Vorrei
sviluppare ulteriormente il discorso sull’ideologia del politicamente corretto,
affrontato nel precedente articolo sulla scorta del libro di Eugenio Capozzi, e
andando oltre l’analisi, peraltro fondata e utile, di Capozzi.
La
tesi che vorrei sostenere e argomentare è che l'ideologia del politicamente
corretto nasce anche dal fallimento scientifico e storico del marxismo: non
potendo più considerare il marxismo una teoria del crollo (ineluttabile) del
capitalismo - e questo sia per le contraddizioni interne all'analisi che Marx
svolge nel Capitale, sia per gli esiti del cosiddetto "socialismo
reale" - i post-marxisti hanno mutato ciò che voleva essere una critica
scientifica della società e dell'economia politica in un'etica, una pedagogia,
un catechismo. Pensando così di continuare la stessa lotta con altri mezzi, con
mezzi che essi presuppongono più confacenti alla società contemporanea. E
ottenendo invece risultati catastroficamente funzionali agli interessi dei
poteri dominanti, ivi comprese le grandi organizzazioni criminali.
Le due sinistre di
fronte alla globalizzazione (1989-2008)
Una
prima questione è la seguente: quando, come e perché si è verificato questo
passaggio dall’ideologia al catechismo, che è poi un altro tipo di ideologia?
Bisogna certamente risalire agli anni che hanno seguito la caduta del Muro e la
dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancendo così il fallimento storico del
comunismo “realizzato”. A parte la sparutissima componente di coloro che sono
rimasti fedeli al marxismo-leninismo – imputando magari a Gorbaciov o
addirittura alla destalinizzazione il crollo dell’URSS e rifiutandosi di
cogliere i limiti e i difetti intrinseci a quel modello politico – si può dire
che la sinistra si sia allora divisa in due correnti. La prima, ampiamente
maggioritaria, costituita dalla cosiddetta “sinistra di governo”, riformista,
“blairiana”. La seconda, la sinistra “radicale” o “antagonista”, minoritaria ma
capace comunque di azioni incisive almeno mediaticamente (si pensi alle
proteste di Seattle e al movimento no-global) e di raggiungere quote di
consenso tutt’altro che irrilevanti (Rifondazione Comunista, in Italia, arrivò
a toccare il 9%. Per alcuni anni, queste due sinistre si sono divise,
combattute e contrapposte, essenzialmente sull’atteggiamento da assumere di
fronte al fenomeno epocale che ormai si era nettamente delineato, ossia la
globalizzazione economica.
La
prima sinistra, quella “riformista” (nulla a che vedere, comunque, con la
tradizione, gloriosa, anche se non priva di errori anche catastrofici, del
vecchio socialismo riformista) ha sposato quasi con entusiasmo la “narrazione”
dominante, dopo l’89-91, quella che vedeva in fondo in quell’evento, “la fine
della storia” (Fukuyama), il definitivo trionfo del capitalismo. Non restava
che adeguarsi alla completa “liberalizzazione dei mercati”, riservandosi il
ruolo, rispetto alla destra liberista, di temperarne gli effetti di più marcata
disuguaglianza sociale, provvedendo a una equa redistribuzione della ricchezza
prodotta, non tanto o non più attraverso il welfare,
ma mediante le stesse logiche del mercato, opportunamente “governate”.
Non
si compresero e non si seppero prevedere le conseguenze della globalizzazione,
a cominciare dall’irruzione sulla scena mondiale dei paesi “intermedi” fra
quelli avanzati e quelli poveri, primi fra tutti Cina e India. Questa irruzione
è il primo elemento che contraddice la rappresentazione del mondo delle due
sinistre post-1989. Alla sinistra riformista essa mostra che è illusorio
pensare che l’Occidente abbia ancora le chiavi per guidare l’automobile, la
fuoriserie, del mondo globalizzato: queste chiavi ormai sono sempre più nelle
mani degli altri. Alla sinistra radicale “no-global” mostra, invece, che le disuguaglianze fra l’Occidente e il resto
del mondo non solo non crescono, ma si stanno riducendo (fino a crollare dopo
il 2007), demolendo uno dei dogmi centrali su cui si regge la sua narrazione.
Né
l’una, né l’altra sinistra furono però capaci di cogliere il messaggio. Tra i
pochissimi ad avvertire dei rischi che si stavano correndo, credendo di
cavalcare la tigre della globalizzazione, ci fu Giulio Tremonti, che scrisse,
tra l’altro: «Non è l’Europa che è entrata nella globalizzazione. E’ la
globalizzazione che è entrata in Europa. Trovandola impreparata. L’Europa è
entrata nella globalizzazione in maniera suicida».
Le sinistre di fronte
alla crisi del 2007
Le
conseguenze – deindustrializzazione, distruzione di posti di lavoro,
abbassamento dei salari reali, smantellamento del welfare, debito pubblico in crescita – furono però evidenti solo
con la crisi del 2007. La crisi è stata particolarmente dirompente per i paesi
deboli dell’area euro (ossia quasi tutti, eccetto la Germania) che sono entrati
da allora nel circolo vizioso della stagnazione.
A
questa crisi, entrambe le sinistre, anche se con accentuazioni e con programmi
molto diversi, hanno creduto che si potesse rispondere rimettendo in funzione
il motore della crescita. Opzione che si scontra con due vincoli che sembrano
al momento insormontabili: i vincoli della moneta unica, che la sinistra non
mette seriamente in discussione; e quelli posti da uno scenario dell’economia
globale, con il drastico ridimensionamento dell’Occidente, che – come ha
scritto Ricolfi - sembra suggerire che la questione non sia quando e come tornerà la crescita, ma se potrà mai tornare.
Ricolfi,
come ricordavo in un precedente articolo, ne conclude, correttamente, che
questa nuova situazione spiazza completamente la sinistra, incapace di pensare
se non nell’ottica della crescita: infatti, non ha senso parlare di
redistribuzione, se la torta del reddito non cresce più. La sinistra si
avviluppa su se stessa obiettando che la torta non cresce perché non c’è
abbastanza redistribuzione, perché le politiche neoliberiste hanno accresciuto
le disuguaglianze. Da qui si dovrebbe ripartire, da una politica espansiva che
riduca le disuguaglianze e faccia ripartire il motore della crescita. In
sostanza: la crescita non c’è perché non c’è abbastanza redistribuzione, ma la
redistribuzione non c’è perché si è arrestata la crescita.
Questo
corto circuito di pensiero dipende da due errori di valutazione: il primo sta
nel credere che la crisi sia stata preceduta da una forte crescita delle
disuguaglianze. Ciò è assolutamente errato, come si è detto. L’aumento delle disuguaglianze
non è la spiegazione della crisi. Il secondo errore è di sottovalutazione del
declino: la sinistra non riesce a pensare in un orizzonte diverso da quello
della crescita, come l’abbiano conosciuta nei “trent’anni gloriosi” del
dopoguerra, se non – peraltro in una sua frazione minimale – per aderire a una
nuova ideologia, quella della “decrescita”.
L’adozione del politicamente
corretto come nuova ideologia
Nel
frattempo, l’impatto della globalizzazione sulle popolazioni occidentali –
classi lavoratrici e ceti medi impoveriti – aveva avuto effetti dirompenti,
portando, alla fine, alla crescita dei cosiddetti “populismi”. La sinistra di
governo – spiazzata dalla crisi e dai suoi effetti sul proprio tradizionale bacino
elettorale – non solo si è trovata senza
un’ideologia come era stata per decenni il marxismo, capace di fornire una
interpretazione della realtà economica e sociale e di promettere l’inevitabile
successo della propria azione politica, ma si è stata anche abbandonata dal blocco
sociale che quella ideologia individuava e ha dovuto fare i conti con la
propria manifesta incapacità di costruirne un altro. Non solo falliva il
progetto di inglobare nel proprio elettorato i ceti medi, come era già
funestamente accaduto lungo il corso della storia novecentesca, ma le stesse
classi lavoratrici si orientavano sempre più largamente verso le “ nuove destre”.
Quest’ultimo fenomeno era ancora più sconcertante nell’ottica della sinistra
radicale e no-global e la colpiva altrettanto duramente: a poco o nulla era
servito denunciare i guasti della globalizzazione, dato che le vittime di quel
processo sembravano non credere più alle sirene di un cambiamento
“rivoluzionario”, alla rappresentazione di “un altro mondo possibile”, ma
sembravano avanzare soprattutto una sconcertante richiesta di “protezione” e di
“sicurezza”, che le portava a simpatizzare per altri programmi, movimenti e
leader politici.
Privata
di una ideologia e di una visione del mondo, venuta meno la sua base sociale ed
elettorale di riferimento, dove poteva ancora trovare la sua ragion d’essere la
sinistra e su che cosa poteva ancora fondare quel sentimento di superiorità
morale e intellettuale che l’aveva sempre caratterizzata? Le due sinistre hanno
dato una risposta sorprendentemente simile a questa crisi di identità,
abbracciando, sia pure con differenti modalità, l’ideologia del politicamente
corretto e adottando amorevolmente tutte le minoranze che presumono
discriminate e oppresse, ma soprattutto i migranti, eleggendoli a nuovo
soggetto sociale di riferimento. La svolta è stata particolarmente sorprendente
per la sinistra radicale, che ha dovuto frettolosamente rimuovere l’etichetta
no-global, con tutto il corredo di slogan, personaggi e libri-icona (chi si
ricorda più, ad esempio, di Naomi Klein e del suo “No logo”?) su cui aveva
fondato le sue battaglie negli anni precedenti. Movimenti e gruppi che demonizzavano
la globalizzazione hanno sposato ora con entusiasmo la parola d’ordine del
“niente muri, niente frontiere”, come se i movimenti migratori attuali non
fossero parte di quel “libero” movimento delle merci e dei capitali che caratterizza l’economia globale, come se
i flussi migratori non fossero legati e anzi generati da movimenti di capitali,
come se i migranti stessi non vi fossero coinvolti come merci, piuttosto che
come esseri umani.
In
ogni caso, il politicamente corretto, innanzitutto con la “politica
dell’accoglienza”, ha illuso le due sinistre di poter mantenere l’autostima, ha
rafforzato la convinzione di essere dalla parte della giustizia e la pretesa di
superiorità morale, pur dopo aver disertato le lotte per i diritti dei
lavoratori e aver visto i lavoratori stesso orientarsi in numero crescente per
i movimenti populisti. Come ha scritto Ricolfi, «proprio perché non si occupava
più di operai, braccianti e disoccupati nativi, alla sinistra non è parso vero
di avere a disposizione degli “ultimi” di cui farsi paladina». Soprattutto
perché questa generosità è praticamente a costo zero.
Ma
tutto il politicamente corretto – con le battaglie su diritti dei gay (anzi
degli Lgbtqn…), coppie di fatto, quote rosa, aborto, fecondazione assistita,
riscaldamento globale, eutanasia, testamento biologico, linguaggio sessista,
omofobia, diritti degli animali, ecc. – ha permesso alla sinistra di gestire –
o di illudersi di gestire – i propri problemi di identità, confermando e
rafforzando la pretesa della propria superiorità morale e quella di incarnare
la parte migliore del paese, impegnata in battaglie di civiltà, contro la parte
peggiore, incivile, barbarica.
E
così la sinistra ha incontrato la sua nemesi: per oltre un secolo, aveva
rivendicato, anche con arroganza intellettuale, il rigore scientifico della
propria visione del mondo e del proprio progetto politico, aveva preteso che
essi si fondassero sull’analisi delle inesorabili leggi della storia e
dell’economia, relegando al rango di infantili sognatori o, peggio ancora, di
utili idioti del sistema capitalistico e della borghesia tutti coloro che,
nella stessa area di sinistra, si rifiutavano di accettare la dottrina
ortodossa. Per oltre un secolo aveva predicato che il mondo si trasforma con i
fatti e non con le parole, intervenendo nei processi reali e non limitandosi a
battaglie ideali sui valori e sui diritti, sempre sbeffeggiando chi invece si
muoveva solo o soprattutto a questo livello. Ed ora, ecco il completo
capovolgimento: la sinistra, sia nella sua declinazione di governo che in quella
antagonista, mette in primissimo piano proprio i diritti - e non i vecchi
diritti sociali o quelli della tradizione liberale, ma i “nuovi diritti” - a
scapito dei processi economico-sociali; pretende di migliorare il mondo o di
evitarne la deriva esercitando un controllo sulle parole, sul linguaggio; si
trasforma, quindi, in una specie di “partito radicale di massa” (peraltro con
masse sempre più rarefatte) e sostituisce alla vecchia ideologia, un’etica e
una pedagogia paternalistiche.
Soprattutto,
per ignoranza dei vecchi "testi sacri" - chi legge ancora Il Capitale o L'Ideologia tedesca? - rinuncia a servirsi proprio di quelle
categorie marxiane di pensiero che oggi sono ancora utili e vitali. Per
esempio, come scrivevo nell’articolo precedente, la nozione marxiana di
ideologia, che smaschererebbe il politicamente corretto come costruzione al
servizio dei poteri economici dominanti e loro stessi come ancelle di questi
poteri.
Liquidando,
rimuovendo o dimenticando tutto il pensiero di Marx, senza peraltro sostituirlo
con altri autori, con altre categorie di analisi, la sinistra ha gettato il
bambino insieme all’acqua sporca.
Le categorie di analisi
marxiane che smascherano la sinistra
L’acqua
sporca, della quale è stato bene liberarsi, era, come si diceva in apertura,
l’idea che il marxismo si potesse risolvere in una “teoria della catastrofe”
scientificamente fondata (catastrofe del capitalismo, ovviamente). L’analisi
che Marx svolge nel terzo libro del Capitale
dà certamente adito a questa interpretazione e tuttavia evidenzia anche le
varie e diverse modalità con cui il capitalismo risponde e si adatta alle sue
periodiche crisi. Il capitalismo, come è noto, non è crollato e se è
sicuramente azzardato e antistorico pensare con Fukuyama che esso rappresenti
lo stadio finale e definitivo della storia, è tuttavia vero che nulla oggi
lascia pensare che questo crollo si possa realizzare a breve o medio termine.
Ma allora è proprio questo aspetto del discorso di Marx – il modo in cui il
sistema economico risponde ai fattori di crisi - che oggi potrebbe fornire alla sinistra delle
categorie di interpretazione della realtà, su cui poi iniziare l’opera di
ricostruzione di un programma politico e di un blocco sociale. Se non che, come
si diceva, la sinistra ha gettato via anche questo “bambino”, insieme all’acqua
sporca.
Ma
approfondiamo la questione. Ciò che traduce l’analisi marxiana in una teoria
del crollo del capitalismo, e che in questo modo ne mina anche la pretesa
scientificità e la espone alla falsificazione della storia, è soprattutto la
cosiddetta legge della “caduta
tendenziale del saggio di profitto”.
Il
punto di partenza, per una ricostruzione che sarà qui necessariamente sommaria,
è la nota teoria del plus-valore, basata a sua volta su quella del
valore-lavoro, che Marx ricava da David Ricardo e riadatta al suo discorso e ai
suoi fini (il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro necessaria a
produrla). Ipotizziamo, allora, che un operaio lavori 8 ore al giorno. Produrrà
un valore equivalente a 8. Il capitalista, però, gli pagherà certamente un
salario inferiore al valore prodotto, un salario, poniamo, equivalente a 6. La
differenza, 2, della quale si appropria il capitalista, è il plus valore (o,
guardando alla cosa da un’altra prospettiva, le 2 ore di lavoro che l’operaio
presta senza essere retribuito rappresentano il plus-lavoro dell’operaio,
equivalente comunque al plus valore del capitalista).
Marx
traduce questo ragionamento in una formula, il cosiddetto “saggio del plusvalore”, ritenendo di aver così smascherato ed
espresso “scientificamente” il fenomeno dello sfruttamento del lavoro che
consente l’accumulazione del capitale: saggio
del plusvalore = plus valore/capitale variabile, dove il capitale variabile
è quello impiegato per pagare i salari dei lavoratori. Il saggio del plusvalore
esprimerebbe così il tasso di sfruttamento del lavoro.
Se,
però, ci chiediamo qual è alla fine l’effettivo guadagno, il profitto, del
capitalista, dobbiamo prendere in considerazione un’altra grandezza: il
“capitale costante”, ossia quello necessario ai macchinari, alle attrezzature,
agli impianti, alla tecnologia necessari al processo produttivo. Abbiamo così
la formula del “saggio del profitto”:
plusvalore/ capitale variabile + capitale costante.
Le
esigenze del mercato e della concorrenza portano evidentemente ad un continuo
processo di miglioramento di macchinari e tecnologia, il che significa che il
capitale costante tende a crescere e che, di conseguenza, il saggio del
profitto tende a calare. Questo è, o sarebbe, “tallone di Achille” del sistema
capitalistico: per una sua dinamica interna, per crescere, deve aumentare gli
investimenti in capitale costante, ma in tal modo compromette i profitti. In
sostanza per avere più profitti si devono fare degli interventi che
compromettono i profitti! Marx si rendeva conto del fatto che quella enunciata
non era una legge rigorosa e necessaria come le leggi della fisica, ma una
“legge tendenziale” e che il sistema capitalistico riusciva ad opporre a questa
dinamica autodistruttiva delle “controtendenze” che gli consentivano di
contrastare e persino di neutralizzare la tendenza generale e di superare le
periodiche crisi. Di queste controtendenze ne enunciò cinque. Ci torneremo alla
fine.
La
“legge tendenziale” sulla caduta del saggio del profitto è stata lungamente e
ampiamente discussa e contestata, anche da economisti di scuola marxista. Lungi
dall’essere il “tallone di Achille” del sistema capitalistico, essa è piuttosto
il “tallone di Achille” del marxismo. In particolare, è stato evidenziato
questo errore concettuale: essa si fonda sull’assunto che quando aumenta la
cosiddetta “composizione organica del capitale” – in parole povere quando
aumenta il capitale costante – il plusvalore – o meglio il saggio del plus
valore – resti costante. In tal modo, si arriverebbe a un saggio del profitto
decrescente. Infatti, se saggio del profitto” equivale a plusvalore/ capitale
variabile + capitale costante e in questo rapporto aumenta una delle grandezze
al denominatore mentre resta fissa quella al numeratore il prodotto finale non
può che essere inferiore. Ma che il plusvalore resti fisso, aumentando
l’investimento in tecnologia e macchinari, è assai improbabile, in quanto
questo investimento si traduce in una maggiore produttività del lavoro (per
questo viene effettuato!) e una maggiore produttività del lavoro si traduce in
un aumento del plusvalore, a meno che non vengano aumentati in proporzione i
salari reali del lavoratori, il che non è molto plausibile. Pertanto, se saggio
del profitto” equivale a plusvalore/ capitale variabile + capitale costante, il
saggio del profitto non è sottoposto a una progressiva, inevitabile erosione,
perché in questo rapporto tendono a crescere sia il numeratore che il
denominatore.
Peraltro,
lo stesso Marx, in altre pagine della sua opera, riconosce la cosa, ma poi
stranamente non la prende in considerazione al momento decisivo e tratta
separatamente il saggio del plusvalore e il saggio del profitto, senza rendersi
conto che sono due facce indivisibili della stessa realtà. Perché questa
incongruenza? Il motivo è che la “legge della caduta tendenziale del saggio del
profitto” ha un ruolo cruciale nel sistema marxiano in quanto consente di
risolverlo in una teoria del crollo del sistema capitalistico, consente cioè di
alimentare la sicurezza, che si pretende scientificamente fondata, in un
inevitabile collasso del capitalismo e nell’altrettanto inevitabile avvento del
comunismo. Quest’ultimo e la critica al capitalismo che esso presuppone non
sarebbero quindi soltanto una scelta etica, ma il necessario risultato del
corso storico, il “movimento reale di trasformazione delle cose”.
La
sinistra dei nostri tempi, rigettando, come era bene fare, il marxismo come
ideologia pseudo-scientifica, è però passata a concepire la propria funzione
esattamente come una sorta di missione etico-pedagogica, slegata da qualsiasi
analisi delle dinamiche e dei processi reali. Più che criticare e correggere
Marx, ha ritenuto di poterlo ignorare, il che non sarebbe gravissimo se non
portasse ad ignorare anche i dati di fatto e le questioni che Marx pone e
analizza e che spesso appartengono non già alla sua fantasia, ma alla realtà
dell’economia industriale.
Che
insieme al capitale costante tenda ad aumentare il plusvalore significa
certamente che il capitalismo non è esposto a nessun crollo fatale – e difatti
il crollo non c’è stato – ma non vuol dire che esso goda con questo di buona
salute – e difatti le crisi si presentano periodicamente. Il capitalismo ha
comunque il serissimo problema di dover realizzare una continua “valorizzazione
del capitale”, con costi crescenti. L’esito positivo di questa operazione non è
mai scontato. Ciò significa che quelle che per Marx sono “controtendenze” alla
legge generale rispecchiano dinamiche reali del sistema produttivo, ancor oggi
attualissime, e andrebbero riconsiderate con molta attenzione.
Che
cosa fa, dunque, il sistema economico per evitare che il crescente investimento
in capitale costante, pur aumentando il plus valore, si risolva comunque in una
diminuzione del profitto (ossia per evitare che, specie nelle crisi ricorrenti,
il plusvalore aumenti meno dei costi in capitale costante, meno dell’aumento
della “composizione organica del capitale”)? Secondo Marx vi sono cinque
diverse risposte (Il Capitale, libro III,
sezione III, capp. 14 e 15):
a) L’aumento
della produttività del lavoro attraverso, appunto, l’aumento dell’investimento
in capitale costante. Come abbiamo appena visto, però, questa più che una “controtendenza”
alla “legge generale” deve essere considerata come un aspetto essenziale,
strutturale, della dinamica produttiva, del processo di accumulazione del
capitale e di formazione del plusvalore. Non è una controtendenza alla tendenza
generale, ma è un elemento fondamentale di quest’ultima.
b) L’aumento
dell’intensità dello “sfruttamento” del lavoro, che si può realizzare in vari
modi: attraverso l’aumento quantitativo delle ore di lavoro o attraverso una velocizzazione
e una intensificazione dell’attività lavorativa.
c) La
riduzione dei salari reali
d) L’”eccedenza
relativa di popolazione” che, in altre pagine, Marx definisce anche “esercito
industriale di riserva”: l’aumento della potenziale forza-lavoro, ottenuto
soprattutto attraverso l’immigrazione di lavoratori che, o restano disoccupati
o sono disposti a lavorare in condizioni peggiori rispetto ai lavoratori autoctoni,
con meno salari, meno diritti, meno garanzie, “in nero”, e così via. Questo “esercito
di riserva” fa concorrenza ai lavoratori autoctoni, deprimendo così il saggio
dei salari e contribuendo ad aumentare corrispondentemente il saggio del plus
valore. Marx, ai suoi tempi, aveva di fronte soprattutto l’immigrazione
irlandese in Inghilterra.
e) Il
commercio estero, che consente ai capitalisti di rifornirsi di materie prime e
beni d’uso a un costo minore di quello che dovrebbero sostenere in patria.
Se
ora aggiungiamo che nel punto b) e nel punto c) possono essere compresi tutti i fenomeni e
i processi di precarizzazione del lavoro, in quanto hanno globalmente l’effetto
di intensificare lo sfruttamento e ridurre i salari reali, che inoltre l’adesione
all’euro ha avuto proprio questo scopo e ha sortito precisamente questo
effetto, che al punto d) l’eccedenza relativa di popolazione si ottiene oggi soprattutto
con l’immigrazione dall’Africa e che questi immigrati sono l’odierno esercito
industriale di riserva e che, infine, nel punto e) sono compresi i molteplici
aspetti della attuale globalizzazione, a cominciare dalle “delocalizzazioni”
della produzione, mentre l’immigrazione di cui sopra, rende più agevole lo
sfruttamento delle materie prime e delle risorse dei paesi africani (da parte
della Francia nell’area sahariana e sub sahariana, per esempio), spogliando
quei paesi di forza lavoro e di risorse umane, abbiamo un quadro pressoché perfetto dell’attuale economia e una formidabile
griglia concettuale utile a interpretarla.
Se
non che, la sinistra non pare affatto interessata a questo quadro e a questi
strumenti di analisi. Essi, in effetti, disturberebbero non poco le certezze
nelle quali oggi vive beata, i dogmi che ha adottato a propria insegna. Per
esempio il concetto di "sovrapopolazione relativa" o di
"esercito industriale di riserva" che rivelerebbe come l'immigrazione
di massa sia funzionale agli interessi dei poteri dominanti, consenta loro di
superare le crisi e non faccia altro che aumentare il tasso di sfruttamento di
tutto il lavoro, migrante e autoctono.
Meglio
rifugiarsi in un’etica “umanitaria” fittizia, del tutto avulsa dai processi
reali, quindi astratta e funzionale proprio ai poteri dominanti.
Meglio
sfilare ai gay pride e aspettare i migranti indossando le magliette rosse, funzionando
così da comitato di accoglienza della mafia nigeriana, rendendosi complici dei
suoi affari criminali, dalla prostituzione, allo spaccio di droga, al traffico
di organi umani.
Non
ho alcun dubbio su una cosa: Marx considererebbe il "restiamo umani"
una mistificazione ideologica - al pari dell'ideale cavalleresco nella società
feudale- utile solo al nudo interesse e al ferreo sistema di dominio della
classe dominante. Una fittizia umanità al servizio di una realissima
disumanita'. E, almeno in questo, avrebbe perfettamente ragione.