mercoledì 9 gennaio 2019

MARX CONTRO MARX: LA SINISTRA POST-MARXISTA E POLITICALLY CORRECT SMASCHERATA E SVERGOGNATA DAL "CAPITALE"


Vorrei sviluppare ulteriormente il discorso sull’ideologia del politicamente corretto, affrontato nel precedente articolo sulla scorta del libro di Eugenio Capozzi, e andando oltre l’analisi, peraltro fondata e utile, di Capozzi.
La tesi che vorrei sostenere e argomentare è che l'ideologia del politicamente corretto nasce anche dal fallimento scientifico e storico del marxismo: non potendo più considerare il marxismo una teoria del crollo (ineluttabile) del capitalismo - e questo sia per le contraddizioni interne all'analisi che Marx svolge nel Capitale, sia per gli esiti del cosiddetto "socialismo reale" - i post-marxisti hanno mutato ciò che voleva essere una critica scientifica della società e dell'economia politica in un'etica, una pedagogia, un catechismo. Pensando così di continuare la stessa lotta con altri mezzi, con mezzi che essi presuppongono più confacenti alla società contemporanea. E ottenendo invece risultati catastroficamente funzionali agli interessi dei poteri dominanti, ivi comprese le grandi organizzazioni criminali.

Le due sinistre di fronte alla globalizzazione (1989-2008)
Una prima questione è la seguente: quando, come e perché si è verificato questo passaggio dall’ideologia al catechismo, che è poi un altro tipo di ideologia? Bisogna certamente risalire agli anni che hanno seguito la caduta del Muro e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancendo così il fallimento storico del comunismo “realizzato”. A parte la sparutissima componente di coloro che sono rimasti fedeli al marxismo-leninismo – imputando magari a Gorbaciov o addirittura alla destalinizzazione il crollo dell’URSS e rifiutandosi di cogliere i limiti e i difetti intrinseci a quel modello politico – si può dire che la sinistra si sia allora divisa in due correnti. La prima, ampiamente maggioritaria, costituita dalla cosiddetta “sinistra di governo”, riformista, “blairiana”. La seconda, la sinistra “radicale” o “antagonista”, minoritaria ma capace comunque di azioni incisive almeno mediaticamente (si pensi alle proteste di Seattle e al movimento no-global) e di raggiungere quote di consenso tutt’altro che irrilevanti (Rifondazione Comunista, in Italia, arrivò a toccare il 9%. Per alcuni anni, queste due sinistre si sono divise, combattute e contrapposte, essenzialmente sull’atteggiamento da assumere di fronte al fenomeno epocale che ormai si era nettamente delineato, ossia la globalizzazione economica.
La prima sinistra, quella “riformista” (nulla a che vedere, comunque, con la tradizione, gloriosa, anche se non priva di errori anche catastrofici, del vecchio socialismo riformista) ha sposato quasi con entusiasmo la “narrazione” dominante, dopo l’89-91, quella che vedeva in fondo in quell’evento, “la fine della storia” (Fukuyama), il definitivo trionfo del capitalismo. Non restava che adeguarsi alla completa “liberalizzazione dei mercati”, riservandosi il ruolo, rispetto alla destra liberista, di temperarne gli effetti di più marcata disuguaglianza sociale, provvedendo a una equa redistribuzione della ricchezza prodotta, non tanto o non più attraverso il welfare, ma mediante le stesse logiche del mercato, opportunamente “governate”.
Non si compresero e non si seppero prevedere le conseguenze della globalizzazione, a cominciare dall’irruzione sulla scena mondiale dei paesi “intermedi” fra quelli avanzati e quelli poveri, primi fra tutti Cina e India. Questa irruzione è il primo elemento che contraddice la rappresentazione del mondo delle due sinistre post-1989. Alla sinistra riformista essa mostra che è illusorio pensare che l’Occidente abbia ancora le chiavi per guidare l’automobile, la fuoriserie, del mondo globalizzato: queste chiavi ormai sono sempre più nelle mani degli altri. Alla sinistra radicale “no-global” mostra, invece, che  le disuguaglianze fra l’Occidente e il resto del mondo non solo non crescono, ma si stanno riducendo (fino a crollare dopo il 2007), demolendo uno dei dogmi centrali su cui si regge la sua narrazione.
Né l’una, né l’altra sinistra furono però capaci di cogliere il messaggio. Tra i pochissimi ad avvertire dei rischi che si stavano correndo, credendo di cavalcare la tigre della globalizzazione, ci fu Giulio Tremonti, che scrisse, tra l’altro: «Non è l’Europa che è entrata nella globalizzazione. E’ la globalizzazione che è entrata in Europa. Trovandola impreparata. L’Europa è entrata nella globalizzazione in maniera suicida».

Le sinistre di fronte alla crisi del 2007
Le conseguenze – deindustrializzazione, distruzione di posti di lavoro, abbassamento dei salari reali, smantellamento del welfare, debito pubblico in crescita – furono però evidenti solo con la crisi del 2007. La crisi è stata particolarmente dirompente per i paesi deboli dell’area euro (ossia quasi tutti, eccetto la Germania) che sono entrati da allora nel circolo vizioso della stagnazione.
A questa crisi, entrambe le sinistre, anche se con accentuazioni e con programmi molto diversi, hanno creduto che si potesse rispondere rimettendo in funzione il motore della crescita. Opzione che si scontra con due vincoli che sembrano al momento insormontabili: i vincoli della moneta unica, che la sinistra non mette seriamente in discussione; e quelli posti da uno scenario dell’economia globale, con il drastico ridimensionamento dell’Occidente, che – come ha scritto Ricolfi - sembra suggerire che la questione non sia quando e come tornerà la crescita, ma se potrà mai tornare.
Ricolfi, come ricordavo in un precedente articolo, ne conclude, correttamente, che questa nuova situazione spiazza completamente la sinistra, incapace di pensare se non nell’ottica della crescita: infatti, non ha senso parlare di redistribuzione, se la torta del reddito non  cresce più. La sinistra si avviluppa su se stessa obiettando che la torta non cresce perché non c’è abbastanza redistribuzione, perché le politiche neoliberiste hanno accresciuto le disuguaglianze. Da qui si dovrebbe ripartire, da una politica espansiva che riduca le disuguaglianze e faccia ripartire il motore della crescita. In sostanza: la crescita non c’è perché non c’è abbastanza redistribuzione, ma la redistribuzione non c’è perché si è arrestata la crescita.
Questo corto circuito di pensiero dipende da due errori di valutazione: il primo sta nel credere che la crisi sia stata preceduta da una forte crescita delle disuguaglianze. Ciò è assolutamente errato, come si è detto. L’aumento delle disuguaglianze non è la spiegazione della crisi. Il secondo errore è di sottovalutazione del declino: la sinistra non riesce a pensare in un orizzonte diverso da quello della crescita, come l’abbiano conosciuta nei “trent’anni gloriosi” del dopoguerra, se non – peraltro in una sua frazione minimale – per aderire a una nuova ideologia, quella della “decrescita”.

L’adozione del politicamente corretto come nuova ideologia
Nel frattempo, l’impatto della globalizzazione sulle popolazioni occidentali – classi lavoratrici e ceti medi impoveriti – aveva avuto effetti dirompenti, portando, alla fine, alla crescita dei cosiddetti “populismi”. La sinistra di governo – spiazzata dalla crisi e dai suoi effetti sul proprio tradizionale bacino elettorale –  non solo si è trovata senza un’ideologia come era stata per decenni il marxismo, capace di fornire una interpretazione della realtà economica e sociale e di promettere l’inevitabile successo della propria azione politica, ma si è stata anche abbandonata dal blocco sociale che quella ideologia individuava e ha dovuto fare i conti con la propria manifesta incapacità di costruirne un altro. Non solo falliva il progetto di inglobare nel proprio elettorato i ceti medi, come era già funestamente accaduto lungo il corso della storia novecentesca, ma le stesse classi lavoratrici si orientavano sempre più largamente verso le “ nuove destre”. Quest’ultimo fenomeno era ancora più sconcertante nell’ottica della sinistra radicale e no-global e la colpiva altrettanto duramente: a poco o nulla era servito denunciare i guasti della globalizzazione, dato che le vittime di quel processo sembravano non credere più alle sirene di un cambiamento “rivoluzionario”, alla rappresentazione di “un altro mondo possibile”, ma sembravano avanzare soprattutto una sconcertante richiesta di “protezione” e di “sicurezza”, che le portava a simpatizzare per altri programmi, movimenti e leader politici.
Privata di una ideologia e di una visione del mondo, venuta meno la sua base sociale ed elettorale di riferimento, dove poteva ancora trovare la sua ragion d’essere la sinistra e su che cosa poteva ancora fondare quel sentimento di superiorità morale e intellettuale che l’aveva sempre caratterizzata? Le due sinistre hanno dato una risposta sorprendentemente simile a questa crisi di identità, abbracciando, sia pure con differenti modalità, l’ideologia del politicamente corretto e adottando amorevolmente tutte le minoranze che presumono discriminate e oppresse, ma soprattutto i migranti, eleggendoli a nuovo soggetto sociale di riferimento. La svolta è stata particolarmente sorprendente per la sinistra radicale, che ha dovuto frettolosamente rimuovere l’etichetta no-global, con tutto il corredo di slogan, personaggi e libri-icona (chi si ricorda più, ad esempio, di Naomi Klein e del suo “No logo”?) su cui aveva fondato le sue battaglie negli anni precedenti. Movimenti e gruppi che demonizzavano la globalizzazione hanno sposato ora con entusiasmo la parola d’ordine del “niente muri, niente frontiere”, come se i movimenti migratori attuali non fossero parte di quel “libero” movimento delle merci e dei capitali  che caratterizza l’economia globale, come se i flussi migratori non fossero legati e anzi generati da movimenti di capitali, come se i migranti stessi non vi fossero coinvolti come merci, piuttosto che come esseri umani.
In ogni caso, il politicamente corretto, innanzitutto con la “politica dell’accoglienza”, ha illuso le due sinistre di poter mantenere l’autostima, ha rafforzato la convinzione di essere dalla parte della giustizia e la pretesa di superiorità morale, pur dopo aver disertato le lotte per i diritti dei lavoratori e aver visto i lavoratori stesso orientarsi in numero crescente per i movimenti populisti. Come ha scritto Ricolfi, «proprio perché non si occupava più di operai, braccianti e disoccupati nativi, alla sinistra non è parso vero di avere a disposizione degli “ultimi” di cui farsi paladina». Soprattutto perché questa generosità è praticamente a costo zero.
Ma tutto il politicamente corretto – con le battaglie su diritti dei gay (anzi degli Lgbtqn…), coppie di fatto, quote rosa, aborto, fecondazione assistita, riscaldamento globale, eutanasia, testamento biologico, linguaggio sessista, omofobia, diritti degli animali, ecc. – ha permesso alla sinistra di gestire – o di illudersi di gestire – i propri problemi di identità, confermando e rafforzando la pretesa della propria superiorità morale e quella di incarnare la parte migliore del paese, impegnata in battaglie di civiltà, contro la parte peggiore, incivile, barbarica.
E così la sinistra ha incontrato la sua nemesi: per oltre un secolo, aveva rivendicato, anche con arroganza intellettuale, il rigore scientifico della propria visione del mondo e del proprio progetto politico, aveva preteso che essi si fondassero sull’analisi delle inesorabili leggi della storia e dell’economia, relegando al rango di infantili sognatori o, peggio ancora, di utili idioti del sistema capitalistico e della borghesia tutti coloro che, nella stessa area di sinistra, si rifiutavano di accettare la dottrina ortodossa. Per oltre un secolo aveva predicato che il mondo si trasforma con i fatti e non con le parole, intervenendo nei processi reali e non limitandosi a battaglie ideali sui valori e sui diritti, sempre sbeffeggiando chi invece si muoveva solo o soprattutto a questo livello. Ed ora, ecco il completo capovolgimento: la sinistra, sia nella sua declinazione di governo che in quella antagonista, mette in primissimo piano proprio i diritti - e non i vecchi diritti sociali o quelli della tradizione liberale, ma i “nuovi diritti” - a scapito dei processi economico-sociali; pretende di migliorare il mondo o di evitarne la deriva esercitando un controllo sulle parole, sul linguaggio; si trasforma, quindi, in una specie di “partito radicale di massa” (peraltro con masse sempre più rarefatte) e sostituisce alla vecchia ideologia, un’etica e una pedagogia paternalistiche.
Soprattutto, per ignoranza dei vecchi "testi sacri" - chi legge ancora Il Capitale o L'Ideologia tedesca? - rinuncia a servirsi proprio di quelle categorie marxiane di pensiero che oggi sono ancora utili e vitali. Per esempio, come scrivevo nell’articolo precedente, la nozione marxiana di ideologia, che smaschererebbe il politicamente corretto come costruzione al servizio dei poteri economici dominanti e loro stessi come ancelle di questi poteri.
Liquidando, rimuovendo o dimenticando tutto il pensiero di Marx, senza peraltro sostituirlo con altri autori, con altre categorie di analisi, la sinistra ha gettato il bambino insieme all’acqua sporca.


Le categorie di analisi marxiane che smascherano la sinistra
L’acqua sporca, della quale è stato bene liberarsi, era, come si diceva in apertura, l’idea che il marxismo si potesse risolvere in una “teoria della catastrofe” scientificamente fondata (catastrofe del capitalismo, ovviamente). L’analisi che Marx svolge nel terzo libro del Capitale dà certamente adito a questa interpretazione e tuttavia evidenzia anche le varie e diverse modalità con cui il capitalismo risponde e si adatta alle sue periodiche crisi. Il capitalismo, come è noto, non è crollato e se è sicuramente azzardato e antistorico pensare con Fukuyama che esso rappresenti lo stadio finale e definitivo della storia, è tuttavia vero che nulla oggi lascia pensare che questo crollo si possa realizzare a breve o medio termine. Ma allora è proprio questo aspetto del discorso di Marx – il modo in cui il sistema economico risponde ai fattori di crisi -  che oggi potrebbe fornire alla sinistra delle categorie di interpretazione della realtà, su cui poi iniziare l’opera di ricostruzione di un programma politico e di un blocco sociale. Se non che, come si diceva, la sinistra ha gettato via anche questo “bambino”, insieme all’acqua sporca.
Ma approfondiamo la questione. Ciò che traduce l’analisi marxiana in una teoria del crollo del capitalismo, e che in questo modo ne mina anche la pretesa scientificità e la espone alla falsificazione della storia, è soprattutto la cosiddetta legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”.
Il punto di partenza, per una ricostruzione che sarà qui necessariamente sommaria, è la nota teoria del plus-valore, basata a sua volta su quella del valore-lavoro, che Marx ricava da David Ricardo e riadatta al suo discorso e ai suoi fini (il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro necessaria a produrla). Ipotizziamo, allora, che un operaio lavori 8 ore al giorno. Produrrà un valore equivalente a 8. Il capitalista, però, gli pagherà certamente un salario inferiore al valore prodotto, un salario, poniamo, equivalente a 6. La differenza, 2, della quale si appropria il capitalista, è il plus valore (o, guardando alla cosa da un’altra prospettiva, le 2 ore di lavoro che l’operaio presta senza essere retribuito rappresentano il plus-lavoro dell’operaio, equivalente comunque al plus valore del capitalista).
Marx traduce questo ragionamento in una formula, il cosiddetto “saggio del plusvalore”, ritenendo di aver così smascherato ed espresso “scientificamente” il fenomeno dello sfruttamento del lavoro che consente l’accumulazione del capitale: saggio del plusvalore = plus valore/capitale variabile, dove il capitale variabile è quello impiegato per pagare i salari dei lavoratori. Il saggio del plusvalore esprimerebbe così il tasso di sfruttamento del lavoro.
Se, però, ci chiediamo qual è alla fine l’effettivo guadagno, il profitto, del capitalista, dobbiamo prendere in considerazione un’altra grandezza: il “capitale costante”, ossia quello necessario ai macchinari, alle attrezzature, agli impianti, alla tecnologia necessari al processo produttivo. Abbiamo così la formula del “saggio del profitto”: plusvalore/ capitale variabile + capitale costante.
Le esigenze del mercato e della concorrenza portano evidentemente ad un continuo processo di miglioramento di macchinari e tecnologia, il che significa che il capitale costante tende a crescere e che, di conseguenza, il saggio del profitto tende a calare. Questo è, o sarebbe, “tallone di Achille” del sistema capitalistico: per una sua dinamica interna, per crescere, deve aumentare gli investimenti in capitale costante, ma in tal modo compromette i profitti. In sostanza per avere più profitti si devono fare degli interventi che compromettono i profitti! Marx si rendeva conto del fatto che quella enunciata non era una legge rigorosa e necessaria come le leggi della fisica, ma una “legge tendenziale” e che il sistema capitalistico riusciva ad opporre a questa dinamica autodistruttiva delle “controtendenze” che gli consentivano di contrastare e persino di neutralizzare la tendenza generale e di superare le periodiche crisi. Di queste controtendenze ne enunciò cinque. Ci torneremo alla fine.
La “legge tendenziale” sulla caduta del saggio del profitto è stata lungamente e ampiamente discussa e contestata, anche da economisti di scuola marxista. Lungi dall’essere il “tallone di Achille” del sistema capitalistico, essa è piuttosto il “tallone di Achille” del marxismo. In particolare, è stato evidenziato questo errore concettuale: essa si fonda sull’assunto che quando aumenta la cosiddetta “composizione organica del capitale” – in parole povere quando aumenta il capitale costante – il plusvalore – o meglio il saggio del plus valore – resti costante. In tal modo, si arriverebbe a un saggio del profitto decrescente. Infatti, se saggio del profitto” equivale a plusvalore/ capitale variabile + capitale costante e in questo rapporto aumenta una delle grandezze al denominatore mentre resta fissa quella al numeratore il prodotto finale non può che essere inferiore. Ma che il plusvalore resti fisso, aumentando l’investimento in tecnologia e macchinari, è assai improbabile, in quanto questo investimento si traduce in una maggiore produttività del lavoro (per questo viene effettuato!) e una maggiore produttività del lavoro si traduce in un aumento del plusvalore, a meno che non vengano aumentati in proporzione i salari reali del lavoratori, il che non è molto plausibile. Pertanto, se saggio del profitto” equivale a plusvalore/ capitale variabile + capitale costante, il saggio del profitto non è sottoposto a una progressiva, inevitabile erosione, perché in questo rapporto tendono a crescere sia il numeratore che il denominatore.
Peraltro, lo stesso Marx, in altre pagine della sua opera, riconosce la cosa, ma poi stranamente non la prende in considerazione al momento decisivo e tratta separatamente il saggio del plusvalore e il saggio del profitto, senza rendersi conto che sono due facce indivisibili della stessa realtà. Perché questa incongruenza? Il motivo è che la “legge della caduta tendenziale del saggio del profitto” ha un ruolo cruciale nel sistema marxiano in quanto consente di risolverlo in una teoria del crollo del sistema capitalistico, consente cioè di alimentare la sicurezza, che si pretende scientificamente fondata, in un inevitabile collasso del capitalismo e nell’altrettanto inevitabile avvento del comunismo. Quest’ultimo e la critica al capitalismo che esso presuppone non sarebbero quindi soltanto una scelta etica, ma il necessario risultato del corso storico, il “movimento reale di trasformazione delle cose”.
La sinistra dei nostri tempi, rigettando, come era bene fare, il marxismo come ideologia pseudo-scientifica, è però passata a concepire la propria funzione esattamente come una sorta di missione etico-pedagogica, slegata da qualsiasi analisi delle dinamiche e dei processi reali. Più che criticare e correggere Marx, ha ritenuto di poterlo ignorare, il che non sarebbe gravissimo se non portasse ad ignorare anche i dati di fatto e le questioni che Marx pone e analizza e che spesso appartengono non già alla sua fantasia, ma alla realtà dell’economia industriale.

La sinistra smascherata e svergognata da Marx
Che insieme al capitale costante tenda ad aumentare il plusvalore significa certamente che il capitalismo non è esposto a nessun crollo fatale – e difatti il crollo non c’è stato – ma non vuol dire che esso goda con questo di buona salute – e difatti le crisi si presentano periodicamente. Il capitalismo ha comunque il serissimo problema di dover realizzare una continua “valorizzazione del capitale”, con costi crescenti. L’esito positivo di questa operazione non è mai scontato. Ciò significa che quelle che per Marx sono “controtendenze” alla legge generale rispecchiano dinamiche reali del sistema produttivo, ancor oggi attualissime, e andrebbero riconsiderate con molta attenzione.
Che cosa fa, dunque, il sistema economico per evitare che il crescente investimento in capitale costante, pur aumentando il plus valore, si risolva comunque in una diminuzione del profitto (ossia per evitare che, specie nelle crisi ricorrenti, il plusvalore aumenti meno dei costi in capitale costante, meno dell’aumento della “composizione organica del capitale”)? Secondo Marx vi sono cinque diverse risposte (Il Capitale, libro III, sezione III, capp. 14 e 15):
a)     L’aumento della produttività del lavoro attraverso, appunto, l’aumento dell’investimento in capitale costante. Come abbiamo appena visto, però, questa più che una “controtendenza” alla “legge generale” deve essere considerata come un aspetto essenziale, strutturale, della dinamica produttiva, del processo di accumulazione del capitale e di formazione del plusvalore. Non è una controtendenza alla tendenza generale, ma è un elemento fondamentale di quest’ultima.
b)     L’aumento dell’intensità dello “sfruttamento” del lavoro, che si può realizzare in vari modi: attraverso l’aumento quantitativo delle ore di lavoro o attraverso una velocizzazione e una intensificazione dell’attività lavorativa.
c)     La riduzione dei salari reali
d)     L’”eccedenza relativa di popolazione” che, in altre pagine, Marx definisce anche “esercito industriale di riserva”: l’aumento della potenziale forza-lavoro, ottenuto soprattutto attraverso l’immigrazione di lavoratori che, o restano disoccupati o sono disposti a lavorare in condizioni peggiori rispetto ai lavoratori autoctoni, con meno salari, meno diritti, meno garanzie, “in nero”, e così via. Questo “esercito di riserva” fa concorrenza ai lavoratori autoctoni, deprimendo così il saggio dei salari e contribuendo ad aumentare corrispondentemente il saggio del plus valore. Marx, ai suoi tempi, aveva di fronte soprattutto l’immigrazione irlandese in Inghilterra.
e)     Il commercio estero, che consente ai capitalisti di rifornirsi di materie prime e beni d’uso a un costo minore di quello che dovrebbero sostenere in patria.

Se ora aggiungiamo che nel punto b) e nel punto  c) possono essere compresi tutti i fenomeni e i processi di precarizzazione del lavoro, in quanto hanno globalmente l’effetto di intensificare lo sfruttamento e ridurre i salari reali, che inoltre l’adesione all’euro ha avuto proprio questo scopo e ha sortito precisamente questo effetto, che al punto d) l’eccedenza relativa di popolazione si ottiene oggi soprattutto con l’immigrazione dall’Africa e che questi immigrati sono l’odierno esercito industriale di riserva e che, infine, nel punto e) sono compresi i molteplici aspetti della attuale globalizzazione, a cominciare dalle “delocalizzazioni” della produzione, mentre l’immigrazione di cui sopra, rende più agevole lo sfruttamento delle materie prime e delle risorse dei paesi africani (da parte della Francia nell’area sahariana e sub sahariana, per esempio), spogliando quei paesi di forza lavoro e di risorse umane, abbiamo un quadro pressoché perfetto dell’attuale economia e una formidabile griglia concettuale utile a interpretarla.
Se non che, la sinistra non pare affatto interessata a questo quadro e a questi strumenti di analisi. Essi, in effetti, disturberebbero non poco le certezze nelle quali oggi vive beata, i dogmi che ha adottato a propria insegna. Per esempio il concetto di "sovrapopolazione relativa" o di "esercito industriale di riserva" che rivelerebbe come l'immigrazione di massa sia funzionale agli interessi dei poteri dominanti, consenta loro di superare le crisi e non faccia altro che aumentare il tasso di sfruttamento di tutto il lavoro, migrante e autoctono.
Meglio rifugiarsi in un’etica “umanitaria” fittizia, del tutto avulsa dai processi reali, quindi astratta e funzionale proprio ai poteri dominanti.
Meglio sfilare ai gay pride e aspettare i migranti indossando le magliette rosse, funzionando così da comitato di accoglienza della mafia nigeriana, rendendosi complici dei suoi affari criminali, dalla prostituzione, allo spaccio di droga, al traffico di organi umani.
Non ho alcun dubbio su una cosa: Marx considererebbe il "restiamo umani" una mistificazione ideologica - al pari dell'ideale cavalleresco nella società feudale- utile solo al nudo interesse e al ferreo sistema di dominio della classe dominante. Una fittizia umanità al servizio di una realissima disumanita'. E, almeno in questo, avrebbe perfettamente ragione.


mercoledì 2 gennaio 2019

L'IDEOLOGIA DEL POLITICAMENTE CORRETTO


Il politicamente corretto come ideologia
La tesi di fondo di Eugenio Capozzi è che non bisogna ridurre il politicamente corretto a una moda insulsa e non ci si può limitare a stigmatizzarne gli aspetti pittoreschi e grotteschi, benché comunque molesti – per esempio la femminilizzazione forzata delle parole, con risultati spesso ridicoli: il politicamente corretto va purtroppo preso sul serio e considerato alla stregua di una retorica e di un catechismo civile che si impongono con la forza di una vera e propria ideologia, sorta in occidente proprio nell’epoca che veniva ritenuta della “morte delle ideologie”.
Capozzi usa opportunamente ed efficacemente la categoria marxiana di ideologia nell’analisi del fenomeno del politicamente corretto. Una categoria che è forse l’aspetto tuttora più vitale del pensiero del filosofo di Treviri e che si propone come strumento di analisi anche e soprattutto a chi marxista non è e magari intende smascherare le mistificazioni ideologiche proprie dei marxisti superstiti, degli ex marxisti e dei postmarxisti. Ed è in effetti proprio tra questi, tra gli altri, che il politicamente corretto ha trovato un fertile terreno di diffusione.
Vale la pena di ricordare, quindi, preliminarmente, l’accezione marxiana di “ideologia”. Marx ed Engels ne danno una chiara ed efficace definizione ne L’ideologia tedesca (opera che, è opportuno sottolinearlo, fu pubblicata solo nel 1932, restando così sconosciuta al marxismo ottocentesco e primo novecentesco e in particolare a Lenin):
«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante […] Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee; sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante e dunque sono le idee del suo dominio».
Se non che, queste idee non si presentano nel loro vero volto, nel loro vero significato, nel loro reale scopo e funzione, che sono quelli sopra espressi. Esse si presentano, invece, come oggettive e scientifiche, sul piano teoretico, e come universalmente giuste, benefiche e condivisibili, sul piano etico, celando la loro vera natura che è quella di essere funzionali al dominio di una classe e alla oppressione di un’altra. Pertanto, l’ideologia è “falsa coscienza” ed è una rappresentazione mistificante della realtà. La sua potenza, legata al dominio dei gruppi che la esprimono, è però tale, che essa spesso conquista il favore dei gruppi sociali subordinati, che in tal modo vanno contro i loro interessi, e conquista il consenso, spesso interessato e non innocente, di quegli intellettuali che si illudono di lottare contro il sistema o comunque di svolgere una funzione critica, o almeno amano presentarsi così, ed invece contribuiscono solo al rafforzamento del potere che pensano e dicono di contestare e di criticare. Era il caso, al tempo di Marx, della sinistra hegeliana, i cosiddetti giovani hegeliani, nei cui confronti Marx ed Engels hanno espressioni di feroce sarcasmo: questi presunti rivoluzionari sono “pecore che si credono lupi” e che con i loro belati fanno solo il gioco della borghesia tedesca. In realtà non combattono contro il potere, ma solo contro delle “frasi”, opponendo a queste “frasi” delle altre “frasi” (esempio particolarmente calzante per l’attuale sinistra “politically correct”).
La disanima di Eugenio Capozzi, che ora riassumeremo almeno in qualche punto essenziale, porterebbe a concludere che l’”ideologia tedesca” di oggi, ossia l’ideologia espressione dei gruppi socialmente ed economicamente dominanti, sia proprio il politicamente corretto e che i giovani hegeliani del nostro tempo, le pecore che si credono lupi e belano a vantaggio del sistema di potere, siano gli intellettuali, i giornalisti, i divi dello spettacolo progressisti e liberal o della cosiddetta sinistra radicale.


Il politicamente corretto come ultima forma di progressismo
Il politicamente corretto, secondo Capozzi, è l’ultima forma assunta dal “progressismo”, ossia da quella religione laica del progresso, nata dalla secolarizzazione del messianismo millenaristico. Una religione laica, una filosofia e una escatologia della storia, che tra Ottocento e Novecento, hanno segnato dottrine politiche e sistemi politici anche molto diversi tra loro, ma con natura o con esiti spesso totalitari. In tal senso, il politicamente corretto è il totalitarismo del nostro tempo.
A differenza delle precedenti forme di “progressismo”, compreso il comunismo, che vedevano nell’Occidente, o almeno in una sua componente, l’agente salvifico, il soggetto della redenzione e della liberazione – lo Spirito nell’idealismo, la ragione scientifico-tecnologica nel positivismo, la classe operaia guidata dal partito nel marxismo, ecc. – il politicamente corretto intende, però, realizzare la sua opera di redenzione contro l’Occidente, e in particolare contro la ragione occidentale considerata strumento e struttura di dominio. Il politicamente corretto, che pure nasce dall’Occidente, si risolve così in una specie di “autofobia”, a cui corrisponde simmetricamente una allofilia. Dalla tirannia dovrebbero essere liberate tutte le minoranze – etniche, culturali, religiose, sessuali (comprese le donne, che minoranza non sono, ma sono assimilate alle altre categorie discriminate), nonché gli animali e l’ambiente naturale.
La visione del mondo manichea che è propria della nuova ideologia comporta la totale delegittimazione e finanche la demonizzazione dell’antagonista politico e in genere di chi esprime idee diverse da quelle ortodosse, che viene escluso da qualsiasi spazio di discussione civile, in quanto accusato di fomentare l’odio, di esprimere idee razziste, sessiste, omofobe, islamofobe e via dicendo. Quando è possibile, si evita l’attacco frontale e si neutralizza il “dissidente” con la sua emarginazione, togliendogli strumenti e canali di intervento nel dibattito pubblico, o screditandolo e diffamandolo e ottenendo così il risultato voluto: egli non è più in grado di parlare e comunque la sua voce non ha alcuna credibilità o risonanza pubblica. Sottolinerei che questa è precisamente la logica repressiva dello stalinismo.

Nonostante le sue pretese “ecumeniche” il politicamente corretto è espressione, secondo Capozzi, di ben determinate elites, quelle ascese in seguito alla globalizzazione economica, istituzionale, tecnologica e mediatica, le uniche che sono state capaci di imporre una propria “narrazione” negli ultimi decenni. Ultimamente, tuttavia, i risultati fallimentari ottenuti in alcuni ambiti (in particolare riguardo alle politiche dell’immigrazione e al modello “multiculturale” di società e alle conseguenze della globalizzazione economica con la crisi delle classi lavoratrici e la “proletarizzazione dei ceti medi”), sembrano produrre una consistente reazione all’egemonia culturale della ideologia politicamente corretta. L’esito paradossale dell’avvento del neoprogressismo non è stato infatti la creazione di società più pacifiche, inclusive e giuste, ma il riemergere di vecchi conflitti e la nascita di nuovi, con una preoccupante lacerazione del tessuto civile. Lo scontro in atto non può essere così ricondotto alle vecchie categorie di destra e sinistra, ma è piuttosto fra “globalisti” e “sovranisti”, ossia fra i sostenitori di “una società liquida, mobile, dalle identità mutevoli e senza radici” e coloro che invece intendono “ancorare più saldamente le identità individuali e collettive”, recuperando o “mantenendo un rapporto con le radici e i fondamenti dell’umanesimo euro-occidentale”.


L’ideologia del politicamente corretto è strutturata intorno a quattro blocchi dogmatici fondamentali, con minimo comune denominatore il relativismo estremo:
1.     Il relativismo antropologico-culturale che ha come ultimo esito il multiculturalismo
2.     L’equivalenza fra desideri e diritti
3.     L’animalismo ed ambientalismo ideologici e la marginalizzazione dell’uomo sul pianeta.
4.     L’idea dell’identità totalmente sradicata da eredità naturali e storiche ed espressione di una assoluta autodeterminazione soggettiva.



Il primo “dogma”: il multiculturalismo e la società di Imagine
Una serie di fattori e processi culturali e storici hanno portato a un epocale mutamento di paradigmi culturali che ha rovesciato l’identificazione degli occidentali con la loro storia e cultura in un  ripudio e in un radicale atto di accusa verso l’occidente. Nonostante la crisi della ragione occidentale del primo Novecento e lo choc della Grande Guerra, fino alla fine della seconda guerra mondiale e agli anni del boom economico, nessuno metteva in dubbio che modernità e progresso fossero un positivo prodotto dell’Occidente e che si offrisse agli altri popoli un analogo cammino per entrare pienamente nel mondo civile. I due blocchi contrapposti dell’epoca della guerra fredda, restavano infatti entrambi eurocentrici ed eurocentrica era la stessa contestazione dell’”imperialismo” occidentale, con la nascita della nozione di “terzo mondo”, in quanto ai popoli cosiddetti “sottosviluppati” e ai paesi “in via di sviluppo” si proponeva o imponeva un paradigma di modernizzazione del primo o del secondo mondo, dell’uno o dell’altro schieramento.
Un primo fattore in questo mutamento epocale di paradigma è stato lo sviluppo in senso terzomondista del marxismo, che – preciserei da parte mia - dai piani “nobili” dell’elaborazione culturale – si pensi al Marcuse dell’ Uomo a una dimensione, ma già prima a Sartre e al famoso libro di Frantz Fanon, I dannati della terra – si è tradotto in una vulgata che vede i popoli extraeuropei portatori di una “originaria innocenza”, macchiata dai dominatori e dalla loro cultura, con la conseguente esaltazione preconcetta di ogni usanza e tradizione espressione delle culture “altre”, parallelamente alla contestazione dello stile di vita occidentale.
Le elaborazioni politico-culturali “alte” sono fermentate nel brodo di cultura degli anni Sessanta - contestazione giovanile, movimento afro-americano, protesta contro la guerra del Vietnam, celebrazione della “rivoluzione culturale” cinese – producendo la vulgata suddetta e l’aspirazione utopica a un mondo di pacifica e idilliaca convivenza fra diversi  o meglio alla restaurazione di un Eden originario, di una armonia perduta - un vero paradiso messianico, ma senza religioni e chiese. La canzone Imagine divenne ed è rimasta l’inno ufficiale di questo pacifismo escatologico, dell’ideale di un mondo multiculturale/interculturale assimilabile a un’unica, grande comunità hippy.
Il passaggio successivo è stato lo sganciamento di proteste e rivendicazioni dalle questioni economico-sociali, concentrandole soltanto nel campo dei “diritti civili” e del riconoscimento di status per gruppi e categorie ritenuti discriminati. Il passaggio ha evidenziato a sua volta il legame organico del nuovo paradigma progressista con le classi medio-alte della borghesia globalista e cosmopolita e lo caratterizza come ideologia della sinistra elitaria. Questo sviluppo sembra recente, ma in realtà fu individuato già nel 1970 dallo scrittore statunitense Tom Wolfe, nel suo articolo Radical chic. Elemento caratterizzante dell’ideologia radical-chic è la scelta e adozione di una “causa”, in base a criteri di ordine etico e perfino estetico e non in seguito a una vera e propria analisi, ma piuttosto per una attrazione emotiva e sentimentale. Nel caso del multiculturalismo si tratta dell’attrattiva emozionante per un lontano, un esotico, un diverso, considerato puro e incontaminato, da amare, accogliere e imitare pregiudizialmente, anche e soprattutto come modo di espiazione di una “colpa” atavica, quella di essere appunto occidentali e in quanto tali imperialisti (peggio ancora se maschi, perché in tal caso si è anche, in quanto tali, sessisti e patriarcali).
Quest’ultimo punto può forse contribuire a spiegare, a mio avviso, la singolare contraddizione interna a questo paradigma: l’estrema assoluta tolleranza verso il diverso e l’altro, si trasforma in una altrettanto radicale intolleranza fanatica e dogmatica nei confronti di chi, occidentale, si rifiuta di aderire alla narrazione politicamente corretta. Evidentemente costoro sono ritenuti peccatori impenitenti, riluttanti ad espiare, come invece fanno i sostenitori del multiculturalismo, la colpa originaria dell’Occidente e intenzionati invece a perpetuarla, in modo diabolicamente perseverante.
E’ evidente come il paradigma multiculturalista, già egemone culturalmente (si pensi alla fioritura dei postcolonial studies), sia stato esaltato dai fenomeni migratori più recenti, con esiti tuttavia contraddittori, perché proprio questi fenomeni sono ora uno dei fattori della sua crisi. L’emigrazione non è stata letta più, come era sempre accaduto, come conseguenza di specifiche dinamiche economiche e sociali, da valutare approfonditamente e caso per caso nei loro effetti, positivi o negativi, tanto sui paesi di partenza che su quelli di arrivo. Il flusso migratorio è stato invece considerato un fenomeno inevitabile, perenne, inarrestabile. Significativo è anche il mutamento linguistico: non si parla più di emigranti, ma di “migranti”, con il sottinteso che quella del “migrante” sia una condizione universale, strutturale e perenne dell’umanità 2.0. Tutti siamo migranti o dobbiamo accettare di diventarlo. Il nomadismo è o sarà la condizione ordinaria del genere umano.
Il luogo comune per il quale “la storia dell’umanità è la storia di emigrazioni e di migranti”, aggiungo io, mentre cerca di considerare il fenomeno come una necessità storica, ha paradossalmente il risultato opposto: lo sgancia dalle concrete dinamiche della storia e lo rende astorico. E qui si rivela pienamente l’aspetto mistico-millenaristico del paradigma politicamente corretto: l’emigrazione di massa dai paesi africani e asiatici all’Europa o dall’America latina negli USA sarebbe non solo un evento ineluttabile, ma provvidenziale che potrà costruire finalmente una società senza radici, senza frontiere, senza identità precostituite. Insomma, l’utopia millenaristico-pacifista di Imagine.
Se non che, lungi dal porre in cammino le nostre società verso quell’orizzonte, l’immigrazione ha mostrato i limiti drammatici e contraddittori della narrazione multiculturalista. Essa, per la verità, aveva già ricevuto un colpo formidabile dall’ascesa dell’integralismo islamico, a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979 e fino al grande choc dell’11 settembre 2001. Si era mostrato allora che un popolo o una civiltà o una religione non occidentali potevano declinare l’offerta di pacifica convivenza, rifiutandosi di entrare nella grande comunità hippy postmoderna, per  scegliere invece la strada dell’arroccamento identitario e del conflitto con le altre culture, a cominciare da quella occidentale. La de-occidentalizzazione, in sostanza, non portava al multiculturalismo, ma al rifiuto totale dei valori di tolleranza e convivenza. L’11 settembre ha portato almeno alcuni intellettuali occidentali a posizioni revisioniste e ad una azione di denuncia dei guasti prodotti dal nuovo progressismo, ma si è trattato di una componente minoritaria della cultura occidentale. Per lo più, la ribellione identitaria violenta dei popoli extraeuropei e in particolare degli islamici è stata ricondotta, ancora una volta, alle presunte “colpe” dell’Occidente.
I ripetuti attentati terroristici degli ultimi anni, insieme all’evidente e catastrofico fallimento delle politiche di integrazione, sia nella loro versione britannica e scandinava delle enclaves– divenute in realtà no gone zone, aree extraterritoriali sottoposte di fatto alla sharia e non alle leggi dello Stato – sia in  quella francese dello spazio pubblico laico e neutrale fra le varie culture religiose (sia aggiungerei nella versione italiana dell’assenza di qualsiasi politica di integrazione) ha prodotto una crescente insofferenza popolare verso la vulgata politicalcorrettista con la crescita delle forze cosiddette populiste e sovraniste.
In sostanza, le politiche delle classi dirigenti neoprogressiste non hanno prodotto integrazione, ma al contrario hanno generato tensioni politiche e disgregazione sociale. Le classi dirigenti non ne hanno però preso atto, ma si sono ancor più irrigidite nella loro narrazione dottrinaria e dogmatica, adottando un catechismo sempre più inflessibile nei confronti dei “dissidenti”, presentando la questione come una lotta fra luce e tenebre, fra civiltà e barbarie. “Un catechismo ferreo, un moralismo severo, una censura inflessibile” calano brutalmente su chiunque osi mettere in dubbio la loro visione.
Aggiungerei che ciò che emerge in questo punto della narrazione politicalcorrettista è una sconcertante contraddizione: l’utopia della società multiculturale è tutta costruita sui valori di quell’occidente che viene invece colpevolizzato e ripudiato e si traduce in un progetto di armoniosa e pacifica convivenza con popoli e culture che invece in una loro componente non certo marginale quei valori non li riconoscono, non li accettano e talora li combattono apertamente.

Secondo e terzo “dogma”: ogni desiderio è un diritto: l’homo gaudens e le identità “liquide”
Capozzi individua nella rivoluzione dei costumi del secondo dopoguerra e degli anni Sessanta, con al centro la liberazione sessuale, il retroterra storico-culturale di questo secondo “pilastro” dell’ideologia politicamente corretta, citando il successo, in quegli anni, delle teorie di Reich, prima sconosciute, la diffusione dei cultural studies e dei gender studies, le elaborazioni della scuola di Francoforte, e in particolare di Marcuse, con la sintesi di marxismo e psicoanalisi.
Capozzi riconosce che non si tratta tuttavia di un percorso lineare e di uno sviluppo del tutto consequenziale che porta da quelle elaborazioni e da quei movimenti all’attuale esaltazione neoprogressista dell’homo gaudens. In particolare, sottolinea la volgarizzazione e la banalizzazione delle tesi di Marcuse, il quale non era affatto per la liberalizzazione assoluta di qualunque istinto e pulsione, ma riconosceva comunque, sulla scia di Freud, che una certa quota di “repressione” fosse necessaria alla costruzione e alla sopravvivenza della civiltà, ritenendo tuttavia che la società occidentale industrializzata, in quel momento, imponesse un livello di repressione troppo elevato. Mi pare che però Capozzi non evidenzi abbastanza come quelle idee avessero originariamente una funzione di contestazione, sebbene comunque manipolabile e strumentalizzabile dai poteri dominanti, mentre oggi esse si mostrano solo come un fattore di conservazione e di stabilizzazione sociale.
Tuttavia, anche in questo caso emerge la contraddittorietà esplosiva dell’ideologia dominante, in quanto essa agisce, anche su questo punto, in senso opposto a quello desiderato e produce disgregazione, nella società, nella famiglia, nell’individuo stesso. La contestazione della famiglia tradizionale, considerata patriarcale, ha portato alla sua dissoluzione, ma non certo alla costruzione di nuovi modelli: le nuove “famiglie” non lo sono, come non lo era, ed è presto naufragata, la “grande famiglia hippy” dei “figli di tutti”. Ciò che sembra prevalere – mi permetto di sviluppare in tal senso le annotazioni di Capozzi - è piuttosto l’affermazione di progetti e desideri individuali che solo per un arco di tempo solitamente molto ridotto sembrano incontrarsi con desideri e progetti di un’altra persona, ma quasi mai coincidono con desideri, progetti e bisogno dei figli, quelli già esistenti e quelli “messi in cantiere” (magari con l’”utero in affitto”). Peraltro, la disgregazione agisce anche all’interno dell’individuo, portandolo in conflitto con se stesso.
In sostanza, quando il soggetto umano viene ridotto alla sua funzione desiderante, ciò provoca non  già appagamento universale, ma una esplosione di conflittualità, in quanto non vi sono più limiti alla moltiplicazione dei desideri, alla loro mutevolezza, alla loro contraddittorietà nello stesso individuo e fra individui e gruppi differenti.
A me pare che questo secondo “dogma” del politicamente corretto sia strettamente legato a quello che Capozzi indica come quarto – l’identità sradicata da eredità naturali e storiche ed espressione di una assoluta autodeterminazione soggettiva - e che quindi sia conveniente trattarli in immediata successione.
La trasformazione in diritti dei desideri e dei bisogni – reali o fittizi, autonomi o manipolati, naturali o costruiti – non sarebbe infatti possibile, se il soggetto portatore di diritti non venisse slegato da qualsiasi substrato naturale e storico, se non lo si concepisse, ormai, come un soggetto ad identità “liquida”, indeterminata nella sua mutevolezza, sganciata da qualsiasi vincolo, condizionamento e riferimento e totalmente autodeterminata (è perfino superfluo sottolineare come questa pretesa di assoluta autodeterminazione sia poi illusoria ed esponga il soggetto alla soggezione al pensiero comune, alle mode e alle tendenze dominanti, o dominanti in certi ambienti, anche ristretti, in modo ancor più pericoloso, proprio perché lo priva di consapevolezza). In tal senso, è assolutamente fuori luogo rappresentare i “nuovi” diritti – unioni e adozioni gay, aborto, testamento biologico ed eutanasia, droghe leggere, ecc. - come un coerente sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo definiti  dal pensiero liberale moderno e vedere nei movimenti e nelle persone che si impegnano a rivendicarli gli eredi di una grande tradizione di lotte civili. Al contrario: le battaglie per i diritti politicamente corretti segnano una rottura con quel pensiero e quella tradizione. Alle sue origini, l’idea moderna dei diritti dell’uomo è che infatti questi ultimi siano diritti “naturali”, inscritti nella natura umana, e che l’uomo, il soggetto che ne è titolare, sia ugualmente una creatura determinata dalla natura.
Questo è opportunamente sottolineato da Capozzi, quando scrive che l’invocazione dei diritti dell’individuo sulla base dei desideri solo falsamente può essere presentata come uno sviluppo libertario della teoria liberale e democratica dei diritti dell’uomo, mentre in realtà si sostituisce a questa. L’essere umano riconosciuto come depositario legittimo dei diritti non è più definito ontologicamente, non ha più una sostanza,  è del tutto disincarnato e sradicato.
Andrebbe aggiunto a ciò che dice Capozzi che per la verità si era già da tempo potuta mettere in discussione – e non senza ragioni - l’idea dell’esistenza di una natura umana universale, fissa e immutabile, ma agganciando comunque i diritti, se non alla natura, a una eredità e ad una costruzione storico-culturale e concependo l’uomo come un soggetto determinato da una certa storia e da una certa cultura o da un contesto sociale. Si trattava già di un relativismo, ma non dell’attuale relativismo estremo, e pure quello aveva comunque un costo: i diritti moderni erano dichiarati “inalienabili” in quanto “naturali”. Diventando frutto di una costruzione storico-culturale o di un patto sociale e comunitario divenivano immediatamente negoziabili e non più di per sé inalienabili. Ma eravamo comunque ancora lontanissimi dall’idea di diritti - e di soggetti che ne sono portatori e titolari - slegati da qualsiasi eredità, tradizione e substrato naturali, storici, culturali o sociali che siano e figli solo di una libertà individuale assoluta.
La costruzione di questa nuova sfera di diritti, agganciata solo ai desideri, e la ridefinizione dell’identità nel senso dello sradicamento e della liquidità, hanno trovato il loro campo di applicazione per eccellenza nella sfera legata alla sessualità. Le contraddizioni intrinseche e l’inevitabile deriva di questo processo sono ben rappresentate dalla vicenda del movimento gay. Una volta stabilito che una identità non ha una base naturale, né una sedimentazione storico culturale condivisa, ma è soggetta alle variabili indeterminate e imprevedibili del desiderio, del sentimento, della pulsione individuali, è rapidamente venuta meno l’insegna unitaria “gay” e si è passati alla sigla Lgbt che tuttavia dava ancora una definizione compiuta dell’universo omosessuale, accostando ai gay (di sesso maschile), le lesbiche (di sesso femminile e per questo al primo posto nell’acronimo) i bisessuali e i transessuali. Ma da questo punto di partenza si sono poi moltiplicate le identità non catalogabili come maschili o femminili: queer, intersex, no sex, gender fluid, non binary…Con l’ovvia puntualizzazione che è possibile passare da una identità all’altra e assumerne più di una, contemporaneamente.
Anche qui, non bisogna cedere alla tentazione di un sarcasmo riduttivistico: alla base di tutto vi è un preciso progetto ideologico: la costruzione di una umanità svincolata da ogni condizionamento naturale e culturale. Un progetto che mette al suo servizio la scienza e la tecnologia, strumentalizzandole e talora manipolandole, in modo inquietantemente simile a quanto accadeva nei regimi totalitari.

Il quarto dogma: l’ecologismo ideologico, catastrofista e antiumanista
Anche in questo caso, il “dogma” nasce da un rovesciamento di paradigma: per secoli il rapporto uomo-natura è stato concepito come una lotta del primo per trasformare la seconda in modo da migliorare le proprie condizioni di vita. Il cambiamento si è prodotto, secondo Capozzi, a partire da tre fattori. Le atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato che la capacità scientifica, tecnologica e militare dell’uomo era ormai tale da poter distruggere la vita stessa sul pianeta. In secondo luogo le modalità della ricostruzione e del boom economico post bellico hanno portato alla convinzione diffusa di un drastico peggioramento della qualità della vita, dovuto all’inquinamento ambientale e alla devastazione del paesaggio naturale. In terzo luogo ha agito il processo di decolonizzazione con la denuncia dello sfruttamento delle risorse naturali da parte dei paesi avanzati. Questi fattori hanno però trovato un elemento detonatore nel clima della contestazione giovanile degli anni Sessanta. Si è così sviluppata l’idea di un sistema di dominio occidentale che non solo si applicava alla vita sociale, economica, politica e culturale ma si estendeva alla rapina, alla devastazione, allo sfruttamento selvaggio a scopi di profitto delle risorse naturali. Un passaggio decisivo è stato segnato dalla pubblicazione del Rapporto sui limiti della crescita da parte del club di Roma, nel 1972 e quindi a ridosso della grande crisi petrolifera. Si è così definito il paradigma ecologista nei termini di una denuncia del sistema che pretende di usare e sfruttare in maniera illimitata e in vista di una crescita infinita risorse naturali che sono invece finite, con il conseguente rischio addirittura imminente di una catastrofe planetaria. Gli incidenti nucleari, soprattutto quello di Chernobyl, hanno ulteriormente fissato questo paradigma.
Quello che va sottolineato è la distanza di questo ecologismo da quello che Capozzi definisce “conservazionista” e che si propone di salvaguardare la natura riconoscendo nella dimensione ambientale un aspetto fondamentale della vita civile. Questo ecologismo non rinnega la civiltà industriale, la crescita, la necessità e la legittimità della manipolazione della natura da parte dell’uomo, ma vuole gestire questi processi in modo da evitare effetti controproducenti e distruttivi per le stesse società umane e per la libertà, la vita e la salute dei cittadini.
Invece, l’ecologismo politico nato nel percorso sopra delineato si fonda sull’idea che la civiltà industriale abbia un difetto congenito e originario, in quanto espressione di quella razionalità occidentale votata al dominio, allo sfruttamento e alla discriminazione che il progressismo relativista aveva già messo sotto accusa nel campo politico, sociale ed economico. Questa vocazione dell’occidente capitalistico, inoltre, viene ritenuta alla lunga incompatibile con la sopravvivenza stessa del pianeta. Il catastrofismo apocalittico è un elemento centrale, quindi, di questo ecologismo ideologico. Esso, invece di promuovere condizioni di vita più sane nelle società industrializzate, denuncia la prospettiva catastrofica di una imminente fine della vita sulla Terra dovuta alla irresponsabile azione dell’uomo.
Da qui le periodiche campagne allarmistiche, fondate su assunti scientificamente indimostrati, opinabili e talora già smentiti. Dopo l’allarme, ripetutamente contraddetto dai fatti, per  “la fine del petrolio” e un’impennata crescente e insostenibile del suo prezzo, è stata la volta dell’allarme per il buco dell’ozono. Non appena questo ha incominciato a declinare, nuovamente di fronte all’evidenza dei fatti (è recente la notizia secondo cui il “buco” si è quasi “ricucito”), è montata la campagna contro il cosiddetto “riscaldamento globale”, con l’assioma che esso non solo sarebbe reale – cosa che non è solidamente e univocamente attestata – ma, aspetto ancor più controverso nella comunità scientifica, sarebbe dovuto a fattori antropici legati alla civiltà industriale e quindi imputabili come al solito all’Occidente.
Anche in questo campo, il politicamente corretto rivela una vocazione totalitaria. L’ideologia ambientalista si traduce, infatti, in una serie di prescrizioni rivolte non solo ai governi e ai legislatori, ma a tutti i cittadini, chiamati a cambiare i loro comportamenti, le loro abitudini, i loro stili di vita sotto la minaccia incombente della catastrofe planetaria. Ancora una volta non si tratta semplicemente della ragionevolissima incentivazione di comportamenti che tendono a un modo di vivere più sano, per l’individuo e per la collettività, ma di una pressione morale, ai limiti del ricatto, che agisce suscitando sensi di colpa e traducendo i comportamenti ritenuti corretti e responsabili in sacrifici espiatori di un peccato collettivo e originario. L’ambientalismo catastrofista si è così tradotto in una sorta di religione secolare fondata su articoli di fede che è blasfemo mettere in discussione, una religione penitenziale che lancia continui messaggi ansiogeni e colpevolizzanti.
Va infine sottolineato l’aspetto antiumanistico di questo ecologismo, significativamente espresso nella teoria della “impronta ecologica”, lanciata da Wackernagel e Rees nel 1996, che vorrebbe quantificare  la porzione di pianeta necessaria a compensare le risorse consumate e a smaltire i rifiuti prodotti da ciascun individuo. Ancora una volta, la teoria non invita semplicemente a un comportamento più responsabile, meno dissipativo e “consumistico”, ma colpevolizza l’individuo in ogni momento della sua esistenza quotidiana, spingendolo a considerarsi “un peso” per il pianeta. Ma se così è, se la sua impronta è tanto meno nociva quante meno risorse consuma e rifiuti produce, «l’essere umano più virtuoso verso il pianeta, anzi l’unico propriamente virtuoso, è quello che non ne consuma alcuna, cioè che non esiste».
Ai precetti ecologisti si accompagna una intollerante e aggressiva condanna morale verso chi non si adegua, bollato come un assassino della biosfera. La stessa demonizzazione e la stessa condanna colpisce chi non aderisce all’ideologia animalista, non certo perché insensibile e tantomeno crudele nei confronti degli animali, ma magari soltanto perché non adotta uno stile alimentare vegano.
Anche qui, non si tratta dell’estremizzazione, in certi casi fino a livelli caricaturali, di un nobile sentimento, ma di una vera costruzione ideologica. Le basi dell’”animalismo” attuale vanno ricercate da un lato nell’idea che la concezione di una centralità e di un primato dell’uomo sulla terra e di una gerarchia degli esseri viventi sia anch’essa figlia della razionalità “imperialista” occidentale, dall’altro nella progressiva “umanizzazione” degli animali. Sotto questo profilo, pare abbastanza evidente come spesso i cosiddetti “diritti degli animali” che si rivendicano e si vorrebbero regolamentare per legge, altro non siano che proiezioni di desideri umani nei confronti degli animali, trasformati poi in diritti alla stregua di altri desideri. Come nel caso delle popolazioni e civiltà extraeuropee, del terzomondismo sfociato nell’immigrantismo, vi è da chiedersi se il vero “imperialismo” non sia nella mente dei presunti amici degli africani o degli animali, visto che li riducono sistematicamente alle proprie categorie mentali ed emotive.
Bisogna tuttavia riconoscere che sul terreno del catechismo ecologista l’ideologia politicamente corretta ha ottenuto il maggiore successo, perché non si è scontrata, fino a questo punto, con resistenze e contraddizioni altrettanto forti di quelle emerse negli altri campi di cui abbiamo già parlato ed è stata anzi agevolata da vari fattori: una sensibilità verso la natura e verso gli animali che appartiene, per fortuna, a tantissimi esseri umani e che induce molti di loro ad aderire al suddetto catechismo, senza rendersi conto che si tratta di una costruzione ideologica che con quella sensibilità non ha nulla a che vedere; la realtà del degrado ambientale che effettivamente mette a repentaglio la salute e la qualità della vita, pur senza preludere a catastrofi apocalittiche; il fatto che le questioni sollevate non sono tecnicamente semplici e la loro valutazione corretta è alla portata di pochissimi esperti o richiede informazione e studio accurati.
In questo modo, però, attraverso l’ideologia ambientalista, la “religione verde”, il progressismo relativista ha raggiunto il suo scopo: offrire, e in realtà imporre, dei precetti catechistici apparentemente chiari, incontrovertibili, moralmente nobili che possano essere altrettanti mezzi di “espiazione” della colpa originaria e dare al “peccatore” un immediato senso di rassicurazione.
Per questo «l’ambientalismo religioso rappresenta un precipitato, un bignami del programma diversitario di abolire i conflitti e riportare l’umanità allo stato di innocenza originaria»

La resistenza al politicamente corretto
Capozzi ritiene tuttavia che questa religione verde non sia sufficiente a preservare il dominio del politicamente corretto, che si trova esposto a reazioni di insofferenza, sempre più forti, diffuse e strutturate. Anzi, le contraddizioni sorte magari in altri campi sembrano minacciare anche l’unanimismo che per diversi anni ha regnato nel campo delle politiche ambientali, come gli atti dell’Amministrazione Trump dimostrano.
Quanto più la narrazione politicamente corretta si impone e pretende di presentarsi come dottrina pubblica ufficiale, quanto più «incrementa la severità delle sue condanne e marchia di infamia chiunque contravvenga ai suoi precetti, tanto più essa contribuisce a costruire per contrasto, tassello dopo tassello, la contro-ideologia e contro-narrazione del “politicamente scorretto”».
Capozzi vede nelle forze populiste cresciute in Occidente negli ultimi anni «un soggetto alternativo al sistema di potere nato dalla rivoluzione generazionale degli anni sessanta» e ritiene che sia in pieno svolgimento la sfida tra questi due mondi. Su queste conclusioni, mi permetto di fare qualche mia considerazione, in parte in dissenso con lui e in chiusura del discorso.
Non sono altrettanto ottimista. Sono convinto anche io che le cosiddette forze populiste rappresentino una reazione e una opposizione all’ideologia politicamente corretta e ai ceti dominanti dei quali essa è espressione. Non sono però affatto sicuro che siano all’altezza della sfida, che abbiano una coscienza, una visione strategica, una capacità di formare e consolidare un blocco sociale, che abbiano insomma quei requisiti indispensabili che potrebbero già farle ritenere un «soggetto alternativo al sistema di potere».
Certamente, sono fondamentali e preliminari due cose – e in questo l’analisi di Eugenio Capozzi è di grande aiuto:
primo, occorre una consapevolezza piena del problema. Il problema consiste in questo: il politicamente corretto non è solo una moda insulsa, ma è una ideologia espressione di un blocco di potere dominante, ferocemente dominante. Ed è una ideologia totalitaria. L’intrinseco totalitarismo del politicamente corretto si svela infatti in questo: esso non intende cambiare il mondo agendo sui fattori materiali, ma cambiando la mente delle persone e per far questo si propone di stabilire un rigido controllo sul loro linguaggio. E’ la pura logica orwelliana, del “Ministero dell’Amore” del Grande Fratello: chi controlla il linguaggio controlla le menti.
Secondo punto: una volta individuato lucidamente il problema, occorre distinguere fra chi è il problema o è parte del problema e chi invece è espressione di un tentativo di risposta al problema. Anche se queste risposte possono essere spesso sgradevoli – pure esteticamente – insufficienti o inefficaci non bisogna smarrire la linea di demarcazione: esse e i soggetti che le incarnano – si chiamino Trump, Salvini o Di Maio – non sono il problema, ma la reazione al problema.