Renzo De Felice rischierebbe
oggi di passare per “i tribunali e le commissioni ideologiche dell’inquisizione”
(politicamente corretta)? E’ il problema che pone provocatoriamente Marcello
Veneziani in un suo recente articolo. Non è da escludersi, purtroppo.
Certamente continuerebbero a passare per i tribunali di tutte le inquisizioni e
ad essere emarginati, oggi come allora, tutti coloro che nel campo degli studi
storici non si trovavano e non si trovano allineati né con la posizione dei
suoi denigratori, gli storici di “sinistra”, né con quella dello stesso De
Felice, dei suoi numerosi discepoli e dei suoi sempre numerosi sostenitori (perché
non mi pare che il suo lavoro storico sia stata “calpestato e cancellato in
modo rozzo e fazioso”. Mi pare che, oggi come ieri, sia citato, per essere esaltato e denigrato,
da chi non lo ha letto).
Ciò che voglio discutere
in questo articolo non è tanto dell’inquisizione politicamente corretta – lo faccio
di continuo - e di una damnatio memoriae di De Felice -che in verità non
c’è, e non c’è perché, ahimè, manca la materia del contendere in quanto si è
spento ogni serio e autentico dibattito sul fascismo - ma del contributo
storiografico di De Felice. Il che potrebbe magari servire a parlare per una
volta del fascismo in modo non banale, non volgare, non miserevolmente strumentale.
Avanzo in tutta
franchezza la pretesa che la mia sia un’opinione “informata dei fatti”. E per
due sostanziali motivi. Il primo è che quando si consumavano ancora gli ultimi
fuochi della battaglia fra la storiografia “revisionista” di De Felice ed
allievi e quella tradizionalista e ortodossa degli storici marxisti – una vera “guerra
civile” degli storici – ero un giovane ricercatore che si occupava appunto del
fascismo e, in particolare, di Mussolini, dell’immagine e del mito del Duce. E
mi ero laureato con un docente – il compianto Aurelio Lepre – che, pur se di formazione
marxista e più precisamente gramsciana, si era distaccato dalla ortodossia,
aveva utilmente recepito alcuni aspetti del contributo di De Felice, ma si
collocava in una posizione appartata e critica rispetto ai due schieramenti in lotta.
E quella posizione, sia per merito della
sua lezione, sia per un autonomo percorso, era anche la mia. In ogni caso ho vissuto
e conosciuto dall’interno la disputa e i suoi protagonisti, il che può servire
ad evitare le deformazioni mediatiche e quelle della memoria. Il secondo motivo
è che, al contrario dei tanti, sia sostenitori sia denigratori di De Felice,
che ne parlano – bene o male - senza aver veramente compiuto l’impresa di
leggere i quattro volumi e complessivi sei tomi (ciascuno di circa mille
pagine) della sua monumentale biografia di Mussolini, io quei volumi e quei
tomi li ho letti, anzi li ho studiati, perché questo era parte del mio lavoro.
Come ho letto la sua “Intervista sul fascismo” – lo scritto al quale i più si
sono limitati, esattamente come la massima parte dei marxisti e degli
antimarxisti si sono fermati al Manifesto del Partito Comunista, senza azzardarsi
a por mano al Capitale o ai Grundisse – e le sue “Interpretazioni del
fascismo”, che forse sono il suo vero e miglior contributo alla storiografia
sul fascismo.
Seguirò la traccia di
Marcello Veneziani, con il quale stavolta ho parecchi motivi di divergenza.
Secondo Veneziani, De Felice smonta una serie di tabù della storiografia sul
fascismo. Vediamoli uno per uno
1.
“E’ vietato dire che il fascismo ha goduto
per tanti anni di un reale consenso popolare”, scrive Veneziani.
In
effetti fu questo uno dei motivi scatenanti della “guerra civile” degli storici.
La questione è però più complessa. A De Felice veniva rimproverata la
distinzione fra il “consenso attivo” al regime, quello dei fascisti militanti e
convinti, che restò limitato e circoscritto anche per sua ammissione, e il “consenso
passivo”, che invece almeno fino al 1936 e, in parte, fino alla guerra, fu a
suo avviso molto ampio. Questa categoria di “consenso passivo” fu giudicata,
non senza qualche ragione, alquanto ambigua e si disse che De Felice eludeva il
fatto che questo consenso era in buona parte manipolato dalla propaganda di
regime ed estorto con la violenza e con la minaccia della repressione. Ciò è
vero, ma gli storici di sinistra a loro volta eludevano il fatto che, per
estorto e manipolato che fosse, quel consenso era reale e almeno in parte andava
oltre l’orchestrazione del regime e la minaccia dell’apparato repressivo. La
grave colpa degli storici di sinistra, con poche ed isolate eccezioni (fra cui
Aurelio Lepre), fu di aver dimenticato, forse in modo non innocente, che la
questione del consenso al fascismo, o meglio della sua base di massa, era stata
posta proprio da studiosi marxisti del fascismo e fin dagli anni Venti e
Trenta. Ma si trattava di marxisti non ortodossi secondo i canoni della Terza
Internazionale stalinista ed anzi addirittura “eretici”, in quanto sviluppavano
certe tesi di Trotzsky sul fenomeno fascista. Tra di essi si devono citare
almeno Otto Bauer e August Thalheimer. Thalheimer, Bauer e lo stesso Trotzsky
interpretavano il fascismo, e in particolare il nazismo, alla luce di un modello
“bonapartista”, tratto cioè da un’opera di Marx su Luigi Bonaparte (Napoleone
III): Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. L’interpretazione bonapartista
del fascismo consentiva di superare lo schematismo della interpretazione
marxista ufficiale, ma anche della interpretazione liberale di Croce, e di dar
conto della base di massa che il regime era stato capace di costruirsi, senza
ridurlo a semplice “agente del capitale monopolistico” (o a una “malattia
morale” e ad una barbarica invasione tipo quella degli Hyksos nell’Antico Egitto,
secondo il punto di vista crociano). Ma
di questo non si parlò affatto nel furore della polemica ideologica fra De
Felice e i suoi antagonisti e vanamente Lepre fece pubblicare da Liguori la
preziosa rassegna di Richard Saage sulle “Interpretazioni del nazismo”, che dava
spazio proprio a quelle letture del fenomeno, tra cui quella bonapartista, che
già da tempo risultavano utili a porre seriamente la questione del consenso.
2.
“Non si può dire che il fascismo fu un
regime di modernizzazione”.
In
realtà, si poteva dire e lo dicevano anche gli storici marxisti, facendo ad
esempio riferimento al classico studio di Polanyi, La grande trasformazione.
Tutti gli studiosi, poi, che avevano interpretato il fascismo alla luce
della categoria del “totalitarismo”, da Hannah Arendt a Friedrich e Brzezinski,
mettevano poi in risalto la modernità del fascismo rispetto ai tradizionali
regimi autoritari. Il merito di De Felice, semmai, fu di segnalare le
interpretazioni sociologiche e psico-sociali del fascismo, in Italia fino a
quel punto piuttosto trascurate, per la diffidenza verso le scienze sociali che
era delle due correnti culturali lungamente egemoni, quella gramsciana e quella
crociana.
3.
“Non si può dire che il razzismo e l’antisemitismo
furono estranei al fascismo sino all’alleanza con Hitler e alle sciagurate
leggi razziali”.
E
difatti, caro Veneziani, questo non si può e non si deve dire, perché non è
vero! Fin dalle origini fu presente nel fascismo una corrente razzista e
antisemita , che ruotava intorno alla figura di un mio, purtroppo,
comprovinciale, Giovanni Preziosi, e che pubblicava una rivista – “La Vita
Italiana” – la quale pretese anche di dare lezioni ai nazisti, nei primi anni
Trenta, su quale fosse il migliore “razzismo” (quello su base culturale e non
etnica, secondo gli ideologi della “Vita Italiana”). Antisemite erano figure
non certo secondarie del regime, e proprio del “fascismo movimento”, per usare
un’espressione di De Felice: Farinacci, il ras di Cremona e antagonista-ombra
di Mussolini, e Rossoni, il leader del sindacalismo fascista. Certamente,
questa componente fu minoritaria nel fascismo, fino al 1938, ma fu anche
decisiva nel determinare la funesta svolta delle leggi razziali, in quanto
consentiva di presentarla come il coerente sviluppo di una linea già presente
nel fascismo italiano, piuttosto che come una servile imitazione del nazismo.
4.
“Non si può dire che nazismo e fascismo
furono due realtà distinte”.
Anche
qui la questione è un po’ più complessa. La divergenza era un’altra: la
storiografia di sinistra tendeva a usare in senso molto ampio la categoria di
fascismo, applicandola a un notevole numero di regimi, partiti e movimenti. De
Felice riteneva che in senso stretto la categoria dovesse applicarsi solo al
fascismo italiano e al nazismo tedesco, tra i quali vi erano anche delle
differenze. Qui certo De Felice pensava più genuinamente da storico dei suoi
antagonisti. Il problema è che, suo malgrado, questa posizione è stata
strumentalmente usata per avanzare la tesi di un fascismo relativamente “buono”
(o che “fece anche cose buone”) rispetto a un nazismo totalmente “cattivo”.
Quest’uso volgarmente strumentale della storia, a fini di polemica politica,
francamente non apparteneva né a De Felice, né ai suoi avversari del tempo. Si
volava più alto.
5.
“Non si può dire che le potenze
occidentali spinsero Mussolini tra le braccia di Hitler, dopo che aveva
vanamente tentato di porsi nel mezzo”.
Anche
questo non si può dire semplicemente perché è piuttosto lontano dal vero. Gli
errori tragici delle potenze occidentali furono molti, e sono anche ampiamente
noti, e certamente questi errori contribuirono a consolidare l’alleanza italo-tedesca,
ma nelle braccia di Hitler Mussolini si gettò da solo, a partire dalla campagna
di Etiopia, con la quale si isolò dalle potenze occidentali. Fu allora che si
cominciò a delineare l’Asse Roma-Berlino e quella scelta sciagurata innescò una
dinamica che poi portò, per successivi passaggi (cruciale fu anche, appena
conclusa la conquista dell’Etiopia, l’intervento nella guerra civile spagnola a
fianco di Franco e accanto a Hitler), al Patto d’Acciaio e all’alleanza bellica.
Certamente Mussolini non era mai stato filotedesco, diffidava dell’alleato, ne
subiva lo strapotere con malcelata insofferenza, ma era stato lui stesso a
cacciarsi in trappola.
Quanto
al presunto ruolo di mediatore fra le potenze occidentali ed Hitler che si
dovrebbe attribuire a Mussolini, esso è una leggenda. Sono due fondamentalmente
gli episodi dai quali questo ruolo dovrebbe emergere: la conferenza di Stresa
del 1935 e quella di Monaco del settembre 1938. Nel primo caso, Mussolini
assunse effettivamente una posizione mediana fra i due contendenti, sul tema
della revisione dei Trattati del 1919, posizione che era stata il punto forte
delle aspirazioni di politica estera italiana negli anni precedenti e che in
quel momento rappresentava un argine alle rivendicazioni hitleriana. Tuttavia,
proprio a Stresa la possibilità di un ruolo centrale dell’Italia nello scenario
internazionale naufragò definitivamente. A quella conferenza, infatti, Mussolini
fronteggiò Hitler e costituì con i franco-britannici il cosiddetto ed effimero “fronte
di Stresa”, soprattutto perché sperava di ottenere il lasciapassare
franco-britannico per l’imminente impresa d’Etiopia, ossia per quella avventura
che lo avrebbe consegnato definitivamente nelle mani di Hitler (e anche per
dissuadere Hitler dal riprovare l’Anschluss con l’Austria, che già aveva
bloccato l’anno prima). Quanto alla Conferenza di Monaco e al ruolo di
mediazione che Mussolini vi avrebbe esercitato, scongiurando così, almeno per
il momento, la guerra, ciò è davvero una invenzione propagandistica (peraltro non
gradita allo stesso Mussolini, che non fu del tutto contento di sentirsi
acclamare come “Salvatore della pace”, nel momento in cui amava presentarsi come
Duce militare e voleva suscitare le presunte e latenti virtù guerresche del
popolo italiano), un’invenzione della propaganda alleata e di quella tedesca.
Francesi e inglesi dovevano lasciar credere che a Monaco Hitler fosse stato
costretto ad arretrare rispetto alle sue rivendicazioni, mentre il Führer doveva
a sua volta recitare la parte di chi si accontenta mentre in realtà si
accaparrava tutta la posta in palio. La proposta di mediazione di Mussolini,
infatti, concedeva a Hitler tutto ciò che aveva preteso per il momento (l’annessione
dei Sudeti) senza dare nessuna garanzia reale ai cecoslovacchi, a cui neanche
fu consentito di partecipare all’incontro (i rappresentanti cecoslovacchi
dovettero attendere nella stanza accanto, mentre di decidevano le sorti del
loro paese!). Per giunta, come la documentazione ha ormai evidenziato, questa
proposta del tutto favorevole a Hitler non fu neanche autonomamente presentata
da Mussolini, ma gli fu letteralmente dettata da Berlino! E questo dovrebbero
saperlo quei sovranisti odierni nostalgici del Duce!
6.
“La Repubblica sociale fu un freno e un
cuscino per attutire il nazismo e le ritorsioni agli italiani”.
Qui francamente non vorrei neanche commentare,
perché una tale affermazione sembra più degna di un reduce irriducibile di Salò
che dell’intelligenza e dell’onestà intellettuale di Veneziani. Basterebbe solo
pensare alla sorte degli ebrei italiani, che le camicie nere di Salò
contribuirono a rastrellare e a deportare
(anzi furono soprattutto loro a fare il “lavoro sporco” per conto delle
SS).
7.
“Non si può dire che la Resistenza fu un
fenomeno minoritario e non sconfisse il fascismo, ma accompagnò la vittoria
degli alleati”.
Qui
non vorrei commentare per il motivo opposto: l’affermazione corrisponde ad una
evidenza storica incontrovertibile e persino banale. Ogni lotta armata, ogni “resistenza”,
è inevitabilmente fenomeno minoritario e d’altro canto è impensabile che i
partigiani potessero sconfiggere i tedeschi da soli e anche che potessero
risultare determinanti. L’affermazione banale però ha un significato, ed è per
questo che Veneziani la fa: intende demolire la Resistenza come mito fondativo
della Repubblica. Qui entriamo veramente nel terreno delle idee e delle scelte politiche
e abbandoniamo quello della storiografia. Da parte mia, per restare invece su
quest’ultimo piano, vorrei evidenziare come la Resistenza non fu solo affare
dei comunisti, che ne hanno poi sequestrato la memoria, e che ci furono
partigiani di diverso indirizzo politico. Ma per capire questo basterebbe
leggere Fenoglio.
8.
“Non si può dire che la partitocrazia
nasce già con la Resistenza e con i CLN”.
Alla
fine, un punto che sottoscrivo in pieno e senza riserve, sebbene si trattasse
evidentemente di ben altra “partitocrazia” e di ben altri leader politici! Per
la verità, questo lo diceva già nel 1944 e poi negli anni successivi un tal
Guglielmo Giannini, fondatore dell’”Uomo Qualunque”, un personaggio scomodo,
troppo dileggiato, troppo sbrigativamente rimosso dalla storia di questo paese.
Un vero impresentabile, per dirla con Veneziani.
In
conclusione, questa discussione dovrebbe servire, oltre che naturalmente a
puntualizzare alcune evidenze storiche sul fascismo, anche a collocare nella
giusta dimensione l’opera storiografica di De Felice, che certamente non merita
di essere sottovalutata e sbrigativamente liquidata, ma neanche va idolatrata,
come tende a fare oggi una opinione pubblica moderata o di destra (ribadisco:
senza leggerla). Quello che si consumò fra De Felice e gli storici marxisti
negli anni Settanta e Ottanta fu in realtà uno scontro ideologico e l’ideologia
non stava da una parte sola, anche se in una parte sola essa era dichiarata. Uno
scontro che evidenziava l’ “uso pubblico” , cioè politico, della storia, come
ebbe a dire Habermas. Un uso pubblico e politico della storia che è inevitabile
(l' “obiettività” nella storiografianon può esistere nel senso di asettica neutralità,
ma solo nel senso di onestà intellettuale e rigore scientifico), che va però esercitato
con un profilo alto – come fecero
sicuramente De Felice e i migliori fra gli storici di formazione marxista – ma che
espone altrettanto inevitabilmente a delle mancanze e a delle approssimazioni.
E voglio concludere citandone una, importante, sulla quale pure credo di poter
avere una “opinione informata”.
Un
motivo di polemica fra De Felice e gli storici marxisti, che Veneziani non
cita, riguardò la scelta e l’uso delle fonti – il cuore quindi del lavoro dello
storico. Gli storici marxisti diffidavano delle fonti “fasciste”, ossia quelle prodotte
dal regime stesso, e le usavano molto limitatamente – magari per studiare i
meccanismi della propaganda fascista - o non le usavano affatto. De Felice ebbe
facile gioco nell’attaccarli: è evidente che qui i suoi antagonisti cadevano in
una ingenuità puerile per degli storici, se non fosse stata in realtà, lo schermo
di un pregiudizio ideologico. Non esistono fonti “obiettive”, come dovrebbe
sapere anche uno studente delle medie, e lo storico le fonti deve usarle tutte,
sempre vagliandole criticamente. Gli storici marxisti rinunciavano ad esempio
ad usare una documentazione molto importante, conservata all’Archivio Centrale
dello Stato: i rapporti degli informatori dell’OVRA, la polizia politica
fascista, gli agenti che giravano in incognita tra la gente, nelle piazze, nei
bar, non solo e non tanto per individuare e denunciare gli oppositori del
regime, ma per raccogliere opinioni e sentimenti della popolazione. De Felice
ha avuto l’indiscutibile merito di aver individuato questa fonte, di averne
sottolineato l’importanza e di aver incominciato ad usarla. Tuttavia, nella sua
opera, De Felice non ha svolto un’indagine sistematica su questi rapporti, ma
si è limitato ad estrapolarne e a citarne qualcuno (dando ai maligni l’impressione
che selezionasse quelli che potevano confermare le sue tesi, ma a questo non
vogliamo credere). Fu invece proprio Aurelio Lepre a indirizzarmi verso una
ricerca sistematica su quelle fonti, in relazione al tema di cui mi occupavo
allora (l’immagine e il mito di Mussolini). E così passai tante gratificanti, talora
entusiasmanti giornate all’Archivio Centrale dello Stato e feci una scoperta di
una certa importanza: i rapporti erano anonimi, ma qualcuno – non so se l’informatore
stesso o il destinatario dell’informativa, il capo dell’OVRA Guido Leto – li
contrassegnava con una sigla. Ogni informatore aveva la sua sigla (ad esempio “Milano
52/77”, “Genova 589” e così via). Questo dato è prezioso, perché Guido Leto,
come ebbe anche a dire esplicitamente nelle sue memorie, reclutava informatori
di ogni tipo, per avere un quadro completo della situazione. C’erano, quindi, tra
loro dei fascisti militanti e anche fanatici ma anche degli irriducibili antifascisti.
E c’erano, in buon numero, degli informatori di area, diciamo così afascista, che
erano ovviamente i più attendibili. Ricollegare i vari rapporti informativi ai
loro autori, stabilire ad esempio che “Milano 569” era un fanatico fascista o
che “Firenze 52 Fieramosca” era un non meno fanatico antifascista, mentre “Milano
52 B 51” o “Genova 610” (e parecchi altri) erano equilibrati e attendibili, fu
molto importante per la mia ricerca e lo è stato, credo, anche per ricerche
successive. Ma questa scoperta non l’avevano fatta né De Felice e tantomeno i
suoi antagonisti (che nemmeno li guardavano quei documenti), mentre la poté fare
un giovane e oscuro ricercatore, non perché avesse particolari abilità, ma
forse solo perché, estraneo come era alla furente battaglia che si stava ancora
combattendo, aveva più tempo per concentrarsi sulle fonti ossia sulla linfa
vitale del lavoro storico, e le poteva leggere con mente più libera. E se mi
sono permesso di citare questo elemento biografico è perché ne trassi una
lezione che non ho mai più dimenticato e che oggi mi pare più che mai di vitale
importanza.