Nell’ora – spesso terribile – della prova/tentazione
il cristiano deve saper riconoscere da chi provengono le tentazioni che lo
assalgono. La coscienza moderna, anche quella cristiana, tende ad incolpare se
stessi, il mondo (gli altri uomini) o Dio stesso. Ciò espone, però, a
catastrofici equivoci, quando si scambi, nei casi concreti, un autore della
tentazione con l’altro e quando si occulti il vero responsabile. Seguiamo,
allora, Bonhoeffer che, a sua volta, segue la Bibbia. E la Bibbia menziona tre
diversi autori delle tentazioni: il
diavolo, la concupiscenza dell’uomo e Dio stesso.
1) La tentazione che proviene dal diavolo
Il primo soggetto della tentazione (il
diavolo), come si è già accennato, resta disconosciuto o frainteso dalla
coscienza moderna. E’ invece essenziale chiamarlo in causa – lo si definisca e
lo si interpreti, poi, come si vuole - per comprendere correttamente i numerosi
casi in cui la tentazione non viene né da noi stessi, né, tantomeno, da Dio, ma
è opposta a Dio e alla sua volontà.
Il tentatore è qui il nemico di Dio e
si mostra capace di fare ciò che non è
nella volontà di Dio e, nello stesso tempo, ciò che nessuna creatura sarebbe in grado di fare. La
tentazione, scrive Bonhoeffer, “è un potere più forte di qualsiasi creatura: è
l’irruzione della potenza di Satana nel mondo della creazione”.
L’estrema malvagità e l’orrore di certe
vicende della storia o della cronaca e la devastazione prodotta da certe
patologie, fisiche o mentali, possono rientrare, a mio avviso, in questa
categoria di prova/tentazione, che non può essere in nessun modo attribuita al
volere di Dio, ma che neanche si spiega soltanto con i fattori umani e nella
quale gli uomini appaiono agenti o vittime di una potenza incombente, alla
quale non possono opporsi. Va però anche precisato che gli uomini, talora, non
solo non possono, ma neanche vogliono opporsi a questa potenza, in quanto essa
li soggioga con la menzogna. La tentazione che viene dal diavolo, nella Bibbia,
sta infatti anche e soprattutto sotto la specie della seduzione e dell’inganno.
Per comprendere bene questa prima
categoria di tentazione, infine, non bisogna tralasciare quello che è l’obiettivo
finale del tentatore: distogliere l’uomo dalla Parola di Dio, fino a portarlo
all’apostasia e fino a provocare l’inevitabile giudizio di Dio sull’uomo
stesso. Il paradigma biblico di questa tentazione è, perciò, nel libro di Giobbe:
Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti
al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro. Il SIGNORE
disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la
terra e dal passeggiare per essa». Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il
mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro,
retto, tema Dio e fugga il male». Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla
che Giobbe teme Dio? Non l'hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa,
e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani e il suo
bestiame ricopre tutto il paese. Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto
egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia».
Più avanti, Giobbe verrà colpito anche
nella sua stessa persona e perderà tutto, eccetto la vita.
Il senso della tentazione è qui
chiarissimo: l’uomo viene privato di tutto ciò che ha, viene reso completamente
inerme. “Povertà, malattia, dileggio e condanna da parte delle persone pie lo
fanno piombare nella notte più profonda. Satana, il principe di questo mondo,
gli porta via tutto quello che si può portare via a un uomo. Lo getta in uno
stato di abbandono, in cui al tentato non rimane altro che Dio”.
E qui sta l’astuzia del tentatore: in
questo abisso, in questo abbandono, l’uomo, il presunto giusto, l’innocente,
deve essere smascherato e riconoscere che non temeva Dio in modo disinteressato, ma soltanto per i beni
di cui Dio lo aveva circondato. Dovrà svelarsi che “egli non ama Dio per amore
di Dio, bensì per amore dei beni di questo mondo”.
Questo scopo, questo disegno del tentatore
va assolutamente riconosciuto dall’uomo che ne è vittima, dall’uomo che sta
attraversando questo genere di prova. Egli è chiamato a mostrare il suo timore
disinteressato, la sua obbedienza gratuita a Dio. Giobbe lo fa, a mio avviso,
indirettamente, respingendo con fastidio profondo i discorsi “devoti” dei suoi
tre amici. Costoro, che si tengono legati a un concetto di giustizia
retributiva, in fin dei conti non mostrano di amare e temere
disinteressatamente Dio, in quanto per loro Dio è l’inevitabile benefattore dei
giusti e il giudice dei reprobi. In tal modo, però, sorge il dubbio che il
timor di Dio e la rettitudine di vita siano legati alla certezza del premio. Giobbe,
invece, nella sua “protesta” contro Dio, non rinnega la sua rettitudine ed anzi
la rivendica (ed ha ragione a rivendicarla dinanzi agli uomini, mentre sbaglia
a rivendicarla al cospetto di Dio, come alla fine riconoscerà), persino quando questa
rettitudine si mostra incapace di salvarlo dalla completa rovina e sembra non
ottenere alcun riconoscimento dal Signore. Aggiungo, infine, che neanche per un
attimo Giobbe è tentato dall’apostasia: è proprio la sua protesta, che pure si
rivelerà infondata, che lo mantiene comunque in relazione con Dio. In tal modo,
la prova è superata e il disegno di Satana fallisce.
2) La tentazione che ha origine dalla propria
concupiscenza
In altri casi, la Scrittura individua
chiaramente nella concupiscenza dell’uomo l’origine della tentazione:
Nessuno,
quand'è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato
dal male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla
propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza, quando
ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce
la morte. (Giacomo, 1, 13-15)
Anche qui, premetto alcune brevi note lessicali, che mi sembrano
indispensabili ad evitare i fraintendimenti della coscienza moderna.
Anzitutto, il verbo che viene qui tradotto con “tentare” è anche in questo
caso peir£zw, che significa soprattutto provare, mettere alla prova ed è la trasposizione
nel NT del nisah ebraico (il verbo della “prova” di Abramo). Quanto alla “concupiscenza”,
il sostantivo greco è ™piqum…a che indica, nel greco neotestamentario, non un qualsiasi desiderio e un
semplice desiderio, ma un desiderio ardente, una brama che soggioga e crea
dipendenza (e qui è efficace la traduzione latina con il verbo concupio) e, specificamente, il
desiderio di ciò che è stato proibito da Dio ed è dunque peccato. E’ il
desiderio che condanna il primo uomo e la prima donna, in definitiva.
Tornando al discorso di Bonhoeffer, egli sottolinea come riconoscere nella
propria concupiscenza l’origine di questo tipo di tentazione è di vitale
importanza per non gettare la colpa sugli altri uomini e per non addossarla,
peggio ancora, a Dio. E’ altrettanto importante distinguere questa tentazione
da quella di cui abbiamo parlato prima, dalla tentazione “diabolica”: in quel
caso doveva diventare chiara l’oggettività
della tentazione, qui invece deve emergere inequivocabilmente la sua soggettività.
Infine, va chiarito che neanche la concupiscenza rende di per sé peccatori:
essa, come dice Giacomo, deve “concepire” per poter partorire il peccato. E la
concupiscenza, specifica Bonhoeffer, concepisce e partorisce il peccato, quando
si congiunge al mio io, ossia quando io abbandono la Parola di Dio per unirmi
soltanto alla concupiscenza. Proprio per questo l’origine del peccato, in
questa forma di tentazione, è solo in me stesso.
3) La tentazione di cui Dio stesso è autore.
Questo è sicuramente il caso più difficile. Giacomo, come si è visto, dice
che Dio non tenta nessuno, ma, d’altra parte, la Scrittura conosce numerosi
casi di personaggi tentati da Dio e lo stesso Israele è oggetto di simili
tentazioni. Anche nel NT la tentazione è talora vista come un giudizio di Dio.
Qui Bonhoeffer cita 1 Pt 4,11.17, ma
a me pare che, proprio alla luce di questo passo, si possa attribuire a Dio
anche la “prova” della fede di cui si parla nel bellissimo brano che troviamo all’inizio
della medesima lettera:
Perciò
voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da
svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben
più preziosa dell'oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia
motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù
Cristo. (1 Pt, 1, 6-7)
Perché è necessario riconoscere Dio come autore della tentazione? La
Scrittura, dice Bonhoeffer, vuol farci capire che “sulla terra nulla accade
senza la volontà e il permesso di Dio”. Anche Satana è nelle mani di Dio e, credendo
di perseguire i suoi scopi, è in realtà costretto a servirlo. Egli ha potere
solo lì dove Dio glielo concede: per tentare Giobbe, Satana è costretto a
chiedere il permesso di Dio!
Bonhoeffer non sfugge a quella che egli definisce “la domanda dei bambini”:
“Perché Dio semplicemente non annienta Satana?”. E’ un po’ strano, in verità,
che qui Bonhoeffer definisca così una domanda che in fin dei conti è
ascrivibile alla grande questione della teodicea. La sua risposta, comunque, è
che Dio dà spazio a Satana, a motivo del
peccato degli uomini. Satana deve eseguire la condanna a morte del
peccatore, perché solo se il peccatore muore, il giusto può vivere, solo se l’uomo
vecchio si dissolve, può sorgere l’uomo nuovo. Così Satana è involontariamente
costretto ad assecondare il piano redentore di Dio.
Prima di continuare a seguire il ragionamento di Bonhoeffer desidero
chiarire che la sua risposta, a mio avviso, non esaurisce certo la questione
della teodicea – sul problema del male ritengo che la più profonda e
convincente riflessione sia quella di Barth, in un capitolo della sua Kirchliche Dogmatik, (KD, III, 3, 50),
che è stato estrapolato e pubblicato da Morcelliana, con il titolo Dio e il Niente) – ma è senz’altro
pertinente al discorso sulla tentazione che si sta svolgendo.
Nella Bibbia si afferma esplicitamente che Dio abbandona l’uomo per
tentarlo, mettendone alla prova il cuore (2
Cr 32,31). Nella tentazione, si rivela il cuore dell’uomo ed egli riconosce
il peccato che, senza la tentazione, non avrebbe potuto riconoscere. Ma proprio
il peccato divenuto manifesto può essere ora confessato e perdonato. La
manifestazione del peccato fa dunque parte del disegno salvifico.
Qui mi pare che Bonhoeffer tocchi un punto cruciale e di estrema attualità
nella vita dei cristiani e delle chiese: se non si riconosce e non si manifesta
il peccato, non si può neanche annunciare la grazia e il perdono di Dio. L’annuncio
della grazia, senza il riconoscimento del peccato, è proclamazione di quella
che Bonhoeffer altrove definisce come una “grazia a buon mercato” ed è un
travisamento del Vangelo, esattamente come potrebbe esserlo il giudizio sul
peccato che dimenticasse di precisare subito che il peccato è sconfitto ed è perdonato
in Cristo. La chiesa, questo, deve sempre lasciarselo ricordare di nuovo.
In sostanza, Dio è autore della tentazione, non direttamente, ma attraverso
lo spazio che concede a Satana e questa concessione è funzionale, in realtà, al
suo piano salvifico. Come si è visto, Dio lascia che Satana manifesti il
peccato dell’uomo, non per condannarlo, ma per salvarlo.
Dio, inoltre, lascia che Satana colpisca l’uomo nella carne, lo privi di
ogni cosa, non per perderlo, ma perché l’uomo si consegni nudo e inerme nelle
mani del suo Creatore e si affidi soltanto a lui. In tal senso, aggiungo, la
tentazione è una “prova” della fede, come abbiamo letto nella prima lettera di
Pietro: quando l’uomo non ha più lo schermo dei beni mondani tra se stesso e
Dio non può che allontanarsi definitivamente da Lui, mostrando che ciò che
chiamava fede in Dio era in realtà attaccamento ai beni del mondo, o può,
invece, affidarsi completamente al Signore. “Dove l’uomo perde tutto”, scrive
Bonhoeffer, “dove l’inferno manifesta apertamente i suoi orrori, per il
credente comincia la vita”. Queste frasi suonano profetiche: il teologo, come è
noto, sarebbe stato costretto a saggiare su se stesso questa verità, resistendo
all’ultima tentazione diabolica e lasciandoci, secondo una testimonianza,
queste ultime parole, prima di salire sul patibolo: “E’ la fine. Per me è l’inizio
della vita”.
Nella tentazione concreta del cristiano si tratta sempre di distinguere la
mano di Satana dalla mano di Dio e di usare al posto e nel momento giusto la resistenza e la sottomissione: la resistenza contro il diavolo, la totale
sottomissione alla mano di Dio.
Questo dato ulteriore va specificato, ricordando che tutte le tentazioni
dei credenti sono tentazioni di Cristo che è in loro, e dunque vanno comprese
in analogia alla tentazione di Cristo.
Di ciò parleremo nella terza e ultima parte.