Il politicamente
corretto come ideologia
La
tesi di fondo di Eugenio Capozzi è che non bisogna ridurre il politicamente
corretto a una moda insulsa e non ci si può limitare a stigmatizzarne gli
aspetti pittoreschi e grotteschi, benché comunque molesti – per esempio la
femminilizzazione forzata delle parole, con risultati spesso ridicoli: il
politicamente corretto va purtroppo preso sul serio e considerato alla stregua
di una retorica e di un catechismo civile che si impongono con la forza di una
vera e propria ideologia, sorta in occidente proprio nell’epoca che veniva
ritenuta della “morte delle ideologie”.
Capozzi
usa opportunamente ed efficacemente la categoria marxiana di ideologia
nell’analisi del fenomeno del politicamente corretto. Una categoria che è forse
l’aspetto tuttora più vitale del pensiero del filosofo di Treviri e che si
propone come strumento di analisi anche e soprattutto a chi marxista non è e
magari intende smascherare le mistificazioni ideologiche proprie dei marxisti
superstiti, degli ex marxisti e dei postmarxisti. Ed è in effetti proprio tra
questi, tra gli altri, che il politicamente corretto ha trovato un fertile
terreno di diffusione.
Vale
la pena di ricordare, quindi, preliminarmente, l’accezione marxiana di
“ideologia”. Marx ed Engels ne danno una chiara ed efficace definizione ne L’ideologia tedesca (opera che, è
opportuno sottolinearlo, fu pubblicata solo nel 1932, restando così sconosciuta
al marxismo ottocentesco e primo novecentesco e in particolare a Lenin):
«Le
idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la
classe che è la potenza materiale
dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante […] Le idee dominanti non sono altro che
l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti
materiali dominanti presi come idee; sono dunque l’espressione dei rapporti che
appunto fanno di una classe la classe dominante e dunque sono le idee del suo
dominio».
Se
non che, queste idee non si presentano nel loro vero volto, nel loro vero significato,
nel loro reale scopo e funzione, che sono quelli sopra espressi. Esse si
presentano, invece, come oggettive e scientifiche, sul piano teoretico, e come
universalmente giuste, benefiche e condivisibili, sul piano etico, celando la
loro vera natura che è quella di essere funzionali al dominio di una classe e
alla oppressione di un’altra. Pertanto, l’ideologia è “falsa coscienza” ed è
una rappresentazione mistificante della realtà. La sua potenza, legata al
dominio dei gruppi che la esprimono, è però tale, che essa spesso conquista il
favore dei gruppi sociali subordinati, che in tal modo vanno contro i loro
interessi, e conquista il consenso, spesso interessato e non innocente, di quegli
intellettuali che si illudono di lottare contro il sistema o comunque di
svolgere una funzione critica, o almeno amano presentarsi così, ed invece
contribuiscono solo al rafforzamento del potere che pensano e dicono di
contestare e di criticare. Era il caso, al tempo di Marx, della sinistra
hegeliana, i cosiddetti giovani hegeliani, nei cui confronti Marx ed Engels
hanno espressioni di feroce sarcasmo: questi presunti rivoluzionari sono
“pecore che si credono lupi” e che con i loro belati fanno solo il gioco della
borghesia tedesca. In realtà non combattono contro il potere, ma solo contro
delle “frasi”, opponendo a queste “frasi” delle altre “frasi” (esempio
particolarmente calzante per l’attuale sinistra “politically correct”).
La
disanima di Eugenio Capozzi, che ora riassumeremo almeno in qualche punto
essenziale, porterebbe a concludere che
l’”ideologia tedesca” di oggi, ossia l’ideologia espressione dei gruppi
socialmente ed economicamente dominanti, sia proprio il politicamente corretto
e che i giovani hegeliani del nostro tempo, le pecore che si credono lupi e belano
a vantaggio del sistema di potere, siano gli intellettuali, i giornalisti, i
divi dello spettacolo progressisti e liberal o della cosiddetta sinistra
radicale.
Il politicamente
corretto come ultima forma di progressismo
Il
politicamente corretto, secondo Capozzi, è l’ultima forma assunta dal
“progressismo”, ossia da quella religione laica del progresso, nata dalla
secolarizzazione del messianismo millenaristico. Una religione laica, una
filosofia e una escatologia della storia, che tra Ottocento e Novecento, hanno
segnato dottrine politiche e sistemi politici anche molto diversi tra loro, ma
con natura o con esiti spesso totalitari. In tal senso, il politicamente
corretto è il totalitarismo del nostro tempo.
A
differenza delle precedenti forme di “progressismo”, compreso il comunismo, che
vedevano nell’Occidente, o almeno in una sua componente, l’agente salvifico, il
soggetto della redenzione e della liberazione – lo Spirito nell’idealismo, la
ragione scientifico-tecnologica nel positivismo, la classe operaia guidata dal
partito nel marxismo, ecc. – il politicamente corretto intende, però,
realizzare la sua opera di redenzione contro
l’Occidente, e in particolare contro la ragione occidentale considerata
strumento e struttura di dominio. Il politicamente corretto, che pure nasce
dall’Occidente, si risolve così in una specie di “autofobia”, a cui corrisponde
simmetricamente una allofilia. Dalla tirannia dovrebbero essere liberate tutte
le minoranze – etniche, culturali, religiose, sessuali (comprese le donne, che
minoranza non sono, ma sono assimilate alle altre categorie discriminate),
nonché gli animali e l’ambiente naturale.
La
visione del mondo manichea che è propria della nuova ideologia comporta la
totale delegittimazione e finanche la demonizzazione dell’antagonista politico
e in genere di chi esprime idee diverse da quelle ortodosse, che viene escluso
da qualsiasi spazio di discussione civile, in quanto accusato di fomentare
l’odio, di esprimere idee razziste, sessiste, omofobe, islamofobe e via
dicendo. Quando è possibile, si evita l’attacco frontale e si neutralizza il
“dissidente” con la sua emarginazione, togliendogli strumenti e canali di
intervento nel dibattito pubblico, o screditandolo e diffamandolo e ottenendo così
il risultato voluto: egli non è più in grado di parlare e comunque la sua voce
non ha alcuna credibilità o risonanza pubblica. Sottolinerei che questa è precisamente
la logica repressiva dello stalinismo.
Nonostante
le sue pretese “ecumeniche” il politicamente corretto è espressione, secondo
Capozzi, di ben determinate elites,
quelle ascese in seguito alla globalizzazione economica, istituzionale,
tecnologica e mediatica, le uniche che sono state capaci di imporre una propria
“narrazione” negli ultimi decenni. Ultimamente, tuttavia, i risultati
fallimentari ottenuti in alcuni ambiti (in particolare riguardo alle politiche
dell’immigrazione e al modello “multiculturale” di società e alle conseguenze
della globalizzazione economica con la crisi delle classi lavoratrici e la
“proletarizzazione dei ceti medi”), sembrano produrre una consistente reazione
all’egemonia culturale della ideologia politicamente corretta. L’esito
paradossale dell’avvento del neoprogressismo non è stato infatti la creazione
di società più pacifiche, inclusive e giuste, ma il riemergere di vecchi
conflitti e la nascita di nuovi, con una preoccupante lacerazione del tessuto
civile. Lo scontro in atto non può essere così ricondotto alle vecchie
categorie di destra e sinistra, ma è piuttosto fra “globalisti” e “sovranisti”,
ossia fra i sostenitori di “una società liquida, mobile, dalle identità
mutevoli e senza radici” e coloro che invece intendono “ancorare più saldamente
le identità individuali e collettive”, recuperando o “mantenendo un rapporto
con le radici e i fondamenti dell’umanesimo euro-occidentale”.
L’ideologia
del politicamente corretto è strutturata intorno a quattro blocchi dogmatici
fondamentali, con minimo comune denominatore il relativismo estremo:
1. Il
relativismo antropologico-culturale che ha come ultimo esito il
multiculturalismo
2.
L’equivalenza fra desideri e diritti
3.
L’animalismo ed ambientalismo ideologici
e la marginalizzazione dell’uomo sul pianeta.
4. L’idea
dell’identità totalmente sradicata da eredità naturali e storiche ed
espressione di una assoluta autodeterminazione soggettiva.
Il primo “dogma”: il multiculturalismo
e la società di Imagine
Una
serie di fattori e processi culturali e storici hanno portato a un epocale
mutamento di paradigmi culturali che ha rovesciato l’identificazione degli
occidentali con la loro storia e cultura in un
ripudio e in un radicale atto di accusa verso l’occidente. Nonostante la
crisi della ragione occidentale del primo Novecento e lo choc della Grande
Guerra, fino alla fine della seconda guerra mondiale e agli anni del boom
economico, nessuno metteva in dubbio che modernità e progresso fossero un
positivo prodotto dell’Occidente e che si offrisse agli altri popoli un analogo
cammino per entrare pienamente nel mondo civile. I due blocchi contrapposti
dell’epoca della guerra fredda, restavano infatti entrambi eurocentrici ed
eurocentrica era la stessa contestazione dell’”imperialismo” occidentale, con
la nascita della nozione di “terzo mondo”, in quanto ai popoli cosiddetti
“sottosviluppati” e ai paesi “in via di sviluppo” si proponeva o imponeva un
paradigma di modernizzazione del primo o del secondo mondo, dell’uno o
dell’altro schieramento.
Un
primo fattore in questo mutamento epocale di paradigma è stato lo sviluppo in
senso terzomondista del marxismo, che – preciserei da parte mia - dai piani
“nobili” dell’elaborazione culturale – si pensi al Marcuse dell’ Uomo a una dimensione, ma già prima a
Sartre e al famoso libro di Frantz Fanon, I
dannati della terra – si è tradotto in una vulgata che vede i popoli
extraeuropei portatori di una “originaria innocenza”, macchiata dai dominatori
e dalla loro cultura, con la conseguente esaltazione preconcetta di ogni usanza
e tradizione espressione delle culture “altre”, parallelamente alla
contestazione dello stile di vita occidentale.
Le
elaborazioni politico-culturali “alte” sono fermentate nel brodo di cultura
degli anni Sessanta - contestazione giovanile, movimento afro-americano,
protesta contro la guerra del Vietnam, celebrazione della “rivoluzione
culturale” cinese – producendo la vulgata suddetta e l’aspirazione utopica a un
mondo di pacifica e idilliaca convivenza fra diversi o meglio alla restaurazione di un Eden
originario, di una armonia perduta - un vero paradiso messianico, ma senza
religioni e chiese. La canzone Imagine divenne
ed è rimasta l’inno ufficiale di questo pacifismo escatologico, dell’ideale di
un mondo multiculturale/interculturale assimilabile a un’unica, grande comunità
hippy.
Il
passaggio successivo è stato lo sganciamento di proteste e rivendicazioni dalle
questioni economico-sociali, concentrandole soltanto nel campo dei “diritti
civili” e del riconoscimento di status per gruppi e categorie ritenuti
discriminati. Il passaggio ha evidenziato a sua volta il legame organico del
nuovo paradigma progressista con le classi medio-alte della borghesia
globalista e cosmopolita e lo caratterizza come ideologia della sinistra
elitaria. Questo sviluppo sembra recente, ma in realtà fu individuato già nel
1970 dallo scrittore statunitense Tom Wolfe, nel suo articolo Radical chic. Elemento caratterizzante
dell’ideologia radical-chic è la scelta e adozione di una “causa”, in base a
criteri di ordine etico e perfino estetico e non in seguito a una vera e
propria analisi, ma piuttosto per una attrazione emotiva e sentimentale. Nel
caso del multiculturalismo si tratta dell’attrattiva emozionante per un
lontano, un esotico, un diverso, considerato puro e incontaminato, da amare,
accogliere e imitare pregiudizialmente, anche e soprattutto come modo di
espiazione di una “colpa” atavica, quella di essere appunto occidentali e in
quanto tali imperialisti (peggio ancora se maschi, perché in tal caso si è
anche, in quanto tali, sessisti e patriarcali).
Quest’ultimo
punto può forse contribuire a spiegare, a mio avviso, la singolare
contraddizione interna a questo paradigma: l’estrema assoluta tolleranza verso
il diverso e l’altro, si trasforma in una altrettanto radicale intolleranza
fanatica e dogmatica nei confronti di chi, occidentale, si rifiuta di aderire
alla narrazione politicamente corretta. Evidentemente costoro sono ritenuti
peccatori impenitenti, riluttanti ad espiare, come invece fanno i sostenitori
del multiculturalismo, la colpa originaria dell’Occidente e intenzionati invece
a perpetuarla, in modo diabolicamente perseverante.
E’
evidente come il paradigma multiculturalista, già egemone culturalmente (si
pensi alla fioritura dei postcolonial
studies), sia stato esaltato dai fenomeni migratori più recenti, con esiti
tuttavia contraddittori, perché proprio questi fenomeni sono ora uno dei
fattori della sua crisi. L’emigrazione non è stata letta più, come era sempre
accaduto, come conseguenza di specifiche dinamiche economiche e sociali, da
valutare approfonditamente e caso per caso nei loro effetti, positivi o
negativi, tanto sui paesi di partenza che su quelli di arrivo. Il flusso
migratorio è stato invece considerato un fenomeno inevitabile, perenne,
inarrestabile. Significativo è anche il mutamento linguistico: non si parla più
di emigranti, ma di “migranti”, con il sottinteso che quella del “migrante” sia
una condizione universale, strutturale e perenne dell’umanità 2.0. Tutti siamo
migranti o dobbiamo accettare di diventarlo. Il nomadismo è o sarà la
condizione ordinaria del genere umano.
Il
luogo comune per il quale “la storia dell’umanità è la storia di emigrazioni e
di migranti”, aggiungo io, mentre cerca di considerare il fenomeno come una
necessità storica, ha paradossalmente il risultato opposto: lo sgancia dalle
concrete dinamiche della storia e lo rende astorico. E qui si rivela pienamente
l’aspetto mistico-millenaristico del paradigma politicamente corretto:
l’emigrazione di massa dai paesi africani e asiatici all’Europa o dall’America
latina negli USA sarebbe non solo un evento ineluttabile, ma provvidenziale che
potrà costruire finalmente una società senza radici, senza frontiere, senza
identità precostituite. Insomma, l’utopia millenaristico-pacifista di Imagine.
Se
non che, lungi dal porre in cammino le nostre società verso quell’orizzonte,
l’immigrazione ha mostrato i limiti drammatici e contraddittori della
narrazione multiculturalista. Essa, per la verità, aveva già ricevuto un colpo
formidabile dall’ascesa dell’integralismo islamico, a partire dalla rivoluzione
iraniana del 1979 e fino al grande choc dell’11 settembre 2001. Si era mostrato
allora che un popolo o una civiltà o una religione non occidentali potevano declinare
l’offerta di pacifica convivenza, rifiutandosi di entrare nella grande comunità
hippy postmoderna, per scegliere invece
la strada dell’arroccamento identitario e del conflitto con le altre culture, a
cominciare da quella occidentale. La de-occidentalizzazione, in sostanza, non
portava al multiculturalismo, ma al rifiuto totale dei valori di tolleranza e
convivenza. L’11 settembre ha portato almeno alcuni intellettuali occidentali a
posizioni revisioniste e ad una azione di denuncia dei guasti prodotti dal
nuovo progressismo, ma si è trattato di una componente minoritaria della
cultura occidentale. Per lo più, la ribellione identitaria violenta dei popoli
extraeuropei e in particolare degli islamici è stata ricondotta, ancora una
volta, alle presunte “colpe” dell’Occidente.
I
ripetuti attentati terroristici degli ultimi anni, insieme all’evidente e catastrofico
fallimento delle politiche di integrazione, sia nella loro versione britannica
e scandinava delle enclaves– divenute
in realtà no gone zone, aree
extraterritoriali sottoposte di fatto alla sharia
e non alle leggi dello Stato – sia in
quella francese dello spazio pubblico laico e neutrale fra le varie
culture religiose (sia aggiungerei nella versione italiana dell’assenza di
qualsiasi politica di integrazione) ha prodotto una crescente insofferenza
popolare verso la vulgata politicalcorrettista con la crescita delle forze
cosiddette populiste e sovraniste.
In
sostanza, le politiche delle classi dirigenti neoprogressiste non hanno
prodotto integrazione, ma al contrario hanno generato tensioni politiche e
disgregazione sociale. Le classi dirigenti non ne hanno però preso atto, ma si
sono ancor più irrigidite nella loro narrazione dottrinaria e dogmatica,
adottando un catechismo sempre più inflessibile nei confronti dei “dissidenti”,
presentando la questione come una lotta fra luce e tenebre, fra civiltà e
barbarie. “Un catechismo ferreo, un moralismo severo, una censura inflessibile”
calano brutalmente su chiunque osi mettere in dubbio la loro visione.
Aggiungerei
che ciò che emerge in questo punto della narrazione politicalcorrettista è una
sconcertante contraddizione: l’utopia della società multiculturale è tutta costruita
sui valori di quell’occidente che viene invece colpevolizzato e ripudiato e si
traduce in un progetto di armoniosa e pacifica convivenza con popoli e culture
che invece in una loro componente non certo marginale quei valori non li
riconoscono, non li accettano e talora li combattono apertamente.
Secondo e terzo “dogma”:
ogni desiderio è un diritto: l’homo
gaudens e le identità “liquide”
Capozzi
individua nella rivoluzione dei costumi del secondo dopoguerra e degli anni
Sessanta, con al centro la liberazione sessuale, il retroterra
storico-culturale di questo secondo “pilastro” dell’ideologia politicamente
corretta, citando il successo, in quegli anni, delle teorie di Reich, prima
sconosciute, la diffusione dei cultural
studies e dei gender studies, le
elaborazioni della scuola di Francoforte, e in particolare di Marcuse, con la
sintesi di marxismo e psicoanalisi.
Capozzi
riconosce che non si tratta tuttavia di un percorso lineare e di uno sviluppo
del tutto consequenziale che porta da quelle elaborazioni e da quei movimenti
all’attuale esaltazione neoprogressista dell’homo gaudens. In particolare, sottolinea la volgarizzazione e la
banalizzazione delle tesi di Marcuse, il quale non era affatto per la
liberalizzazione assoluta di qualunque istinto e pulsione, ma riconosceva
comunque, sulla scia di Freud, che una certa quota di “repressione” fosse
necessaria alla costruzione e alla sopravvivenza della civiltà, ritenendo
tuttavia che la società occidentale industrializzata, in quel momento, imponesse
un livello di repressione troppo elevato. Mi pare che però Capozzi non evidenzi
abbastanza come quelle idee avessero originariamente una funzione di contestazione,
sebbene comunque manipolabile e strumentalizzabile dai poteri dominanti, mentre
oggi esse si mostrano solo come un fattore di conservazione e di
stabilizzazione sociale.
Tuttavia,
anche in questo caso emerge la contraddittorietà esplosiva dell’ideologia
dominante, in quanto essa agisce, anche su questo punto, in senso opposto a
quello desiderato e produce disgregazione, nella società, nella famiglia,
nell’individuo stesso. La contestazione della famiglia tradizionale,
considerata patriarcale, ha portato alla sua dissoluzione, ma non certo alla
costruzione di nuovi modelli: le nuove “famiglie” non lo sono, come non lo era,
ed è presto naufragata, la “grande famiglia hippy” dei “figli di tutti”. Ciò
che sembra prevalere – mi permetto di sviluppare in tal senso le annotazioni di
Capozzi - è piuttosto l’affermazione di progetti e desideri individuali che
solo per un arco di tempo solitamente molto ridotto sembrano incontrarsi con
desideri e progetti di un’altra persona, ma quasi mai coincidono con desideri,
progetti e bisogno dei figli, quelli già esistenti e quelli “messi in cantiere”
(magari con l’”utero in affitto”). Peraltro, la disgregazione agisce anche
all’interno dell’individuo, portandolo in conflitto con se stesso.
In
sostanza, quando il soggetto umano viene ridotto alla sua funzione desiderante,
ciò provoca non già appagamento
universale, ma una esplosione di conflittualità, in quanto non vi sono più
limiti alla moltiplicazione dei desideri, alla loro mutevolezza, alla loro
contraddittorietà nello stesso individuo e fra individui e gruppi differenti.
A
me pare che questo secondo “dogma” del politicamente corretto sia strettamente
legato a quello che Capozzi indica come quarto – l’identità sradicata da
eredità naturali e storiche ed espressione di una assoluta autodeterminazione
soggettiva - e che quindi sia conveniente trattarli in immediata successione.
La
trasformazione in diritti dei desideri e dei bisogni – reali o fittizi,
autonomi o manipolati, naturali o costruiti – non sarebbe infatti possibile, se
il soggetto portatore di diritti non venisse slegato da qualsiasi substrato
naturale e storico, se non lo si concepisse, ormai, come un soggetto ad
identità “liquida”, indeterminata nella sua mutevolezza, sganciata da qualsiasi
vincolo, condizionamento e riferimento e totalmente autodeterminata (è perfino
superfluo sottolineare come questa pretesa di assoluta autodeterminazione sia
poi illusoria ed esponga il soggetto alla soggezione al pensiero comune, alle
mode e alle tendenze dominanti, o dominanti in certi ambienti, anche ristretti,
in modo ancor più pericoloso, proprio perché lo priva di consapevolezza). In
tal senso, è assolutamente fuori luogo rappresentare i “nuovi” diritti – unioni
e adozioni gay, aborto, testamento biologico ed eutanasia, droghe leggere, ecc.
- come un coerente sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo definiti dal pensiero liberale moderno e vedere nei
movimenti e nelle persone che si impegnano a rivendicarli gli eredi di una
grande tradizione di lotte civili. Al contrario: le battaglie per i diritti
politicamente corretti segnano una rottura con quel pensiero e quella
tradizione. Alle sue origini, l’idea moderna dei diritti dell’uomo è che
infatti questi ultimi siano diritti “naturali”, inscritti nella natura umana, e
che l’uomo, il soggetto che ne è titolare, sia ugualmente una creatura
determinata dalla natura.
Questo
è opportunamente sottolineato da Capozzi, quando scrive che l’invocazione dei
diritti dell’individuo sulla base dei desideri solo falsamente può essere
presentata come uno sviluppo libertario della teoria liberale e democratica dei
diritti dell’uomo, mentre in realtà si sostituisce a questa. L’essere umano
riconosciuto come depositario legittimo dei diritti non è più definito
ontologicamente, non ha più una sostanza,
è del tutto disincarnato e sradicato.
Andrebbe
aggiunto a ciò che dice Capozzi che per la verità si era già da tempo potuta
mettere in discussione – e non senza ragioni - l’idea dell’esistenza di una
natura umana universale, fissa e immutabile, ma agganciando comunque i diritti,
se non alla natura, a una eredità e ad una costruzione storico-culturale e
concependo l’uomo come un soggetto determinato da una certa storia e da una
certa cultura o da un contesto sociale. Si trattava già di un relativismo, ma
non dell’attuale relativismo estremo, e pure quello aveva comunque un costo: i
diritti moderni erano dichiarati “inalienabili” in quanto “naturali”.
Diventando frutto di una costruzione storico-culturale o di un patto sociale e
comunitario divenivano immediatamente negoziabili e non più di per sé inalienabili.
Ma eravamo comunque ancora lontanissimi dall’idea di diritti - e di soggetti
che ne sono portatori e titolari - slegati da qualsiasi eredità, tradizione e
substrato naturali, storici, culturali o sociali che siano e figli solo di una
libertà individuale assoluta.
La
costruzione di questa nuova sfera di diritti, agganciata solo ai desideri, e la
ridefinizione dell’identità nel senso dello sradicamento e della liquidità,
hanno trovato il loro campo di applicazione per eccellenza nella sfera legata
alla sessualità. Le contraddizioni intrinseche e l’inevitabile deriva di questo
processo sono ben rappresentate dalla vicenda del movimento gay. Una volta
stabilito che una identità non ha una base naturale, né una sedimentazione
storico culturale condivisa, ma è soggetta alle variabili indeterminate e
imprevedibili del desiderio, del sentimento, della pulsione individuali, è
rapidamente venuta meno l’insegna unitaria “gay” e si è passati alla sigla Lgbt
che tuttavia dava ancora una definizione compiuta dell’universo omosessuale,
accostando ai gay (di sesso maschile), le lesbiche (di sesso femminile e per
questo al primo posto nell’acronimo) i bisessuali e i transessuali. Ma da
questo punto di partenza si sono poi moltiplicate le identità non catalogabili
come maschili o femminili: queer,
intersex, no sex, gender fluid, non binary…Con l’ovvia puntualizzazione che
è possibile passare da una identità all’altra e assumerne più di una,
contemporaneamente.
Anche
qui, non bisogna cedere alla tentazione di un sarcasmo riduttivistico: alla
base di tutto vi è un preciso progetto ideologico: la costruzione di una
umanità svincolata da ogni condizionamento naturale e culturale. Un progetto
che mette al suo servizio la scienza e la tecnologia, strumentalizzandole e
talora manipolandole, in modo inquietantemente simile a quanto accadeva nei
regimi totalitari.
Il quarto dogma: l’ecologismo
ideologico, catastrofista e antiumanista
Anche
in questo caso, il “dogma” nasce da un rovesciamento di paradigma: per secoli il
rapporto uomo-natura è stato concepito come una lotta del primo per trasformare
la seconda in modo da migliorare le proprie condizioni di vita. Il cambiamento
si è prodotto, secondo Capozzi, a partire da tre fattori. Le atomiche di
Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato che la capacità scientifica, tecnologica e
militare dell’uomo era ormai tale da poter distruggere la vita stessa sul
pianeta. In secondo luogo le modalità della ricostruzione e del boom economico
post bellico hanno portato alla convinzione diffusa di un drastico
peggioramento della qualità della vita, dovuto all’inquinamento ambientale e
alla devastazione del paesaggio naturale. In terzo luogo ha agito il processo
di decolonizzazione con la denuncia dello sfruttamento delle risorse naturali
da parte dei paesi avanzati. Questi fattori hanno però trovato un elemento
detonatore nel clima della contestazione giovanile degli anni Sessanta. Si è
così sviluppata l’idea di un sistema di dominio occidentale che non solo si
applicava alla vita sociale, economica, politica e culturale ma si estendeva
alla rapina, alla devastazione, allo sfruttamento selvaggio a scopi di profitto
delle risorse naturali. Un passaggio decisivo è stato segnato dalla
pubblicazione del Rapporto sui limiti
della crescita da parte del club di Roma, nel 1972 e quindi a ridosso della
grande crisi petrolifera. Si è così definito il paradigma ecologista nei
termini di una denuncia del sistema che pretende di usare e sfruttare in
maniera illimitata e in vista di una crescita infinita risorse naturali che
sono invece finite, con il conseguente rischio addirittura imminente di una
catastrofe planetaria. Gli incidenti nucleari, soprattutto quello di Chernobyl,
hanno ulteriormente fissato questo paradigma.
Quello
che va sottolineato è la distanza di questo ecologismo da quello che Capozzi
definisce “conservazionista” e che si propone di salvaguardare la natura
riconoscendo nella dimensione ambientale un aspetto fondamentale della vita
civile. Questo ecologismo non rinnega la civiltà industriale, la crescita, la
necessità e la legittimità della manipolazione della natura da parte dell’uomo,
ma vuole gestire questi processi in modo da evitare effetti controproducenti e
distruttivi per le stesse società umane e per la libertà, la vita e la salute
dei cittadini.
Invece,
l’ecologismo politico nato nel percorso sopra delineato si fonda sull’idea che
la civiltà industriale abbia un difetto congenito e originario, in quanto
espressione di quella razionalità occidentale votata al dominio, allo
sfruttamento e alla discriminazione che il progressismo relativista aveva già
messo sotto accusa nel campo politico, sociale ed economico. Questa vocazione
dell’occidente capitalistico, inoltre, viene ritenuta alla lunga incompatibile
con la sopravvivenza stessa del pianeta. Il catastrofismo apocalittico è un
elemento centrale, quindi, di questo ecologismo ideologico. Esso, invece di
promuovere condizioni di vita più sane nelle società industrializzate, denuncia
la prospettiva catastrofica di una imminente fine della vita sulla Terra dovuta
alla irresponsabile azione dell’uomo.
Da
qui le periodiche campagne allarmistiche, fondate su assunti scientificamente
indimostrati, opinabili e talora già smentiti. Dopo l’allarme, ripetutamente contraddetto
dai fatti, per “la fine del petrolio” e
un’impennata crescente e insostenibile del suo prezzo, è stata la volta dell’allarme
per il buco dell’ozono. Non appena questo ha incominciato a declinare,
nuovamente di fronte all’evidenza dei fatti (è recente la notizia secondo cui
il “buco” si è quasi “ricucito”), è montata la campagna contro il cosiddetto
“riscaldamento globale”, con l’assioma che esso non solo sarebbe reale – cosa
che non è solidamente e univocamente attestata – ma, aspetto ancor più
controverso nella comunità scientifica, sarebbe dovuto a fattori antropici
legati alla civiltà industriale e quindi imputabili come al solito
all’Occidente.
Anche
in questo campo, il politicamente corretto rivela una vocazione totalitaria.
L’ideologia ambientalista si traduce, infatti, in una serie di prescrizioni
rivolte non solo ai governi e ai legislatori, ma a tutti i cittadini, chiamati
a cambiare i loro comportamenti, le loro abitudini, i loro stili di vita sotto
la minaccia incombente della catastrofe planetaria. Ancora una volta non si tratta
semplicemente della ragionevolissima incentivazione di comportamenti che
tendono a un modo di vivere più sano, per l’individuo e per la collettività, ma
di una pressione morale, ai limiti del ricatto, che agisce suscitando sensi di
colpa e traducendo i comportamenti ritenuti corretti e responsabili in
sacrifici espiatori di un peccato collettivo e originario. L’ambientalismo
catastrofista si è così tradotto in una sorta di religione secolare fondata su
articoli di fede che è blasfemo mettere in discussione, una religione
penitenziale che lancia continui messaggi ansiogeni e colpevolizzanti.
Va
infine sottolineato l’aspetto antiumanistico di questo ecologismo,
significativamente espresso nella teoria della “impronta ecologica”, lanciata
da Wackernagel e Rees nel 1996, che vorrebbe quantificare la porzione di pianeta necessaria a compensare
le risorse consumate e a smaltire i rifiuti prodotti da ciascun individuo.
Ancora una volta, la teoria non invita semplicemente a un comportamento più
responsabile, meno dissipativo e “consumistico”, ma colpevolizza l’individuo in
ogni momento della sua esistenza quotidiana, spingendolo a considerarsi “un
peso” per il pianeta. Ma se così è, se la sua impronta è tanto meno nociva
quante meno risorse consuma e rifiuti produce, «l’essere umano più virtuoso
verso il pianeta, anzi l’unico propriamente virtuoso, è quello che non ne
consuma alcuna, cioè che non esiste».
Ai
precetti ecologisti si accompagna una intollerante e aggressiva condanna morale
verso chi non si adegua, bollato come un assassino della biosfera. La stessa
demonizzazione e la stessa condanna colpisce chi non aderisce all’ideologia
animalista, non certo perché insensibile e tantomeno crudele nei confronti
degli animali, ma magari soltanto perché non adotta uno stile alimentare vegano.
Anche
qui, non si tratta dell’estremizzazione, in certi casi fino a livelli caricaturali,
di un nobile sentimento, ma di una vera costruzione ideologica. Le basi dell’”animalismo”
attuale vanno ricercate da un lato nell’idea che la concezione di una
centralità e di un primato dell’uomo sulla terra e di una gerarchia degli esseri
viventi sia anch’essa figlia della razionalità “imperialista” occidentale, dall’altro
nella progressiva “umanizzazione” degli animali. Sotto questo profilo, pare
abbastanza evidente come spesso i cosiddetti “diritti degli animali” che si
rivendicano e si vorrebbero regolamentare per legge, altro non siano che
proiezioni di desideri umani nei confronti degli animali, trasformati poi in
diritti alla stregua di altri desideri. Come nel caso delle popolazioni e
civiltà extraeuropee, del terzomondismo sfociato nell’immigrantismo, vi è da
chiedersi se il vero “imperialismo” non sia nella mente dei presunti amici
degli africani o degli animali, visto che li riducono sistematicamente alle
proprie categorie mentali ed emotive.
Bisogna
tuttavia riconoscere che sul terreno del catechismo ecologista l’ideologia
politicamente corretta ha ottenuto il maggiore successo, perché non si è
scontrata, fino a questo punto, con resistenze e contraddizioni altrettanto forti
di quelle emerse negli altri campi di cui abbiamo già parlato ed è stata anzi
agevolata da vari fattori: una sensibilità verso la natura e verso gli animali
che appartiene, per fortuna, a tantissimi esseri umani e che induce molti di
loro ad aderire al suddetto catechismo, senza rendersi conto che si tratta di
una costruzione ideologica che con quella sensibilità non ha nulla a che
vedere; la realtà del degrado ambientale che effettivamente mette a repentaglio
la salute e la qualità della vita, pur senza preludere a catastrofi
apocalittiche; il fatto che le questioni sollevate non sono tecnicamente
semplici e la loro valutazione corretta è alla portata di pochissimi esperti o
richiede informazione e studio accurati.
In
questo modo, però, attraverso l’ideologia ambientalista, la “religione verde”,
il progressismo relativista ha raggiunto il suo scopo: offrire, e in realtà
imporre, dei precetti catechistici apparentemente chiari, incontrovertibili,
moralmente nobili che possano essere altrettanti mezzi di “espiazione” della
colpa originaria e dare al “peccatore” un immediato senso di rassicurazione.
Per
questo «l’ambientalismo religioso rappresenta un precipitato, un bignami del
programma diversitario di abolire i conflitti e riportare l’umanità allo stato
di innocenza originaria»
La resistenza al
politicamente corretto
Capozzi
ritiene tuttavia che questa religione verde non sia sufficiente a preservare il
dominio del politicamente corretto, che si trova esposto a reazioni di insofferenza,
sempre più forti, diffuse e strutturate. Anzi, le contraddizioni sorte magari
in altri campi sembrano minacciare anche l’unanimismo che per diversi anni ha
regnato nel campo delle politiche ambientali, come gli atti dell’Amministrazione
Trump dimostrano.
Quanto
più la narrazione politicamente corretta si impone e pretende di presentarsi
come dottrina pubblica ufficiale, quanto più «incrementa la severità delle sue
condanne e marchia di infamia chiunque contravvenga ai suoi precetti, tanto più
essa contribuisce a costruire per contrasto, tassello dopo tassello, la
contro-ideologia e contro-narrazione del “politicamente scorretto”».
Capozzi
vede nelle forze populiste cresciute in Occidente negli ultimi anni «un soggetto
alternativo al sistema di potere nato dalla rivoluzione generazionale degli
anni sessanta» e ritiene che sia in pieno svolgimento la sfida tra questi due
mondi. Su queste conclusioni, mi permetto di fare qualche mia considerazione,
in parte in dissenso con lui e in chiusura del discorso.
Non
sono altrettanto ottimista. Sono convinto anche io che le cosiddette forze
populiste rappresentino una reazione e una opposizione all’ideologia
politicamente corretta e ai ceti dominanti dei quali essa è espressione. Non
sono però affatto sicuro che siano all’altezza della sfida, che abbiano una
coscienza, una visione strategica, una capacità di formare e consolidare un blocco
sociale, che abbiano insomma quei requisiti indispensabili che potrebbero già
farle ritenere un «soggetto alternativo al sistema di potere».
Certamente,
sono fondamentali e preliminari due cose – e in questo l’analisi di Eugenio
Capozzi è di grande aiuto:
primo,
occorre una consapevolezza piena del problema. Il problema consiste in questo:
il politicamente corretto non è solo una moda insulsa, ma è una ideologia
espressione di un blocco di potere dominante, ferocemente dominante. Ed è una
ideologia totalitaria. L’intrinseco totalitarismo del politicamente corretto si
svela infatti in questo: esso non intende cambiare il mondo agendo sui fattori
materiali, ma cambiando la mente delle persone e per far questo si propone di
stabilire un rigido controllo sul loro linguaggio. E’ la pura logica
orwelliana, del “Ministero dell’Amore” del Grande Fratello: chi controlla il
linguaggio controlla le menti.
Secondo
punto: una volta individuato lucidamente il problema, occorre distinguere fra
chi è il problema o è parte del problema e chi invece è espressione di un tentativo
di risposta al problema. Anche se queste risposte possono essere spesso
sgradevoli – pure esteticamente – insufficienti o inefficaci non bisogna
smarrire la linea di demarcazione: esse e i soggetti che le incarnano – si chiamino
Trump, Salvini o Di Maio – non sono il problema, ma la reazione al problema.
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