PREMESSA: ANTISEMITISMO E MANIPOLAZIONE
DELLA STORIA
Secondo una ricerca di Euromedia, il 6%
degli italiani ha convinzioni antisemite. Secondo Eurispes sarebbero addirittura il 15,6%, molto più presenti a sinistra (23%) che a destra. In particolare, questi italiani negano del tutto
la shoah o sostengono che i numeri degli ebrei deportati siano stati molto
gonfiati.
Quando poi si passa a indagare sui motivi
scatenanti del pregiudizio antisemita - con buona pace di chi ritiene che
antisionismo e antisemitismo siano cose completamente diverse - si trova al
primo posto l'ostilità alla politica israeliana e, in particolare, l'idea che
gli israeliani starebbero commettendo un "genocidio" ai danni del
"popolo palestinese".
Ecco perché è vano ed illusorio pensare di
poter combattere l'antisemitismo limitandosi alle rievocazioni dei lager
nazisti e alle testimonianze dei sopravvissuti, come invece si fa regolarmente
in occasione della Giornata della Memoria e nelle scuole. Sarebbe necessaria
una corretta informazione, innanzitutto storica, sullo Stato di Israele, sul
conflitto arabo-israeliano, sulla “questione palestinese”. Accade, invece, che
proprio la scuola, attraverso i manuali scolastici (sia pure con gradazioni
diverse tutti i testi che nel corso degli anni ho esaminato e anche adottato –
e sono tanti – presentavano in modo quantomeno parziale, talora francamente
fazioso le vicende e le questioni di cui sopra) e temo anche per opera di
taluni insegnanti, alquanto ideologicamente condizionati, contribuisca
indirettamente e sia pure involontariamente al radicamento dell'antisemitismo,
fornendo ricostruzioni non corrette se non addirittura partigiane di questa
vicenda storica e dell'attuale situazione in Medio Oriente. E così, trascorsa
la giornata della Memoria, onorati gli ormai pochi sopravvissuti e i sei
milioni di ebrei morti, dal 28 gennaio si ricomincia a diffamare gli ebrei vivi
dello stato di Israele, magari giungendo a paragonarli ai nazisti...
LE ORIGINI: LA MILLENARIA PRESENZA EBRAICA
IN PALESTINA, IL SIONISMO, LA POLITICA BRITANNICA DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Fino allo scoppio della Prima guerra
mondiale, la Palestina e tutta l’area medio-orientale erano, ormai da secoli,
sotto il dominio dell’Impero Ottomano. Questo è un primo dato storico da
sottolineare di fronte a chi ritiene che il “colonialismo europeo” sia un
fattore della “rabbia islamica”: i paesi arabi mediorientali, a differenza ad
esempio dei paesi africani o della stessa Algeria, non hanno una lunga storia
di dominio coloniale occidentale. La loro storia “coloniale” incomincia solo
con la fine della Prima guerra mondiale, si svolge nel modo che vedremo e si
esaurisce quasi immediatamente (è il caso dell’Iraq) o dura pochissimi anni e
comunque non nelle forme del vecchio colonialismo.
L’Impero Turco entra in guerra a fianco
degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) e contro l’Intesa (Francia,
Gran Bretagna e Russia) alla fine di ottobre del 1914. In questo modo il Medio
Oriente diventa teatro di importanti operazioni belliche e soprattutto di
strategie politiche per il dopoguerra. La Gran Bretagna, in previsione della
disgregazione del dominio ottomano, è molto attiva nella cura dei propri
interessi in quell’area strategica del globo e intreccia rapporti con tutti i
soggetti in campo. Si può dire che dal 1916 alla fine della guerra, giochi le
sue carte su tre diversi tavoli, in attesa dei futuri sviluppi.
La “dichiarazione Balfour”, spesso citata nella propaganda
antisionista/antisemita, è solo uno di questi tavoli e non è il più importante.
Incominciamo, comunque, da questa. Il 2
novembre del 1917, il Ministro degli esteri britannico Balfour scrive al
rappresentante del movimento sionista in Gran Bretagna, lord Rotschild, per
comunicargli il contenuto di una dichiarazione di “simpatia per le aspirazioni
del movimento sionista” che era stata approvata dal governo inglese. Il governo
di Sua Maestà vedeva con favore “la costituzione in Palestina di un focolare
nazionale (National home) per il popolo ebraico” e si
sarebbe adoperato per favorire il conseguimento di tale obiettivo, senza
peraltro pregiudicare i diritti civili e religiosi delle popolazioni non
ebraiche. La dichiarazione seguiva ad una tenace opera di pressione effettuata
per due anni dal vero leader sionista britannico, Chaim Weizmann, un chimico
che aveva dato tra l’altro con una sua scoperta applicabile alla produzione di
proiettili per artiglieria un rilevante contributo allo sforzo bellico. Il
governo inglese pensava non solo di ricambiare Weizmann per il favore, ma
soprattutto di guadagnarsi il consenso del movimento sionista, attivo
anche negli USA. Bisogna ricordare che gli USA non erano ancora
entrati direttamente in guerra, anche se sostenevano concretamente francesi e
inglesi attraverso la cosiddetta “legge affitti e prestiti”. Il movimento
sionista poteva quindi giocare un suo ruolo nell’orientare l’amministrazione
statunitense a un impegno sempre più stretto a fianco della Gran Bretagna,
impegno reso ancor più necessario dalla critica situazione russa (siamo a
qualche giorno dalla rivoluzione bolscevica, che avrà luogo il 7 novembre e che
porterà a marzo la Russia a ritirarsi dalla guerra). La dichiarazione Balfour
nasce innanzitutto da questo contesto di motivi contingenti, sebbene
importanti, e al momento non profila un progetto a più lungo termine, né
un impegno vincolante della Gran Bretagna, come le vicende successive
chiariranno in modo incontrovertibile. E’ anche vero, tuttavia, che essa,
recepita successivamente negli accordi che istituiranno il mandato britannico
in Palestina, accordi approvati da tutti i paesi della Società delle Nazioni
nel 1922, darà un fondamento giuridico ai diritti del popolo ebraico alla
costituzione di uno Stato in quella regione.
D’altra parte, non è certo la
dichiarazione Balfour che stabilisce un legame fra il popolo ebraico e la terra
di Palestina. Vale la pena di precisare che “Palestina” è il nome che i Romani
dettero a questa terra, dopo la repressione della seconda rivolta giudaica nel
II secolo e.v. e per cancellare l’identità ebraica, un nome che, in spregio
agli ebrei ribelli, voleva richiamare i loro tradizionali nemici, i Filistei, Né
questi ultimi, né il termine Palestina hanno nulla che vedere con le
popolazioni arabe, all’epoca nomadi e seminomadi e tantomeno con l’islam che
ancora non esisteva. Il legame fra il popolo ebraico e la terra poi chiamata
Palestina risaliva all’epoca dell’antico Israele e non si era mai veramente
interrotto nel corso dei millenni. La dispersione provocata dai Romani e la
crescente diaspora non ha comunque mai interrotto la continuità di presenza
ebraica nella regione. In particolare, furono ricreate grandi comunità a
Gerusalemme ed a Tiberiade nel IX secolo, e nell'XI nacquero delle comunita' ebraiche a Rafa,
Gaza, Ascalona, Giaffa e Cesarea. Gli ebrei hanno continuato la loro esistenza
in Palestina all’epoca dell’invasione dei Turchi Selgiuchidi, sotto gli stati
crociati e durante la dominazione Ottomana.
La popolazione ebraica si era già
notevolmente incrementata prima del 1917 e a partire almeno dal 1882, per
effetto della emigrazione di ebrei dell’Europa Orientale in fuga dai pogrom.
Il crescente consenso al progetto sionista di uno stato ebraico derivò, tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, innanzitutto dalle persecuzioni
violente in Russia, ma anche dalla crescente insicurezza in cui vivevano gli
ebrei nel resto dell’Europa di fronte alla violenta recrudescenza antisemita
(il primo teorico dell’antisemitismo e della “razza ariana” è il francese
Gobineau con l’ Essai sur l'inégalité des races humaines, 1853-54,
seguito a fine secolo dall’inglese Chamberlain), un clima che porta tra l’altro
all’Affaire Dreyfus in Francia (il caso scoppia nel 1894 e si
trascina per oltre un decennio) e al celebre falso denominato I
protocolli dei savi di Sion (come vedremo, rilanciato negli ultimi decenni
dall’antisionismo arabo). La stessa dichiarazione Balfour è in
parte un effetto di questo contesto storico e non è certo essa il fattore del
sionismo e dell’emigrazione ebraica in Palestina. Un contesto storico che segna
la fine e il tradimento di quella “promessa” dell’Illuminismo occidentale alla
quale la stragrande maggioranza degli ebrei della diaspora aveva creduto con
convinzione: che si potesse restare ebrei, per tradizione, cultura ed
eventualmente per fede religiosa, diventando tuttavia cittadini a tutti gli
effetti del paese in cui si risiedeva ormai da svariate generazioni e in un
regime di uguaglianza rispetto a tutti gli altri cittadini di quel paese. Non è
un caso che a metà dell’Ottocento, quando questa promessa sembra ancora
realizzabile se non addirittura già in buona parte effettiva, le idee di Herzl,
fondatore del sionismo, abbiano ancora scarsissimo seguito e che invece quelle
idee conquistino larghissimo favore qualche decennio dopo.
In ogni caso, quando proclama la
dichiarazione Balfour, il governo britannico ha già preso altri accordi con
altri soggetti in gioco, accordi potenzialmente in contraddizione tra loro
e con l’impegno in favore del sionismo. Nell’ottobre del 1916, il governo
inglese rappresentato da Sir Mark Sykes stipula un’intesa
segreto con il governo francese rappresentato da Francois-George Picot.
Il Medio Oriente viene suddiviso in tre aree, diversamente colorate
sulla carta dell’accordo. Nella zona rossa, più o meno corrispondente
all’attuale Iraq, gli inglesi si riservavano il diritto di insediare il tipo di
amministrazione e controllo che avrebbero voluto. La stessa prerogativa
spettava alla Francia nella zona blu, che comprendeva gli attuali paesi della
Siria e del Libano più la Cilicia. La “Palestina”, segnata in marrone, era
indicata come soggetta a una non meglio precisata “amministrazione
internazionale”. Da notare che questa area marrone comprendeva anche la
Transgiordania (attuale regno di Giordania) e le alture del Golan e
coincideva almeno nominalmente con il territorio in cui il governo inglese si
sarebbe poi impegnato, un anno dopo, a favorire la nascita di uno stato
ebraico.
Al momento, però, con la guerra ancora in
corso, il tavolo di gioco più importante per la Gran Bretagna era un altro
ancora e coinvolgeva le popolazioni arabe, o meglio quelli che erano ritenuti i
loro più autorevoli rappresentanti: si trattava della dinastia
hascemita del deserto, che aveva il controllo, per conto dell’Impero
Ottomano, dei luoghi santi della Mecca e quindi rappresentava la massima
autorità religiosa di nomina ottomana nel mondo arabo. Il disegno britannico
era questo: staccare gli hascemiti e, in particolare, lo “sceriffo” della Mecca
Hussein, dai Turchi, metterli a capo di una rivolta nazionalista araba contro
il dominio ottomano e renderseli così alleati nella guerra che la Gran Bretagna
conduceva dall’Egitto contro gli stessi Turchi e che puntava come obiettivo
finale alla conquista di Gerusalemme e Damasco. Una strategia indubbiamente
lucida, tanto più che il Sultano, istigato dai tedeschi, aveva a sua volta lanciato
ai suoi sudditi arabi un appello al jihad contro inglesi e francesi. Gli
inglesi promisero così ad Hussein che avrebbero sostenuto la rivolta araba anti-ottomana
con denaro, grano e fucili e sir Mac Mahon, alto commissario in Egitto,
nell’ottobre 1915 si impegnava a sostenere l’indipendenza degli arabi nei
confini richiesti dallo sceriffo della Mecca, eccetto quelle parti della Siria
per cui aveva manifestato interesse la Francia ed eccetto le provincie di
Baghdad e Bassora nelle quali ci si riservava di insediare un’amministrazione
anglo-araba. Mac Mahon sostenne poi di non aver intenzionalmente citato la
Palestina, tra i territori su cui avrebbe dovuto costituirsi il futuro stato
arabo. Ciò nonostante, Hussein ritenne che la Gran Bretagna si fosse impegnata
in tal senso.
Sulla base di questi accordi Hussein
lanciò alle popolazioni arabe l’appello alla rivolta contro i Turchi e formò un
esercito arabo capeggiato da suo figlio, Feysal. Le tribù arabe e soprattutto
beduine, d’altra parte, raccolsero l’esortazione degli hascemiti limitatamente
e con riserve: in genere scendevano in campo solo in presenza di argomenti molto
convincenti (il denaro, il grano e le armi, di cui aveva parlato Mc Mahon) e il
loro comportamento restava in molti casi ambiguo. Molto spesso, uno stesso
sceicco veniva pagato sia dagli inglesi che dai turchi…Chi riuscì a
destreggiarsi abilmente in questo mondo infido delle tribù, fu, come è noto, un
leggendario archeologo di Oxford, prestato alla guerra e ai servizi di
spionaggio: Lawrence d’Arabia.
Se limitiamo il discorso all’area della
Palestina, dobbiamo quindi rilevare che essa, tra il 1915 e il 1917, è fatta
oggetto di tre diversi accordi, rispettivamente con gli hascemiti (almeno
secondo l’interpretazione di questi ultimi), con la Francia e con il movimento
sionista e che ciascuno di questi tre accordi prevede una cosa diversa! Non
c’è molto da scandalizzarsi, peraltro: la Gran Bretagna ha come obiettivo più
immediato quello di vincere la guerra, come obiettivo strategico la difesa dei
propri interessi in Medio Oriente e deve tener conto della fluidità e della
incertezza della situazione.
IL PERIODO DEL MANDATO IN PALESTINA: LA
POLITICA BRITANNICA NEI CONFRONTI DI EBREI ED ARABI
Sconfitti i turchi, grazie innanzitutto
alla guerra parallela e irregolare condotta dal Colonnello Lawrence, il figlio
di Hussein, l’emiro Faysal, insedia un governo arabo a Damasco e rivendica per
sé e per la propria dinastia la sovranità su un regno della “Grande Siria”, che
comprenda anche l’area della Palestina. Qui vanno fatte alcune osservazioni,
mentre di solito se ne fa solo una, e cioè che questa rivendicazione
smaschererebbe l’”inganno” britannico ai danni degli arabi. Certamente, la Gran
Bretagna mostra di non voler affatto assecondare le aspirazioni di Faysal.
Queste aspirazioni, del resto, tradivano esse stesse la lettera degli accordi
stipulati con il governo inglese attraverso Mac Mahon, in quanto si estendevano
a zone della Siria che erano previste di pertinenza francese. La violazione
degli impegni, in sostanza, non è solo britannica, ma è reciproca e su di
essa, peraltro, è davvero futile esercitare giudizi moralistici. Qui ognuno fa
il proprio gioco e, peraltro, gli inglesi si preoccuperanno ben presto di
“risarcire”, nel modo che vedremo, Hussein, Faysal e la loro casata.
Un’altra importante considerazione, sempre
taciuta, è che Faysal e Hussein non parlano mai di una “nazione
palestinese” né di un regno o stato palestinese, ma di una causa nazionale
araba e di un “regno di Siria”, nel quale regno di Siria è inglobata anche la
Palestina. Gli abitanti arabi di questa regione sono considerati
semplicemente arabi o, più precisamente, “siriani del sud”. Del
resto, ancora il 31 maggio 1956, dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’ONU, il
futuro dirigente dell’OLP Ahmed Shoukeiry, dichiarò testualmente che “è di
pubblica conoscenza che la Palestina non è altro che la Siria del Sud”. E’
quindi bene tener presente che, quando in questa vicenda storica si parla di
rivendicazioni arabe o di progetti di stati arabi, in nessun caso e in nessun
modo si fa riferimento a rivendicazioni e progetti che riguardino una specifica
“nazione araba palestinese”, per il semplice motivo che l’esistenza di una tale
entità è bellamente ignorata dagli stessi leader e portavoce del nazionalismo
arabo! Come vedremo, la “nazione palestinese” è una costruzione, un’idea o un’invenzione
molto recente.
Altro aspetto regolarmente ignorato:
Faysal, che interviene anche al Congresso di pace di Parigi a sostegno delle rivendicazioni
arabe e sue personali, riconosce pubblicamente e ufficialmente le aspirazioni
sioniste, dichiarando testualmente che “fra i due nazionalismi non vi sia
incompatibilità”. Nel gennaio 1919 giunge persino a firmare un accordo con il
leader sionista Weizmann, accordo con il quale concede la Palestina al
movimento sionista, a condizione che fossero contemporaneamente adempiute le
promesse britanniche per un regno arabo, aggiungendo, cautelativamente, che se
questo non fosse accaduto non avrebbe rispettato una sola parola di quanto
convenuto con Weizmann. Pertanto, anche Faysal, al momento il maggiore
rappresentante della causa araba, gioca spregiudicatamente su più tavoli, per
raggiungere il proprio obiettivo.
Da parte britannica, più che un esplicito
diniego delle rivendicazioni hascemite, vi è un prendere tempo: il governo
inglese è ben lieto di accogliere la proposta statunitense di una commissione
internazionale che si rechi in loco a raccogliere pareri e rivendicazioni e a
studiare soluzioni. Questa commissione, a cui gli inglesi si guardano bene dal
partecipare, si conclude con un prevedibile nulla di fatto, ma la dilazione dei
tempi di decisione determina una radicalizzazione del nazionalismo arabo, che
gli hascemiti continuano a fomentare e a strumentalizzare, ma che sempre più
largamente sfugge loro di mano. Un congresso arabo riunitosi a Damasco,
rivendica la costituzione di un Regno indipendente di Siria che comprenda anche
Libano e Palestina e si dichiara violentemente contrario alle “pretese dei
sionisti” e “a qualunque immigrazione sionista in qualunque parte del nostro paese,
in quanto non riconosciamo loro alcun titolo e li consideriamo invece un grave
pericolo per il nostro popolo dal punto di vista nazionale, politico ed
economico”. Si trattava di una sorta di dichiarazione di indipendenza che non
fu riconosciuta dagli inglesi e dai francesi e che rinnegava la disponibilità
degli hascemiti a trattare con il sionismo. I francesi, che vedevano minacciati
i territori loro assegnati negli accordi Sykes-Picot (gli unici che
riconoscevano e gli unici che gli stessi inglesi non avrebbero potuto
facilmente violare), il 20 luglio 1920, intervennero militarmente contro un
improvvisato esercito di volontari arabi, sconfiggendolo in modo definitivo ed
occupando la Siria, che avrebbero amministrato fino alla seconda guerra
mondiale nella forma del mandato.
E’ una svolta decisiva, perché da questo
momento in poi, il nazionalismo arabo, soffocato dai francesi in Siria, si
orienta sulla Palestina e su Gerusalemme, si scontra direttamente con gli ebrei
e con il movimento sionista e vede emergere come leader degli arabi
palestinesi, al posto degli ormai screditati hascemiti, l’inquietante figura
del muftì di Gerusalemme, che si chiama anche lui Hussein, e sarà filonazista e
stretto alleato di Hitler, a cui proporrà la sua collaborazione al progetto di
genocidio degli ebrei.
Questo passaggio cruciale ha però
notevolissimi effetti anche sulla politica britannica che da questo momento,
pur conservando oscillazioni e contraddizioni, segue una chiara direttrice
filoaraba. Viene così di fatto rinnegata la dichiarazione Balfour,
nonostante essa venga incorporata nella risoluzione della Società delle
Nazioni, che riconosce il mandato britannico sulla Palestina, impegnando
in tal modo la Gran Bretagna a promuovere la costituzione di uno stato ebraico.
E’ una leggenda assolutamente falsa
storicamente per quanto diffusissima che la Gran Bretagna nel periodo del suo
mandato in Palestina abbia favorito gli ebrei a scapito degli arabi.
I fatti dimostrano che per molti versi è vero il contrario e se gli arabi
possono, solo in parte a ragione, accusare gli inglesi di aver tradito le
promesse fatte a Faysal, gli ebrei potrebbero a maggior ragione accusarli di
aver tradito la dichiarazione Balfour, con la rilevante differenza che per
effetto della risoluzione della Società delle Nazioni, la dichiarazione Balfour
non era più un impegno unilaterale del governo inglese, e non era neanche un
accordo fra due parti come quello fra Mc Mahon e Faysal, ma era un impegno
assunto dall’Inghilterra su mandato della comunità internazionale.
Innanzitutto, il territorio
mandatario di Palestina viene mutilato, sicché si restringe drasticamente
l’area ove dovrebbe sorgere lo Stato ebraico. Nel 1923, infatti, la Transgiordania,
ossia l’attuale regno di Giordania, che era parte integrante della Palestina
del mandato, viene staccata da questa e data all’emiro Abdullah che è un
altro hascemita e precisamente un altro figlio di Hussein e fratello quindi di
Faysal. A Faysal, nel frattempo, era stato già dato il regno dell’Iraq (1921).
In tal modo, l’Inghilterra intende risarcire gli hascemiti e tenerli legati a
sé come propri partner privilegiati nel teatro mediorientale. Sempre nel
1923, le alture del Golan – ben note a tutti – che erano –
attenzione – parte integrante pur esse del territorio mandatario della
Palestina, vengono cedute al mandato francese della Siria. Quando si parla
delle alture del Golan come “territorio occupato” illegittimamente da Israele
nel 1967 e abusivamente sottratto alla Siria, bisognerebbe allora ricordare che
ben prima questo territorio era stato sottratto al mandato di Palestina, e
quindi allo Stato ebraico previsto dalla dichiarazione Balfour, e altrettanto arbitrariamente
e abusivamente ceduto alla Siria. Ma chi lo ricorda mai?
Altre questioni immancabilmente sollevate
dalla propaganda araba e filo palestinese sono quelle delle terre “sottratte”
dagli ebrei ai contadini arabi durante il mandato britannico e dell’immigrazione
ebraica nello stesso periodo. Vediamo la realtà storica.
Riguardo alle terre, esse non furono mai
depredate o saccheggiate, ma comprate con regolari contratti e pagate
generalmente al di sopra di quello che era in quel momento il loro stimabile
valore di mercato. E’ vero che gli esponenti del
nazionalismo arabo lanciavano proclami che diffidavano gli arabi dal cedere le
terre agli ebrei, ma è altrettanto vero che tanto le famiglie della “feudalità”
palestinese, quanto le comunità dei villaggi se ne infischiavano altamente di
questi moniti e proclami e cercavano di lucrare sulla vendita di terre che
spesso erano incolte e che ritenevano poco produttive (i coloni ebrei avrebbero
dimostrato il contrario). Dunque, l’insediamento sionista si realizza in
stretta collaborazione con gli arabi e l’idea di ebrei che hanno spogliato
gli arabi di case e terre, almeno riguardo al periodo che precede il 1948, è
puramente fantastica. Gli investimenti ebraici hanno anzi rivitalizzato
l’economia locale, a tutto vantaggio della stessa comunità araba. E’ chiaro che
questo processo di trasferimento di terre ha contribuito a compromettere
l’obiettivo arabo di impedire la nascita di uno stato ebraico, ma questo è un
errore storico che gli arabi devono imputare solo a se stessi (e non è l’ultimo
di una lunga serie) e non certo alle autorità britanniche, che anzi
intervengono con ripetute ordinanze (1920-21, 1929, 1932, 1940), cercando di
limitare drasticamente l’acquisto di terre da parte degli ebrei e di ridurre sempre
più l’estensione del focolare nazionale promesso. Ma i proprietari e i
contadini arabi non tengono in maggior conto queste ordinanze dei proclami dei
loro leader nazionalisti e antisionisti.
Riguardo poi all’immigrazione
ebraica, regolarmente denunciata dagli arabi come se si trattasse di una
sorta di invasione straniera e di un complotto (“giudeo-massonico”),
orchestrato dalla potenza mandataria, abbiamo visto che questa emigrazione
incomincia ben prima della Dichiarazione Balfour e del mandato britannico, tra
il 1882 e il 1903, quando si verifica la prima grande aliya, per i
motivi già richiamati (i pogrom in Europa Orientale e la crescente insicurezza
in Europa Occidentale). Con la seconda aliya, che giunge fino al
1914 la popolazione ebraica palestinese è già passata da circa 25.000 unità a
circa 85.000. Alla fine degli anni Venti, il numero degli ebrei sarà più che
raddoppiato, sfiorando ormai le 200.000 unità. A questo punto il ritmo
dell’immigrazione cala considerevolmente fino al 1932, per poi conoscere
un’impennata fra il 1933 e il 1935, in seguito alla presa del potere del
nazismo. Dal 1922 al 1935 la popolazione ebraica in Palestina passa dal 9 al
27 % del totale. Devo avvertire che i dati demografici sono piuttosto
incerti e le ricostruzioni sono condizionate dal conflitto israelo-palestinese.
Tuttavia, ho scelto di citarli e di citare quelli riportati da una fonte
sicuramente seria, ma certamente non sospetta di ostilità al mondo arabo, né di
pregiudizi filoisraeliani (Mc Carthy, The Population
of Palestine, Columbia University press, 1990).
Certamente, fino alla metà degli anni
Trenta l’immigrazione ebraica è un fenomeno rilevante, ma si tratta di
un processo che non viene affatto favorito dall’autorità britannica e che anzi
si svolge largamente in contrasto con le sue volontà e deliberazioni.
Questa immigrazione sarebbe stata presumibilmente più ampia, se non fosse stata
ostacolata dalla Gran Bretagna, già negli anni di cui sopra e certamente dopo.
Fin dal 1922 il primo Libro bianco inaugura, infatti, una
serie di misure destinate a limitare drasticamente fino a bloccarla
l’immigrazione ebraica in Palestina e a rendere inoperante la portata della
Dichiarazione Balfour. Nel 1930, la dichiarazione Balfour è di fatto annullata
dall’ennesimo Libro bianco, quello di lord Passfield, segretario
alle Colonie. Questo documento era tanto sbilanciato in senso filoarabo e
antisionista che il governo Mac Donald si vide costretto dalle pressioni
dell’opposizione, ma anche di esponenti del suo partito a rimediare con una
lettera dove affermava che il governo britannico non aveva alcuna intenzione di
fermare o proibire l’immigrazione degli ebrei. Si trattava di una mera
dichiarazione astratta e comunque di un documento che non aveva lo stesso
valore del Libro bianco, eppure fu sufficiente ad attizzare ulteriormente il
nazionalismo arabo, già protagonista di gravi incidenti nel 1929, quando
il mufti di Palestina aveva arringato la folla a Gerusalemme e ne
erano seguiti scontri, con la morte di 133 ebrei e 87 arabi. La vecchia
comunità ebraica di Hebron era stata del tutto annientata. Fra il 1936 e il
1939 si succedono le azioni terroristiche arabe tanto contro gli inglesi che
contro gli insediamenti ebraici e le rappresaglie britanniche sono molto dure.
Tuttavia, di fronte alla rabbia araba la
Gran Bretagna non mostra solo il bastone, ma anche e soprattutto la carota. E’
proprio alla fine di questo periodo insurrezionale che si registra
l’ultimo Libro bianco che impone agli ebrei
restrizioni gravissime e che hanno una portata assolutamente tragica,
se si pensa alla loro situazione in un’Europa che si appresta ad essere in
larghissima parte occupata dai nazisti. Si fissa un tetto di 15.000 nuovi
arrivi all’anno per 5 anni, dopo di che l’ulteriore immigrazione sarebbe stata
soggetta al placet della maggioranza araba, ossia sarebbe stata impossibile.
L’acquisto di terre sarebbe stato drasticamente limitato e in alcune regioni
semplicemente vietato. Incredibilmente, questo Libro bianco non
fu rifiutato solo dagli ebrei, come era ovvio, ma anche dagli arabi.
La politica britannica va letta non solo
come tentativo di sedare l’animosità araba, ma soprattutto alla luce della
nuova situazione internazionale. L’avvento del fascismo e del nazismo, con la
propaganda e la politica filo-araba di Mussolini prima e di Hitler poi, la
strategia di alleanza fra pangermanesimo e panarabismo in funzione
antibritannica, l’aperto filo nazismo del muftì di Palestina e le sue intese
con Hitler, non fanno altro che orientare in modo più deciso in direzione
degli arabi una Gran Bretagna timorosa di perdere le sue posizioni in Medio
Oriente. Il calcolo britannico è cinico ma semplice: gli ebrei non hanno
alternative, non possono che restare legati al carro inglese, mentre occorre
sottrarre gli arabi all’influenza tedesca e nazista.
Questa linea politica, peraltro criticata
non solo dall’opposizione laburista ma anche e soprattutto da Churchill, si rivelerà fallimentare e miope e
contribuirà indirettamente ad accrescere il numero di vittime della shoah.
Il Libro bianco del 1939 fu infatti applicato rigorosamente e
le navi di profughi giunte in prossimità dei porti palestinesi furono bloccate.
Questa situazione non cambiò nemmeno dopo la fine della guerra e dopo che tutto
il mondo aveva ormai saputo dell’orrore del genocidio degli ebrei. Il caso più
famoso, ma non certo l’unico, si verificò nel 1947 e fu quello dell’Exodus,
che era riuscito a raggiungere il porto di Giaffa. Qui fu impedito ai suoi 4500
passeggeri l’ingresso in Palestina ed essi furono rispediti in Francia da dove
sarebbero finiti in degli appositi campi di concentramento in Germania.
La situazione palestinese era ormai
ingestibile per la Gran Bretagna, che non solo non aveva minimamente sedato
l’ostilità araba nei suoi confronti, ma si era inimicata anche la popolazione
ebraica e il movimento sionista. Nonostante tutto, il
leader israeliano (sionista e laburista) Ben Gurion tenne un atteggiamento
molto responsabile, facendo appello, durante la guerra, a che si combattesse a
fianco dell’Inghilterra contro il nazismo, come se il Libro bianco non
esistesse. D’altra parte Ben Gurion disse anche che bisognava opporsi al Libro
bianco in Palestina, come se la guerra non esistesse, mentre in
dissenso con la sua linea si formavano e agivano formazioni ebraiche, prime fra
tutte l’Irgun del futuro ministro Begin, che conducevano azioni di
guerriglia contro gli inglesi.
LA FINE DEL MANDATO INGLESE E LA
RISOLUZIONE 181 DELL’ONU
Alla fine del periodo del mandato, la Gran
Bretagna lasciava dunque una situazione esplosiva con nazionalisti arabi e
sionisti che si combattevano fra loro e combattevano entrambi, nello stesso
tempo, gli inglesi. E’ in queste condizioni che lord Bevin sottopose il
problema del mandato palestinese all’assemblea ONU nel febbraio 1947. Non è
detto che il governo inglese fosse convinto della necessità di lasciare
definitivamente la Palestina. E’ più probabile che sperasse in un prevedibile
insuccesso dell’ONU stessa che avrebbe lasciato libera la Gran Bretagna di
ritornare in Palestina e stavolta con le mani libere. L’assemblea aveva del
resto bisogno di una maggioranza di due terzi difficile allora da ipotizzare. E
invece il 29 novembre 1947, fu deliberata a sorpresa la spartizione della
Palestina, con la nascita dello Stato ebraico, nonostante l’ostilità araba e il
boicottaggio della commissione ONU da parte degli stessi inglesi della
commissione. La nascita di quel “focolare nazionale ebraico”, solo teoricamente
annunciato nella dichiarazione Balfour, rimasta inoperante fino a quel momento
e disattesa innanzitutto dalla Gran Bretagna stessa, avveniva quindi con un
voto a larga maggioranza dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Tutta la vicenda qui ricostruita mostra
quindi come sia assolutamente falso sul piano storico sostenere che lo Stato di
Israele sia nato in seguito alla dichiarazione Balfour e grazie al sostegno
britannico. E’ vero, invece, che esso è nato a dispetto della politica
britannica e che questa politica, almeno negli anni Trenta, ha ripetuto in
Palestina gli stessi errori compiuti in Europa contro Hitler. La repressione
delle rivolte arabe e le rappresaglie immancabilmente seguite all’uccisione di
soldati e civili britannici non devono ingannare, perché gli inglesi le hanno
considerate in quel periodo soltanto delle inevitabili misure militari che non
modificavano e anzi paradossalmente rafforzavano quella linea politica di
risposta alle rivendicazioni del nazionalismo arabo che era essenzialmente di appeasement.
In tal senso, il Libro bianco del 1939 è un po’ il
corrispettivo in Palestina e nei confronti degli arabi dell’accordo di Monaco
dell’anno prima.
Ma esaminiamo, almeno nelle tappe
fondamentali e nei passaggi cruciali, la storia successiva alla risoluzione ONU
che decretava la nascita dello Stato di Israele.
La famosa risoluzione 181 dell’ONU, del
1947, prevedeva la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo in
Palestina, mentre la città di Gerusalemme avrebbe dovuto costituirsi come “corpus
separatum” “sotto uno speciale regime internazionale” e la diretta
amministrazione delle Nazioni Unite. Venivano anche definiti i confini fra i
due Stati che si sarebbero legati in una unione economica. Si trattava, quindi,
di quella soluzione dei “due popoli, due stati” che successivamente
diventerà un refrain di varie proposte di pace e un luogo comune nelle
dichiarazioni dei politici di tutto il mondo. Ma chi rifiutò la risoluzione
181 delle Nazioni Unite? Gli arabi, non gli ebrei! Questi ultimi, sebbene i
confini del previsto stato di Israele lo rendessero praticamente indifendibile
militarmente, accolsero con entusiasmo la deliberazione dell’ONU. Gli arabi,
invece, la osteggiarono non solo a parole, ma incominciando immediatamente
azioni militari contro i quartieri ebraici delle grandi città e allestendo un
“Esercito arabo di liberazione”. Sono le premesse della prima guerra
arabo-israeliana, che si concluderà solo nel 1949. Prima di occuparcene, una
considerazione importante sul testo della risoluzione 181. In esso si parla
di Stato “arabo”, non di stato “palestinese”. Il termine “Palestina”,
come avveniva da secoli, continua a designare solo la regione geografica, e non
una nazione arabo-palestinese della cui esistenza non vi è ancora alcuna
coscienza. A riprova incontrovertibile di ciò, si possono citare le
espressioni che troviamo più volte nel testo: “Stato arabo palestinese” e
“Stato ebraico palestinese”. Entrambi gli stati, non solo quello arabo, ma
anche quello ebraico, sono definiti “palestinesi”, in riferimento all’area
geografica dove dovrebbero sorgere. Gli arabi che risiedono in Palestina
sono ancora considerati semplicemente arabi (se non addirittura “siriani del
Sud) e non costituiscono una particolare nazione del più vasto mondo arabo.
LA NASCITA DELLO STATO DI ISRAELE E LA
PRIMA GUERRA ARABO-ISRAELIANA
Nella primavera del 1948 la situazione
degli ebrei in Palestina pare disperata: le truppe irregolari arabe hanno
tagliato le grandi vie di comunicazione, isolando gli insediamenti ebraici; le
colonne di rifornimenti vengono sistematicamente decimate da imboscate; sembra
scontato che lo stato di Israele o non riuscirà affatto a nascere o sarà
immediatamente stroncato dalla guerriglia araba in Palestina e
dall’accerchiamento degli altri stati arabi.
Gli unici a credere nella possibilità di
Israele sono i dirigenti politici e militari dell’insediamento ebraico in
Palestina, da Ben Gurion a Yadin, capo della Haganah, l’organizzazione
paramilitare ebraica che si era formata nel periodo del mandato britannico. In
poche settimane viene realizzata una offensiva che ottiene dei sorprendenti
successi, liberando molte vie di comunicazione e prendendo città come
Tiberiade, Haifa e Giaffa. Pesano sia la migliore organizzazione delle forze
ebraiche, a fronte della confusione e dei dissidi che regnano in quelle arabe,
sia l’arrivo di forniture militari dalla Cecoslovacchia. E’ così che il 14
maggio 1948 può essere proclamata a Tel Aviv la costituzione dello Stato di
Israele.
La situazione di Israele resta però molto
critica. Subito dopo la proclamazione, i paesi arabi – Egitto, Siria,
Transgiordania, Libano e Iraq – entrano ufficialmente in guerra contro il
neonato stato di Israele e la loro superiorità in armi e uomini appare
schiacciante. Prima di seguire l’imprevisto capovolgimento della situazione è
il caso di sottolineare un dato di fatto: il piano ONU di costituzione in
Palestina di due Stati (1947) viene rifiutato dagli arabi e il primo conflitto
arabo-israeliano (1948-49) viene scatenato sempre dagli arabi con obiettivo la
distruzione della presenza ebraica in Palestina.
La ricostruzione storica mostra inoltre
che, contrariamente a certe convinzioni piuttosto diffuse ma assolutamente
false, lo Stato di Israele non venne costituito su terre che potevano definirsi
arabe, né sul piano etnico e demografico, né su quello politico-istituzionale,
ma in una regione nella quale vi era già una cospicua presenza ebraica e che
politicamente non era mai stata governata dagli arabi e bensì dai Turchi prima
e poi dagli Inglesi e dove non era mai esistito uno Stato arabo
indipendente.
In breve tempo la superiorità araba si
rivelerà puramente teorica e le sorti del conflitto subiranno un completo
capovolgimento. Tra i vari fattori che contribuiscono a questo risultato vale
la pena di sottolinearne alcuni che non sono puramente tecnici o logistici, ma
hanno a che fare con la questione di fondo che stiamo cercando di analizzare.
L’esercito israeliano certamente si mostra subito ben più organizzato, compatto
e disciplinato degli eserciti arabi, ma ciò non è dovuto o non è dovuto
principalmente a fattori, per così dire, “culturali”. I soldati arabi – molti
di loro sono poveri contadini egiziani e iracheni - sono poco combattivi, sono
indisciplinati e si sbandano facilmente poiché non hanno nessuno zelo per una
causa che non sentono propria e per la quale non sono disposti a dare la vita.
Emerge inoltre quella che era stata e che sarà una costante delle guerre arabe:
le gelosie, le rivalità e i contrasti fra i vari leader. Questi non concordano
affatto sugli obiettivi: solo il Mufti di Gerusalemme intende realizzare uno
Stato arabo indipendente in Palestina, cacciando gli ebrei (qualche anno prima
ne aveva del resto progettato lo sterminio, alleandosi con Hitler, le cui
truppe, per fortuna, in Palestina non riuscirono mai ad arrivare). Abdallah, il
re di Giordania, fratello di Faysal e figlio di Hussein, vorrebbe conquistare
la Cisgiordania e Gerusalemme e tenersele e, per raggiungere l’obiettivo, è
anche disposto ad accordarsi con gli ebrei. I siriani, come al solito, sognano
di inglobare la regione costituendo una “Grande Siria”. I leader degli altri
paesi, Egitto, Arabia, Iraq, non hanno alcun interesse concreto alla guerra e sono
mossi solo dall’ideologia panaraba e dalla pressione di settori della loro
popolazione, come i Fratelli Musulmani in Egitto.
La guerra dura comunque alcuni mesi e,
anche questo va sottolineato, costa agli israeliani che non l’hanno voluta, né
incominciata, 6000 morti (un centesimo della popolazione, l’equivalente di
600.000 morti nella attuale popolazione italiana), tra i quali 2000 civili.
Alla fine, gli armistizi stipulati con i diversi paesi arabi, assegnano ad
Israele un territorio più esteso rispetto a quello previsto dalla risoluzione
ONU. Questa è una delle consuete accuse lanciate contro Israele, ma è un’accusa
davvero singolare. Nessuno si era infatti mai scandalizzato in precedenza
quando un paese, attaccato militarmente da altri stati, dopo averli
vittoriosamente respinti, si era annesso dei territori oltre i confini
precedenti. Anzi, in verità nessuno si era scandalizzato per l’annessione di
territori del nemico sconfitto, neanche nel caso in cui la guerra non si
potesse definire difensiva. E’ il caso, per stare a ciò che ci riguarda
direttamente, della definitiva annessione del territorio tedesco
dell’Alto-Adige/Sud-Tirolo all’Italia dopo la prima guerra mondiale. Ma per
Israele, evidentemente valgono metri di misura unici e irripetibili. La storia
dell’antisionismo è stata del resto sempre costellata di tali double
standard e il double standard nei giudizi sui popoli è considerato dall’ONU
un indicatore di razzismo…In ogni caso, nel 1949, le condizioni di armistizio
furono discusse con le delegazioni arabe e da queste sottoscritte.
E’ indubbiamente vero che l’unico accordo
che poteva preludere a una pace duratura era quello fra Israele e il re della
Transgiordania, l’hashemita Abdallah. Questi era l’unico leader arabo a non
essere condizionato da pregiudizi ideologici e a guardare soltanto – in modo se
si vuole anche cinico – al proprio interesse. Proprio per questo, tuttavia,
poteva raggiungere una vera intesa con l’antagonista. Abdallah è l’unico arabo
che trae profitto dalla guerra. Ottiene il controllo della Cisgiordania e della
città vecchia di Gerusalemme, con i relativi luoghi santi delle tre religioni.
Vale la pena di sottolineare anche questo: nel 1949 non sorge alcuno stato
arabo indipendente in Palestina, non perché Israele occupi il territorio che
l’ONU aveva assegnato a questo Stato (Israele ne occupa solo una porzione
minore), ma perché il sovrano arabo della Transgiordania annette il territorio
dall’altra parte del fiume Giordano, che avrebbe dovuto costituire buona parte
dello stato arabo-palestinese (per intenderci, quello che oggi costituisce
i “Territori Palestinesi”, in parte ceduti all’amministrazione palestinese da
Israele, che li aveva occupati, come vedremo, nel 1967). Analogamente, la città
di Gerusalemme non resta sotto l’amministrazione internazionale, perché è
sempre il sovrano giordano che la occupa, almeno nei quartieri che sono il
reale oggetto di contesa (quelli della città storica, con la “spianata delle
moschee” o Monte del Tempio, il Muro del Pianto, Monte degli Ulivi e il Santo
Sepolcro).
Abdallah dopo essersi annesso la
Cisgiordania e aver cambiato il nome del suo paese in “Regno di Giordania”, nel
1950 sigla un progetto di accordo di pace con gli israeliani.
Viene così bandito dal mondo arabo e, il 20 luglio 1951, viene assassinato sulla
spianata delle moschee da un seguace del Muftì di Gerusalemme Al-Husseini, il
leader palestinese che anni prima si era alleato con Hitler. Questa vicenda,
quasi mai ricordata, ha minato fin dalle origini le prospettive di pace fra
arabi e israeliani. Va pure segnalato che l’atto di nascita della “questione
palestinese” è legato proprio alla politica di pace di Abdallah: è contro la
politica di Abdallah che l’Egitto forma a Gaza un “governo palestinese” seguito
da un “Consiglio nazionale palestinese”. Le rivendicazioni della “nazione
palestinese” vengono così inaugurate con un atto tipico del problema che ne
segnerà sempre la storia: il loro uso strumentale da parte dei governi arabi.
IL PROBLEMA DEI PROFUGHI, GERUSALEMME,
L’ANTISEMITISMO ARABO: GLI OSTACOLI INSORMONTABILI SULLA VIA DELLA PACE.
La questione che si è messa regolarmente
di traverso sulle prospettive di pace è quella dei profughi palestinesi. Un
vero censimento non è mai stato fatto e le cifre fornite dalle due parti sono
ampiamente discordanti. Un ragionamento induttivo, sui dati di partenza della
Amministrazione britannica, porta alla cifra di 600.000 profughi. Di questi
200.000 si stanziano in Cisgiordania e 180.000 a Gaza, 100.000 in Libano,
70.000 in Siria, 50-60.000 in Transgiordania, piccoli gruppi in altri paesi.
Quali sono le cause del fenomeno? La
guerra è ovviamente un fattore, ma non sufficiente a spiegarlo, perché le fughe
si verificarono e in modo massiccio anche da zone dove non si era affatto
combattuto. Gli israeliani hanno sostenuto che furono i governi arabi a
spingere la popolazione a spostarsi prima ancora dell’arrivo degli israeliani.
In realtà, salvo casi circoscritti, come quello di Haifa, sembra che il fenomeno
sia stato in gran parte spontaneo, una fuga preventiva suscitata dalla paura di
rappresaglie e alimentata anche da voci fantasiose. Decisivo fu il fatto che i
notabili locali, gli effendi, abbandonassero i loro villaggi: la popolazione,
in una organizzazione tribale, non poteva che imitarli.
Da allora, i rappresentanti palestinesi e
i governi arabi hanno sempre gettato sul tavolo delle trattative di pace la
richiesta del rientro di tutti i profughi (oltretutto in un numero anche
ben superiore a quello reale). Considerazioni umanitarie potevano sicuramente
indurre Israele a una maggiore disponibilità (Ben Gurion offrì l’accoglienza di
100.000 profughi), ma acconsentire alla richiesta così come veniva formulata
equivaleva ad un suicidio per Israele. Si sarebbe trattato di ospitare
centinaia di migliaia di profughi che odiavano Israele e che, secondo le stesse
autorità arabe (sono innumerevoli le dichiarazioni in proposito), avrebbero
dovuto solo lavorare alla distruzione dello stato ebraico.
Il problema dei rifugiati, sebbene reale e
drammatico, è stato quindi usato dai leader arabi in modo strumentale, non come
condizione per un accordo di pace, ma per mettere un ostacolo insormontabile
sulla strada di quell’accordo.
Sarebbe anche il caso di segnalare che,
contemporaneamente, centinaia di migliaia di ebrei venivano cacciati dai paesi
arabi e, tra l’altro, non poterono stabilirsi, come invece accadde alla maggior
parte dei profughi palestinese, a poca distanza dalla loro residenza e in una
terra culturalmente e linguisticamente omogenea a quella d’origine. Ma di
questi altri profughi non si parla mai.
L’altra questione sulla quale non è mai
stato raggiunto neanche un preliminare di accordo è quella di Gerusalemme.
Solo dopo la spartizione della città con Abdallah gli stati arabi si decisero
ad accettare l’internazionalizzazione , ma era ormai troppo tardi. Seguiremo più
avanti le vicende di Gerusalemme negli anni successivi, segnalando comunque fin
da ora che essa rimase completamente fuori dai tanto esaltati accordi di Oslo.
Infine, un altro fattore – quasi mai
citato – che rende estremamente problematica la pace è la diffusione dell’antisemitismo
nel mondo arabo. Tutti gli elementi, gli stereotipi, i materiali della
secolare costruzione antigiudaica, a partire dal secondo dopoguerra, ma in
parte già nel periodo del Mandato, si trasferiscono dall’Europa cristiana che
li aveva inventati e dalla Germania che con il nazismo li aveva portati alle
sue estreme e orribili conseguenze al mondo arabo-islamico. I Protocolli dei
Savi di Sion, per esempio, furono tradotti in arabo fin dagli anni Venti e
da allora conobbero ripetute ristampe; sono citati nello Statuto di Hamas, che
pure la sinistra occidentale sembra a volte scambiare per un movimento di
liberazione; il Mein Kampf fu una sorta di vademecum degli ufficiali
egiziani. Quella distinzione fra antisionismo e antisemitismo, divenuta così
cara negli ultimi decenni alla sinistra occidentale, cade del tutto quando si
esamina il fenomeno antisemita nel mondo arabo: non si fa mai alcuna differenza
fra sionismo ed ebraismo e di conseguenza l’antisionismo arabo si traduce
regolarmente e costantemente in antisemitismo. Ciò è provato da una massa
ingente e significativa di documenti e testimonianze.
LA GUERRA DEI “SEI GIORNI”
La guerra del 1967 è considerata da molti
la colpa fondamentale di Israele ed è quella che ha determinato una
drammatica rottura, mai più ricomposta, fra Israele e buona parte della
sinistra occidentale. La vulgata su questa vicenda è però largamente
deformata, con la rimozione di alcuni elementi e la manipolazione di altri.
Innanzitutto bisogna tener conto del fatto
che dalla metà del decennio precedente aveva fatto irruzione sulla scena un
personaggio che l’avrebbe negativamente condizionata fino alla sua scomparsa
nel 1970: Nasser. Questi, calandosi nel ruolo di guida – demagogica -
del panarabismo, radicalizza, innanzitutto verbalmente, ma anche praticamente,
la contrapposizione ad Israele (e anche l’antisemitismo arabo). L’accesso allo
stretto di Aqaba e quindi al porto israeliano di Eilat – unico sbocco petrolifero
e marittimo dello stato ebraico verso il Golfo Persico, l’Oceano Indiano,
l’Asia e l’Africa orientale, era stato già seriamente ostacolato dagli egiziani
in epoca pre-nasseriana, in barba alle convenzioni internazionali e alle
intimazioni dell’ONU. Nasser giunge a bloccarlo del tutto, bloccando anche il
transito attraverso il canale di Suez alle navi provenienti da Israele o lì
dirette. Dopo la guerra del 1956 – sulla quale per brevità sorvolo in quanto
non alterò nella sostanza la situazione preesistente – la tensione aumenta in
misura crescente, sia per la propaganda nasseriana, sia per le azioni
terroristiche di feddayn da Gaza e dalla Cisgiordania. Israele vive la
psicosi dell’assedio e sembra isolata sul piano internazionale: nella crisi del
1956 sia USA che URSS sono infatti intervenuti a bloccare gli israeliani, la
cui azione militare era stata istigata da francesi e britannici in seguito alla
nazionalizzazione del canale di Suez. Nasser si è poi legato all’URSS da cui
riceve aiuti finanziari e militari.
Un incidente come tanti altri –
l’abbattimento sopra il lago di Tiberiade di sei Mig siriani che avevano
sconfinato – dà l’esca alla più violenta campagna antiisraeliana del leader
egiziano. La distruzione dello stato ebraico viene minacciata ogni giorno e
truppe egiziane si schierano nel Sinai, in risposta a una presunta mobilitazione
e concentrazione di forze di Tsahal – l’esercito israeliano – che in
realtà l’ONU stessa smentisce. Forte del consenso nel mondo arabo e
dell’appoggio sovietico, a fronte dell’isolamento israeliano, Nasser sembra
intenzionato a scatenare la guerra. In realtà, è probabile che il rais non
intenda iniziare subito una offensiva militare, ma che voglia logorare
lentamente l’antagonista, e attaccarlo poi al momento più opportuno. Israele
non può accettare questo lento strangolamento e questa vita in clima da
assedio, né può rassegnarsi al blocco di Aqaba. Alla fine, il governo
israeliano decide di effettuare un’azione militare preventiva e risolutiva.
All’alba del 5 giugno 1967, annientata l’aviazione egiziana, Tsahal travolge
le difese egiziane nel Sinai avanzando fino al mar Rosso e al canale di Suez.
Dovrebbe trattarsi di un attacco a sorpresa teso ad allentare la morsa
egiziana, a forzare il blocco di Aqaba e a neutralizzare eventuali idee di
guerra di Nasser, ma il comportamento della Giordania muta completamente i
termini della questione. Ecco un importante elemento costantemente rimosso:
Israele prese effettivamente l’iniziativa di una offensiva contro l’Egitto nel
contesto che si è visto, ma Israele nel 1967 non attaccò la Giordania ma fu
da questa attaccato, benchè avesse rassicurato il sovrano hashemita.
Hussein fu male informato e venne istigato da Nasser, che del resto controllava
di fatto le forze armate giordane. La controffensiva israeliana piegò
facilmente le truppe della monarchia hashemita. E’ questa la prima origine
della occupazione israeliana di Gerusalemme est e della Cisgiordania. Intanto,
nonostante le esitazioni del governo israeliano, la pressione dei kibbutzim della
zona – bersagliati da un incessante bombardamento - e dei militari convince
Israele ad attaccare la Siria, occupando le alture del Golan, cruciale
postazione strategica, che, come abbiamo visto, appartenevano originariamente
non alla Siria, ma al territorio del mandato britannico in Palestina.
Si tratta, per Israele, di trasformare il
successo militare, ancora più clamoroso di quelli precedenti, in una vittoria
diplomatica. Un primo risultato viene raggiunto subito: l’appoggio sovietico
a Egitto e Siria, convince gli USA a guardare finalmente ad Israele come al
proprio principale alleato in Medio Oriente. Si tratta di una svolta di enorme
importanza.
Nella storia spesso mal raccontata della
guerra dei Sei giorni si inserisce quella della famosa risoluzione 242 del
Consiglio di Sicurezza, regolarmente e maldestramente citata. Secondo la
vulgata filopalestinese, la risoluzione imporrebbe a Israele di abbandonare
tutti i territori occupati e non avendolo fatto, Israele si sarebbe posto fuori
dalla legalità internazionale. Inoltre riconoscerebbe ai palestinesi il diritto
ad un proprio stato. Ma è proprio così? No, di certo. Basterebbe capire che una
risoluzione così sbilanciata in senso antiisraeliano avrebbe sicuramente
incontrato il veto degli USA e probabilmente anche di Francia e Gran Bretagna
(e difatti un progetto sovietico di risoluzione era stato subito bloccato).
In realtà, la risoluzione viene formulata
volutamente in termini ambigui. Il testo arabo e quello ebraico sono
sensibilmente diversi e diversi da quello inglese. Quest’ultimo,
intenzionalmente, non chiede il ritiro dai territori occupati, ma
genericamente da territori (from territories). Gli israeliani
possono quindi sostenere di non aver violato la risoluzione, quando hanno
liberato prima il Sinai e poi Gaza. Ma il punto cruciale è ancora un altro. La
risoluzione pone due condizioni fondamentali, una, rivolta alle rivendicazione
arabe, l’altra a quelle israeliane; il ritiro “da territori” è solo l’una delle
due. L’altra riguarda la sicurezza di Israele e la cessazione dell’assedio, a
cui si allude chiaramente, sebbene indirettamente, quando si parla di “frontiere
sicure e riconosciute” (che attenzione non vengono fatte coincidere con
quelle del 1948) e di libertà di navigazione.
Inoltre viene citato, ma genericamente, il problema dei profughi e posto
il principio dell’inviolabilità del territorio degli Stati della regione. Infine,
i palestinesi vengono citati solo nell’accenno al problema dei profughi ma il
testo non parla mai di uno stato palestinese.
In sostanza, se gli arabi potevano
accusare Israele di non ottemperare alla risoluzione, non ritirandosi da
territori occupati, altrettanto poteva fare lo stato ebraico nei confronti
degli arabi, viste le azioni di terrorismo e di guerriglia che continuano negli
anni successivi e anzi si intensificano. E tuttavia, in Occidente hanno quasi
sempre e solo trovato spazio le ragioni dei palestinesi, quando si è parlato di
questa famosa e famigerata risoluzione. Che poi, guarda caso, fu respinta
dall’OLP.
DALLA GUERRA DEL KIPPUR AGLI ACCORDI DI
CAMP DAVID
Da una guerra all’altra, da quella dei
“Sei giorni” a quella del Kippur, passano solo sei anni, ma cambia
profondamente lo scenario. Scompare nel 1970 Nasser, che nonostante la
disfatta, aveva seguitato nei suoi proclami panarabisti e nella sua feroce
campagna antisionista (e antisemita). Il suo successore, Sadat, viene
ritenuto una figura minore, quasi grigia. Grande errore di valutazione. Si
rivelerà l’unico leader arabo della storia del conflitto capace di operare
costruttivamente, ottenendo dei notevolissimi risultati.
Può quindi sembrare paradossale che Sadat
sia responsabile sia di una guerra offensiva contro Israele, sia del più
importante accordo di pace con lo stato ebraico. In realtà, c’è un filo di
coerenza fra l’una e l’altra cosa. Sadat vuole portare l’Egitto fuori da un
impasse logorante – una condizione che non era né di pace, né di guerra. Il suo
disegno è chiaro: sganciare il paese dall’URSS, riportarlo nel campo
occidentale, abbandonare l’ideologia panaraba, raggiungere un modus vivendi
duraturo con Israele se realisticamente ci si deve rassegnare a conviverci. Il
progetto viene realizzato, ma gli costerà l’ostracismo del mondo arabo e alla
fine persino la vita. E’ significativo che i due leader arabi che hanno
seriamente cercato la pace con Israele – Abdallah di Giordania e Sadat – siano
entrambi finiti assassinati dai loro connazionali.
Sadat cerca subito degli abboccamenti con
Israele, ma Israele – il governo laburista - colpevolmente li ignora, non
assegnando alcun credito al successore di Nasser e non rendendosi conto della
svolta in atto in Egitto. Sadat allora decide la guerra, di concerto con
i falchi siriani, e trascinandosi dietro, come al solito, la Giordania. La
guerra è concepita come una istantia crucis: o Israele sarà stavolta
annientato – scenario altamente improbabile – o perderà comunque la convinzione
della propria invulnerabilità, che ha pericolosamente sviluppato dopo il 1949 e
soprattutto dopo il 1967 – e accetterà di trattare. Questo obiettivo viene
sostanzialmente raggiunto. Israele si fa cogliere di sorpresa – e questo aprirà
una aspra polemica interna – e per la prima volta rischia seriamente la
disfatta militare. Alla fine, la controffensiva ottiene risultati ancora più
brillanti si può dire di quelli delle guerre precedenti, ma su ogni altro piano
il bilancio della guerra di Kippur è negativo. Innanzitutto Israele si scopre
di nuovo vulnerabile e rischia di ritornare alla sindrome dell’assedio che
aveva preceduto la guerra dei Sei Giorni. Sul piano diplomatico è chiaro che
padroni del gioco non sono i due contendenti, ma le due superpotenze che
infatti impediscono a Tsahal di andare fino in fondo nella
controffensiva. Si capisce, inoltre, che gli arabi, se continuano ad essere
manifestamente inferiori sul piano militare e tecnologico hanno un’arma
temibilissima e dal potere ricattatorio nei confronti degli alleati occidentali
dello stato ebraico: il petrolio.
Manca ancora un presupposto al decollo di
vere trattative di pace tra egiziani e israeliani: il cambio di maggioranza
politica in Israele. La vecchia leadership laburista e sionista è un
interlocutore inadeguato per Sadat. La pace verrà invece stipulata dal governo
di destra di Begin, l’uomo che nel periodo del mandato aveva organizzato la
guerriglia ebraica. E’ solo apparentemente un paradosso: Begin e il suo partito
sono meno legati all’ideologia sionista e inoltre la loro priorità è
l’annessione della Giudea e Samaria, ossia dei “territori occupati”, ma proprio
per questo hanno poco interesse a mantenere l’occupazione del Sinai e cercano
piuttosto sicurezza su quella frontiera e negli accessi e sbocchi marittimi. Le
trattative saranno comunque lunghe e faticose, anche dopo il sorprendente
annuncio di Sadat: il rais “per ottenere la pace e risparmiare la vita
anche di un solo soldato egiziano” si dichiara disposto ad andare “anche in
capo al mondo, anche alla Knesset di Gerusalemme”. Difficilmente nella
storia di questo conflitto si può trovare un altro leader capace di un gesto e
di una iniziativa di pari audacia, lungimiranza, realismo, apertura mentale. Le
accoglienze a Sadat in Israele sono entusiastiche. La strada resta però
difficile, soprattutto perché Sadat è comprensibilmente preoccupato delle
reazioni nel mondo arabo e teme l’isolamento. Si è infatti subito costituito un
“fronte del rifiuto”, sostenuto dai sovietici e formato da Siria, Libia, Iraq,
Algeria, ala sinistra dell’OLP, mentre Giordania e Arabia Saudita tacciono e
solo Marocco e Tunisia appoggiano l’iniziativa. Sadat deve pretendere da
Israele il ritiro dai territori occupati e il riconoscimento
dell’autodeterminazione palestinese. Le posizioni restano dunque lontane. E’ a
questo punto che la situazione si sblocca per intervento di un altro
fondamentale attore: gli USA. Il Presidente Carter, che non ha poi goduto
di buona fama e ha concluso il suo mandato in modo poco glorioso, in questa
occasione mostra una pronta intelligenza del momento: c’è l’occasione di
riportare gli USA in Medio Oriente in una posizione di assoluta centralità,
strappando definitivamente l’Egitto dal campo sovietico e facendo dei due paesi
che si avviano a stipulare la pace, un sicuro bastione alleato nell’area.
In tredici lunghi giorni, nel settembre
del 1978, si giunge così agli accordi di Camp David. Israele restituisce il
Sinai all’Egitto. L’Egitto si impegna a stipulare un trattato di pace e a
stabilire normali reazioni diplomatiche con Israele. Israele si impegna a
concedere alla popolazione palestinese di Gaza e della Cisgiordania, prima self-autonomy
and self government e poi, dopo cinque anni, self-governing authority.
Gli accordi di Camp David sono un fatto
storico di grande rilevanza, sicuramente gli accordi più
importanti nella storia del conflitto (ben più importanti degli accordi di
Oslo).
Le conseguenze principali sono due: 1. Il
conseguimento della pace fra Israele e il più importante paese arabo,
quello che era quindi stato anche il principale nemico dello Stato ebraico.
Questo risultato non è stato mai più messo in discussione. E’ un dato che viene
troppe volte incredibilmente sottovalutato. 2. E’ ormai posta in modo
ineludibile la “questione palestinese” e con essa anche le premesse – 15
anni prima di Oslo – per l’”autonomia” dei “Territori”.
LE ORIGINI DELLA QUESTIONE PALESTINESE
A dispetto delle costruzioni ideologiche
successive e delle fantasiose manipolazioni della storia che attribuiscono
antichissime origini alla “nazione palestinese”, sul piano storico si può
affermare che una coscienza nazionale palestinese sia nata solo nei campi
profughi, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e che si sia realmente
affermata solo a partire dal decennio successivo (l’OLP nasce nel 1964). Prima
di allora, non vi era mai stata alcuna idea di una specificità e peculiarità
palestinese nel contesto della ben più grande “nazione araba”. Ancora nel 1956,
Ahmed Shouheiry, che anni dopo diventerà un esponente anche estremista della
“causa palestinese”, affermava all’ONU che “è di pubblica conoscenza che la
Palestina non è altro che la Siria del Sud”. Si è anche visto come il re della
TransGiordania, paese che aveva una metà della popolazione di origini
palestinesi - avesse approfittato della prima guerra con Israele, per mettere
le mani sui territori al di là del Giordano, impedendo la creazione dello Stato
arabo indipendente di Palestina previsto dalla risoluzione 181.
Beninteso, ciò non toglie legittimità
alle rivendicazioni palestinesi di autodeterminazione: se si segue il
modello di nazione rousseauiano-mazziniano - e non quello romantico-tedesco
basato sul Volk, la comunità naturale di sangue – si può dire che
tutte le nazioni sono costruzioni storiche e in quanto tali sono “inventate”.
Spesso, la scoperta o il recupero di “radici”, memorie storiche, simbologie,
lingua, tradizioni letterarie e culturali segue e non precede questa
“invenzione”. Ciò che però è ideologico
e spesso pericoloso è rimuovere la coscienza di questa operazione e trasformare
una costruzione storica in una realtà atemporale, anche con evidenti
falsificazioni della storia. E’ pericoloso perché porta quasi inevitabilmente a
scontrarsi con altre “nazionalità” che a loro volta vantano radici e origini
antichissime – in questo caso il popolo ebraico, in questo caso pure con molte
ragioni. L’antichità di una nazione non è dunque un fattore decisivo – ma
neanche va considerato irrilevante – e però non deve divenire oggetto di
manipolazioni.
Non si può disconoscere il diritto all’autodeterminazione
dei palestinesi, sebbene resti del tutto aperta la questione del territorio su
cui dovrebbe sorgere un loro stato. Il problema più grave è tuttavia un altro: la
“coscienza nazionale palestinese” nasce in aperto conflitto con lo Stato
ebraico, anzi è in effetti suscitata proprio da questo conflitto, e disconosce
il diritto all’esistenza di Israele.
La Carta nazionale palestinese, che
è una sorta di Costituzione dell’OLP, redatta nel 1964 ed emendata nel 1968, afferma
molto chiaramente che “La Palestina è la
patria del popolo arabo palestinese” (articolo 1), che dovrà essere totalmente
liberata dall’occupazione israeliana e la lotta armata è la sola via per la
liberazione della Palestina con le armi (articoli 9 e 21). Agli ebrei
viene negato lo status di popolo e di nazione (articolo 20), essendo
l’ebraismo solo una religione, per cui non esiste un loro diritto
all’indipendenza come nazione. Viene anche negato qualsiasi legame storico e
spirituale degli ebrei con la Palestina. Gli ebrei sono cittadini degli stati a
cui appartengono. Il sionismo è dunque una ideologia razzista, fascista e
colonialista e l’occupazione della Palestina con la costituzione dello Stato di
Israele sono del tutto illegali. Lo Stato di Israele deve essere distrutto (articolo
22).
Va sottolineato che, sebbene Arafat, in
occasione degli accordi di Oslo, si sia pubblicamente impegnato a cancellare o
emendare alcuni punti di questo documento, un nuovo testo non è mai stato
redatto e dunque la Carta Nazionale Palestinese sopra citata è ancora
formalmente in vigore ed è impegnativa per i militanti dell’OLP.
Alle formulazioni della “Costituzione
palestinese” segue purtroppo la prassi: gli attacchi terroristici dei feddayn
si intensificano e diventano sistematici dopo la guerra dei Sei Giorni, che
indubbiamente radicalizza ulteriormente i palestinesi.
Sono azioni che partono dai campi profughi
della Giordania e che portano l’esercito di Israele a reagire con ripetuti
sconfinamenti. Nel settembre del 1970, il re di Giordania, che teme una
destabilizzazione del suo paese, pressato dalla componente beduina della sua
popolazione (l’altra metà del suo popolo è appunto palestinese), insofferente
di profughi che sono stanziati in armi all’interno del Regno, non ne rispettano
le leggi e non pagano tasse, passa all’azione con grande brutalità e smantella
i campi palestinesi, costringendoli a ripiegare in Libano. E’ il cosiddetto Settembre
nero.
Negli anni successivi la questione
palestinese si drammatizza ulteriormente anche in virtù di questa
contraddizione: frustrati nelle loro aspirazioni, sconfitti ripetutamente
sul piano logistico e militare, mal tollerati o strumentalizzati nel mondo
arabo, i palestinesi dell’OLP intraprendono tuttavia con notevole successo
un’offensiva diplomatica, che apre ad Arafat le porte dell’ONU (1974),
consente di stabilire legami politici, economici e militari col blocco
sovietico, di acquisire consenso nel Terzo Mondo e accreditarsi anche presso i
paesi occidentali. Riguardo a quest’ultimo e decisivo punto – decisivo perché
la questione palestinese non avrebbe mai avuto la forza che ha avuto senza il
favore di molti governi europei e in particolare delle sinistre occidentali –
l’abilità di Arafat consiste nel riuscire a distinguersi dai radicali del “fronte
del rifiuto” accreditando un’immagine moderata di sé. Gli israeliani, o la loro
maggioranza, sostengono invece che questa aura di moderatismo sia finta e che
quella di Arafat sia solo doppiezza e ambiguità. Alcuni fatti, come quello già
richiamato della mai avvenuta modifica della Carta Palestinese, darebbero loro
ragione.
Valutazioni così divergenti sulla figura
del leader palestinese si possono peraltro meglio interpretare se si coglie
l’elemento essenziale della sua strategia, dopo la guerra del Kippur
(detta anche “teoria delle tappe”): cominciare a insediare una qualche forma di
stato palestinese su un qualunque pezzo di territorio, mantenendo comunque
fermo l’obiettivo finale che, se hanno un senso quelle formulazioni, resta
quello fissato nella Carta nazionale palestinese. Una tattica moderata,
dunque, per l’obiettivo strategico più radicale.
In secondo luogo bisogna tener conto della
forte opposizione interna nell’OLP a qualsiasi passo che possa sembrare una
“concessione” al nemico sionista, una opposizione prima della sinistra marxista
e più recentemente della corrente islamista.
Le posizioni palestinesi sono quantomeno
chiare, anche se sembrano prive di sbocco. Nel campo israeliano, invece, le
idee su come affrontare la questione palestinese sono diverse e anche
contrastanti. Le due opposte opzioni – annessione dei territori o ritiro (“pace
in cambio di terra”) – hanno entrambe i loro rispettivi sostenitori in Israele,
ma presentano entrambe invincibili difficoltà. L’opzione che sembrerebbe più
ragionevole è naufragata nel corso degli anni. Si tratta della cosiddetta “opzione
giordano-palestinese”
Essa si basa su una considerazione che
pare semplicemente di buon senso: che reali prospettive di sussistenza potrebbe
mai avere uno Stato indipendente palestinese in Cisgiordania, precariamente
collegato con l’enclave di Gaza, in un territorio piccolo, sovrappopolato ed
estremamente povero di risorse? Ecco allora l’idea di uno Stato
giordano-palestinese: uno stato palestinese già c’è, si argomenta, ed è la
Giordania, basta completarlo con i territori ad ovest del Giordano che la
monarchia hashemita peraltro aveva già occupato e con i quali mantiene solidi
legami (anche dopo la guerra dei Sei Giorni gli stipendi dei funzionari
pubblici venivano pagati dallo stato giordano, le scuole, le municipalità
funzionavano in base alle leggi giordane e gli abitanti della Cisgiordania
erano ancora cittadini giordani). Il problema è che questa opzione è stata
sempre rifiutata dai palestinesi ed infine è stata rigettata anche dal re di
Giordania – che ha pure tagliato i legami di cui sopra con la Cisgiordania –
timoroso evidentemente di una prevalenza palestinese nel suo Regno.
Siamo quindi ad un impasse che non è mai
stato superato e che le vicende successive a Camp David, che ora vedremo nelle
loro grandi linee, hanno reso ancora più problematico, a dispetto della
retorica sugli accordi di Oslo.
LA GUERRA IN LIBANO
Il governo Begin, che aveva legato i suoi
primi anni a un grande risultato come quello di Camp David, concluderà la sua
storia con quella che è sicuramente la più sciagurata operazione
politico-militare nella storia di Israele. Fu battezzata “Pace in Galilea” e il
nome suona ora sinistramente ironico. Il protagonista di tale operazione, più
dello stesso Begin, fu Sharon. Presentata come una operazione limitata e
tattica, tesa a metter fine allo stillicidio di attacchi terroristici dal
Libano verso soldati e coloni israeliani, aveva in realtà obiettivi ben più
vasti, ambiziosi e sostanzialmente irrealistici. Si trattava di sradicare la
presenza palestinese dal Libano e il quartier generale che l’OLP, dopo Settembre
nero, aveva stabilito a Beirut ovest, di normalizzare la situazione libanese
sotto il governo dell’alleato Bashir Gemayel, leader della fazione
cristiano-maronita, e sottrarre così il paese dei cedri all’influenza siriana.
Alla fine solo il primo obiettivo sarà raggiunto, ma con costi molto elevati,
mentre sugli altri due punti il fallimento sarà completo e l’operazione
innescherà dinamiche che renderanno la situazione del Libano ancora più
pericolosa per la sicurezza di Israele, come è rimasta fino ad oggi.
L’operazione incomincia il 6 giugno 1982 e
già il quarto giorno, quando Tsahal attacca e sbaraglia anche l’esercito
siriano acquartierato ad est, perde il suo apparente carattere tattico e
limitato. Per giunta, vista l’ostinazione dei palestinesi asserragliati a
Beirut Ovest, le truppe di Sharon incominciano un brutale bombardamento della
città, fra le proteste internazionali e i crescenti malumori anche in Israele.
Con l’elezione di Gemayel a capo di stato e l’accordo per l’evacuazione dei
palestinesi, la situazione sembra comunque volgere in senso favorevole, ma
tutto crolla con l’assassinio, il 15 settembre dello stesso Gemayel. Il paese è
sull’orlo della guerra civile, gli israeliani entrano a Beirut, le milizia
falangiste, inferocite, penetrano nei campi dei profughi palestinesi di Sabra e
Chatila e compiono un massacro (la strage nella memoria collettiva viene spesso
imputata direttamente a Sharon, il che è falso, anche se la sua indiretta
responsabilità è evidente)
L’ondata di indignazione sommerge il
governo israeliano e Sharon; per la prima volta vi è una forte protesta di
massa anche all’interno di Israele (una manifestazione di 400.000 persone a Tel
Aviv), oltre alla formazione di comitati di madri di soldati, alle petizioni e
iniziative di intellettuali.
La peggiore conseguenza dell’operazione
“Pace in Galilea” per Israele è che ha conseguito esattamente il risultato
opposto a quello prefissato: ha creato le premesse per l’egemonia siriana in
Libano e per la crescita e l’espansione delle forze islamiste, sotto l’egida
sia della Siria, sia del nuovo ed emergente nemico dello Stato ebraico, l’Iran
degli ayatollah.
Nei mesi successivi, Israele dovrà
ritirarsi da Beirut, abbandonando a sé stessi i maroniti, che verranno
rimpiazzati come forza etnico-politico-religiosa egemone dai drusi filosiriani
e ben presto dagli integralisti sciiti di Amal e poi soprattutto di Hezbollah.
I quali si accampano proprio a Beirut Ovest e inaugurano la serie degli attacchi
terroristici suicidi contro le forze occidentali e israeliane.
DALLA PRIMA ALLA SECONDA INTIFADA PASSANDO
PER OSLO
L’irrompere inaspettato della prima Intifada,
nel 1987, fece grande impressione in Occidente. La “rivolta delle pietre” era
fatta per esercitare una notevole suggestione, almeno nel modo in cui fu
generalmente presentata dalla stampa. Innanzitutto, si diceva che essa fosse
programmaticamente limitata ai territori “occupati” e avesse come proprio
motivo scatenante, non solo l’occupazione in sé di queste terre, ma il fatto
specifico degli insediamenti coloniali israeliani, secondo una politica che
suscitava notevoli critiche sia nei paesi occidentali che nella stessa
opposizione israeliana, in quanto veniva considerata una mina sul cammino della
pace. La rivolta, poi, dichiarava la rinuncia all’uso delle armi da fuoco e si
realizzava anche con azioni di disobbedienza civile. In realtà sono documentati
molteplici attacchi con molotov, armi da fuoco e bombe a mano, ma la copertura
mediatica in Occidente della vicenda, come da allora in poi è regolarmente
accaduto, fu nettamente sbilanciata a favore dei palestinesi.
Quello che però all’opinione pubblica
occidentale soprattutto sfuggiva o che non era adeguatamente valutato era la
stretta correlazione fra la rivolta e la radicale islamizzazione di Gaza e, in
genere, della popolazione palestinese, dove tradizionalmente le componenti
laiche avevano avuto ampio spazio ed era anche esistita una significativa
minoranza cristiana. Entrambe le cose erano ora in procinto di esser spazzate
vie dall’onda islamista, che destabilizzava e indeboliva anche l’OLP, ossia
quello che per l’Occidente era l’interlocutore credibile del processo di pace.
Un altro aspetto importante che sfuggì
largamente all’opinione pubblica occidentale e che accanto all’Intifada si
incominciava a combattere una “Intrafada”, cominciava cioè un regime di
repressione sistematica e violenta del dissenso nelle fila palestinesi.
Presto i morti palestinesi uccisi da loro connazionali superarono il numero dei
morti negli scontri con gli israeliani. A Gaza questo regime di terrore è
durato fino ad oggi.
Ciò nonostante, l’Intifada segnò un nuovo
crescendo nell’ostilità della sinistra occidentale nei confronti di Israele,
anche per la denuncia di episodi di violazione dei diritti umani e per la morte
di oltre un migliaio di palestinesi nelle proteste.
Il risultato più notevole dell’Intifada,
non certo pensato, né voluto dai suoi promotori, fu però quello di sbloccare la
situazione diplomatica e mettere in moto il processo che avrebbe portato agli
accordi di Oslo.
Preoccupato dalla crescita degli
integralisti islamici, che gli avevano conteso nella seconda fase dell’Intifada
la direzione della rivolta e che oltretutto non accettavano di essere inglobati
nell’OLP, Arafat capisce di dover assumere una qualche iniziativa. Dall’altra
parte, Peres e Rabin cercano di rimediare alle ultime sciagurate avventure dei
governi di destra e hanno bisogno di recuperare consensi a livello
internazionale. Il 13 settembre 1988, in un discorso al Parlamento Europeo,
Arafat si dichiara disposto a negoziare con Israele. Due mesi dopo accetta
finalmente la risoluzione 242 dell’ONU, proprio quella che, secondo una certa
vulgata occidentale inchioderebbe Israele alle sue colpe e ai suoi misfatti, ma
che stranamente non era mai stata accettata dai palestinesi. Arafat si muove
comunque in un difficilissimo e anche ambiguo equilibrismo, pressato da un
lato dagli USA e dall’opinione pubblica occidentale e mondiale, che gli
chiedono di fare i decisivi passi di riconoscimento dello Stato di Israele e di
rinuncia alla violenza, e dall’altro dalla cospicua componente palestinese
radicale che è contraria a tutto ciò. Alla fine arriverà semplicemente a
condannare tutte le forme di terrorismo, ma non la lotta armata come strumento
di liberazione. Prima di Oslo, il riconoscimento di Israele rimane invece al
massimo implicito, nella accettazione delle risoluzioni ONU, ma non viene
chiaramente enunciato.
Si arriva così agli accordi di Oslo del
1993, sui quali è necessario innanzitutto stabilire un po’ di dati oggettivi.
A livello di dichiarazioni di principio –
dichiarazioni che in Medio Oriente sono nello stesso tempo per un verso più
significative, per l’altro meno impegnative, rispetto a ogni altra area del
mondo – Arafat riconosce il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza e
rinuncia al terrorismo. Rabin riconosce nell’OLP il legittimo rappresentante
del popolo palestinese (queste dichiarazioni vengonoin verità formalizzate e
siglate dopo gli accordi di Oslo, sul prato della Casa Bianca). Circa un anno dopo,
l’accordo del Cairo mette in atto gli aspetti pratici delle dichiarazioni di
Oslo: viene istituita l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Gaza (dove
sarebbe stata soppiantata da Hamas) e in Cisgiordania. La Cisgiordania viene
suddivisa in tre zone. La zona A, quella con le sette principali città, ma
con un’estensione di territorio molto ridotta (meno del 3%) è affidata
interamente all’ANP. L’area B, con 450 città e villaggi e il 24 % del
territorio con l’ordine pubblico affidato ai palestinesi e la sicurezza
militare agli israeliani. Infine l’area C, poco popolata, ma geograficamente
estesa, dove si trovano gli insediamenti coloniali israeliani e le zone che
Israele ritiene strategicamente irrinunciabili, che resta sotto il completo
controllo dello Stato ebraico. Le aree palestinesi sono discontinue e
isolate e non controllano i valichi.
Gli accordi furono comunque accolti
trionfalmente nell’opinione pubblica internazionale come un passo decisivo
verso la pace e considerati la svolta più importante se non l’unica
significativa nella storia del conflitto. Rabin, Peres e Arafat ottennero il
Nobel per la Pace. Quello che è sempre rimasto inesplicabile agli entusiasti
commentatori di allora è stato il fatto che dopo quegli accordi il processo di
pace che a loro avviso era così ben avviato si sia inopinatamente bloccato.
Generalmente, viene data la responsabilità agli “estremisti” di entrambi i
fronti e si evoca come fatto emblematico l’uccisione di Rabin. In realtà, se la
vicenda viene ricostruita con attenzione, emerge con chiarezza l’estrema
fragilità dell’assetto di Oslo, fin dai primi mesi e ben prima della tragica uscita
di scena di Rabin, e si evidenzia la crescita della violenza come effetto
paradossale della pace di Oslo. Ciò non può essere solo letto in chiave di
tradimento o boicottaggio: bisogna capire su quale terreno dilaghi l’estremismo
dopo Oslo. E questo terreno è costituito anche dall’ambiguità, dalle omissioni
e dalle contraddizioni di quegli accordi.
Vediamoli, abbandonando la mitologia su questi accordi.
Della singolare “geografia” dei Territori
palestinesi si è già detto. Essa viene digerita da tutti, perché viene
presentata come una sorta di “work in progress”. Non sarà così e non poteva
essere così. L’impasse era già inscritto nella falsa coscienza e nelle
contraddizioni interne alle due parti. Riguardo ai palestinesi, è evidente che
l’accordo rientra nella strategia di Arafat del “processo a tappe” e che solo
per questo ottiene un consenso maggioritario. Ma Arafat sarebbe costretto a
procedere subito ad altre tappe, per mantenere questo consenso, incalzato come
è dagli estremisti. E non può farlo. In particolare, deve porre le questioni
che sono rimaste totalmente fuori dagli accordi: profughi e Gerusalemme.
Lo sgretolamento dell’ANP alla lunga è
quindi inevitabile (reso ancora più grave dal fatto che gli accordi creano una
amministrazione palestinese nei territori che amplifica in modo esponenziale la
corruzione cronica del ceto dirigente palestinese e accentua il suo discredito
fra le masse palestinesi). L’attuale drammatica crisi dell’ANP è figlia di
quello che era apparso il più grande successo diplomatico dell’OLP. Con Oslo,
Arafat recupera provvisoriamente una leadership indiscussa, ma fomenta la
ulteriore e impetuosa crescita di Hamas e sgretola il terreno sotto i piedi
dell’OLP.
Da parte israeliana, il significato
inconfessabile ma autentico degli accordi è quello di evitare l’alternativa
improponibile fra il ritiro dai territori e l’annessione.
Si può anche non mettere in discussione la sincerità di Rabin e ritenere che
egli, almeno se si fossero effettivamente realizzate le condizioni opportune
(di pace e sicurezza per Israele) pensasse davvero al ritiro definitivo e
totale, ma questa soluzione appariva troppo debolmente sostenuta, come del
resto l’altra, quella annessionista, e comunque si scontrava con il problema
degli insediamenti coloniali, che è un’altra delle clamorose omissioni degli
accordi di Oslo. Quindi, di fatto gli accordi di Oslo per Israele sono una
non-scelta che evita due scelte ugualmente improponibili. E che blocca ogni
ulteriore sviluppo. Dalla posizione di Oslo, dalla sua eccentrica geografia,
Israele non può retrocedere, ma ancor meno può avanzare. Lo si è visto
negli anni successivi e fino ad oggi. E’ vero che a un certo punto Barak è
arrivato a promettere ai palestinesi tutta la Cisgiordania e pure Gerusalemme
est, ma non a caso è stato puntualmente sconfitto alle successive elezioni e il
suo è stato l’ultimo governo laburista in Israele. Sono già passati venti anni…
La debolezza degli accordi di Oslo è
inoltre legata alle importantissime questioni irrisolte, rimosse, eluse,
lasciate in sospeso: Gerusalemme, i coloni israeliani, i profughi palestinesi.
E’ quindi lecito concludere che ciò che
spesso si dice di questi accordi di pace sia mitologia più che analisi politica
e storica.
Gli accordi di Oslo sono subito seguiti da
una esplosione di violenza. E soprattutto alimentano la crescita
dell’integralismo islamico palestinese, della Jihad islamica e di Hamas.
Proprio quando Israele sembra poter superare, con Rabin, certi condizionamenti
ideologici che rappresentavano un ostacolo al dialogo (ma in realtà questo è in
parte un’illusione, come la tragica fine dello stesso Rabin mostra), una
barriera ideologica ben più massiccia e praticamente invalicabile si erge sul
fronte palestinese. Per l’islamismo palestinese è inconcepibile ciò che
Arafat, fosse pure in modo riluttante, incerto e ambiguo ha concesso: non c’è
alternativa alla distruzione di Israele. Agli ebrei che vivono nella umma
islamica spetta la condizione giuridicamente inferiore di dhimmi. Solo
così la loro presenza può essere accettata. Che invece gli ebrei pretendano di
avere un proprio Stato nel dar-al islam, nella casa dell’islam, e che
questo stato sia pure economicamente, tecnologicamente e militarmente ben più
forte degli stati arabi, che ne occupi dei territori e tenga soggetta la
popolazione islamica è uno scandalo inaccettabile. E se gli ebrei ci sono
riusciti è solo per il potere che gestiscono a livello mondiale. Il
fondamentalismo islamico palestinese recupera e rilancia così tutto
l’armamentario antisemita, dal complotto mondiale giudeo-massonico ai
Protocolli dei Savi di Sion, esplicitamente citati nella Carta di Hamas. Dall’antisemitismo
implicito della Carta Nazionale Palestinese si passa all’antisemitismo
esplicito ed eclatante dello Statuto di Hamas.
Dopo Oslo, Hamas incomincia a uccidere e
rapire soldati israeliani e lancia gli attentati contro i civili nelle stesse
città israeliane, sui bus, nei centri commerciali. In nove mesi vengono
uccisi 59 israeliani. Nei tre anni successivi ad Oslo le vittime saranno 300. Agli
occhi della gran parte degli israeliani, gli accordi di Oslo – già ratificati a
stretta maggioranza – non hanno portato la pace, ma morte e distruzione. La
popolarità di Rabin precipita. L’aspetto veramente preoccupante è però la
inaudita violenza verbale della campagna contro il leader israeliano, che supera
ogni legittimo diritto di critica e di opposizione. Negli ambienti della destra
estrema, del nazionalismo religioso e dei coloni non solo si arriva a definire
correntemente Rabin un pazzo o un traditore, ma un collaborazionista e persino
un fascista. Lo paragonano a Mussolini o a Petain. L’assassinio di Rabin non
può purtroppo essere liquidato come il gesto di un folle isolato e di un
singolo fanatico, ma si inserisce in questo contesto e, in particolare, in
quello del nazionalismo religioso. Ygal Amir, l’uccisore di Rabin, sostenne di
aver agito secondo un din rodef proclamato da alcuni rabbini. Il din
rodef è una halakhah , una norma talmudica, che permette l’uccisione
di un assalitore che sta per colpire. Alcuni rabbini discutevano effettivamente
l’eventualità di mettere il governo sotto processo in base a questa legge
talmudica codificata nel III secolo. Amir si richiamò inoltre all’episodio
biblico di Fineas, che uccide per “zelo” nei confronti di Dio.
E’ evidente che fortunatamente il caso
dell’omicida Amir resta isolato anche nell’estremismo religioso ebraico, come
isolati erano i rabbini sopra citati, ma il tragico episodio va comunque letto
in quel contesto di violenza e di imbarbarimento del dibattito, anche in
Israele, che segue gli accordi di Oslo.
Nel periodo successivo, i negoziati
proseguono stancamente intorno a quote di terra della Cisgiordania da
trasferire dall’area C all’area B e dall’area B all’area A, in modo da
estendere il controllo palestinese, ma non ci sono modifiche sostanziali. Si
arriva così agli incontri di Camp David promossi da Clinton che registrano
un drammatico fallimento, da un lato perché la situazione della divisione
territoriale non può fare progressi sostanziali, dall’altro perché gli
israeliani hanno continuato ad espandere gli insediamenti coloniali (e questo,
beninteso, non solo con i governi del Likud, ma anche con quello del
laburista Barak) mentre Arafat pone le questioni dei profughi e di Gerusalemme
(rivendicando addirittura tutta la città vecchia escluso il quartiere ebraico).
Dopo questo fallimento c’erano tutti i
presupposti per una riesplosione della violenza, che avvenne puntualmente con
la seconda Intifada o Intifada di Al-Aqsa. Anche in questo caso, la
narrazione dei media occidentali fu piuttosto sbilanciata: la responsabilità
veniva ascritta essenzialmente alla provocatoria “passeggiata” di Sharon sul
Monte del Tempio, o Spianata delle Moschee. Senza nulla togliere alla
inopportunità dell’iniziativa di Sharon, è certo che le violenze fossero
incominciate già in precedenza e che la famosa “passeggiata” sia stata il detonatore
di una miscela esplosiva che era stata già preparata. Se è piuttosto improprio
definire la prima Intifada una “rivolta delle pietre”, come abbiamo visto, la
seconda fu senz’altro una rivolta armata, alla quale Israele rispose subito con
la forza. Fu inoltre caratterizzata da una escalation degli attentati suicidi
contro civili israeliani. A metà Febbraio 2003, erano stati uccisi 2075
Palestinesi e 727 Israeliani. Questi numeri vengono solitamente interpretati
come un eccesso di reazione violenta da parte di Israele, visto che le vittime
palestinesi sono quasi tre volte superiori a quelle israeliane, senza voler
neanche considerare coloro, che purtroppo sono numerosi, che parlano di “genocidio”.
Ma non si tiene conto di alcuni elementi. Innanzitutto, fra le vittime
israeliane la maggior parte sono civili uccisi in attacchi terroristici
indiscriminati. In secondo luogo bisogna considerare il fatto che da una parte
abbiamo un esercito regolare, ben organizzato e ben armato, dall’altra un
“esercito” irregolare, in gran parte formato da ragazzini mandati allo
sbaraglio. Infine, il numero dei palestinesi impegnati negli scontri è ben
superiore a quello dei soldati israeliani. Il discorso va allora rovesciato e
ci si dovrebbe chiedere in quale paese, di fronte ad azioni terroristiche e di
guerriglia, si registrerebbe un numero di morti inferiore fra i rivoltosi. La
preoccupazione di Tsahal di evitare o limitare al massimo le vittime
civili nel corso delle azioni militari che si ritengono inevitabili e che si
confermerà in modo ancora più evidente nelle varie operazioni a Gaza degli anni
successivi, è del resto determinata anche dalla vigilanza e dalla critica
implacabile che l’opinione pubblica non solo internazionale, ma anche interna
esercita. E questo è evidentemente un caso unico nel Medio Oriente. Israele
è un paese democratico con solidi legami con gli altri paesi democratici e non
può permettersi nessun passo falso, a differenza dei regimi arabi e delle
entità politiche palestinesi. Parlare di “genocidio” dei palestinesi è cosa di
una enorme disonestà intellettuale e paragonare Israele ai nazisti è un’indecenza
che rivela un sostanziale antisemitismo.
Falliti i tentativi di riaprire i
negoziati, lo stillicidio degli attacchi suicidi portò Sharon, che intanto
aveva vinto le elezioni ed era divenuto Primo Ministro, a lanciare l’operazione
denominata “Scudo difensivo” in Cisgiordania e, in particolare, nelle città di
Jenin, Nablus e Ramallah. Solo da Jenin erano partiti 28 attentatori
suicidi. Il casus belli fu l’ennesimo attacco kamikaze che in un hotel aveva
portato alla morte di 30 persone con 140 feriti. A Ramallah fu assediato il
quartier generale di Arafat. Una efficace difesa dagli attentatori suicidi
si è avuta però solo con la costruzione del muro di separazione, incominciata
nello stesso 2002. Le puntuali e indignate proteste europee contro il “muro
della vergogna” sembrano ignorare il fatto che esso ha posto fine agli attacchi
suicidi, salvando la vita a un numero imprecisato di civili innocenti.
In concomitanza con questi drammatici
eventi il Presidente degli USA George W. Bush lanciava in un discorso un nuovo piano di pace, la
cosiddetta road map che non ha avuto risultati apprezzabili.
HAMAS A GAZA E LO STALLO DEI NEGOZIATI
Dalla seconda Intifada il processo di pace
è entrato in una fase di stagnazione e l’epicentro del conflitto si è spostato
a Gaza.
Non è il caso di seguire dettagliatamente
la miriade di proposte, annunci, tentativi che non hanno portato a risultati
concreti. Tutti i negoziati sono regolarmente falliti e si è rimasti a una
dichiarazione di principio, dell’una e dell’altra parte in causa, ripresa anche
da una risoluzione ONU del 2016 che impegna alla soluzione “dei due stati”
attraverso un percorso negoziale. Percorso che è però fermo.
A Gaza, invece, la situazione ha
conosciuto una drammatica evoluzione, a partire, anche in questo caso, da una
iniziativa di Sharon che, paradossalmente, andava incontro alle richieste
palestinesi. Nel 2003 Sharon annunciò il ritiro unilaterale da Gaza, portato
a termine due anni dopo, e il passaggio della città e della Striscia sotto
l’amministrazione palestinese. Sharon, come del resto un po’ tutti i leader
israeliani, aveva forse sopravvalutato la forza di Fatah, il partito che era
stato di Arafat ed ora era guidato da Abu Mazen e che era sempre stato la colonna
portante dell’OLP, e aveva sottovalutato Hamas. Sta di fatto che le elezioni
del 2006 furono vinte da Hamas che presto espulse Fatah da Gaza con una sorta
di guerra civile fra palestinesi. USA ed Europa reagirono con le sanzioni,
Israele con il blocco, ma Hamas ha mantenuto il controllo di Gaza fino ad
oggi, instaurandovi un regime di terrore islamista, facendo segnare una nuova
escalation del conflitto, fra ripetuti lanci di razzi sul territorio israeliano
e risposta israeliana (generalmente sui media occidentali si parla solo
della reazione israeliana, quando essa avviene, dopo ripetuti attacchi da
Gaza). Si è così instaurato un conflitto endemico relativamente a bassa
intensità fra Gaza e il sud di Israele, salvo momenti di drammatico
inasprimento come quello del 2008 e quello del 2014. Questi momenti sono stati
puntualmente l’occasione per violente campagne anti-israeliane in Europa e per
le accuse precedentemente citate, nonché per azioni di boicottaggio di prodotti
israeliani. Ma ne abbiamo già parlato.
Attualmente, vi sono ben pochi fatti nuovi
rilevanti. Il principale è la debolezza politica dei palestinesi, debole e
screditata l’ANP di Abu Mazen, forte a Gaza, ma sempre più isolata nel mondo arabo
Hamas. Nel mondo arabo, la questione palestinese non è più la drammatica, sebbene
retorica e strumentale, priorità che è stata per decenni. Non a caso, viene
sollevata soprattutto da soggetti islamici, ma non arabi e in un caso neanche
sunniti: la Turchia di Erdogan, per le sue ambizioni imperiali neo-ottomane, e
l’Iran degli ayatollah, che oggi è anche la più formidabile centrale di
propagazione nel mondo dell’antisemitismo.
Il successo diplomatico che ha portato al
riconoscimento da parte dell’ONU e da parte di una lunga serie di paese dello “Stato
di Palestina” è dunque privo di sostanza. Dall’altra parte, Israele ha ottenuto
da Trump il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato e la
legittimazione dell’annessione degli insediamenti in Cisgiordania.
AVVERTENZA
Trattandosi di una sintesi divulgativa e non di un saggio, non ho inserito note per non appesantire troppo il discorso. Sono ovviamente debitore nei confronti di vari autori e innanzitutto di Eli Barnavi, la cui Storia di Israele, dalla nascita dello Stato all'assassinio di Rabin, che ho ampiamente utilizzato, offre a mio avviso la migliore ricostruzione della vicenda, disponibile in italiano, per documentazione ed onestà intellettuale. La consiglio a chi cercasse ulteriori approfondimenti.
AVVERTENZA
Trattandosi di una sintesi divulgativa e non di un saggio, non ho inserito note per non appesantire troppo il discorso. Sono ovviamente debitore nei confronti di vari autori e innanzitutto di Eli Barnavi, la cui Storia di Israele, dalla nascita dello Stato all'assassinio di Rabin, che ho ampiamente utilizzato, offre a mio avviso la migliore ricostruzione della vicenda, disponibile in italiano, per documentazione ed onestà intellettuale. La consiglio a chi cercasse ulteriori approfondimenti.