giovedì 5 febbraio 2015

SERGIO MATTARELLA (E FAMIGLIA): IL "SANTINO" E LA STORIA REALE






Pare proprio che ogni passaggio importante della nostra storia nazionale – e l’elezione di un Presidente della Repubblica è comunque tra questi passaggi –  finisca per confermare, nelle reazioni dell’opinione pubblica maggioritaria e nei commenti della stampa e degli altri organi di informazione, la verità dell’amaro giudizio di Piero Gobetti: prevale in Italia un “abito cortigiano”, tessuto di conformismo e di servilismo. Il neoeletto Presidente è stato immediatamente trasformato nell’ennesimo “santino”: una personalità di altissimo profilo e di eccezionale levatura (ma come mai, allora, nessuno si era accorto per sette anni di quale straordinaria risorsa per il paese fosse quest’uomo ed egli era stato tenuto nel freezer della Consulta, tanto è vero che non si registra dal 2008 una sua pubblica dichiarazione?); un uomo modesto, mite e sobrio; un garante, un arbitro ineccepibile, un fine costituzionalista. Per molti versi, il santino di Mattarella ha ricordato quello dedicato a suo tempo a Monti – poi rapidamente  lacerato in mille pezzi, tra rabbia, delusione e irrisione – specie quando siamo stati informati che il Presidente circola con una umile Panda – ovviamente grigia (di Monti subito sapemmo che viaggiava in treno, trascinandosi dietro il bagaglio personale).

Vorrei provare  a ristabilire qualche elemento di verità che ci possa aiutare a delineare la reale figura di un uomo che, per un incrocio di circostanze fortuite e felici (per lui, certamente, per l’Italia si vedrà)  è asceso alla massima carica dello Stato, senza esser passato – a differenza di tutti i suoi predecessori, Einaudi escluso (ma con Einaudi si era ancora agli anni iniziali della Repubblica) – per nessuna delle cariche immediatamente inferiori: non è stato, infatti, né Presidente del Senato, né della Presidente della Camera, né Capo del Governo.



Bernardo Mattarella: il padre

Non si può che iniziare dalla famiglia, perché l’immagine pubblica di Sergio Mattarella, al di là delle sue personali qualità, è innanzitutto quella del “fratello di Piersanti”, così come quella di Piersanti era stata, alla fine anche per contrapposizione, l’immagine del “figlio di Bernardo”.

Cominciamo, dunque, da Bernardo Mattarella, uno dei fondatori della DC siciliana, ininterrottamente deputato dal 1946 alla sua morte, nel 1971, ripetutamente ministro in svariati dicasteri. Di lui si dice, in questi giorni, o che i suoi presunti rapporti con la mafia non sono stati mai chiariti, o che sono stati definitivamente smentiti dalla magistratura. In realtà, per orientarci, dovremmo una buona volta tenere distinta e separata la “verità” giudiziaria dalla valutazione politica e, in questo caso, storica; dovremmo affrancarci dalla perniciosa abitudine di demandare il giudizio politico alle sentenze giudiziarie (e per giunta soltanto alle sentenze definitive). Le accuse di contiguità alla mafia, ripetutamente lanciate negli anni Cinquanta e Sessanta dalle sinistre, culminarono nella denuncia del sociologo Danilo Dolci, il quale, però, fu condannato per diffamazione. Sul piano delle responsabilità giudiziarie occorre quindi attenersi a questa sentenza (e ad altre successive, come quella per la querela mossa proprio da Sergio Mattarella ai responsabili della serie televisiva “capo dei capi”), sebbene vada anche ricordato che i giudici dell’epoca spesso erano riluttanti persino a pronunciare la parola mafia: non è provato alcun rapporto personale e diretto tra Mattarella padre ed esponenti della mafia, né sono provati eventuali scambi di “favori” tra lo stesso e le cosche (le accuse di Gaspare Pisciotta, secondo cui Mattarella sarebbe stato il mandante o uno dei mandanti della strage di Portella delle Ginestre, erano già state ritenute infondate dai giudici). Del resto, l’eventuale o presunto legame di Mattarella con la mafia sarebbe passato innanzitutto per Vincenzo Rimi, con il quale i rapporti politici e personali sono pacifici, che è considerato da più parti un importantissimo esponente di Cosa Nostra (da Pino Arlacchi, per esempio) e che però non è mai stato condannato in tribunale per reati di mafia ed è morto nel suo letto.

Nella sentenza contro Danilo Dolci si legge tuttavia che Mattarella avrebbe apertamente e decisamente osteggiato la mafia in tutta la sua carriera politica. Qui si scivola su un terreno, quello del giudizio politico e storiografico, che evidentemente non compete ai giudici di un tribunale. E su questo terreno, la “narrazione” su Bernardo Mattarella è decisamente diversa. Vi è innanzitutto la relazione di minoranza del PCI alla commissione antimafia, redatta proprio da un altro martire della lotta alla mafia, Pio La Torre. In questa relazione, si legge che, nell’immediato dopoguerra, dopo aver puntato, senza successo, sulla carta separatista, la mafia si orientò verso la DC, o almeno verso una parte di quel partito, innanzitutto dirottando il cospicuo pacchetto di voti che controllava verso taluni ben individuati esponenti DC. E qui La Torre fa il nome di Bernardo Mattarella (e di alcuni altri notabili democristiani). Si tratta di un giudizio politico di parte, si dirà. E’ un giudizio politico che riflette tuttavia una accreditata ricostruzione storica del rapporto mafia –politica e mafia-DC. La ricostruzione storica di Piero Craveri, per esempio e per citare un solo nome, il quale scrive che Bernardo Mattarella è stato “fin dal 1946 uno dei maggiori referenti del rapporto tra la DC e la mafia”. E scrive anche che Vito Ciancimino, protagonista del sacco edilizio di Palermo come assessore ai lavori pubblici dell’amministrazione guidata da Salvo Lima, era il “pupillo di Bernardo Mattarella”.

In ogni caso, si può sempre dire che “le colpe dei padri non ricadono sui figli”, sebbene questo giudizio sia un po’ sbrigativo e insidioso quando si tratta di notabili politici meridionali e siciliani, che usano trasmettere in eredità alla loro progenie, non solo le proprietà immobiliari, ma anche relazioni politiche, rapporti di affari e pacchetti di voti.



Piersanti Mattarella: il fratello

Il successore di Bernardo nella carriera politica non fu però Sergio, ma Piersanti. E, a quanto pare, per gli agiografi di regime, se le colpe dei padri non ricadono sui figli, i meriti di un fratello, invece, illustrano l’altro fratello. Anche nel caso di Piersanti occorrerebbe, però, oltrepassare l’agiografia e non certo per sminuirne la figura, ma semmai per apprezzarla nel suo reale valore. Claudio Martelli, lo ha ricordato lui stesso in una recentissima e interessante intervista, nel 1992 fu definito “miserabile” dall’attuale Presidente della Repubblica, per aver ripetuto il giudizio di La Torre su Bernardo Mattarella e per aver sostenuto che fosse necessario distinguere il caso dello stesso La Torre, come vittima della mafia, e quello di Piersanti Mattarella. Martelli, tiitavia, non era miserabile e aveva pure ragione, al di là del fatto che le sue dichiarazioni fossero anche finalizzate ad una polemica politica. Non si può semplicemente accostare Mattarella ad altre vittime della mafia, come appunto La Torre o come Falcone e Borsellino, e questo accostamento, in fondo, non rende neanche giustizia alla vera battaglia che egli aveva intrapreso. In ruoli differenti, La Torre, Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, Peppino Impastato e tanti altri sono morti combattendo la mafia dall’esterno. Piersanti Mattarella militava in un partito che aveva uomini e correnti contigui alle cosche e in affari con esse. Mattarella non si trovava quindi nella stessa posizione di un La Torre e tantomeno, come è ovvio, in quella dei giudici o degli uomini di polizia che hanno combattuto la mafia con il loro lavoro investigativo. Piersanti, peraltro, era stato prescelto dal padre a succedergli. Lascio qui la parola a Pippo Fava, il giornalista ucciso dalla mafia: “Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor”. La carriera politica del giovane, prima al consiglio comunale di Palermo, poi in Consiglio regionale, sembrò per un certo tempo ricalcare le orme paterne. Come assessore alle Finanze – lo ricorda e lo sottolinea lo stesso Pippo Fava – confermò gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo (gli “esattori della mafia”). Poi, eletto alla presidenza della Regione, ecco la subitanea “conversione”: “aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle”.

Il pentito di mafia Francesco Marino Mannoia è andato ben oltre, dichiarando che, per un certo periodo, Mattarella, pur senza mai essere affiliato come “uomo d’onore” aveva intrattenuto stretti rapporti con i Salvo stessi e con il padrino Stefano Bontade, e questo anche perché - testuale - “discendeva” dal padre. Poi aveva improvvisamente cambiato atteggiamento e si era fatto rigoroso e inflessibile. La svolta potrebbe essere costituita dall’uccisione del segretario della DC Reina.

Mattarella, in effetti, passa al setaccio il sistema degli appalti e costringe anche alle dimissioni un assessore. Quest’opera, riduttivamente definita di “moralizzazione”, rientra in realtà in un chiarissimo progetto politico che intende proseguire in Sicilia l’opera di Aldo Moro, ucciso l’anno prima (Mattarella, come il padre milita nella corrente morotea) ed è in linea con il “nuovo corso” che il segretario nazionale Zaccagnini sta cercando di dare alla DC. Difatti, il PCI appoggia dall’esterno la giunta Mattarella e probabilmente il progetto è di arrivare ad una vera e propria alleanza di governo. Questa politica trova fortissime opposizioni, anzitutto all’interno della DC siciliana, nella corrente andreottiana di Lima e di Ciancimino. E Mattarella si spinge allora a chiedere a Zaccagnini il commissariamento della DC palermitana. 


Come scrive Pippo Fava,


nessuno capirà mai “se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere”. Secondo i pentiti, Andreotti sarebbe sceso in Sicilia per convincere Stefano Bontade ad evitare l’assassinio di Mattarella, che certamente mutava radicalmente il tradizionale modus vivendi fra mafia e politica. In effetti, pare che Bontade, esponente della mafia tradizionale, fosse personalmente contrario all’omicidio, che invece era fortemente voluto dai corleonesi emergenti di Riina e Provenzano. Il luogotenente di Andreotti, Franco Evangelisti, ha dichiarato in sede di Commissione parlamentare di inchiesta che, avendo chiesto a Salvo Lima spiegazioni sulla tragica vicenda di Mattarella, si sarebbe sentito rispondere che “i patti vanno rispettati”. Sempre secondo i pentiti, Andreotti avrebbe avuto un altro incontro con Bontade e altri mafiosi, all’indomani del delitto Mattarella e Bontade avrebbe confidato a Mannoia, che era il suo guardaspalle, che l’incontro era valso a chiarire ad Andreotti, una volta per tutte, chi comandava in Sicilia. E’ un fatto, accertato anche in sede giudiziaria, che l’atteggiamento di Andreotti nei riguardi della mafia cambia proprio a partire da quel delitto. Occorre anche aggiungere che di lì a poco incomincerà la più sanguinosa guerra di mafia e le cosche perdenti saranno sterminate, a cominciare proprio da Bontade, mentre la mafia vincente dei corleonesi non avrà più freni nell’eliminare tutti gli uomini dello Stato che ne ostacolano gli interessi.
E tuttavia non è semplice archiviare il delitto Mattarella come mero delitto di mafia. La più seria e inquietante anomalia di questo delitto è la seguente: sono stati individuati e condannati i mandanti (la cupola mafiosa), ma sono rimasti ignoti i sicari. Originariamente, l’indagine punta su due terroristi neri, uno dei quali molto noto anche per il presunto coinvolgimento in altri gravissimi episodi (la strage della stazione di Bologna, l’omicidio Pecorelli): Giusva Fioravanti. In tribunale, la vedova di Piersanti, che si trovava a fianco al marito al momento della sua uccisione, riconosce Fioravanti. Il giudice Falcone, da parte sua, segue con decisione la pista del terrorismo nero: quando viene ucciso a Capaci sta appunto lavorando all’inchiesta sul delitto Mattarella. Ma, dopo la morte di Falcone, questa pista viene repentinamente abbandonata. Non si dà credito alla testimonianza della vedova, non si dà credito alla testimonianza di Angelo Izzo, quello del delitto del Circeo, che pure accusa Fioravanti e aggiunge che dietro il delitto non c’è solo la mafia, ma anche la massoneria palermitana ed esponenti romani della corrente avversa a Mattarella, ossia quella andreottiana; non si dà credito neanche alle dichiarazioni di un professore neofascista, Alberto Volo, al quale il massone palermitano Mangiameli aveva confidato che l’uccisione di Mattarella era stata decisa a casa di Gelli per via delle aperture al PCI. Ci si fida, invece, della testimonianza di Buscetta, secondo cui il delitto è esclusivamente di Cosa Nostra. E’ chiaro che la pista dei sicari appartenenti al terrorismo nero e, in particolare, il nome di Fioravanti fanno scattare, come è stato scritto ne “Il libro nero della Prima Repubblica” da Rita Di Giovacchino, “l’ombrello di sicurezza teso a coprire il ‘livello superiore’”; ed è ben nota anche la reticenza di Buscetta a parlare di tale livello superiore, fatto di politica, servizi “deviati”, logge massoniche “coperte”, pezzi dello Stato.
La vicenda resta enigmatica: se i sicari erano mafiosi, se avessero ragione Buscetta e i giudici che hanno poi concluso il processo, come mai di questi sicari, a differenza che per tanti altri delitti, non si è mai saputo nulla? E se invece ad assassinare Mattarella sono stati i neofascisti e se si ipotizza quindi  che questo delitto, come altri delitti eccellenti - da quello di Dalla Chiesa a quello di Borsellino – sia il risultato tragico di una convergenza di interessi tra la mafia e altri soggetti, resta comunque inesplicabile un fatto: perché mai Cosa Nostra avrebbe accettato che un importante esponente istituzionale siciliano venisse ucciso, in pieno centro di Palermo, non per mano di “uomini d’onore”, ma ad opera di persone del “continente”, legate ad altri ambienti?

Questo excursus sulla famiglia Mattarella, se non altro, demolisce uno dei tratti meno plausibili del “santino” confezionato in questi giorni: Sergio Mattarella sarebbe un uomo “normale”. Proprio no: con questa storia familiare Sergio Mattarella non sarebbe stato un uomo normale neanche se avesse seguitato a fare il professore universitario. Questa storia familiare non comporta, naturalmente, alcuna diretta o personale responsabilità del neo Presidente, né nei suoi lati negativi e oscuri, né in quelli migliori e addirittura esemplari, ma costituisce, tuttavia, un bagaglio piuttosto pesante per chi si accinge a trasferirsi per sette anni nell’edificio del Quirinale.

Sergio Mattarella: un uomo di corrente
La carriera politica di Mattarella inizia due anni dopo la morte del fratello. In questi giorni si sta molto insistendo sulle sue presunte qualità di “arbitro imparziale” e di “garante”. Naturalmente tutti auspichiamo che queste doti ci siano effettivamente e che caratterizzino il suo mandato presidenziale. Nella sua attività politica, tuttavia, Sergio Mattarella non le ha affatto mostrate. E’ stato, più che un uomo di partito, un uomo di corrente. Il padre e il fratello, come si è detto, militavano nella corrente morotea, che era parte a sua volta della cosiddetta “sinistra DC”. Con la scomparsa di Moro e il declino di Donat Cattin, la sinistra DC resta egemonizzata dalla corrente di Base di De Mita.
Ed è proprio Ciriaco De Mita, nel 1982, a spingere Sergio Mattarella all’ingresso in politica. La Sicilia è scossa dalla guerra di mafia e dagli omicidi del generale Della Chiesa e di Pio La Torre. De Mita ha bisogno, all’esterno, di mostrare un diverso volto della DC e, all’interno, di combattere la corrente nemica, quella andreottiana. Il fratello di Piersanti Mattarella gli sembra l’uomo giusto. Mattarella accetta e si impegna in una lotta strenua contro la DC di Lima e di Ciancimino, soprattutto a partire dal 1984, quando De Mita lo nomina commissario straordinario del partito in Sicilia. In tale veste, sosterrà anche l’esperienza della giunta Orlando. Mattarella è quindi il braccio armato di De Mita in Sicilia e, con Leoluca Orlando, la figura anche simbolica di una DC diversa da quella dei Lima e dei Ciancimino. Si tratta, tuttavia, di capire se questa “altra” DC combatte quella andreottiana per colpire la mafia e il malaffare o se, viceversa, ostacola le cosche mafiose dei corleonesi, perché queste sono legate alla corrente andreottiana, e quindi nell’ambito di uno scontro di potere squisitamente politico più che per una battaglia di legalità. Mi pare che tra le due interpretazioni vi sia una sostanziale differenza e, avendo seguito con molta attenzione le vicende politiche di quegli anni, propenderei per la seconda ipotesi.
Lo scontro politico, interno al centro-sinistra – o “pentapartito” come allora veniva chiamato – è durissimo e coinvolge pienamente lo stesso PCI. Vi è una sostanziale intesa – “consociativa” – fra la “sinistra” DC di De Mita e il PCI, che pure è formalmente all’opposizione, mentre nel campo opposto lo schieramento è formato dai socialisti di Craxi e Martelli e dalla DC dorotea e andreottiana (il futuro CAF, Craxi, Andreotti, Forlani). Nel periodo del governo Craxi, Sergio Mattarella resta a fare il suo lavoro politico in Sicilia. Appena caduto Craxi, De Mita lo chiama a Roma, inserendolo come ministro prima nel governo Goria e poi nel suo stesso governo.

La leggenda della Legge Mammì
E nel contesto di questa dura contrapposizione politica che va letta la vicenda più citata e manipolata, in questi giorni, tra quelle della biografia politica di Mattarella: la legge Mammì. Questa la vulgata dominante: la legge Mammì sarebbe “il peccato originale” della futura seconda repubblica, perché avrebbe regalato a Berlusconi una posizione dominante nei mass-media che poi gli avrebbe fatto da base di potere per la sua “discesa in campo”. Il regalo sarebbe stato fatto dal governo Andreotti, su mandato di Craxi. Mattarella si sarebbe eroicamente opposto, dimettendosi dall’incarico ministeriale. La realtà è alquanto diversa. Non si discute il fatto che la legge Mammì abbia favorito gli interessi della Fininvest, consolidando una posizione dominante che l’azienda aveva acquisito, e non abbia garantito lo stesso principio che affermava, vale a dire quello del pluralismo dell’informazione. Ciò che invece è molto opinabile è il ruolo che qui viene attribuito a Sergio Mattarella. Che si dimise da ministro è verissimo, ma questa è solo una parte della verità e una mezza verità, come sempre, rischia di essere, rovesciata la medaglia, una mezza menzogna. Mattarella si dimise non per sua personale iniziativa, ma per un ordine di scuderia, ossia di corrente, venuto da De Mita. Insieme con lui si dimisero, infatti, altri quattro ministri della sinistra DC. Tra di loro, il futuro segretario dei popolari Martinazzoli e un altro personaggio che forse oggi non è tanto conveniente citare come vecchio sodale politico del nuovo Presidente della Repubblica: Calogero Mannino, a lungo imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e alla fine prosciolto dopo una lunga vicissitudine giudiziaria, ma attualmente ancora indagato per la trattativa Stato-mafia.
Non mi pare che si possa onestamente affermare che quella di De Mita e della sinistra DC fosse  una disinteressata battaglia di garanzia, di legalità e per il pluralismo informativo: si trattò piuttosto di un episodio cruciale dello scontro politico già citato, uno scontro nel quale i due schieramenti avevano entrambi i loro referenti nel mondo dell’informazione: Berlusconi e la Fininvest erano legati a Craxi, così come De Benedetti, Caracciolo e il gruppo Espresso-Repubblica erano legati a De Mita e al PCI. E’ il preludio di quella partita mortale che si combatterà con Tangentopoli e che vedrà la definitiva vittoria di quest’ultimo fronte, con la liquidazione dell’altro, ma solo nella sua componente politica: ciò porterà Berlusconi a scendere in campo direttamente e si aprirà così la cosiddetta seconda repubblica.
Ma torniamo alle vicende legate alla Legge Mammì. Il disegno di legge, presentato da Andreotti, era stato completamente stravolto in Parlamento dagli emendamenti del PCI e della sinistra DC. Andreotti allora ripristinò il testo originario, ponendo anche la fiducia. A questo punto i ministri demitiani si dimisero. Occorre però raccontare anche l’epilogo della vicenda: alle Camere, la sinistra DC, Mattarella compreso, votò comunque la fiducia al governo; nel giro di qualche settimana vi fu poi una riconciliazione o meglio un accordo di compromesso all’interno della DC, tra la componente di maggioranza che aveva la Presidenza del Consiglio con Andreotti e la segreteria con Forlani e la sinistra di De Mita, la quale ottenne la vicesegreteria: e Mattarella divenne vicesegretario. Risultato concreto della grande battaglia “di garanzia” sulla legge Mammì? La legge, che sanciva il predominio mediatico di Berlusconi, fu approvata, anche con il voto di fiducia della corrente di Base e di Mattarella, ma De Mita e la sua corrente ottennero un riequilibrio di potere all’interno del partito.
Pertanto, è molto dubbio che questa vicenda della legge Mammì, nella sua reale dimensione storica, possa qualificare Mattarella come un “intransigente” antagonista di Berlusconi, o meglio del suo strapotere. E’ certo, invece, che la vulgata accreditata e propagandata in questi giorni è del tutto funzionale a certi obiettivi politici di Renzi; la fantasiosa ricostruzione della vicenda della legge Mammì consente infatti a Renzi di smentire radicalmente la leggenda del “patto del Nazareno”, mostrandosi capace di imporre al Quirinale l’uomo che seppe valorosamente contrastare il “peccato originale” da cui sarebbe nato il “berlusconismo”. Peccato che si tratti, appunto, di una fantasia.
Pensare poi che Berlusconi, che ha comunque mostrato qualche talento politico, piaccia o non piaccia, si attacchi a un risentimento per un episodio che risale alla preistoria della seconda repubblica significa offendere la propria intelligenza oltre che quella del Cavaliere. D’altra parte, i successivi e concreti atti politici non mostrano alcuna ostilità dell’uno nei confronti dell’altro. Mattarella, è vero, fu tra i protagonisti della scissione che contrappose all’ala ex-democristiana capeggiata da Buttiglione, che spingeva verso Forza Italia e da cui sarebbe poi nata l’UDC, quella della sinistra, che invece avrebbe dato vita ai popolari e all’Ulivo. Tuttavia, da capogruppo dei popolari, lasciò libertà di coscienza nel 1998, nella votazione sulla richiesta di arresto di Previti, contribuendo di fatto a salvarlo. Mattarella fu poi eletto alla Consulta anche con i voti di Berlusconi.

Il Ministro della Difesa della guerra del Kosovo e dell’”uranio impoverito”
Nella sua carriera politica, come si diceva, non vi sono stati importanti incarichi istituzionali, ma solo ruoli di partito - vicesegretario, direttore del Popolo, capogruppo alla Camera – e incarichi ministeriali in quota alla sua corrente. Tra questi, il più importante è certo quello di Ministro della Difesa. Ed è dal lavoro svolto come ministro della Difesa che andrebbe soprattutto valutata la figura di Mattarella. E questa valutazione rischia di essere piuttosto negativa; anzi: tragicamente negativa.
Mattarella si trova a gestire, nel 1999, la guerra del Kosovo, la guerra della Nato contro la Serbia di Milosevic. E’ una guerra che raramente viene citata da molti pacifisti – o pseudo-pacifisti. Costoro recitano spesso a memoria il rosario delle guerre “imperialistiche” americane, quelle dei Bush, padre e figlio: prima guerra irachena, guerra all’Afghanistan, seconda guerra irachena… E dimenticano, spesso, questa guerra, proprio quella più vicina all’Italia, quella in cui il contributo militare italiano, il contributo ai bombardamenti, alle stragi e alle devastazioni, è stato più significativo, dato che i cacciabombardieri della Nato partivano proprio da Aviano e da altre basi situate sul territorio italiano. Questa dimenticanza non dipenderà forse dal fatto che questa del Kosovo è una guerra “di sinistra”, la guerra di Clinton e di D’Alema (e pure di Cossutta e dei comunisti italiani)? Se tutte le guerre sono deprecabili e detestabili, questa lo è stata in modo particolare: dietro l’ipocrita maschera dell’intervento “umanitario”, si è compiuta un’operazione tutta arbitraria e artificiosa di “state building”; si è cioè inventata dal nulla un’entita statale-nazionale, legittimando una rivendicazione etnico-religiosa – quella dei musulmani albanesi del Kosovo – fondata solo su un dato demografico recente (ossia sui diversi indici di natalità) e ignorando che quella terra è pure la culla dell’identità nazionale serba (ma certo né Clinton, né D’Alema avranno mai sentito parlare della battaglia trecentesca di Kosovo Polje e del principe serbo Dusan, né avranno studiato il risorgimento culturale e nazionale serbo del primo Ottocento); si è avallato il principio – distruttivo - che ogni etnia ha diritto a costituirsi in stato indipendente, escludendo o emarginando e discriminando altre etnie che pure abitano quel territorio e lo rivendicano; questo discutibile principio, peraltro, lo si è applicato con un marchiano double standard, perché evidentemente ciò che si è concesso, o regalato, agli albanesi del Kosovo non è stato riconosciuto ad altri popoli; infine, si è prontamente intervenuti in soccorso di una popolazione, dopo aver ignorato i massacri compiuti ai danni di altre popolazioni (basta evocare soltanto il nome di Srebenica). Se l’esercito serbo e gli ultranazionalisti si erano probabilmente macchiati di atti criminali ai danni della popolazione albanese, l’intervento Nato ha dato mano libera alla rappresaglia albanese, con l’esodo e la “pulizia etnica”dei serbi del Kosovo.
L’unica reale motivazione di questa sciaguratissima guerra stava nell’interesse geopolitico (e forse geo-energetico) di eliminare un “presidio” russo nei Balcani.
Venendo al Nostro, si potrebbe addurre a sua parziale giustificazione che abbia avuto soltanto la sfortuna di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Tuttavia, se non avesse condiviso la guerra, magari per quel sano e onesto spirito cristiano che in questi giorni gli viene attribuito, avrebbe potuto farsi da parte, visto che nella vicenda della Legge Mammì aveva mostrato di conoscere e di saper praticare anche l’istituto delle dimissioni.
Mattarella non si fece da parte ed anzi si gravò anche di specifiche responsabilità. Difatti, la guerra del Kosovo e le missioni cosiddette di pace che ne sono seguite, oltre alle vittime serbe e kosovare (circa 5000, causate dai 600 raid aerei giornalieri della Nato), ne hanno anche provocate di italiane: i soldati che si sono ammalati in seguito alla esposizione all’uranio impoverito.
Secondo l’”Osservatorio militare” – sul cui sito si trova un’ampia rassegna stampa - ad ottobre scorso si contavano ormai oltre 300 soldati italiani morti, mentre 3700 sarebbero quelli ammalatisi di varie forme di tumore dopo aver partecipato a missioni in Iraq e soprattutto in Bosnia. Quest’estate il settimanale l’Espresso è tornato sulla vicenda ricostruendo alcuni casi e raccogliendo alcune testimonianze. Tra queste, quella del capitano Enrico Laccetti, alto ufficiale della Croce Rossa, per quasi dieci anni in servizio nei Balcani, che al ritorno dalla missione di pace si è ritrovato un linfoma ai polmoni lungo 24 centimetri provocato – recita il referto della biopsia –
“da nanoparticelle di metallo pesante”.
“Noi italiani operavamo a mani nude, con il volto scoperto, senza maschere, in territori altamente inquinati da proiettili di uranio impoverito, ancora conficcati al suolo”, ricorda oggi, “e poi vedevamo i soldati statunitensi tutti bardati, con divise ultratecnologiche che sembravano sbarcati da un film di fantascienza, ma quando abbiamo chiesto ai nostri superiori perché fossero così protetti - e noi invece no - loro ci rispondevano: sono americani, sono esagerati. Non preoccupatevi: è tutto a posto”.
Il problema è che il superiore di quei superiori è ovviamente il Ministro della Difesa e il Ministro della Difesa, all’epoca della guerra del Kosovo e delle prime missioni post-guerra, era appunto Mattarella. Quando si verificarono le prime morti sospette, Mattarella, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, negò che a Sarajevo si fossero utilizzati armamenti con uranio impoverito. Il filmato con la sua dichiarazione è stato trasmesso recentemente dalla trasmissione “Report” ed è stato pubblicato alla vigilia dell’elezione di Mattarella dal blog di Grillo. Siccome molti italiani soffrono ormai di “grillite” acuta – sono più o meno gli stessi che hanno sofferto per anni e ancora soffrono di “berlusconite” e che sembrano invece stranamente immuni dal virus della “renzite” o della “bersanite” o della “prodite” – si è accusato Grillo di scatenare una “macchina del fango”. L’accusa è davvero singolare, anzitutto perché dovrebbe essere eventualmente rivolta alla Gabanelli e non a Grillo, dato che quest’ultimo ha semplicemente ripreso uno stralcio di “Report”. In secondo luogo, perché il filmato mostra dichiarazioni di Mattarella, a meno che non si tratti di una sua controfigura. Peraltro, lo stesso Mattarella, poco dopo aver così liquidato la faccenda in Parlamento, ebbe almeno la premura di chiedere ai vertici della Nato se fossero state effettivamente utilizzate armi al’uranio impoverito; e il comando della Nato non ebbe alcuna difficoltà ad ammetterlo e a fornire all’imprudente Ministro dei dati eloquenti.
Quindi, delle due l’una: o Mattarella sapeva già e ha finto di non sapere, mentendo al Parlamento e all’opinione pubblica; o era gravemente disinformato (e si tenga conto che era ben noto che in Iraq gli americani avevano già usato l’uranio impoverito). In molti altri paesi, un Ministro che si fosse trovato nella sua stessa situazione, si sarebbe dovuto dimettere e ne avrebbe avuto probabilmente stroncata la carriera politica. Sergio Mattarella, invece, non ha subito alcun contraccolpo: è rimasto ministro, qualche anno dopo è diventato giudice della Consulta e ora sale alla più alta carica dello Stato.
Ma seguiamo ancora questa cruciale vicenda. Mattarella, nel suo ultimo periodo alla Difesa, è sempre più investito dagli attacchi e dalle richieste dei familiari delle vittime. Non potendo più negare ciò che la Nato stessa ha riconosciuto, si difende sostenendo che non esiste alcun “nesso causale” tra l’uranio impoverito e i casi di tumore. Esprime, comunque, l’intenzione di fare chiarezza su tutta la vicenda e istituisce una commissione di inchiesta. Ora, chi conosce un minimo di storia di questo paese sa che le commissioni di inchiesta, molto spesso, lungi dal far luce, sono servite a insabbiare e archiviare i casi scottanti. La Commissione, comunque, conclude abbastanza rapidamente i suoi lavori con una dichiarazione di impotenza: i dati che sono stati forniti sono assolutamente insufficienti. Queste conclusioni vengono spesso riportate in modo distorto: dati insufficienti viene tradotto con “assenza di nesso” e assenza di nesso con “morti certamente non causate dall’uranio”.
Nel 2006, tuttavia, il moltiplicarsi dei casi induce a costituire una nuova Commissione di inchiesta, presieduta da Lidia Menapace. Questa Commissione ha avuto un altissimo merito: ha finalmente aggirato l’ostacolo che ha sempre impedito – e purtroppo continua ad impedire – l’individuazione dei responsabili di tanti disastri ambientali e il risarcimento delle vittime. In tutti questi casi, infatti, i soggetti coinvolti sono sfuggiti alle loro responsabilità facendosi scudo del più volgare scientismo. In tutti questi casi, pensiamo ai tumori che si registrano nella “Terra dei fuochi” o nella zona dell’Ilva, ci si nasconde dietro la scarsità o addirittura l’inesistenza di dati statisticamente significativi. Ora, a parte il fatto che questi dati spesso non esistono perché non vengono predisposti gli opportuni strumenti di rilevazione – vedi registro dei tumori – va rilevato che per avere una mole di dati statisticamente significativa dovremmo prima lasciar morire di cancro migliaia e migliaia di persone. E’ evidente che in tal caso non ci si può impiccare al cappio del rigore statistico-epidemiologico. Ebbene, la commissione Menapace opera una vera e proprio rivoluzione di prospettiva, anzitutto rilevando ciò che invece non viene mai detto e cioè che quando i dati non sono significativi ciò impedisce certamente di affermare l’esistenza di un nesso causale fra determinati fattori – in questo caso l’uranio impoverito – e le patologie, ma impedisce anche di affermare l’inesistenza di tale relazione. I dati, quindi, non possono dimostrare che i soldati si siano ammalati a causa dell’uranio, ma non posso nemmeno smentire questa ipotesi e questo tragico sospetto. E allora, la Commissione, in base al “principio di precauzione”, decide di sostituire il concetto di “nesso causale” con quello di “criterio di probabilità”. In tal modo, a partire dal 2010, il Governo ha cominciato a riconoscere l’uranio impoverito come probabile fattore causale dei casi di tumore e ha cominciato a indennizzare le vittime e i loro familiari.
Ciò significa – attenzione! - che è riconosciuto, non dalla “macchina del fango” di una qualche opposizione politica, ma dal governo, sulla base di una relazione parlamentare, che la guerra del Kosovo e le successive missioni, anche per l’inesistenza o l’inadeguatezza delle misure di protezione dei militari, hanno “probabilmente” già causato fra questi ultimi migliaia di casi di tumore e centinaia di decessi. Sostituiamo anche noi il  criterio di probabilità a quello del nesso causale: il Ministro della Difesa, sotto il cui dicastero è incominciata questa bruttissima storia, ha “probabilmente” delle responsabilità; in un altro paese, il suddetto Ministro “probabilmente” non sarebbe mai divenuto Presidente della Repubblica.

Da Presidente: un garante o il mediano di una squadra?
Questi sono allora, al di là dell’agiografia imperante in questi giorni, gli aspetti salienti della biografia pubblica di Sergio Mattarella ed essi, comunque li si voglia valutare, non ci danno proprio l’idea di un uomo di Stato, di un supremo garante, di un arbitro imparziale. L’uomo sale al Quirinale trascinandosi dietro il fardello di un passato “pesante”, prima per le vicende del padre e del fratello, vicende indissolubilmente legate, per motivi opposti, alla mafia, poi per quelle che lo hanno portato a combattere, in un ben individuato schieramento, una dura lotta di potere e, infine, ad assumere gravi responsabilità nella vicenda della ex-Jugoslavia.
La valutazione del suo mandato presidenziale, tuttavia, non dovrà essere condizionata da alcun pregiudizio, né quello positivo indotto dal “santino” confezionato ultimamente, né quello negativo pur se basato sulla storia reale. E’ noto che molto spesso è la funzione che fa l’uomo e il palazzo del Quirinale, in particolare, produce insospettabili e imprevisti mutamenti “antropologici”.
L’occasione di valutare in modo tanto obiettivo quanto rigoroso il neo-eletto Presidente della Repubblica giungerà, peraltro, assai presto. Non dovrebbe sfuggire l’aspetto paradossale di questa elezione: Mattarella è stato scelto da un Parlamento, da una maggioranza parlamentare che si è costituita solo grazie ad una legge elettorale che egli stesso, come giudice della Consulta, aveva dichiarato illegittima sul piano costituzionale. La nuova legge elettorale, fortemente voluta dal premier Renzi, non sembra affatto superare i vizi di costituzionalità che avevano portato la Corte a bocciare il cosiddetto “Porcellum”. Almeno uno dei rilievi della Consulta – quello relativo alle liste “bloccate”, alla mancanza del voto di preferenza e alla conseguente impossibilità per l’elettore di manifestare liberamente la propria scelta, si ripresenta nell’”Italicum”. La Corte, infatti, aveva suggerito una strada, se proprio si voleva evitare il ritorno puro e semplice al sistema proporzionale con voti di preferenza o se non si voleva prendere la strada del puro uninominale: “bloccare” solo una parte dei seggi – così come avveniva precisamente nel “Mattarellum” – oppure prevedere liste bloccate molto corte, in modo che fosse chiaramente riconoscibile dall’elettore il candidato che avrebbe contribuito ad eleggere con il proprio voto. Queste indicazioni sono disattese dall’”Italicum”: in tutti i seggi, infatti, vi sono sì liste relativamente corte, ma con il sistema dei capilista bloccati e delle candidature plurime, l’elettore non solo è “costretto” a votare il capolista imposto dai vertici dei partiti, ma non potrà neanche sapere se sta effettivamente concorrendo ad eleggere quel capolista o un altro candidato, nel caso in cui il capolista decida poi di optare per un'altra circoscrizione.
Che cosa farà Mattarella? Eserciterà una moral suasion sul premier e sulla maggioranza parlamentare per indurli a superare i difetti di legittimità dell’Italicum? E, nel caso probabile in cui questa eventuale azione persuasiva non desse frutti, si rifiuterà di apporre la sua firma alla legge? In un caso, Mattarella, a dispetto del suo passato di uomo di parte, rivelerà di voler davvero interpretare il suo nuovo ruolo da garante della Costituzione – non garante degli equilibri politici fra le forze maggiori e delle “larghe intese” come chi lo ha preceduto. Nell’altro caso, mostrerà di essere anche da Presidente ciò che è sempre stato: il giocatore di una squadra e, per giunta, non il goleador, non il Platini o il Boninsegna, ma il mediano, il Furino o l’Oriali, che fatica in modo pure encomiabile, ma in fondo soltanto per consentire alla primadonna – ieri De Mita oggi Renzi – di ottenere il suo successo.

Nessun commento:

Posta un commento