Veniamo al
problema, centralissimo, del "consenso" allo Stato islamico. Infatti,
come i precedenti e funestissimi regimi totalitari, anche l'IS non si regge
solo sul terrore e la violenza. E' evidente che il consenso di cui si parla è
ampiamente e spesso totalmente manipolato dal condizionamento propagandistico,
dalla pressione sociale e dallo stesso terrore. Questo però nulla toglie ed
anzi molto aggiunge alla sua efficacia come strumento di sostegno e di potenza
dell'IS. È opportuno qui distinguere, esattamente come nel caso del fascismo e
del nazismo, tra il consenso di quella limitata ma assai significativa percentuale
di veri e propri militanti, ossia i jihadisti propriamente detti, e il consenso
più o meno diretto, più o meno esplicito, ma altrettanto decisivo, di un'area
ben più vasta della popolazione musulmana. Renzo De Felice, il noto storico del
fascismo, parlerebbe rispettivamente di
"consenso attivo", nel primo caso, e di "consenso passivo",
nel secondo. La terminologia non è forse felicissima, ma la distinzione resta
importante.
La psicologia e
l'antropologia dei jihadisti - partiamo quindi dall'area del "consenso
attivo", resta largamente misteriosa, ma non del tutto indecifrabile.
Propongo di utilizzare in questo caso la brillante analisi di Hannah Arendt
svolta ne Le origini del totalitarismo. La
Arendt partiva dal fenomeno della disintegrazione e dell'atomizzazione che
caratterizzano la società di massa novecentesca. Risultano distrutte le
tradizionali relazioni comunitarie, personali e dirette, in favore di moderni
rapporti sociali, impersonali e indiretti, che però non includono ancora ampi
strati sociali. Si può dire, utilizzando stavolta le note categorie di un
classico della sociologia, quello di Tonnies (Gemeinschaft
und Gesellschaf, 1887), che molti
individui risultano sradicati dalla Gemeinschaft
(comunità), senza ancora integrarsi nella Gesellschaft (società). E' il tipo dell'uomo-massa, come lo chiama
la Arendt, isolato da ogni relazione sociale istituzionalizzata o formalizzata
e da ogni appartenenza di gruppo: non è iscritto a partiti o a sindacati e
neanche a società, organizzazioni, club di altro tipo (professionale,
ricreativo, solidaristico, spirituale), ove si condividano idee o interessi.
Nell'uomo- massa, disdegnato dalle organizzazioni politiche e sindacali moderne
prime fra tutte quelle della sinistra, i regimi totalitari, e soprattutto il
nazismo, seppero invece vedere una formidabile e ampissima base di proselitismo
e reclutamento. I totalitarismi - ieri il fascismo, oggi lo Stato islamico -
offrono a questa massa sradicata un fortissimo legame comunitario, imperniato,
come si è visto, su una ideologia totalizzante, un organizzazione militare o
militaresca, un leader carismatico, una pianificazione capillare della propria
esistenza che abbatte anche il confine tra pubblico e privato.
Questa analisi, qui
solo rapidamente accennata, è utile a mio avviso a comprendere almeno il
contesto iniziale di reclutamento, o
come si ama dire di "radicalizzazione", dei giovani jihadisti. Il
modello interpretativo ha tra l’altro il merito di spiegare come mai il
proselitismo dell'Is sembri riscuotere i
maggiori successi tra individui residenti nei paesi dell'Europa
occidentale, spesso immigrati di seconda generazione. Sono proprio questi,
infatti, che si trovano nel limbo di quella situazione di sradicamento dalle
tradizionali relazioni comunitarie e di non integrazione nelle relazioni
sociali del paese d'adozione. È su di loro che agisce più potentemente il
richiamo dell'integrazione comunitaria islamista. Questa, sia chiaro, non è la
"causa" della loro scelta jihadista, ma il terreno e il contesto su
cui e in cui essa avviene. Confondere il contesto e le condizioni con la causa
è un grave errore concettuale, che non solo pregiudica la corretta analisi del
fenomeno, ma apre la porta a più o meno latenti teorie
"giustificazioniste" e vittimistiche. Va anche precisato che lo
sradicamento di cui qui si parla non necessariamente coincide con uno stato di
povertà o di emarginazione sociale conclamata. Spesso anzi si tratta di persone
con un reddito dignitoso e talora con un titolo di studio e un lavoro. Inoltre,
lo specifico - tragico - della massa militante dello Stato islamico, rispetto a
quella dei precedenti totalitarismi, è la disponibilità a
"sacrificarsi" per la causa, non se e quando le circostanze esterne
lo richiedessero, ma in modo deliberato e pianificato. Da qui le azioni
suicide. Questa specificità dipende dalla particolare ideologia che è alla base
del totalitarismo islamico. Ancora una volta, il fattore religioso si rivela
quindi determinante.
Passiamo ora al
secondo livello del consenso, quello non attivo, non militante, non fanatico,
ma che coinvolge un’area molto più vasta della popolazione. Questo secondo
livello è decisivo: un regime totalitario non sopravvivrebbe a lungo se dovesse
fondarsi solo sul terrore e la repressione violenta, ma nemmeno potrebbe
reggersi sul consenso della sola e ristretta base militante. Il sostegno di
questa ben più ampia area della popolazione, una sorta di “palude” o zona
grigia, ha però tratti ben diversi: è sfaccettato, per certi versi ambiguo, ha
elementi contraddittori ed è certamente meno solido rispetto al consenso
militante. Di solito dura finché dura il successo del regime. Esso però è
essenziale alla politica del regime e all’azione dell’area militante: la
metafora dei pesci che hanno bisogno dell’acqua per nuotare – anche se l’acqua
è la condizione, ma non la causa efficiente del loro movimento – è molto efficace
e torneremo ad utilizzarla a breve.
Le forme in cui si
manifesta pubblicamente questo consenso, chiamiamolo pure “passivo” in mancanza
di una migliore terminologia, sono assai varie: si va dalle manifestazioni di
giubilo per gli attentati di Parigi, che abbiamo rivisto nelle città
palestinesi a lugubre ripetizione di analoghe manifestazioni seguite all’11
settembre 2001, alla reticenza assoluta a prendere qualunque posizione, ad una
condanna generica del terrorismo, ma con la precisazione che l’islam non ha
niente a che vedere con esso.
Per capire meglio,
è forse utile il riferimento ad una situazione storica che ci è meglio nota,
quella del regime fascista. Durante il Ventennio, i fascisti convinti, i veri e
propri attivisti erano certamente una ristretta minoranza, così come una
piccola minoranza erano gli antifascisti convinti e militanti. In mezzo, la
gran parte della popolazione non era certo antifascista – ci riferiamo al
periodo che precedette la guerra e alla primissima fase di questa – ma neanche
si poteva definire fascista, in quanto condivideva in modo convinto soltanto
alcuni elementi della politica e dell’ideologia fascista, era disincantata su
altre cose e perfino diffidente o silenziosamente avversa ad altre ancora. Una
situazione analoga mi pare che si possa fondatamente ipotizzare nei rapporti
fra le masse islamiche e l’Is, certamente riguardo alla popolazione che vive
nei territori direttamente controllati da questo, ma anche per una parte
rilevantissima degli altri musulmani, quelli che vivono in altri paesi arabi e
in Europa.
Va notato che
questa area del “consenso passivo” è un’area per definizione “moderata”: erano
moderati, infatti, gli italiani di cui parlavamo, quelli che non erano né
antifascisti, né propriamente fascisti. Da ciò si capisce che è proprio un non
senso la contrapposizione fra il jihadismo e il cosiddetto islam moderato, in
quanto quest’ultimo, nella misura in cui esiste, può in buona parte ricadere in
quell’area grigia che, sia pure in modo parziale, passivo, indiretto e ambiguo
fornisce un supporto allo Stato islamico e
alle sue iniziative criminali.
Gli elementi strutturali
del consenso allo Stato islamico in questa area del consenso passivo sono
sicuramente molteplici. Vorrei limitarmi a sottolinearne tre, forse i più
misconosciuti dall’opinione pubblica occidentale. Il primo, che riguarda le
popolazioni islamiche che vivono in territori controllati dall’Is, è quella
sorta di welfare state di cui si parlava nel precedente articolo: l’Is provvede
a bisogni essenziali della popolazione, in aree che hanno conosciuto parecchi
anni di devastazione della vita civile.
Il secondo elemento
è l’uso del terrore, delle esecuzioni capitali e degli attentati, non solo a
fine repressivo o militare, ma anche a scopo propagandistico e di proselitismo:
i filmati sugli sgozzamenti così come gli attacchi terroristici di Parigi hanno
purtroppo questa duplice valenza. Il tragico messaggio non è rivolto solo a noi
occidentali, ma anche ai musulmani e tende ad essere in direzione di questi
ultimi una rassicurante esibizione di potenza e un elemento di galvanizzazione,
di mobilitazione e persino di riscatto.
Il terzo elemento è
la proclamazione del califfato e agisce su tutto il mondo islamico, in special
modo arabo, ben oltre gli incerti e mutevoli confini dello Stato islamico. Si
questo terzo punto il discorso deve essere necessariamente un po’ più
articolato.
Noi occidentali non
riusciamo a capire che cosa significhi per un arabo la rinascita di questa
istituzione e tendiamo a ridurre ad una iniziativa propagandistica o
addirittura meramente folkloristica l’annuncio di Al-Baghdadi del giugno 2014.
E’ un altro grave errore di sottovalutazione.
Il califfato – mi
scuso con chi troverà scontate queste scarne annotazioni – è un mito fondativo
che ha però una solida base storica. L’istituzione risale al periodo
immediatamente successivo alla morte di Maometto; califfo fu già proclamato il
primo successore del Profeta e la parola araba del resto significa proprio
successore o luogotenente: successore di Maometto, ma anche e soprattutto luogotenente
e rappresentante di Allah in terra. Il califfato rappresenta la umma, ossia l’unità politica della
comunità islamica. Esso passa attraverso le dinastie degli Omayyadi e degli
Abbasidi per poi restare saldamente nella mani del Sultano turco, fino al
crollo definitivo dell’Impero Ottomano, che segnerà, nel 1924, l’abolizione
della plurisecolare istituzione. La
delusione storica è cocente, non solo per le masse islamiche turche, ma anche e
soprattutto per quelle arabe, che si erano illuse di riprendere nelle loro mani
il califfato (e la politica britannica durante la Grande Guerra, per fomentare
la rivolta araba contro gli Ottomani, aveva alimentato questa loro illusione).
E’ proprio come reazione a questa delusione che nasce il primo gruppo
fondamentalista dell’epoca contemporanea – i Fratelli musulmani, in Egitto– il
quale si propone proprio la restaurazione del califfato. L’indipendenza presto
raggiunta dagli stati arabi e poi l’affermazione del nazionalismo laico e
modernizzante sembravano però aver definitivamente relegato nella soffitta
della storia questi sogni di restaurazione. Essi cominciano a riprendere una
qualche consistenza con Al Qaeda: l’idea che Bin Laden punti a una tale
restaurazione comincia ad essere profilata, ma pare smentita da quelle poche
notizie attendibili e dalle valutazioni che si possono fare dei suoi probabili
progetti. Bin Laden mira essenzialmente a un rovesciamento dei regimi arabi
moderati, a cominciare da quello del suo paese, l’Arabia Saudita. L’attacco
all’Occidente in fondo non è il fine, ma il mezzo per raggiungere questo
obiettivo e solo ad obiettivo raggiunto, eventualmente, si potrebbe ipotizzare per
lui la proclamazione del Califfato. Bin Laden, alla fine, è un fanatico
estremista riguardo ai mezzi utilizzati nella sua lotta politica, ma ha
obiettivi circoscritti e una strategia che prevede una gradualità nell’azione e
anche una certa prudenza e accortezza (abbiamo accennato al rifiuto di
attaccare gli sciiti), che sono quasi da leader secolarizzato. L’Is ha invece
un progetto totalitario di dominio globale: la successione dei vari passaggi si
inverte e la proclamazione del califfato diventa la prima e non l’ultima tappa.
Nel contempo, la
visione propagandistica dell’Is è decisamente superiore a quella di Al Qaeda:
il semplice annuncio della rinascita del califfato ha un fortissimo impatto
sulle masse arabe, come racconta egregiamente Maurizio Molinari.
Un quarto fattore
di consenso, questo invece notissimo in Occidente ed anzi rilanciato da settori
della stessa opinione pubblica occidentale, ma catastroficamente equivocato, è
il risentimento contro le reali o presunte colpe dell’Occidente stesso, in
quello che si potrebbe definire un processo di vittimizzazione delle masse
arabe. Questo processo è sicuramente un potente fattore di consenso e di mobilitazione
ed è forse il più rilevante elemento dello stesso “consenso passivo”:
tantissimi musulmani, singolarmente presi del tutto pacifici, sono riluttanti a
condannare il terrorismo o lo fanno in modo reticente e con mille riserve,
proprio perché ritengono che esso sia una risposta, magari sbagliata, ai
soprusi subiti. L’equivoco catastrofico di tanti occidentali sta però nel non
capire che si tratta di una ricostruzione mitologica a uso propagandistico,
perché, sebbene le vecchie potenze coloniali e gli USA abbiano gravi
responsabilità nella gestione della situazione mediorientale ed abbiano
commesso pesanti errori, queste responsabilità e questi errori non sono
all’origine dell’integralismo islamico e tantomeno del jihadismo – che partono
principalmente da fattori endogeni alle società arabe - ma hanno solo contribuito ad alimentarlo e a
diffonderlo. Questo non serve ad assolvere dai loro errori i governi
occidentali, ma dovrebbe servire a prevenirne altri di errori: una diagnosi
errata porta fatalmente a una terapia inefficace se non dannosa.
Il processo di
vittimizzazione delle masse islamiche va piuttosto visto come una costruzione
ideologica, fondata certamente su alcuni dati storicamente reali che vengono
però ampiamente manipolati, di cui si servono i leader e i predicatori
islamisti a fine propagandistico. Ha la stessa funzione che ebbero, nel
fascismo e nel nazismo, la denuncia del pericolo (inesistente) di una imminente
rivoluzione bolscevica da cui fascismo e nazismo avrebbero salvato i rispettivi
paesi, o l’enfasi del nazionalismo italiano sui presunti soprusi subiti alla
fine della Grande guerra (il mito della “vittoria mutilata”), per non parlare
del famigerato complotto giudaico o “pluto-giudaico-massonico”. Prendere integralmente
per buona la costruzione ideologica che alimenta il jihadismo e addirittura rilanciarla
è forse la più tragica manifestazione dell’instupidimento collettivo
dell’Occidente.
Questo abbozzo di
analisi, dovrebbe portare ad alcune immediate conseguenze pratiche. Anzitutto,
permette di comprendere molto meglio la natura dello Stato islamico e dunque i
suoi reali obiettivi. La restaurazione del Califfato ha come primissimo scopo
la reintegrazione della umma nei suoi
confini storici. Essa si articolava in tre macro-regioni: lo Sham (Levante), che comprendeva l’area
mesopotamica attuale Iraq e gli attuali territori di Giordania, Siria, Libano,
Palestina, Israele; il Maghreb (Nord-Africa),
dall’Egitto al Marocco, con i territori conquistati sull’altra sponda del
Mediterraneo (Sicilia, penisola iberica…); l’Hegiaz (penisola arabica).
Di conseguenza, il
neo-proclamato califfato rinnega i confini venuti fuori dalla dissoluzione
dell’Impero Ottomano e dalla decolonizzazione in Africa e intende restaurare
questa articolazione della umma. Il
primo passo è stato proprio la costituzione dell’Isis (acronimo di “Stato
islamico del Levante). Era quindi
prevedibile che dal nucleo originario in Iraq, l’Is, approfittando della guerra
civile, si espandesse in Siria, ed è altrettanto prevedibile che esso
utilizzerà ogni occasione favorevole, magari creata improvvidamente dalle
potenze occidentali, per espandersi nelle altre regioni dello Sham (tra le quali, piccolo particolare,
c’è anche Israele).
Altrettanto
prevedibile era l’espansione nel Maghreb:
l’Egitto è stato aggirato, salvo la penisola del Sinai che è stata solidamente
occupata, in quanto è forse l’unico paese arabo seriamente impegnato a
fronteggiare la minaccia – dopo il fallimento della “primavera araba” e la
liquidazione del governo islamista dei “Fratelli musulmani”; l’Is è così sbarcato
in Libia. Non si riesce a immaginare un esito più scontato, eppure dopo la
disastrosa operazione contro il regime di Gheddafi, non si è fatto nulla per
evitarlo. L’Hegiaz per il momento non
viene toccato, se non altro perché da qui provengono i finanziamenti al
Califfato.
Il progetto
espansionistico dello Stato islamico non si limita a questo, purtroppo, data la
sua essenza totalitaria sulla base dell’ideologia coranica. Tale ideologia
coranica divide il mondo in due: dar
al-islam, casa dell’islam, che coincide con la umma, e dar al-harb, casa della guerra, che è il territorio abitato e
governato dagli “infedeli”. Il progetto è totalitario e globale perché prevede
esplicitamente la progressiva conquista della “casa della guerra”, ossia delle
nostre nazioni e delle nostre città. E’ totalitario perché non punta solo, e
neanche in primo luogo, al dominio politico e militare, ma alla islamizzazione
della società e delle coscienze, con la repressione e sottomissione o
l’eliminazione fisica di ogni diversità culturale e religiosa, e l’estensione
della sharia al mondo intero. Quali
siano le effettive possibilità di realizzazione del progetto non è il primo
punto da discutere, come non era il primo punto da discutere la possibilità
concreta di realizzazione del sogno di dominio planetario del Terzo Reich. Il
primo punto è la presa di coscienza del reale proposito dello Stato islamico.
Un proposito che è già in atto, tragicamente, nei territori controllati, ove è
in atto la pulizia etnica delle minoranze considerate idolatre e la
persecuzione dei cristiani: va precisato che il regime del dhimmi, a cui sono sottoposti per esempio i cristiani caldei,
poteva essere relativamente tollerante nel Medioevo, ma va oggi considerato una
vera e propria persecuzione religiosa: chi non vuole o non può pagare la tassa
può solo scegliere tra la fuga e il martirio. Chi paga la tassa vede limitate
comunque quelle libertà e quei diritti che la nostra civiltà considera
inviolabili, compresa la libertà religiosa: le chiese distrutte non si possono
ricostruire, non se ne possono costruire di nuove e quelle esistenti non
possono essere ampliate o ristrutturate; il culto non può essere pubblico, ma è
di fatto semiclandestino, non si può svolgere alcuna attività di evangelizzazione.
Il fatto che le
chiese cristiane occidentali parlino così poco di questa persecuzione ai danni
dei cristiani del Medio Oriente – ove sono alcune delle comunità più antiche
del cristianesimo – mentre denuncino di continuo il presunto pericolo dell’islamofobia
nelle nostre società tolleranti e nel nostro stato di diritto, merita una sola
parola di commento: indecente.
Va poi sottolineato
con forza che oggi, diversamente dai secoli scorsi, la umma è diffusa anche nella “casa della guerra”, ossia in mezzo a
noi, e l’operazione di conquista totalitaria si serve di essa, puntando a
trasformare gli immigrati islamici in reclute del terrorismo jihadista o
comunque suoi collaboratori. Non prendere atto di questo disegno, nemmeno dopo
i tragici attentati di Parigi, è davvero sconcertante. Occorre anche registrare
il fatto che almeno tre dei nove attentatori di Parigi hanno seguito la rotta
dei migranti lungo la Turchia, la Grecia e i Balcani, rotta che si è aperta
questa estate, e si può facilmente ipotizzare che lo Stato islamico abbia
contribuito a dirottare il flusso dei migranti su quella via e ad enfatizzare strumentalmente
l’emergenza stessa, con la complicità di sicuro di tutte le mafie che lucrano
sui migranti. La presa d’atto non può portare a reazioni semplicistiche – né
l’impossibile chiusura delle frontiere alla Salvini, né l’accoglienza “senza se
e senza ma” della Boldrini – ma richiede risposte serie.
La seconda
conseguenza pratica di questo abbozzo di analisi riguarda il problema del
consenso all’islamismo jihadista. Occorre certamente agire sull’area del
consenso attivo e militante, cosa che si fa ancora poco e male, ma occorre
anche porsi il problema della ben più vasta area del consenso “passivo”, cosa
che invece non si fa per nulla, continuando a negare e ad esorcizzare il
problema dietro lo schermo di slogan e formulette retoriche. Ne è un buon
esempio il caso delle manifestazioni islamiche contro il terrorismo dell’altro
giorno. Annunciate e presentate come la dimostrazione che l’islam non ha niente
a che vedere con il terrorismo e che la stragrande maggioranza degli islamici
che vivono in Italia, per non dire la quasi totalità, non sono neanche
minimamente coinvolti nel retroterra del jihadismo, hanno avuto un esito a dir
poco sconfortante: meno di 1000 persone a Roma, meno di 400 a Milano (su quasi
2 milioni di musulmani che vivono in Italia) e in questi numeri sono compresi
parecchi militanti dell'estrema sinistra italiana scesi in piazza per
denunciare non il terrorismo ma la vendita delle armi e magari l’imperialismo
occidentale e “sionista”, nonché gli amici del deputato PD marocchino che ha
fatto il suo comizio e un manipolo di politici e sindacalisti in cerca di
visibilità e consensi (da Fassina a Casini alla Camusso). Slogan prevedibili,
retorici e inutili: "no al terrorismo; l'"islam è pace";
"no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre
contemporaneamente venivano accoltellati altri cittadini israeliani, intenti ad
aspettare un bus o a pregare, smentivano in diretta gli stessi slogan. Due
ragazzine col velo – la foto è stata riportata da tutti i giornali e siti web –
imbracciavano un cartello con su scritto “not in my name”, ma una delle due
indossava una maglietta inneggiante all’Intifada e ad Hamas. Il sorriso
sornione stampato sui loro volti diceva tutto.
Ma soprattutto, da
queste manifestazioni e dalle dichiarazioni degli esponenti islamici dopo le
stragi di Parigi non è giunto alcun aiuto a capire la genesi del fenomeno dall’interno
dell’islam stesso, che è un fatto indubitabile. Neanche una Rossana Rossanda
islamica che abbia perlomeno riconosciuto che i terroristi “fanno parte del
nostro album di famiglia”.
Una sola denuncia
di una cellula o di un singolo militante jihadista da parte di qualche membro
della comunità islamica – una sola
denuncia – sarebbe molto più eloquente di altre mille manifestazioni come
quelle di sabato scorso nel dare sostanza a quegli slogan. Ma questa denuncia,
purtroppo, non mi risulta che ci sia ancora mai stata.
Quando ancora si
ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere
l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i
pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano, e nessuno a quanto pare ha
voglia di toglierla. Anzi, non ci si pone neanche il problema, il che è ancora
più preoccupante. Casini). Slogan
prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è
pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che
mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in
diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per
sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i
pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e'
tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla. Casini). Slogan
prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è
pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che
mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in
diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per
sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i
pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e'
tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla.