giovedì 10 dicembre 2015

RAV LARAS: UN PUNTO DI VISTA BIBLICO SUL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA



Il rabbino Giuseppe Laras - presidente dell’assemblea rabbinica italiana, per 25 anni a capo della comunità ebraica milanese e figura-chiave del dialogo ebraico-cristiano - è stato intervistato ieri dal giornale “La Stampa” sul giubileo cattolico appena apertosi. Al giornalista che gli chiedeva se la misericordia non fosse più importante del giudizio, citando le parole del papa – “anteporre la misericordia al giudizio” – rav Laras ha risposto che misericordia e giudizio devono essere “contestuali”. La giustizia “deve partire da una posizione di rispetto e di benevolenza”, per non rischiare di risolversi in “espressione di vendetta, violenza e odio”, D’altra parte, la misericordia “non può prescindere dalla giustizia, perché se non siamo giusti con noi e con gli altri, una società si può ammalare”. Rav Laras sottolinea anche come non abbia alcun fondamento l’idea di un ebraismo tutto incentrato sulla giustizia e poco sull’amore e ricorda che la massima “amerai il prossimo come te stesso” si trova nella Torah prima che nei Vangeli.
Non ci sono allora differenze fra ebraismo e cristianesimo – o forse sarebbe meglio dire fra la Torah, che poi è il Pentateuco delle Bibbie cristiane, e il Nuovo Testamento - riguardo al rapporto fra giustizia e misericordia? Karl Barth, in quella luminosissima opera che è “Introduzione alla teologia evangelica”, parlava di giustizia e misericordia - “Legge” ed “Evangelo”, secondo l’espressione cara ai Riformatori - come del “no” e del “si” di Dio agli uomini. E le paragonava alla “luce” e all’”ombra”. Sono quindi necessarie entrambe le cose, perché evidentemente se c’è luce, c’è anche l’ombra, ma la luce e l’ombra, il si e il no di Dio  non stanno in equilibrio, ma piuttosto “in un sommo squilibrio” e “la teologia non può vedere la luce all’interno dell’ombra invece che l’ombra all’interno della luce”.
Fra le frasi di Barth e quelle di Laras non mi pare che ci sia una differenza di sostanza, ma al massimo di accentuazione (e tali accentuazioni dipendono forse anche dai periodi storici ben diversi in cui sono state pensate ed espresse: i primi anni Sessanta e i giorni d’oggi). Anche e soprattutto la Bibbia ebraica conosce infatti questa somma sproporzione fra giustizia e misericordia. La conosce e la esprime nella Torah, a cominciare dalle tavole della Legge date a Mosè sul Sinai, le dieci parole di Dio, i dieci comandamenti dei catechismi cristiani: “Non avere altri dèi oltre a me. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra.  Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”. Il giudizio di Dio è fino alla terza e quarta generazione, la sua misericordia fino alla millesima. I numeri, che nella Bibbia ebraica hanno spesso una forte valenza simbolica, vogliono qui esprimere proprio quel “sommo squilibrio” di cui parlava Barth.
La Bibbia ebraica conosce ed esprime la somma sproporzione fra giudizio e misericordia anche nei Profeti – come è ovvio visto che i profeti richiamano il popolo all’osservanza della Torah -  ove si mostra ripetutamente come il giudizio nei confronti di Israele, per quanto severissimo, sia sempre in funzione della salvezza e della benedizione e quindi della misericordia.
Analogamente, nel Nuovo Testamento, la parola d’amore di Dio presuppone sempre la parola di giudizio, sebbene la sopravanzi grandemente, e questo sia nella predicazione dello stesso Gesù, sia soprattutto nell’azione che Dio compie su, in e con Gesù stesso, a favore degli uomini, fino al momento culminante della croce e della resurrezione.
Le parole di rav Laras, devono quindi essere considerate, a mio modestissimo avviso, non solo un “punto di vista ebraico” sul giubileo della misericordia e sul rapporto giustizia/misericordia, ma un punto di vista semplicemente e autenticamente biblico, che interpella i cristiani non solo in quanto affratellati agli ebrei, ma anche in quanto cristiani. Le parole di rav Laras hanno forse il merito di ricordarci che la giusta accentuazione della misericordia e dell’amore di Dio non può portarci a reprimere ogni istanza critica, né a dimenticare o a rimuovere la realtà del peccato. Laras chiarisce, infatti, che per giustizia non si deve intendere solo “condanna”, ma anche capacità di dare un giudizio. Non è biblico, e dunque non è nemmeno cristiano, confondere giustizia come condanna e giustizia come capacità di dare un giudizio e attaccare, come spesso fanno  i santoni del politically correct purtroppo presenti anche nel mondo cristiano, chiunque formuli un giudizio critico su determinati temi, facendolo passare per uno che emette sentenze di condanna. Inoltre, rav Laras ci ricorda che “non si può, insomma, semplicemente amare con pietà senza dire all’altro se sbaglia o se ha peccato”, interpellandoci così su un altro grave rischio che corriamo, un’altra possibile e catastrofica infedeltà alla Bibbia: trasformare l’annuncio della giustificazione del peccatore in un annuncio di giustificazione del peccato.

sabato 5 dicembre 2015

"QUI DINANZI A NOI CI SONO DEI FASCISTI..."



In attesa  di riprendere, a breve, l’ abbozzo di analisi dello Stato totalitario islamico, ecco una selezione di fatti significativi degli ultimi giorni.
Giovedi sera mi è capitato di ascoltare da un tg le prime informazioni sulla strage di San Bernardino. Ebbene, la leggiadra giornalista ha usato un double standard veramente emblematico della nostra tristissima condizione culturale. Ha riferito che le indagini seguivano due piste, ma la prima – ha detto – era da prendere con ogni cautela, con beneficio di inventario. E questo lo ha ripetuto tre volte, prima di informarci finalmente sul sospetto, e quando lo ha fatto, quando ha finalmente detto che si trattava di un arabo, un certo Farouk, lo ha detto con la velocità con cui nella pubblicità dei farmaci e dei prodotti parafarmaceutici si avverte delle possibili conseguenze indesiderate. Poi, con espressione rinfrancata che testimoniava del superamento di un serio imbarazzo, è passata alla seconda pista, quella dei “suprematisti bianchi”; e qui, invece, non si è accontentata di scandire bene e di ripetere tre volte la cosa, ma ha spiegato doviziosamente chi fossero i suprematisti bianchi e di quali crimini si fossero già macchiati. Del resto, la giornalista non faceva altro che riflettere una corrente dominante di pensiero – e vedete dove va a cacciarsi certe volte il “pensiero” – dato che nello stesso stato della California, nella prestigiosa università di Berkeley, ove ebbe inizio quella contestazione studentesca che solo anni dopo giunse a Parigi e in Europa, oggi si organizzano master in islamofobia.
Come ormai tutti sanno, il colpevole era invece proprio Farouk che, con la moglie araba, ha agito in nome e per conto dell’Is, che subito si è attribuito la paternità della strage. Che i due criminali non facessero parte di una cellula organizzata rende solo più inquietante la vicenda, dato che hanno comunque inteso raccogliere un invito che lo Stato islamico ha chiaramente lanciato a tutti i musulmani che vivono “tra gli infedeli”.
La vicenda è significativa anche perché demolisce ancora una volta la narrazione del politicamente corretto. Il killer  era laureato in salute ambientale, lavorava come ispettore nel dipartimento della Sanità locale e guadagnava 71.230 dollari all'anno (facciamo 4500- 5000 euro al mese, all'incirca). Viveva con la moglie, più estremista di lui a quanto pare, e con la loro bambina di soli sei mesi, in una villetta con giardino. La favola bella del terrorismo che nascerebbe da povertà ed emarginazione sociale è ripetutamente smentita dai fatti; eppure non c'è speranza: chi è accecato dal pregiudizio ideologico continuerà a recitarla come un mantra.  
Passiamo invece a due buone notizie: si è almeno un po’ incrinato il muro di reticenza sulla matrice islamica del terrorismo che appariva, e purtroppo ancora appare, così granitico in due diversi campi: quello delle chiese e quello della sedicente e autoproclamata sinistra.
Molto più importante, ovviamente, il primo campo. Ad associare finalmente la parola “terrorismo” all’aggettivo “islamista” pare sia stato il cardinale Scola. La riluttanza delle chiese a riconoscere la matrice islamica del fenomeno è pure comprensibile: si teme di offendere il mondo islamico e di compromettere il dialogo inter-religioso e si teme anche di alimentare reazioni di diffidenza e odio per l’islamico tout court. E tuttavia, se queste pur motivate preoccupazioni continuassero a rendere così timida e talora equivoca la testimonianza delle chiese di fronte all’orrore del jihadismo, le chiese stesse cadrebbero in una gravissima colpa di omissione. Le chiese non hanno solo il compito di prevenire eventuali mali futuri, ma hanno il dovere ancor più stringente di denunciare con parole chiare e forti i mali già in atto, soprattutto se assomigliano inquietantemente a un Male assoluto che abbiamo già sperimentato e di fronte al quale le chiese, con limitate se pur nobilissime eccezioni, hanno taciuto o sono addirittura scese a compromessi. Né l’esistenza, purtroppo ben nota, di altri mali causati dall’uomo, di altre guerre, di altra violenza può indurre a relativizzare il Male assoluto. Tale è infatti un disegno che mira solo al genocidio fisico e culturale di chi non faccia parte della razza ritenuta superiore o della religione ritenuta l’unica veritiera. Speriamo, quindi, che le parole di Scola abbiano aperto una breccia e che sia la chiesa cattolica che le altre chiese continuino a scavare per abbattere un muro di reticenza o almeno di malintesa prudenza, che non ha alcuna giustificazione e che contraddice amaramente l’evangelo.
Certo, non possiamo aspettarci, ahimé, che dalle chiese cristiane giungano parole nette, alte, vigorose come quelle che ha scritto recentemente il rabbino Laras e che voglio ancora ricordare:
L’Europa potrebbe in un futuro risultare inospitale per gli ebrei (in Francia è già realtà). Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti. Se così dovesse essere, l’Europa diverrà un territorio desolato e inospitale per tutti coloro che amano e difendono la propria e l’altrui libertà. E non ci sarà nemmeno spazio per i musulmani onesti e pacifici (ahimé troppo silenti). Per fronteggiare il presente, occorrono saldo spirito razionale, energia e coraggio. L’alternativa è tra libertà e sottomissione (ai Fratelli Musulmani, Hamas, Isis, Al Qaeda, Iran, Hezbollah et similia). Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà.
Circa gli autori dei massacri, i loro compagni e chi applaude loro, come si può pensare che l’Unico e Onnipotente, buono e giusto, tolleri o gradisca questa furia omicida e le sofferenze ingiuste e blasfeme inflitte alle Sue creature?
La sedicente e autoproclamata sinistra italiana, a differenza delle chiese (in qualche caso limitato, tuttavia, i due campi si sovrappongono) non ha invece alcuna motivazione: il suo è solo un tragico regresso culturale e, oserei dire, logico-cognitivo, che è ormai in atto da tempo, e che la spinge ad aderire alla melassa diabetogena del politicamente corretto, sposando le cause più improbabili, dimenticando e contraddicendo senza neanche averne consapevolezza i fondamentali stessi del pensiero marxista o socialdemocratico (accade ad esempio sulla questione dei migranti: a nessuno ormai viene in mente che essi rientrano perfettamente nella dimenticata o rimossa categoria marxiana dell’”esercito industriale di riserva”). E’ quindi sorprendente che proprio sulla rivista d’elezione della autoproclamata elite di questa sedicente sinistra compaia un articolo che, pur con riserve e contraddizioni, comincia a fissare qualche punto di verità. Lo firma Michele Martelli, che dopo aver pagato dazio alla narrazione di maniera - le manifestazioni islamiche dell’altra settimana sarebbero addirittura una svolta e avrebbero segnato una dissociazione netta ed inequivocabile dal terrorismo a smentita della campagna di stampa degli “islamofobi fallaciani” (ecco, non mi resta che fare outing e proclamarmi “islamofobo fallaciano”!) – aggiunge: “l’Islam religione di pace? Il Corano libro di pace? Sì, ma purtroppo anche il contrario”. E’ già qualcosa, rispetto al mantra a senso unico. Ma soprattutto Martelli, pur senza andare molto al di là del titolo dell’argomento, individua il punto cruciale: il rapporto fra l’islam e la laicità:
in che cosa consiste la laicità delle moderne democrazie? In due principî fondamentali e complementari, a cui l’Islam arabo ed extraeuropeo è rimasto quasi ovunque estraneo e/o ostile: a) la separazione tra Stato e religione; b) l’uguaglianza dei diritti umani e civili. Se l’Islam è religione di Stato, unica o privilegiata che sia, è evidente che chi non è musulmano (l’altrimenti credente o il non credente) o non gode della cittadinanza o è un cittadino di serie b; e perciò o è privo di diritti o i suoi diritti sono limitati e ristretti.
Martelli ricorda anche come
la “Carta araba dei diritti dell’uomo” sottoscritta dalla Lega araba nel 2004 e modellata sulla Dichiarazione del 1948 dell’Onu, è rimasta pressoché lettera morta, mera dichiarazione di intenti. Perché? Perché incompatibile con molti aspetti, regole, divieti e prescrizioni della sharia (che prevede l’inferiorità della donna, la lapidazione dell’adultera, la pena di morte per l’apostasia e la blasfemia, la condanna dell’omosessualità, l’esclusione e la repressione del pensiero critico, ecc.).
e conclude:

Molti credenti dell’Islam d’Italia, compresi imam e altre autorità religiose, hanno in questi giorni affermato pubblicamente di essere e sentirsi senza contraddizione musulmani e cittadini laici, rispettosi della Costituzione. Mi chiedo se ciò sia possibile senza dissociarsi dalla lettura, interpretazione e applicazione acritica (e talvolta distorsiva) del Corano e della sharia, che è tipica dell’estremismo terroristico, ma anche dell’integralismo religioso premoderno di tanta parte del mondo musulmano.
Si tratterebbe, però, di stabilire se la lettura del Corano e della sharia del jihadismo sia così “acritica” e “distorsiva”, ma questo non fa altro che ricondurre al tema fondamentale: come disse, dopo i fatti di Parigi di gennaio, il solito rav Laras, la domanda da porre all’islam riguarda il suo rapporto con la laicità e la risposta dovrebbe venire essenzialmente sul piano teologico. Riprendo le parole di allora di Laras, che ho già riportato su questo blog, e che purtroppo sono rimaste in questi mesi del tutto inascoltate, affogate come sono state nella melassa di cui sopra:
è possibile per l’Islàm, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica, anziché quello di cittadinanza religiosa, confliggente quest’ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche, che, in qualità di minoranze sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Se sì, come diffondere questa interpretazione e come radicarla oggi in seno alle comunità islamiche? A questa domanda deve seguire necessariamente la “reciprocità” nei Paesi islamici della piena libertà di espressione, di stampa e di culto.
La notizia più confortante degli ultimi giorni – e volutamente l’ho tenuta per ultima – è però il grande discorso di un esponente del Labour Party. No, non si tratta di Jeremy Corbyn, che l’autoproclamata sinistra nostrana – formata da reduci di tutte le sconfitte – sta cercando da qualche mese di eleggere a nuova icona – dopo la morte di Chavez e il misero fallimento di Tsipras. Si tratta, invece, del Ministro degli Esteri del “governo ombra”, Hilary Benn. Benn, nel recente dibattito sull’adesione britannica alla missione in Siria, ha votato a favore, con altri 66 deputati laburisti. Corbyn, che invece è decisamente contrario, ha cercato inutilmente di evitare che il Ministro degli Esteri del “suo” governo ombra prendesse la parola. Alla fine si è dovuto rassegnare e le parole di Benn – questo il giudizio più diffuso sulla stampa britannica e non – hanno fatto riecheggiare nell’aula di Westminster quelle dei grandi discorsi di Winston Churchill.
Benn ha innanzitutto chiarito la piena legittimità dell’operazione in Siria, in base alle risoluzioni dell’ONU;
C’è una risoluzione dell’Onu chiara e senza ambiguità, la 2249, paragrafo 5, che chiede specificatamente agli stati membri di adottare tutte le misure necessarie per raddoppiare e coordinare gli sforzi in modo da prevenire e sopprimere atti terroristici commessi dallo Stato islamico, e per sradicare le roccaforti che Daesh ha creato in molte parti dell’Iraq e della Siria.
Le Nazioni Unite ci chiedono di fare qualcosa. E ci chiedono di farlo ora. Ci chiedono di operare in Siria come già facciamo in Iraq. E fu un governo laburista che contribuì alla fondazione delle Nazioni Unite alla fine della Seconda guerra mondiale. Perché lo facemmo? Perché volevamo che i paesi di tutto il mondo, lavorando assieme, potessero gestire le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale – e Daesh è senza dubbio questa minaccia.
Visto che le Nazioni Unite hanno adottato questa risoluzione, visto che tale azione sarebbe legale sotto l’articolo 51 dello statuto dell’Onu – perché ogni stato ha il diritto di difendere se stesso – perché non dovremmo seguire la volontà stabilita dall’Onu, soprattutto nel momento in cui c’è un sostegno nella regione, compreso l’Iraq? Siamo parte di una coalizione di 60 paesi che lavorano assieme spalla a spalla per opporsi all’ideologia e alla brutalità di Daesh.
Quindi ha rapidamente, ma molto efficacemente tratteggiato la minaccia barbarica che viene dall’Is/Daesh:
Ora Mr Speaker, nessuno in questo dibattito parlamentare mette in dubbio la minaccia seria di Daesh e delle sue azioni, anche se a volte ci risulta difficile convivere con questa realtà. Sappiamo che in giugno quattro omosessuali sono stati buttati giù dal quinto piano di un palazzo a Deir ez-Zor, in Siria. Sappiamo che in agosto l’ottantaduenne direttore del sito archeologico di Palmira, il professore Khaled al Assad, è stato decapitato, e il suo corpo senza testa è stato appeso a un semaforo. Sappiamo che nelle ultime settimane è stata scoperta una fossa comune a Sinjar, vicino a Mosul, con i corpi delle donne yazide più anziane uccise da Daesh perché erano troppo vecchie per essere vendute come schiave del sesso. Sappiamo che hanno ucciso 30 turisti inglesi in Tunisia, 224 vacanzieri russi su un aereo, 178 persone in attentati suicidi a Beirut, Ankara e Suruç, 130 persone a Parigi compresi i ragazzi al Bataclan che Daesh, per giustificare il massacro sanguinoso, ha definito “infedeli dediti alla prostituzione e al vizio”. Se fosse accaduto qui, quelli sarebbero stati i nostri figli. E sappiamo che Daesh sta organizzando nuovi attacchi.
E quindi la conclusione, memorabile:
Ora Mr Speaker, spero che la Camera mi conceda ancora un attimo, perché vorrei parlare direttamente ai colleghi del mio schieramento. Come partito ci siamo sempre caratterizzati per il nostro internazionalismo. Siamo convinti di avere responsabilità uno verso l’altro. Non abbiamo mai voluto né dovuto andare dall’altra parte della strada.
E qui di fronte a noi ci sono dei fascisti. Non c’è solo la loro brutalità calcolata, ma la loro convinzione di essere superiori a ognuno di noi qui stasera e alle persone che rappresentiamo. Ci disprezzano. Disprezzano i nostri valori. Disprezzano la nostra fiducia nella tolleranza e nella dignità. Disprezzano la nostra democrazia, questi strumenti stessi che usiamo stasera per prendere una decisione. E se c’è una cosa che sappiamo dei fascisti è che devono essere battuti. E’ il motivo per cui questa sera qualcuno ha ricordato che i sindacalisti e altri si unirono alla Brigata internazionale contro Franco negli anni Trenta. E’ il motivo per cui questa intera Camera si oppose a Hitler e a Mussolini. E’ il motivo per cui il nostro partito è sempre stato contro chi nega i diritti umani e la giustizia. E io penso, Mr Speaker, che dobbiamo affrontare questo Male. E’ il momento di fare la nostra parte in Siria. Così chiedo ai miei colleghi di votare per la mozione, questa sera.
Benn si è rivolto direttamente ai suoi colleghi del Labour Party, ma il suo messaggio dovrebbe essere ascoltato da tutti coloro che nel mondo si definiscono di sinistra ed anzi da tutti coloro che si riconoscono nei valori universali di umanità e di civiltà. Vogliamo illuderci che anche i più prevenuti, che anche i più ottenebrati da pregiudizi e luoghi comuni, ascoltino e meditino le sue parole:
“Qui di fronte a noi ci sono dei fascisti… e se una cosa sappiamo dei fascisti è che devono essere battuti… dobbiamo affrontare questo Male”






giovedì 3 dicembre 2015

L'IS A 400 MIGLIA DALLA SICILIA



In attesa di approfondire il discorso sui fattori geopolitici che hanno favorito la nascita e l’ascesa dello Stato islamico e sulle risposte che è quindi possibile dare, un’anticipazione su una questione specifica, ma che ci riguarda molto, ma molto da vicino.

Secondo notizie riportate prima dal New York Times e poi anche da Maurizio Molinari su "La Stampa", lo Stato islamico starebbe rafforzando il suo presidio di Sirte in Libia,  trasferendovi tra l'altro una parte della sua leadership politico-militare. Si tratta, in particolare,  di alcuni colonnelli delle forze armate di Saddam Hussein, tra cui Abu Nabil al-Anbari, comandante nella battaglia di Falluja, una delle rarissime sconfitte militari, forse l'unica, subita dagli americani nella guerra irachena. Questi movimenti, insieme con una campagna propagandistica all'insegna dello slogan "non saremo meno di Raqqa", fanno supporre a fonti dell'intelligence l'intenzione di fare di Sirte una seconda capitale del Califfato.
Certamente ciò è dovuto a elementari ragioni di ordine strategico-militare: la coalizione anti-Isis pare intenzionata a intensificare l'offensiva contro Raqqa, la cui eventuale caduta segnerebbe uno scacco anche simbolicamente significativo per lo Stato islamico. Da qui forse il progetto di costituire a Sirte un secondo centro operativo e direttivo. La storia del Califfato del resto ha conosciuto vari trasferimenti della capitale - da Damasco a Baghdad a Istanbul - e l'Is potrebbe così reagire al possibile smacco militare con una controffensiva anche propagandistica.
D'altra parte, l'articolazione storica del Califfato prevedeva una regione del Maghreb distinta da quella dello Sham (Levante): Sirte diventerebbe dunque la capitale del Maghreb così come Raqqa - o un'altra citta siriana o irachena se Raqqa dovesse cadere - sarebbe capitale dello Sham.
C'è però da chiedersi se alla base del progetto non vi siano altre e più inquietanti motivazioni, come la volontà di costituire una capitale più vicina ai luoghi delle attuali e future offensive strategiche. Il primo di questi luoghi, per vicinanza geografica alla Libia, è la Tunisia. Non è un mistero che, dopo il recente attentato a Tunisi, la propaganda di al-Baghdadi abbia affermato che proprio la Tunisia dovrà essere la prossima conquista.
Il secondo luogo dell'offensiva strategica islamista, in ordine di vicinanza alla Libia, è però, disgraziatamente, l'Europa e più precisamente l'Italia. Sirte si trova a 400 miglia dalla Sicilia e non si tratta neanche solo di Sirte, perché,  come ha ricordato il New York Times, l'Is controlla ormai un tratto di costa, sull'omonimo golfo, di circa 150 miglia. Ciò conferma purtroppo che si preparano altri attentati in Europa,  che stavolta potrebbero avvenire anche nel nostro paese. Non può sfuggire la sincronia tra queste manovre dello Stato islamico e l'apertura del giubileo di papa Francesco. Un'azione terroristica a Roma, nel corso dell'anno santo, sarebbe per l'Is un successo simbolico ben più clamoroso degli stessi tragici attentati di Parigi.
In definitiva, sarebbe proprio da irresponsabili pensare che lo Stato islamico va combattuto solo in Siria e in Iraq, che in Europa bastino azioni di intelligence o limitarsi alle solite recriminazioni sulla dissennatissima operazione bellica che ha portato alla caduta di Gheddafi. Oltretutto, per sradicare lo Stato islamico da Sirte non occorre inviare truppe e neanche agire con bombardamenti inutili sul piano militare e devastanti per la popolazione civile. C'è già chi è pronto a "mettere gli scarponi sul terreno" per conto nostro ed è una forza ben più grande e affidabile dei curdi o delle milizie islamiche siriane non jihadiste: l'Egitto di al-Sisi. Uno dei due governi libici, quello di Tobruk, è sostanzialmente un'emanazione del regime militare egiziano, ma conta anche su vecchi esponenti del regime gheddafiano e su personalità ben note ai servizi segreti occidentali. 
Khalifa Belqasim Haftar, ad esempio, attuale uomo forte del governo di Tobruk, ha una storia molto interessante: partito come comandante del regime di Gheddafi, nella guerra contro il Ciad, fu preso prigioniero nel 1987 e passò sull’altro fronte: si arruolò nel contingente anti-libico organizzato dagli americani. Ha vissuto per venti anni negli USA, prendendo anche la cittadinanza di quel paese. Nel 2011 è tornato in Libia per organizzare l’insurrezione contro Gheddafi e pochi mesi fa è stato nominato dal governo di Tobruk Ministro della Difesa e capo di Stato maggiore, con lo specifico incarico di combattere le milizie islamiste. Evidentemente, non è quel che si dice un galantuomo, ma se l’Occidente vuole fronteggiare il jihadismo, senza tornare a una diretta occupazione coloniale dei paesi arabi, che nessuno vuole, che sarebbe anacronistica e probabilmente controproducente, non può che contare su uomini di questo tipo. Torna alla mente la celebre risposta che un giorno Franklin Delano Roosevelt, di sicuro uno dei presidenti meno cinici e più autenticamente democratici nella storia degli USA, dette a un suo consigliere. Si parlava dell’eventuale sostegno a uno dei tanti dittatorelli del Centro America e il consigliere di Roosevelt, sorpreso dalla disponibilità del Presidente, esclamò: “but, he’s a son of bitch!”. E Roosevelt, di rimando: “Yes, I know, but he is our son of bitch”. Se poi si trovasse un galantuomo capace di tenere a bada l’islamismo, sarebbe molto meglio, ma vista l’esperienza delle cosiddette “primavere arabe”, che sono state come vedremo più avanti uno dei fattori di esplosione del jihadismo, sarebbe meglio non farsi troppe illusioni.
Tutto ciò perché, quando pure si riuscisse a sradicare l’islamismo dalla Libia sul piano militare, occorrerebbe, però, avere le idee chiare anche sul dopo, sull'assetto politico della Libia futura. Occorrerà superare il dualismo fra i due governi, che ha consentito all'Is di radicarsi nella zona intermedia, e questo lo si può fare o favorendo una riconciliazione,  ossia un compromesso,  se sarà possibile, o semplicemente abbandonando al suo destino il governo di Tripoli.
 Del resto, se si vuole combattere l'Is non contro, ma insieme all'Islam - moderato o meno che lo si voglia definire - come si dice e come è certamente necessario - che cosa c'è di meglio dell'Egitto di al-Sisi, unico non ambiguo nemico islamico sunnita dello Stato islamico e partner di fatto anche di Israele?
Certamente, occorrerà la nascita di un regime libico, stretto alleato dell'Egitto e possibilmente anche della Tunisia, ma guidato da uomini capaci di gestire la complessa geografia antropologica e politica delle tribù e dei clan, come Gheddafi ha fatto per decenni. A quest' uomo o a questi uomini si potrà e si dovrà chiedere di non essere dei tiranni sanguinari, ma, come dicevamo, non ci si può aspettare che siano leader democratici. Al momento c'è una certa incompatibilità fra il mondo arabo-islamico e la democrazia, almeno questo dovremmo averlo imparato.
Infine, trattandosi della Libia e non di Siria o Iraq, il premier Renzi non potrà permettersi di fare ancora il pesce in barile: meglio prepararsi ad accogliere a Roma, nel suo improvvisato accampamento beduino, il futuro uomo forte libico che vedersi arrivare i kamikaze dello Stato islamico.

martedì 24 novembre 2015

L'APPASSIONATA DENUNCIA DI UNO DEI MAGGIORI ESPONENTI CONTEMPORANEI DELLA CULTURA EBRAICA

Dopo i fatti di gennaio a Parigi, segnalai l'intervento di rav Laras come il più lucido commento, a mio avviso, su quella tragica vicenda. Nei giorni scorsi dopo le nuove stragi, rav Laras è intervenuto di nuovo, con una appassionata e preoccupatissima denuncia.
Rav Giuseppe Laras è presidente emerito e onorario dell'Assemblea rabbinica italiana. Dal 1980 al 2005 è stato capo della comunità ebraica di Milano ed è oggi presidente del tribunale rabbinico del Centro.Nord Italia. E' una delle massime autorità rabbiniche contemporanee, in Italia e in Europa.
 Il suo parere andrebbe quantomeno ascoltato quanto si ascolta quello di un Moni Ovadia, che non è né uno storico, né uno studioso di geopolitica, né un islamista e neanche viaggia in Medio Oriente per guardare la realtà dei fatti, come invece fanno alcuni bravi giornalisti, ma si limita a ripetere i luoghi comuni più scontati, triti e retriti di una certa sinistra radicale, ormai quasi estinta (per propria colpa e non per un complotto dell'imperialismo guerrafondaio).
"Lutto e dolore accompagnano una guerra difficile e lunga", scrive Laras, "combattuta anche con la dissimulazione e la strategia della confusione. Alleati dell’Islam jihadista (Isis, Fratelli Musulmani, Hamas, Al Qaeda, Hezbollah e Iran) sono quei politici, pensatori, storici e religiosi che hanno distorto la pace in pacifismo, la tolleranza e l’inclusione in laissez-faire, la forza della verità in debolezza dell’opinione arbitraria, il dialogo in liceità di ogni espressione, il sano dissenso in intollerante conformismo politically correct. Questi occidentali “odiatori di sé” sono complici.Hanno svenduto alla sottomissione la libertà per cui mai personalmente lottarono o pagarono. Questa è la triste fotografia dell’inadeguatezza politica e culturale di molti europei "Il dramma", scrive ancora Giuseppe Laras, " è che, con cieca ignoranza, la cultura laicista considera, semplificandolo, l’Islam politico realtà consimile e analoga a cristianesimo ed ebraismo e alle loro storie, anch’esse non prive di ombre. Le cose non stanno così. Finiamola con il mantra buonista, esorcistico dei problemi nell’immediato ma amplificante gli stessi nel tempo, della “religione di pace”. Si vedano le piazze dei Paesi Islamici giubilanti per i fatti parigini, come per Charlie, per i morti ebrei, per le Twin Towers. Che dire dei Bhuddah monumentali abbattuti dai talebani? Non insultiamo l’intelligenza con “questo non è Islam”. Basta con sensi di colpa anacronistici per crociate e colonialismo: la city di Londra, mezza Parigi e i nuovi grattacieli milanesi sono oggi di proprietà islamica"
"L’Europa potrebbe in un futuro risultare inospitale per gli ebrei (in Francia è già realtà). Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti. Se così dovesse essere, l’Europa diverrà un territorio desolato e inospitale per tutti coloro che amano e difendono la propria e l’altrui libertà. E non ci sarà nemmeno spazio per i musulmani onesti e pacifici (ahimé troppo silenti). Per fronteggiare il presente, occorrono saldo spirito razionale, energia e coraggio. L’alternativa è tra libertà e sottomissione (ai Fratelli Musulmani, Hamas, Isis, Al Qaeda, Iran, Hezbollah et similia). Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà.
Circa gli autori dei massacri, i loro compagni e chi applaude loro, come si può pensare che l’Unico e Onnipotente, buono e giusto, tolleri o gradisca questa furia omicida e le sofferenze ingiuste e blasfeme inflitte alle Sue creature?" 


Ecco il link per leggere, integralmente, l'articolo di Giuseppe Laras:
http://www.mosaico-cem.it/articoli/primopiano/laras-occidentali-complici-basta-col-buonismo-ritrovate-coraggio-e-energia 



lunedì 23 novembre 2015

IL CONSENSO ALLO STATO TOTALITARIO ISLAMICO E LA CECITA' DELL'OCCIDENTE



Veniamo al problema, centralissimo, del "consenso" allo Stato islamico. Infatti, come i precedenti e funestissimi regimi totalitari, anche l'IS non si regge solo sul terrore e la violenza. E' evidente che il consenso di cui si parla è ampiamente e spesso totalmente manipolato dal condizionamento propagandistico, dalla pressione sociale e dallo stesso terrore. Questo però nulla toglie ed anzi molto aggiunge alla sua efficacia come strumento di sostegno e di potenza dell'IS. È opportuno qui distinguere, esattamente come nel caso del fascismo e del nazismo, tra il consenso di quella limitata ma assai significativa percentuale di veri e propri militanti, ossia i jihadisti propriamente detti, e il consenso più o meno diretto, più o meno esplicito, ma altrettanto decisivo, di un'area ben più vasta della popolazione musulmana. Renzo De Felice, il noto storico del fascismo,  parlerebbe rispettivamente di "consenso attivo", nel primo caso, e di "consenso passivo", nel secondo. La terminologia non è forse felicissima, ma la distinzione resta importante.

La psicologia e l'antropologia dei jihadisti - partiamo quindi dall'area del "consenso attivo", resta largamente misteriosa, ma non del tutto indecifrabile. Propongo di utilizzare in questo caso la brillante analisi di Hannah Arendt svolta ne Le origini del totalitarismo. La Arendt partiva dal fenomeno della disintegrazione e dell'atomizzazione che caratterizzano la società di massa novecentesca. Risultano distrutte le tradizionali relazioni comunitarie, personali e dirette, in favore di moderni rapporti sociali, impersonali e indiretti, che però non includono ancora ampi strati sociali. Si può dire, utilizzando stavolta le note categorie di un classico della sociologia, quello di Tonnies (Gemeinschaft und Gesellschaf, 1887), che molti individui risultano sradicati dalla Gemeinschaft (comunità), senza ancora integrarsi nella Gesellschaft (società). E' il tipo dell'uomo-massa, come lo chiama la Arendt, isolato da ogni relazione sociale istituzionalizzata o formalizzata e da ogni appartenenza di gruppo: non è iscritto a partiti o a sindacati e neanche a società, organizzazioni, club di altro tipo (professionale, ricreativo, solidaristico, spirituale), ove si condividano idee o interessi. Nell'uomo- massa, disdegnato dalle organizzazioni politiche e sindacali moderne prime fra tutte quelle della sinistra, i regimi totalitari, e soprattutto il nazismo, seppero invece vedere una formidabile e ampissima base di proselitismo e reclutamento. I totalitarismi - ieri il fascismo, oggi lo Stato islamico - offrono a questa massa sradicata un fortissimo legame comunitario, imperniato, come si è visto, su una ideologia totalizzante, un organizzazione militare o militaresca, un leader carismatico, una pianificazione capillare della propria esistenza che abbatte anche il confine tra pubblico e privato.
Questa analisi, qui solo rapidamente accennata, è utile a mio avviso a comprendere almeno il contesto iniziale di reclutamento,  o come si ama dire di "radicalizzazione", dei giovani jihadisti. Il modello interpretativo ha tra l’altro il merito di spiegare come mai il proselitismo dell'Is sembri riscuotere i  maggiori successi tra individui residenti nei paesi dell'Europa occidentale, spesso immigrati di seconda generazione. Sono proprio questi, infatti, che si trovano nel limbo di quella situazione di sradicamento dalle tradizionali relazioni comunitarie e di non integrazione nelle relazioni sociali del paese d'adozione. È su di loro che agisce più potentemente il richiamo dell'integrazione comunitaria islamista. Questa, sia chiaro, non è la "causa" della loro scelta jihadista, ma il terreno e il contesto su cui e in cui essa avviene. Confondere il contesto e le condizioni con la causa è un grave errore concettuale, che non solo pregiudica la corretta analisi del fenomeno, ma apre la porta a più o meno latenti teorie "giustificazioniste" e vittimistiche. Va anche precisato che lo sradicamento di cui qui si parla non necessariamente coincide con uno stato di povertà o di emarginazione sociale conclamata. Spesso anzi si tratta di persone con un reddito dignitoso e talora con un titolo di studio e un lavoro. Inoltre, lo specifico - tragico - della massa militante dello Stato islamico, rispetto a quella dei precedenti totalitarismi, è la disponibilità a "sacrificarsi" per la causa, non se e quando le circostanze esterne lo richiedessero, ma in modo deliberato e pianificato. Da qui le azioni suicide. Questa specificità dipende dalla particolare ideologia che è alla base del totalitarismo islamico. Ancora una volta, il fattore religioso si rivela quindi determinante.

Passiamo ora al secondo livello del consenso, quello non attivo, non militante, non fanatico, ma che coinvolge un’area molto più vasta della popolazione. Questo secondo livello è decisivo: un regime totalitario non sopravvivrebbe a lungo se dovesse fondarsi solo sul terrore e la repressione violenta, ma nemmeno potrebbe reggersi sul consenso della sola e ristretta base militante. Il sostegno di questa ben più ampia area della popolazione, una sorta di “palude” o zona grigia, ha però tratti ben diversi: è sfaccettato, per certi versi ambiguo, ha elementi contraddittori ed è certamente meno solido rispetto al consenso militante. Di solito dura finché dura il successo del regime. Esso però è essenziale alla politica del regime e all’azione dell’area militante: la metafora dei pesci che hanno bisogno dell’acqua per nuotare – anche se l’acqua è la condizione, ma non la causa efficiente del loro movimento – è molto efficace e torneremo ad utilizzarla a breve.
Le forme in cui si manifesta pubblicamente questo consenso, chiamiamolo pure “passivo” in mancanza di una migliore terminologia, sono assai varie: si va dalle manifestazioni di giubilo per gli attentati di Parigi, che abbiamo rivisto nelle città palestinesi a lugubre ripetizione di analoghe manifestazioni seguite all’11 settembre 2001, alla reticenza assoluta a prendere qualunque posizione, ad una condanna generica del terrorismo, ma con la precisazione che l’islam non ha niente a che vedere con esso.
Per capire meglio, è forse utile il riferimento ad una situazione storica che ci è meglio nota, quella del regime fascista. Durante il Ventennio, i fascisti convinti, i veri e propri attivisti erano certamente una ristretta minoranza, così come una piccola minoranza erano gli antifascisti convinti e militanti. In mezzo, la gran parte della popolazione non era certo antifascista – ci riferiamo al periodo che precedette la guerra e alla primissima fase di questa – ma neanche si poteva definire fascista, in quanto condivideva in modo convinto soltanto alcuni elementi della politica e dell’ideologia fascista, era disincantata su altre cose e perfino diffidente o silenziosamente avversa ad altre ancora. Una situazione analoga mi pare che si possa fondatamente ipotizzare nei rapporti fra le masse islamiche e l’Is, certamente riguardo alla popolazione che vive nei territori direttamente controllati da questo, ma anche per una parte rilevantissima degli altri musulmani, quelli che vivono in altri paesi arabi e in Europa.
Va notato che questa area del “consenso passivo” è un’area per definizione “moderata”: erano moderati, infatti, gli italiani di cui parlavamo, quelli che non erano né antifascisti, né propriamente fascisti. Da ciò si capisce che è proprio un non senso la contrapposizione fra il jihadismo e il cosiddetto islam moderato, in quanto quest’ultimo, nella misura in cui esiste, può in buona parte ricadere in quell’area grigia che, sia pure in modo parziale, passivo, indiretto e ambiguo fornisce un supporto allo Stato islamico e  alle sue iniziative criminali.
Gli elementi strutturali del consenso allo Stato islamico in questa area del consenso passivo sono sicuramente molteplici. Vorrei limitarmi a sottolinearne tre, forse i più misconosciuti dall’opinione pubblica occidentale. Il primo, che riguarda le popolazioni islamiche che vivono in territori controllati dall’Is, è quella sorta di welfare state di cui si parlava nel precedente articolo: l’Is provvede a bisogni essenziali della popolazione, in aree che hanno conosciuto parecchi anni di devastazione della vita civile.
Il secondo elemento è l’uso del terrore, delle esecuzioni capitali e degli attentati, non solo a fine repressivo o militare, ma anche a scopo propagandistico e di proselitismo: i filmati sugli sgozzamenti così come gli attacchi terroristici di Parigi hanno purtroppo questa duplice valenza. Il tragico messaggio non è rivolto solo a noi occidentali, ma anche ai musulmani e tende ad essere in direzione di questi ultimi una rassicurante esibizione di potenza e un elemento di galvanizzazione, di mobilitazione e persino di riscatto.
Il terzo elemento è la proclamazione del califfato e agisce su tutto il mondo islamico, in special modo arabo, ben oltre gli incerti e mutevoli confini dello Stato islamico. Si questo terzo punto il discorso deve essere necessariamente un po’ più articolato.
Noi occidentali non riusciamo a capire che cosa significhi per un arabo la rinascita di questa istituzione e tendiamo a ridurre ad una iniziativa propagandistica o addirittura meramente folkloristica l’annuncio di Al-Baghdadi del giugno 2014. E’ un altro grave errore di sottovalutazione.
Il califfato – mi scuso con chi troverà scontate queste scarne annotazioni – è un mito fondativo che ha però una solida base storica. L’istituzione risale al periodo immediatamente successivo alla morte di Maometto; califfo fu già proclamato il primo successore del Profeta e la parola araba del resto significa proprio successore o luogotenente: successore di Maometto, ma anche e soprattutto luogotenente e rappresentante di Allah in terra. Il califfato rappresenta la umma, ossia l’unità politica della comunità islamica. Esso passa attraverso le dinastie degli Omayyadi e degli Abbasidi per poi restare saldamente nella mani del Sultano turco, fino al crollo definitivo dell’Impero Ottomano, che segnerà, nel 1924, l’abolizione della plurisecolare istituzione.  La delusione storica è cocente, non solo per le masse islamiche turche, ma anche e soprattutto per quelle arabe, che si erano illuse di riprendere nelle loro mani il califfato (e la politica britannica durante la Grande Guerra, per fomentare la rivolta araba contro gli Ottomani, aveva alimentato questa loro illusione). E’ proprio come reazione a questa delusione che nasce il primo gruppo fondamentalista dell’epoca contemporanea – i Fratelli musulmani, in Egitto– il quale si propone proprio la restaurazione del califfato. L’indipendenza presto raggiunta dagli stati arabi e poi l’affermazione del nazionalismo laico e modernizzante sembravano però aver definitivamente relegato nella soffitta della storia questi sogni di restaurazione. Essi cominciano a riprendere una qualche consistenza con Al Qaeda: l’idea che Bin Laden punti a una tale restaurazione comincia ad essere profilata, ma pare smentita da quelle poche notizie attendibili e dalle valutazioni che si possono fare dei suoi probabili progetti. Bin Laden mira essenzialmente a un rovesciamento dei regimi arabi moderati, a cominciare da quello del suo paese, l’Arabia Saudita. L’attacco all’Occidente in fondo non è il fine, ma il mezzo per raggiungere questo obiettivo e solo ad obiettivo raggiunto, eventualmente, si potrebbe ipotizzare per lui la proclamazione del Califfato. Bin Laden, alla fine, è un fanatico estremista riguardo ai mezzi utilizzati nella sua lotta politica, ma ha obiettivi circoscritti e una strategia che prevede una gradualità nell’azione e anche una certa prudenza e accortezza (abbiamo accennato al rifiuto di attaccare gli sciiti), che sono quasi da leader secolarizzato. L’Is ha invece un progetto totalitario di dominio globale: la successione dei vari passaggi si inverte e la proclamazione del califfato diventa la prima e non l’ultima tappa.
Nel contempo, la visione propagandistica dell’Is è decisamente superiore a quella di Al Qaeda: il semplice annuncio della rinascita del califfato ha un fortissimo impatto sulle masse arabe, come racconta egregiamente Maurizio Molinari.

Un quarto fattore di consenso, questo invece notissimo in Occidente ed anzi rilanciato da settori della stessa opinione pubblica occidentale, ma catastroficamente equivocato, è il risentimento contro le reali o presunte colpe dell’Occidente stesso, in quello che si potrebbe definire un processo di vittimizzazione delle masse arabe. Questo processo è sicuramente un potente fattore di consenso e di mobilitazione ed è forse il più rilevante elemento dello stesso “consenso passivo”: tantissimi musulmani, singolarmente presi del tutto pacifici, sono riluttanti a condannare il terrorismo o lo fanno in modo reticente e con mille riserve, proprio perché ritengono che esso sia una risposta, magari sbagliata, ai soprusi subiti. L’equivoco catastrofico di tanti occidentali sta però nel non capire che si tratta di una ricostruzione mitologica a uso propagandistico, perché, sebbene le vecchie potenze coloniali e gli USA abbiano gravi responsabilità nella gestione della situazione mediorientale ed abbiano commesso pesanti errori, queste responsabilità e questi errori non sono all’origine dell’integralismo islamico e tantomeno del jihadismo – che partono principalmente da fattori endogeni alle società arabe -  ma hanno solo contribuito ad alimentarlo e a diffonderlo. Questo non serve ad assolvere dai loro errori i governi occidentali, ma dovrebbe servire a prevenirne altri di errori: una diagnosi errata porta fatalmente a una terapia inefficace se non dannosa.
Il processo di vittimizzazione delle masse islamiche va piuttosto visto come una costruzione ideologica, fondata certamente su alcuni dati storicamente reali che vengono però ampiamente manipolati, di cui si servono i leader e i predicatori islamisti a fine propagandistico. Ha la stessa funzione che ebbero, nel fascismo e nel nazismo, la denuncia del pericolo (inesistente) di una imminente rivoluzione bolscevica da cui fascismo e nazismo avrebbero salvato i rispettivi paesi, o l’enfasi del nazionalismo italiano sui presunti soprusi subiti alla fine della Grande guerra (il mito della “vittoria mutilata”), per non parlare del famigerato complotto giudaico o “pluto-giudaico-massonico”. Prendere integralmente per buona la costruzione ideologica che alimenta il jihadismo e addirittura rilanciarla è forse la più tragica manifestazione dell’instupidimento collettivo dell’Occidente.

Questo abbozzo di analisi, dovrebbe portare ad alcune immediate conseguenze pratiche. Anzitutto, permette di comprendere molto meglio la natura dello Stato islamico e dunque i suoi reali obiettivi. La restaurazione del Califfato ha come primissimo scopo la reintegrazione della umma nei suoi confini storici. Essa si articolava in tre macro-regioni: lo Sham (Levante), che comprendeva l’area mesopotamica attuale Iraq e gli attuali territori di Giordania, Siria, Libano, Palestina, Israele; il Maghreb (Nord-Africa), dall’Egitto al Marocco, con i territori conquistati sull’altra sponda del Mediterraneo (Sicilia, penisola iberica…); l’Hegiaz (penisola arabica).
Di conseguenza, il neo-proclamato califfato rinnega i confini venuti fuori dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano e dalla decolonizzazione in Africa e intende restaurare questa articolazione della umma. Il primo passo è stato proprio la costituzione dell’Isis (acronimo di “Stato islamico del Levante). Era quindi prevedibile che dal nucleo originario in Iraq, l’Is, approfittando della guerra civile, si espandesse in Siria, ed è altrettanto prevedibile che esso utilizzerà ogni occasione favorevole, magari creata improvvidamente dalle potenze occidentali, per espandersi nelle altre regioni dello Sham (tra le quali, piccolo particolare, c’è anche Israele).
Altrettanto prevedibile era l’espansione nel Maghreb: l’Egitto è stato aggirato, salvo la penisola del Sinai che è stata solidamente occupata, in quanto è forse l’unico paese arabo seriamente impegnato a fronteggiare la minaccia – dopo il fallimento della “primavera araba” e la liquidazione del governo islamista dei “Fratelli musulmani”; l’Is è così sbarcato in Libia. Non si riesce a immaginare un esito più scontato, eppure dopo la disastrosa operazione contro il regime di Gheddafi, non si è fatto nulla per evitarlo. L’Hegiaz per il momento non viene toccato, se non altro perché da qui provengono i finanziamenti al Califfato.
Il progetto espansionistico dello Stato islamico non si limita a questo, purtroppo, data la sua essenza totalitaria sulla base dell’ideologia coranica. Tale ideologia coranica divide il mondo in due: dar al-islam, casa dell’islam, che coincide con la umma, e dar al-harb, casa della guerra, che è il territorio abitato e governato dagli “infedeli”. Il progetto è totalitario e globale perché prevede esplicitamente la progressiva conquista della “casa della guerra”, ossia delle nostre nazioni e delle nostre città. E’ totalitario perché non punta solo, e neanche in primo luogo, al dominio politico e militare, ma alla islamizzazione della società e delle coscienze, con la repressione e sottomissione o l’eliminazione fisica di ogni diversità culturale e religiosa, e l’estensione della sharia al mondo intero. Quali siano le effettive possibilità di realizzazione del progetto non è il primo punto da discutere, come non era il primo punto da discutere la possibilità concreta di realizzazione del sogno di dominio planetario del Terzo Reich. Il primo punto è la presa di coscienza del reale proposito dello Stato islamico. Un proposito che è già in atto, tragicamente, nei territori controllati, ove è in atto la pulizia etnica delle minoranze considerate idolatre e la persecuzione dei cristiani: va precisato che il regime del dhimmi, a cui sono sottoposti per esempio i cristiani caldei, poteva essere relativamente tollerante nel Medioevo, ma va oggi considerato una vera e propria persecuzione religiosa: chi non vuole o non può pagare la tassa può solo scegliere tra la fuga e il martirio. Chi paga la tassa vede limitate comunque quelle libertà e quei diritti che la nostra civiltà considera inviolabili, compresa la libertà religiosa: le chiese distrutte non si possono ricostruire, non se ne possono costruire di nuove e quelle esistenti non possono essere ampliate o ristrutturate; il culto non può essere pubblico, ma è di fatto semiclandestino, non si può svolgere alcuna attività di evangelizzazione.
Il fatto che le chiese cristiane occidentali parlino così poco di questa persecuzione ai danni dei cristiani del Medio Oriente – ove sono alcune delle comunità più antiche del cristianesimo – mentre denuncino di continuo il presunto pericolo dell’islamofobia nelle nostre società tolleranti e nel nostro stato di diritto, merita una sola parola di commento: indecente.
Va poi sottolineato con forza che oggi, diversamente dai secoli scorsi, la umma è diffusa anche nella “casa della guerra”, ossia in mezzo a noi, e l’operazione di conquista totalitaria si serve di essa, puntando a trasformare gli immigrati islamici in reclute del terrorismo jihadista o comunque suoi collaboratori. Non prendere atto di questo disegno, nemmeno dopo i tragici attentati di Parigi, è davvero sconcertante. Occorre anche registrare il fatto che almeno tre dei nove attentatori di Parigi hanno seguito la rotta dei migranti lungo la Turchia, la Grecia e i Balcani, rotta che si è aperta questa estate, e si può facilmente ipotizzare che lo Stato islamico abbia contribuito a dirottare il flusso dei migranti su quella via e ad enfatizzare strumentalmente l’emergenza stessa, con la complicità di sicuro di tutte le mafie che lucrano sui migranti. La presa d’atto non può portare a reazioni semplicistiche – né l’impossibile chiusura delle frontiere alla Salvini, né l’accoglienza “senza se e senza ma” della Boldrini – ma richiede risposte serie.

La seconda conseguenza pratica di questo abbozzo di analisi riguarda il problema del consenso all’islamismo jihadista. Occorre certamente agire sull’area del consenso attivo e militante, cosa che si fa ancora poco e male, ma occorre anche porsi il problema della ben più vasta area del consenso “passivo”, cosa che invece non si fa per nulla, continuando a negare e ad esorcizzare il problema dietro lo schermo di slogan e formulette retoriche. Ne è un buon esempio il caso delle manifestazioni islamiche contro il terrorismo dell’altro giorno. Annunciate e presentate come la dimostrazione che l’islam non ha niente a che vedere con il terrorismo e che la stragrande maggioranza degli islamici che vivono in Italia, per non dire la quasi totalità, non sono neanche minimamente coinvolti nel retroterra del jihadismo, hanno avuto un esito a dir poco sconfortante: meno di 1000 persone a Roma, meno di 400 a Milano (su quasi 2 milioni di musulmani che vivono in Italia) e in questi numeri sono compresi parecchi militanti dell'estrema sinistra italiana scesi in piazza per denunciare non il terrorismo ma la vendita delle armi e magari l’imperialismo occidentale e “sionista”, nonché gli amici del deputato PD marocchino che ha fatto il suo comizio e un manipolo di politici e sindacalisti in cerca di visibilità e consensi (da Fassina a Casini alla Camusso). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo; l'"islam è pace"; "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri cittadini israeliani, intenti ad aspettare un bus o a pregare, smentivano in diretta gli stessi slogan. Due ragazzine col velo – la foto è stata riportata da tutti i giornali e siti web – imbracciavano un cartello con su scritto “not in my name”, ma una delle due indossava una maglietta inneggiante all’Intifada e ad Hamas. Il sorriso sornione stampato sui loro volti diceva tutto.
Ma soprattutto, da queste manifestazioni e dalle dichiarazioni degli esponenti islamici dopo le stragi di Parigi non è giunto alcun aiuto  a capire la genesi del fenomeno dall’interno dell’islam stesso, che è un fatto indubitabile. Neanche una Rossana Rossanda islamica che abbia perlomeno riconosciuto che i terroristi “fanno parte del nostro album di famiglia”.
Una sola denuncia di una cellula o di un singolo militante jihadista da parte di qualche membro della comunità islamica – una sola denuncia – sarebbe molto più eloquente di altre mille manifestazioni come quelle di sabato scorso nel dare sostanza a quegli slogan. Ma questa denuncia, purtroppo, non mi risulta che ci sia ancora mai stata.
Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano, e nessuno a quanto pare ha voglia di toglierla. Anzi, non ci si pone neanche il problema, il che è ancora più preoccupante. Casini). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla. Casini). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla.