)

martedì 2 febbraio 2016

"NON ESPORCI ALLA TENTAZIONE" PARTE SECONDA



Nell’ora – spesso terribile – della prova/tentazione il cristiano deve saper riconoscere da chi provengono le tentazioni che lo assalgono. La coscienza moderna, anche quella cristiana, tende ad incolpare se stessi, il mondo (gli altri uomini) o Dio stesso. Ciò espone, però, a catastrofici equivoci, quando si scambi, nei casi concreti, un autore della tentazione con l’altro e quando si occulti il vero responsabile. Seguiamo, allora, Bonhoeffer che, a sua volta, segue la Bibbia. E la Bibbia menziona tre diversi autori delle tentazioni: il diavolo, la concupiscenza dell’uomo e Dio stesso.

1)     La tentazione che proviene dal diavolo
Il primo soggetto della tentazione (il diavolo), come si è già accennato, resta disconosciuto o frainteso dalla coscienza moderna. E’ invece essenziale chiamarlo in causa – lo si definisca e lo si interpreti, poi, come si vuole - per comprendere correttamente i numerosi casi in cui la tentazione non viene né da noi stessi, né, tantomeno, da Dio, ma è opposta a Dio e alla sua volontà. Il tentatore è qui il nemico di Dio e si mostra capace di fare ciò che non è nella volontà di Dio e, nello stesso tempo, ciò che nessuna creatura sarebbe in grado di fare. La tentazione, scrive Bonhoeffer, “è un potere più forte di qualsiasi creatura: è l’irruzione della potenza di Satana nel mondo della creazione”.
L’estrema malvagità e l’orrore di certe vicende della storia o della cronaca e la devastazione prodotta da certe patologie, fisiche o mentali, possono rientrare, a mio avviso, in questa categoria di prova/tentazione, che non può essere in nessun modo attribuita al volere di Dio, ma che neanche si spiega soltanto con i fattori umani e nella quale gli uomini appaiono agenti o vittime di una potenza incombente, alla quale non possono opporsi. Va però anche precisato che gli uomini, talora, non solo non possono, ma neanche vogliono opporsi a questa potenza, in quanto essa li soggioga con la menzogna. La tentazione che viene dal diavolo, nella Bibbia, sta infatti anche e soprattutto sotto la specie della seduzione e dell’inganno.
Per comprendere bene questa prima categoria di tentazione, infine, non bisogna tralasciare quello che è l’obiettivo finale del tentatore: distogliere l’uomo dalla Parola di Dio, fino a portarlo all’apostasia e fino a provocare l’inevitabile giudizio di Dio sull’uomo stesso. Il paradigma biblico di questa tentazione è, perciò, nel libro di Giobbe:

Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro. Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa». Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male». Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? Non l'hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia».

Più avanti, Giobbe verrà colpito anche nella sua stessa persona e perderà tutto, eccetto la vita.
Il senso della tentazione è qui chiarissimo: l’uomo viene privato di tutto ciò che ha, viene reso completamente inerme. “Povertà, malattia, dileggio e condanna da parte delle persone pie lo fanno piombare nella notte più profonda. Satana, il principe di questo mondo, gli porta via tutto quello che si può portare via a un uomo. Lo getta in uno stato di abbandono, in cui al tentato non rimane altro che Dio”.
E qui sta l’astuzia del tentatore: in questo abisso, in questo abbandono, l’uomo, il presunto giusto, l’innocente, deve essere smascherato e riconoscere che non temeva Dio in modo disinteressato, ma soltanto per i beni di cui Dio lo aveva circondato. Dovrà svelarsi che “egli non ama Dio per amore di Dio, bensì per amore dei beni di questo mondo”.
Questo scopo, questo disegno del tentatore va assolutamente riconosciuto dall’uomo che ne è vittima, dall’uomo che sta attraversando questo genere di prova. Egli è chiamato a mostrare il suo timore disinteressato, la sua obbedienza gratuita a Dio. Giobbe lo fa, a mio avviso, indirettamente, respingendo con fastidio profondo i discorsi “devoti” dei suoi tre amici. Costoro, che si tengono legati a un concetto di giustizia retributiva, in fin dei conti non mostrano di amare e temere disinteressatamente Dio, in quanto per loro Dio è l’inevitabile benefattore dei giusti e il giudice dei reprobi. In tal modo, però, sorge il dubbio che il timor di Dio e la rettitudine di vita siano legati alla certezza del premio. Giobbe, invece, nella sua “protesta” contro Dio, non rinnega la sua rettitudine ed anzi la rivendica (ed ha ragione a rivendicarla dinanzi agli uomini, mentre sbaglia a rivendicarla al cospetto di Dio, come alla fine riconoscerà), persino quando questa rettitudine si mostra incapace di salvarlo dalla completa rovina e sembra non ottenere alcun riconoscimento dal Signore. Aggiungo, infine, che neanche per un attimo Giobbe è tentato dall’apostasia: è proprio la sua protesta, che pure si rivelerà infondata, che lo mantiene comunque in relazione con Dio. In tal modo, la prova è superata e il disegno di Satana fallisce.

2)     La tentazione che ha origine dalla propria concupiscenza
In altri casi, la Scrittura individua chiaramente nella concupiscenza dell’uomo l’origine della tentazione:

Nessuno, quand'è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte. (Giacomo, 1, 13-15)

Anche qui, premetto alcune brevi note lessicali, che mi sembrano indispensabili ad evitare i fraintendimenti della coscienza moderna.
Anzitutto, il verbo che viene qui tradotto con “tentare” è anche in questo caso peir£zw, che significa soprattutto provare, mettere alla prova ed è la trasposizione nel NT del nisah ebraico (il verbo della “prova” di Abramo). Quanto alla “concupiscenza”, il sostantivo greco è ™piqum…a che indica, nel greco neotestamentario, non un qualsiasi desiderio e un semplice desiderio, ma un desiderio ardente, una brama che soggioga e crea dipendenza (e qui è efficace la traduzione latina con il verbo concupio) e, specificamente, il desiderio di ciò che è stato proibito da Dio ed è dunque peccato. E’ il desiderio che condanna il primo uomo e la prima donna, in definitiva.
Tornando al discorso di Bonhoeffer, egli sottolinea come riconoscere nella propria concupiscenza l’origine di questo tipo di tentazione è di vitale importanza per non gettare la colpa sugli altri uomini e per non addossarla, peggio ancora, a Dio. E’ altrettanto importante distinguere questa tentazione da quella di cui abbiamo parlato prima, dalla tentazione “diabolica”: in quel caso doveva diventare chiara l’oggettività della tentazione, qui invece deve emergere inequivocabilmente la sua soggettività.
Infine, va chiarito che neanche la concupiscenza rende di per sé peccatori: essa, come dice Giacomo, deve “concepire” per poter partorire il peccato. E la concupiscenza, specifica Bonhoeffer, concepisce e partorisce il peccato, quando si congiunge al mio io, ossia quando io abbandono la Parola di Dio per unirmi soltanto alla concupiscenza. Proprio per questo l’origine del peccato, in questa forma di tentazione, è solo in me stesso.

3)     La tentazione di cui Dio stesso è autore.
Questo è sicuramente il caso più difficile. Giacomo, come si è visto, dice che Dio non tenta nessuno, ma, d’altra parte, la Scrittura conosce numerosi casi di personaggi tentati da Dio e lo stesso Israele è oggetto di simili tentazioni. Anche nel NT la tentazione è talora vista come un giudizio di Dio. Qui Bonhoeffer cita 1 Pt 4,11.17, ma a me pare che, proprio alla luce di questo passo, si possa attribuire a Dio anche la “prova” della fede di cui si parla nel bellissimo brano che troviamo all’inizio della medesima lettera:

Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell'oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo. (1 Pt, 1, 6-7)

Perché è necessario riconoscere Dio come autore della tentazione? La Scrittura, dice Bonhoeffer, vuol farci capire che “sulla terra nulla accade senza la volontà e il permesso di Dio”. Anche Satana è nelle mani di Dio e, credendo di perseguire i suoi scopi, è in realtà costretto a servirlo. Egli ha potere solo lì dove Dio glielo concede: per tentare Giobbe, Satana è costretto a chiedere il permesso di Dio!
Bonhoeffer non sfugge a quella che egli definisce “la domanda dei bambini”: “Perché Dio semplicemente non annienta Satana?”. E’ un po’ strano, in verità, che qui Bonhoeffer definisca così una domanda che in fin dei conti è ascrivibile alla grande questione della teodicea. La sua risposta, comunque, è che Dio dà spazio a Satana, a motivo del peccato degli uomini. Satana deve eseguire la condanna a morte del peccatore, perché solo se il peccatore muore, il giusto può vivere, solo se l’uomo vecchio si dissolve, può sorgere l’uomo nuovo. Così Satana è involontariamente costretto ad assecondare il piano redentore di Dio.
Prima di continuare a seguire il ragionamento di Bonhoeffer desidero chiarire che la sua risposta, a mio avviso, non esaurisce certo la questione della teodicea – sul problema del male ritengo che la più profonda e convincente riflessione sia quella di Barth, in un capitolo della sua Kirchliche Dogmatik, (KD, III, 3, 50), che è stato estrapolato e pubblicato da Morcelliana, con il titolo Dio e il Niente) – ma è senz’altro pertinente al discorso sulla tentazione che si sta svolgendo.
Nella Bibbia si afferma esplicitamente che Dio abbandona l’uomo per tentarlo, mettendone alla prova il cuore (2 Cr 32,31). Nella tentazione, si rivela il cuore dell’uomo ed egli riconosce il peccato che, senza la tentazione, non avrebbe potuto riconoscere. Ma proprio il peccato divenuto manifesto può essere ora confessato e perdonato. La manifestazione del peccato fa dunque parte del disegno salvifico.
Qui mi pare che Bonhoeffer tocchi un punto cruciale e di estrema attualità nella vita dei cristiani e delle chiese: se non si riconosce e non si manifesta il peccato, non si può neanche annunciare la grazia e il perdono di Dio. L’annuncio della grazia, senza il riconoscimento del peccato, è proclamazione di quella che Bonhoeffer altrove definisce come una “grazia a buon mercato” ed è un travisamento del Vangelo, esattamente come potrebbe esserlo il giudizio sul peccato che dimenticasse di precisare subito che il peccato è sconfitto ed è perdonato in Cristo. La chiesa, questo, deve sempre lasciarselo ricordare di nuovo.
In sostanza, Dio è autore della tentazione, non direttamente, ma attraverso lo spazio che concede a Satana e questa concessione è funzionale, in realtà, al suo piano salvifico. Come si è visto, Dio lascia che Satana manifesti il peccato dell’uomo, non per condannarlo, ma per salvarlo.
Dio, inoltre, lascia che Satana colpisca l’uomo nella carne, lo privi di ogni cosa, non per perderlo, ma perché l’uomo si consegni nudo e inerme nelle mani del suo Creatore e si affidi soltanto a lui. In tal senso, aggiungo, la tentazione è una “prova” della fede, come abbiamo letto nella prima lettera di Pietro: quando l’uomo non ha più lo schermo dei beni mondani tra se stesso e Dio non può che allontanarsi definitivamente da Lui, mostrando che ciò che chiamava fede in Dio era in realtà attaccamento ai beni del mondo, o può, invece, affidarsi completamente al Signore. “Dove l’uomo perde tutto”, scrive Bonhoeffer, “dove l’inferno manifesta apertamente i suoi orrori, per il credente comincia la vita”. Queste frasi suonano profetiche: il teologo, come è noto, sarebbe stato costretto a saggiare su se stesso questa verità, resistendo all’ultima tentazione diabolica e lasciandoci, secondo una testimonianza, queste ultime parole, prima di salire sul patibolo: “E’ la fine. Per me è l’inizio della vita”.

Nella tentazione concreta del cristiano si tratta sempre di distinguere la mano di Satana dalla mano di Dio e di usare al posto e nel momento giusto la resistenza e la sottomissione: la resistenza contro il diavolo, la totale sottomissione alla mano di Dio.
Questo dato ulteriore va specificato, ricordando che tutte le tentazioni dei credenti sono tentazioni di Cristo che è in loro, e dunque vanno comprese in analogia alla tentazione di Cristo.
Di ciò parleremo nella terza e ultima parte.