Come
scrive Pippo Fava,
nessuno capirà mai “se Mattarella venne ucciso perché aveva
fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose
che invece ancora dovevano accadere”. Secondo i pentiti, Andreotti sarebbe
sceso in Sicilia per convincere Stefano Bontade ad evitare l’assassinio di
Mattarella, che certamente mutava radicalmente il tradizionale modus vivendi
fra mafia e politica. In effetti, pare che Bontade, esponente della mafia
tradizionale, fosse personalmente contrario all’omicidio, che invece era
fortemente voluto dai corleonesi emergenti di Riina e Provenzano. Il
luogotenente di Andreotti, Franco Evangelisti, ha dichiarato in sede di
Commissione parlamentare di inchiesta che, avendo chiesto a Salvo Lima
spiegazioni sulla tragica vicenda di Mattarella, si sarebbe sentito rispondere
che “i patti vanno rispettati”. Sempre secondo i pentiti, Andreotti avrebbe
avuto un altro incontro con Bontade e altri mafiosi, all’indomani del delitto
Mattarella e Bontade avrebbe confidato a Mannoia, che era il suo guardaspalle, che
l’incontro era valso a chiarire ad Andreotti, una volta per tutte, chi
comandava in Sicilia. E’ un fatto, accertato anche in sede giudiziaria, che
l’atteggiamento di Andreotti nei riguardi della mafia cambia proprio a partire
da quel delitto. Occorre anche aggiungere che di lì a poco incomincerà la più
sanguinosa guerra di mafia e le cosche perdenti saranno sterminate, a
cominciare proprio da Bontade, mentre la mafia vincente dei corleonesi non avrà
più freni nell’eliminare tutti gli uomini dello Stato che ne ostacolano gli
interessi.
E tuttavia non è semplice archiviare il delitto Mattarella
come mero delitto di mafia. La più seria e inquietante anomalia di questo
delitto è la seguente: sono stati individuati e condannati i mandanti (la
cupola mafiosa), ma sono rimasti ignoti i sicari. Originariamente, l’indagine
punta su due terroristi neri, uno dei quali molto noto anche per il presunto
coinvolgimento in altri gravissimi episodi (la strage della stazione di Bologna,
l’omicidio Pecorelli): Giusva Fioravanti. In tribunale, la vedova di Piersanti,
che si trovava a fianco al marito al momento della sua uccisione, riconosce
Fioravanti. Il giudice Falcone, da parte sua, segue con decisione la pista del
terrorismo nero: quando viene ucciso a Capaci sta appunto lavorando
all’inchiesta sul delitto Mattarella. Ma, dopo la morte di Falcone, questa
pista viene repentinamente abbandonata. Non si dà credito alla testimonianza
della vedova, non si dà credito alla testimonianza di Angelo Izzo, quello del
delitto del Circeo, che pure accusa Fioravanti e aggiunge che dietro il delitto
non c’è solo la mafia, ma anche la massoneria palermitana ed esponenti romani
della corrente avversa a Mattarella, ossia quella andreottiana; non si dà
credito neanche alle dichiarazioni di un professore neofascista, Alberto Volo,
al quale il massone palermitano Mangiameli aveva confidato che l’uccisione di
Mattarella era stata decisa a casa di Gelli per via delle aperture al PCI. Ci
si fida, invece, della testimonianza di Buscetta, secondo cui il delitto è
esclusivamente di Cosa Nostra. E’ chiaro che la pista dei sicari appartenenti
al terrorismo nero e, in particolare, il nome di Fioravanti fanno scattare,
come è stato scritto ne “Il libro nero della Prima Repubblica” da Rita Di
Giovacchino, “l’ombrello di sicurezza teso a coprire il ‘livello superiore’”;
ed è ben nota anche la reticenza di Buscetta a parlare di tale livello
superiore, fatto di politica, servizi “deviati”, logge massoniche “coperte”,
pezzi dello Stato.
La vicenda resta enigmatica: se i sicari erano mafiosi, se
avessero ragione Buscetta e i giudici che hanno poi concluso il processo, come
mai di questi sicari, a differenza che per tanti altri delitti, non si è mai
saputo nulla? E se invece ad assassinare Mattarella sono stati i neofascisti e
se si ipotizza quindi che questo delitto,
come altri delitti eccellenti - da quello di Dalla Chiesa a quello di
Borsellino – sia il risultato tragico di una convergenza di interessi tra la
mafia e altri soggetti, resta comunque inesplicabile un fatto: perché mai Cosa
Nostra avrebbe accettato che un importante esponente istituzionale siciliano
venisse ucciso, in pieno centro di Palermo, non per mano di “uomini d’onore”,
ma ad opera di persone del “continente”, legate ad altri ambienti?
Questo excursus sulla
famiglia Mattarella, se non altro, demolisce uno dei tratti meno plausibili del
“santino” confezionato in questi giorni: Sergio Mattarella sarebbe un uomo
“normale”. Proprio no: con questa storia familiare Sergio Mattarella non
sarebbe stato un uomo normale neanche se avesse seguitato a fare il professore
universitario. Questa storia familiare non comporta, naturalmente, alcuna
diretta o personale responsabilità del neo Presidente, né nei suoi lati
negativi e oscuri, né in quelli migliori e addirittura esemplari, ma
costituisce, tuttavia, un bagaglio piuttosto pesante per chi si accinge a
trasferirsi per sette anni nell’edificio del Quirinale.
Sergio Mattarella: un
uomo di corrente
La carriera politica di Mattarella inizia due anni dopo la
morte del fratello. In questi giorni si sta molto insistendo sulle sue presunte
qualità di “arbitro imparziale” e di “garante”. Naturalmente tutti auspichiamo
che queste doti ci siano effettivamente e che caratterizzino il suo mandato
presidenziale. Nella sua attività politica, tuttavia, Sergio Mattarella non le
ha affatto mostrate. E’ stato, più che un uomo di partito, un uomo di corrente.
Il padre e il fratello, come si è detto, militavano nella corrente morotea, che
era parte a sua volta della cosiddetta “sinistra DC”. Con la scomparsa di Moro
e il declino di Donat Cattin, la sinistra DC resta egemonizzata dalla corrente di
Base di De Mita.
Ed è proprio Ciriaco De Mita, nel 1982, a spingere Sergio
Mattarella all’ingresso in politica. La Sicilia è scossa dalla guerra di mafia
e dagli omicidi del generale Della Chiesa e di Pio La Torre. De Mita ha bisogno,
all’esterno, di mostrare un diverso volto della DC e, all’interno, di
combattere la corrente nemica, quella andreottiana. Il fratello di Piersanti
Mattarella gli sembra l’uomo giusto. Mattarella accetta e si impegna in una
lotta strenua contro la DC di Lima e di Ciancimino, soprattutto a partire dal
1984, quando De Mita lo nomina commissario straordinario del partito in Sicilia.
In tale veste, sosterrà anche l’esperienza della giunta Orlando. Mattarella è
quindi il braccio armato di De Mita in Sicilia e, con Leoluca Orlando, la
figura anche simbolica di una DC diversa da quella dei Lima e dei Ciancimino.
Si tratta, tuttavia, di capire se questa “altra” DC combatte quella
andreottiana per colpire la mafia e il malaffare o se, viceversa, ostacola le
cosche mafiose dei corleonesi, perché queste sono legate alla corrente
andreottiana, e quindi nell’ambito di uno scontro di potere squisitamente
politico più che per una battaglia di legalità. Mi pare che tra le due
interpretazioni vi sia una sostanziale differenza e, avendo seguito con molta
attenzione le vicende politiche di quegli anni, propenderei per la seconda
ipotesi.
Lo scontro politico, interno al centro-sinistra – o
“pentapartito” come allora veniva chiamato – è durissimo e coinvolge pienamente
lo stesso PCI. Vi è una sostanziale intesa – “consociativa” – fra la “sinistra”
DC di De Mita e il PCI, che pure è formalmente all’opposizione, mentre nel
campo opposto lo schieramento è formato dai socialisti di Craxi e Martelli e
dalla DC dorotea e andreottiana (il futuro CAF, Craxi, Andreotti, Forlani). Nel
periodo del governo Craxi, Sergio Mattarella resta a fare il suo lavoro
politico in Sicilia. Appena caduto Craxi, De Mita lo chiama a Roma, inserendolo
come ministro prima nel governo Goria e poi nel suo stesso governo.
La leggenda della
Legge Mammì
E nel contesto di questa dura contrapposizione politica che
va letta la vicenda più citata e manipolata, in questi giorni, tra quelle della
biografia politica di Mattarella: la legge Mammì. Questa la vulgata dominante:
la legge Mammì sarebbe “il peccato originale” della futura seconda repubblica,
perché avrebbe regalato a Berlusconi una posizione dominante nei mass-media che
poi gli avrebbe fatto da base di potere per la sua “discesa in campo”. Il
regalo sarebbe stato fatto dal governo Andreotti, su mandato di Craxi.
Mattarella si sarebbe eroicamente opposto, dimettendosi dall’incarico
ministeriale. La realtà è alquanto diversa. Non si discute il fatto che la
legge Mammì abbia favorito gli interessi della Fininvest, consolidando una
posizione dominante che l’azienda aveva acquisito, e non abbia garantito lo
stesso principio che affermava, vale a dire quello del pluralismo
dell’informazione. Ciò che invece è molto opinabile è il ruolo che qui viene
attribuito a Sergio Mattarella. Che si dimise da ministro è verissimo, ma
questa è solo una parte della verità e una mezza verità, come sempre, rischia
di essere, rovesciata la medaglia, una mezza menzogna. Mattarella si dimise non
per sua personale iniziativa, ma per un ordine di scuderia, ossia di corrente,
venuto da De Mita. Insieme con lui si dimisero, infatti, altri quattro ministri
della sinistra DC. Tra di loro, il futuro segretario dei popolari Martinazzoli
e un altro personaggio che forse oggi non è tanto conveniente citare come
vecchio sodale politico del nuovo Presidente della Repubblica: Calogero Mannino,
a lungo imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e alla fine
prosciolto dopo una lunga vicissitudine giudiziaria, ma attualmente ancora
indagato per la trattativa Stato-mafia.
Non mi pare che si possa onestamente affermare che quella di
De Mita e della sinistra DC fosse una
disinteressata battaglia di garanzia, di legalità e per il pluralismo
informativo: si trattò piuttosto di un episodio cruciale dello scontro politico
già citato, uno scontro nel quale i due schieramenti avevano entrambi i loro
referenti nel mondo dell’informazione: Berlusconi e la Fininvest erano legati a
Craxi, così come De Benedetti, Caracciolo e il gruppo Espresso-Repubblica erano
legati a De Mita e al PCI. E’ il preludio di quella partita mortale che si
combatterà con Tangentopoli e che vedrà la definitiva vittoria di quest’ultimo
fronte, con la liquidazione dell’altro, ma solo nella sua componente politica:
ciò porterà Berlusconi a scendere in campo direttamente e si aprirà così la
cosiddetta seconda repubblica.
Ma torniamo alle vicende legate alla Legge Mammì. Il disegno
di legge, presentato da Andreotti, era stato completamente stravolto in
Parlamento dagli emendamenti del PCI e della sinistra DC. Andreotti allora
ripristinò il testo originario, ponendo anche la fiducia. A questo punto i
ministri demitiani si dimisero. Occorre però raccontare anche l’epilogo della
vicenda: alle Camere, la sinistra DC, Mattarella compreso, votò comunque la
fiducia al governo; nel giro di qualche settimana vi fu poi una riconciliazione
o meglio un accordo di compromesso all’interno della DC, tra la componente di
maggioranza che aveva la Presidenza del Consiglio con Andreotti e la segreteria
con Forlani e la sinistra di De Mita, la quale ottenne la vicesegreteria: e
Mattarella divenne vicesegretario. Risultato concreto della grande battaglia
“di garanzia” sulla legge Mammì? La legge, che sanciva il predominio mediatico
di Berlusconi, fu approvata, anche con il voto di fiducia della corrente di
Base e di Mattarella, ma De Mita e la sua corrente ottennero un riequilibrio di
potere all’interno del partito.
Pertanto, è molto dubbio che questa vicenda della legge
Mammì, nella sua reale dimensione storica, possa qualificare Mattarella come un
“intransigente” antagonista di Berlusconi, o meglio del suo strapotere. E’ certo,
invece, che la vulgata accreditata e propagandata in questi giorni è del tutto
funzionale a certi obiettivi politici di Renzi; la fantasiosa ricostruzione
della vicenda della legge Mammì consente infatti a Renzi di smentire
radicalmente la leggenda del “patto del Nazareno”, mostrandosi capace di
imporre al Quirinale l’uomo che seppe valorosamente contrastare il “peccato
originale” da cui sarebbe nato il “berlusconismo”. Peccato che si tratti,
appunto, di una fantasia.
Pensare poi che Berlusconi, che ha comunque mostrato qualche
talento politico, piaccia o non piaccia, si attacchi a un risentimento per un
episodio che risale alla preistoria della seconda repubblica significa
offendere la propria intelligenza oltre che quella del Cavaliere. D’altra parte,
i successivi e concreti atti politici non mostrano alcuna ostilità dell’uno nei
confronti dell’altro. Mattarella, è vero, fu tra i protagonisti della scissione
che contrappose all’ala ex-democristiana capeggiata da Buttiglione, che
spingeva verso Forza Italia e da cui sarebbe poi nata l’UDC, quella della
sinistra, che invece avrebbe dato vita ai popolari e all’Ulivo. Tuttavia, da
capogruppo dei popolari, lasciò libertà di coscienza nel 1998, nella votazione
sulla richiesta di arresto di Previti, contribuendo di fatto a salvarlo.
Mattarella fu poi eletto alla Consulta anche con i voti di Berlusconi.
Il Ministro della
Difesa della guerra del Kosovo e dell’”uranio impoverito”
Nella sua carriera politica, come si diceva, non vi sono
stati importanti incarichi istituzionali, ma solo ruoli di partito -
vicesegretario, direttore del Popolo,
capogruppo alla Camera – e incarichi ministeriali in quota alla sua corrente.
Tra questi, il più importante è certo quello di Ministro della Difesa. Ed è dal
lavoro svolto come ministro della Difesa che andrebbe soprattutto valutata la
figura di Mattarella. E questa valutazione rischia di essere piuttosto
negativa; anzi: tragicamente negativa.
Mattarella si trova a gestire, nel 1999, la guerra del
Kosovo, la guerra della Nato contro la Serbia di Milosevic. E’ una guerra che
raramente viene citata da molti pacifisti – o pseudo-pacifisti. Costoro
recitano spesso a memoria il rosario delle guerre “imperialistiche” americane,
quelle dei Bush, padre e figlio: prima guerra irachena, guerra all’Afghanistan,
seconda guerra irachena… E dimenticano, spesso, questa guerra, proprio quella
più vicina all’Italia, quella in cui il contributo militare italiano, il
contributo ai bombardamenti, alle stragi e alle devastazioni, è stato più
significativo, dato che i cacciabombardieri della Nato partivano proprio da Aviano
e da altre basi situate sul territorio italiano. Questa dimenticanza non
dipenderà forse dal fatto che questa del Kosovo è una guerra “di sinistra”, la
guerra di Clinton e di D’Alema (e pure di Cossutta e dei comunisti italiani)? Se
tutte le guerre sono deprecabili e detestabili, questa lo è stata in modo
particolare: dietro l’ipocrita maschera dell’intervento “umanitario”, si è
compiuta un’operazione tutta arbitraria e artificiosa di “state building”; si è cioè inventata dal nulla un’entita statale-nazionale,
legittimando una rivendicazione etnico-religiosa – quella dei musulmani
albanesi del Kosovo – fondata solo su un dato demografico recente (ossia sui
diversi indici di natalità) e ignorando che quella terra è pure la culla
dell’identità nazionale serba (ma certo né Clinton, né D’Alema avranno mai
sentito parlare della battaglia trecentesca di Kosovo Polje e del principe
serbo Dusan, né avranno studiato il risorgimento culturale e nazionale serbo
del primo Ottocento); si è avallato il principio – distruttivo - che ogni etnia
ha diritto a costituirsi in stato indipendente, escludendo o emarginando e
discriminando altre etnie che pure abitano quel territorio e lo rivendicano;
questo discutibile principio, peraltro, lo si è applicato con un marchiano double standard, perché evidentemente
ciò che si è concesso, o regalato, agli albanesi del Kosovo non è stato
riconosciuto ad altri popoli; infine, si è prontamente intervenuti in soccorso
di una popolazione, dopo aver ignorato i massacri compiuti ai danni di altre
popolazioni (basta evocare soltanto il nome di Srebenica). Se l’esercito serbo
e gli ultranazionalisti si erano probabilmente macchiati di atti criminali ai
danni della popolazione albanese, l’intervento Nato ha dato mano libera alla
rappresaglia albanese, con l’esodo e la “pulizia etnica”dei serbi del Kosovo.
L’unica reale motivazione di questa sciaguratissima guerra
stava nell’interesse geopolitico (e forse geo-energetico) di eliminare un
“presidio” russo nei Balcani.
Venendo al Nostro, si potrebbe addurre a sua parziale
giustificazione che abbia avuto soltanto la sfortuna di trovarsi al posto
sbagliato nel momento sbagliato. Tuttavia, se non avesse condiviso la guerra,
magari per quel sano e onesto spirito cristiano che in questi giorni gli viene
attribuito, avrebbe potuto farsi da parte, visto che nella vicenda della Legge
Mammì aveva mostrato di conoscere e di saper praticare anche l’istituto delle
dimissioni.
Mattarella non si fece da parte ed anzi si gravò anche di
specifiche responsabilità. Difatti, la guerra del Kosovo e le missioni
cosiddette di pace che ne sono seguite, oltre alle vittime serbe e kosovare
(circa 5000, causate dai 600 raid aerei giornalieri della Nato), ne hanno anche
provocate di italiane: i soldati che si sono ammalati in seguito alla
esposizione all’uranio impoverito.
Secondo l’”Osservatorio militare” – sul cui sito si trova
un’ampia rassegna stampa - ad ottobre scorso si contavano ormai oltre 300
soldati italiani morti, mentre 3700 sarebbero quelli ammalatisi di varie forme
di tumore dopo aver partecipato a missioni in Iraq e soprattutto in Bosnia. Quest’estate
il settimanale l’Espresso è tornato sulla vicenda ricostruendo alcuni casi e
raccogliendo alcune testimonianze. Tra queste, quella del capitano Enrico
Laccetti, alto ufficiale della Croce Rossa, per quasi dieci anni in servizio
nei Balcani, che al ritorno dalla missione di pace si è ritrovato un linfoma
ai polmoni lungo 24 centimetri provocato – recita il referto della biopsia
–
“da nanoparticelle di metallo pesante”.
“Noi italiani operavamo a mani nude, con il volto scoperto, senza maschere,
in territori altamente inquinati da proiettili di uranio impoverito, ancora
conficcati al suolo”, ricorda oggi, “e poi vedevamo i soldati statunitensi
tutti bardati, con divise ultratecnologiche che sembravano sbarcati da un film
di fantascienza, ma quando abbiamo chiesto ai nostri superiori perché fossero
così protetti - e noi invece no - loro ci rispondevano: sono americani, sono
esagerati. Non preoccupatevi: è tutto a posto”.
Il problema è che il superiore di quei superiori è
ovviamente il Ministro della Difesa e il Ministro della Difesa, all’epoca della
guerra del Kosovo e delle prime missioni post-guerra, era appunto Mattarella.
Quando si verificarono le prime morti sospette, Mattarella, rispondendo ad una
interrogazione parlamentare, negò che a Sarajevo si fossero utilizzati
armamenti con uranio impoverito. Il filmato con la sua dichiarazione è stato
trasmesso recentemente dalla trasmissione “Report” ed è stato pubblicato alla
vigilia dell’elezione di Mattarella dal blog di Grillo. Siccome molti italiani
soffrono ormai di “grillite” acuta – sono più o meno gli stessi che hanno
sofferto per anni e ancora soffrono di “berlusconite” e che sembrano invece
stranamente immuni dal virus della “renzite” o della “bersanite” o della
“prodite” – si è accusato Grillo di scatenare una “macchina del fango”.
L’accusa è davvero singolare, anzitutto perché dovrebbe essere eventualmente
rivolta alla Gabanelli e non a Grillo, dato che quest’ultimo ha semplicemente
ripreso uno stralcio di “Report”. In secondo luogo, perché il filmato mostra
dichiarazioni di Mattarella, a meno che non si tratti di una sua controfigura.
Peraltro, lo stesso Mattarella, poco dopo aver così liquidato la faccenda in
Parlamento, ebbe almeno la premura di chiedere ai vertici della Nato se fossero
state effettivamente utilizzate armi al’uranio impoverito; e il comando della
Nato non ebbe alcuna difficoltà ad ammetterlo e a fornire all’imprudente
Ministro dei dati eloquenti.
Quindi, delle due l’una: o Mattarella sapeva già e ha finto
di non sapere, mentendo al Parlamento e all’opinione pubblica; o era gravemente
disinformato (e si tenga conto che era ben noto che in Iraq gli americani
avevano già usato l’uranio impoverito). In molti altri paesi, un Ministro che si
fosse trovato nella sua stessa situazione, si sarebbe dovuto dimettere e ne
avrebbe avuto probabilmente stroncata la carriera politica. Sergio Mattarella,
invece, non ha subito alcun contraccolpo: è rimasto ministro, qualche anno dopo
è diventato giudice della Consulta e ora sale alla più alta carica dello Stato.
Ma seguiamo ancora questa cruciale vicenda. Mattarella, nel
suo ultimo periodo alla Difesa, è sempre più investito dagli attacchi e dalle
richieste dei familiari delle vittime. Non potendo più negare ciò che la Nato
stessa ha riconosciuto, si difende sostenendo che non esiste alcun “nesso
causale” tra l’uranio impoverito e i casi di tumore. Esprime, comunque,
l’intenzione di fare chiarezza su tutta la vicenda e istituisce una commissione
di inchiesta. Ora, chi conosce un minimo di storia di questo paese sa che le
commissioni di inchiesta, molto spesso, lungi dal far luce, sono servite a
insabbiare e archiviare i casi scottanti. La Commissione, comunque, conclude
abbastanza rapidamente i suoi lavori con una dichiarazione di impotenza: i dati
che sono stati forniti sono assolutamente insufficienti. Queste conclusioni
vengono spesso riportate in modo distorto: dati insufficienti viene tradotto
con “assenza di nesso” e assenza di nesso con “morti certamente non causate
dall’uranio”.
Nel 2006, tuttavia, il moltiplicarsi dei casi induce a
costituire una nuova Commissione di inchiesta, presieduta da Lidia Menapace.
Questa Commissione ha avuto un altissimo merito: ha finalmente aggirato
l’ostacolo che ha sempre impedito – e purtroppo continua ad impedire –
l’individuazione dei responsabili di tanti disastri ambientali e il
risarcimento delle vittime. In tutti questi casi, infatti, i soggetti coinvolti
sono sfuggiti alle loro responsabilità facendosi scudo del più volgare
scientismo. In tutti questi casi, pensiamo ai tumori che si registrano nella
“Terra dei fuochi” o nella zona dell’Ilva, ci si nasconde dietro la scarsità o
addirittura l’inesistenza di dati statisticamente significativi. Ora, a parte
il fatto che questi dati spesso non esistono perché non vengono predisposti gli
opportuni strumenti di rilevazione – vedi registro dei tumori – va rilevato che
per avere una mole di dati statisticamente significativa dovremmo prima lasciar
morire di cancro migliaia e migliaia di persone. E’ evidente che in tal caso
non ci si può impiccare al cappio del rigore statistico-epidemiologico. Ebbene,
la commissione Menapace opera una vera e proprio rivoluzione di prospettiva,
anzitutto rilevando ciò che invece non viene mai detto e cioè che quando i dati
non sono significativi ciò impedisce certamente di affermare l’esistenza di un
nesso causale fra determinati fattori – in questo caso l’uranio impoverito – e
le patologie, ma impedisce anche di affermare l’inesistenza di tale relazione.
I dati, quindi, non possono dimostrare che i soldati si siano ammalati a causa
dell’uranio, ma non posso nemmeno smentire questa ipotesi e questo tragico
sospetto. E allora, la Commissione, in base al “principio di precauzione”,
decide di sostituire il concetto di “nesso causale” con quello di “criterio di
probabilità”. In tal modo, a partire dal 2010, il Governo ha cominciato a riconoscere
l’uranio impoverito come probabile fattore causale dei casi di tumore e ha
cominciato a indennizzare le vittime e i loro familiari.
Ciò significa – attenzione! - che è riconosciuto, non dalla
“macchina del fango” di una qualche opposizione politica, ma dal governo, sulla
base di una relazione parlamentare, che la guerra del Kosovo e le successive
missioni, anche per l’inesistenza o l’inadeguatezza delle misure di protezione
dei militari, hanno “probabilmente” già causato fra questi ultimi migliaia di
casi di tumore e centinaia di decessi. Sostituiamo anche noi il criterio di probabilità a quello del nesso
causale: il Ministro della Difesa, sotto il cui dicastero è incominciata questa
bruttissima storia, ha “probabilmente” delle responsabilità; in un altro paese,
il suddetto Ministro “probabilmente” non sarebbe mai divenuto Presidente della
Repubblica.
Da Presidente: un
garante o il mediano di una squadra?
Questi sono allora, al di là dell’agiografia imperante in
questi giorni, gli aspetti salienti della biografia pubblica di Sergio
Mattarella ed essi, comunque li si voglia valutare, non ci danno proprio l’idea
di un uomo di Stato, di un supremo garante, di un arbitro imparziale. L’uomo
sale al Quirinale trascinandosi dietro il fardello di un passato “pesante”,
prima per le vicende del padre e del fratello, vicende indissolubilmente legate,
per motivi opposti, alla mafia, poi per quelle che lo hanno portato a
combattere, in un ben individuato schieramento, una dura lotta di potere e,
infine, ad assumere gravi responsabilità nella vicenda della ex-Jugoslavia.
La valutazione del suo mandato presidenziale, tuttavia, non
dovrà essere condizionata da alcun pregiudizio, né quello positivo indotto dal “santino”
confezionato ultimamente, né quello negativo pur se basato sulla storia reale.
E’ noto che molto spesso è la funzione che fa l’uomo e il palazzo del
Quirinale, in particolare, produce insospettabili e imprevisti mutamenti “antropologici”.
L’occasione di valutare in modo tanto obiettivo quanto
rigoroso il neo-eletto Presidente della Repubblica giungerà, peraltro, assai
presto. Non dovrebbe sfuggire l’aspetto paradossale di questa elezione:
Mattarella è stato scelto da un Parlamento, da una maggioranza parlamentare che
si è costituita solo grazie ad una legge elettorale che egli stesso, come
giudice della Consulta, aveva dichiarato illegittima sul piano costituzionale. La
nuova legge elettorale, fortemente voluta dal premier Renzi, non sembra affatto
superare i vizi di costituzionalità che avevano portato la Corte a bocciare il
cosiddetto “Porcellum”. Almeno uno dei rilievi della Consulta – quello relativo
alle liste “bloccate”, alla mancanza del voto di preferenza e alla conseguente
impossibilità per l’elettore di manifestare liberamente la propria scelta, si
ripresenta nell’”Italicum”. La Corte, infatti, aveva suggerito una strada, se
proprio si voleva evitare il ritorno puro e semplice al sistema proporzionale
con voti di preferenza o se non si voleva prendere la strada del puro
uninominale: “bloccare” solo una parte dei seggi – così come avveniva
precisamente nel “Mattarellum” – oppure prevedere liste bloccate molto corte,
in modo che fosse chiaramente riconoscibile dall’elettore il candidato che
avrebbe contribuito ad eleggere con il proprio voto. Queste indicazioni sono
disattese dall’”Italicum”: in tutti i seggi, infatti, vi sono sì liste
relativamente corte, ma con il sistema dei capilista bloccati e delle
candidature plurime, l’elettore non solo è “costretto” a votare il capolista
imposto dai vertici dei partiti, ma non potrà neanche sapere se sta effettivamente
concorrendo ad eleggere quel capolista o un altro candidato, nel caso in cui il
capolista decida poi di optare per un'altra circoscrizione.
Che cosa farà Mattarella? Eserciterà una moral suasion sul premier e sulla
maggioranza parlamentare per indurli a superare i difetti di legittimità dell’Italicum?
E, nel caso probabile in cui questa eventuale azione persuasiva non desse
frutti, si rifiuterà di apporre la sua firma alla legge? In un caso,
Mattarella, a dispetto del suo passato di uomo di parte, rivelerà di voler
davvero interpretare il suo nuovo ruolo da garante della Costituzione – non garante
degli equilibri politici fra le forze maggiori e delle “larghe intese” come chi
lo ha preceduto. Nell’altro caso, mostrerà di essere anche da Presidente ciò
che è sempre stato: il giocatore di una squadra e, per giunta, non il goleador,
non il Platini o il Boninsegna, ma il mediano, il Furino o l’Oriali, che fatica
in modo pure encomiabile, ma in fondo soltanto per consentire alla primadonna –
ieri De Mita oggi Renzi – di ottenere il suo successo.