Il rabbino Giuseppe
Laras - presidente dell’assemblea rabbinica italiana, per 25 anni a capo della
comunità ebraica milanese e figura-chiave del dialogo ebraico-cristiano - è
stato intervistato ieri dal giornale “La Stampa” sul giubileo cattolico appena
apertosi. Al giornalista che gli chiedeva se la misericordia non fosse più
importante del giudizio, citando le parole del papa – “anteporre la
misericordia al giudizio” – rav Laras ha risposto che misericordia e giudizio
devono essere “contestuali”. La giustizia “deve partire da una posizione di
rispetto e di benevolenza”, per non rischiare di risolversi in “espressione di
vendetta, violenza e odio”, D’altra parte, la misericordia “non può prescindere
dalla giustizia, perché se non siamo giusti con noi e con gli altri, una
società si può ammalare”. Rav Laras sottolinea anche come non abbia alcun
fondamento l’idea di un ebraismo tutto incentrato sulla giustizia e poco sull’amore
e ricorda che la massima “amerai il prossimo come te stesso” si trova nella
Torah prima che nei Vangeli.
Non ci sono allora
differenze fra ebraismo e cristianesimo – o forse sarebbe meglio dire fra la
Torah, che poi è il Pentateuco delle Bibbie cristiane, e il Nuovo Testamento -
riguardo al rapporto fra giustizia e misericordia? Karl Barth, in quella
luminosissima opera che è “Introduzione alla teologia evangelica”, parlava di
giustizia e misericordia - “Legge” ed “Evangelo”, secondo l’espressione cara ai
Riformatori - come del “no” e del “si” di Dio agli uomini. E le paragonava alla
“luce” e all’”ombra”. Sono quindi necessarie entrambe le cose, perché evidentemente
se c’è luce, c’è anche l’ombra, ma la luce e l’ombra, il si e il no di Dio non stanno in equilibrio, ma piuttosto “in un
sommo squilibrio” e “la teologia non può vedere la luce all’interno dell’ombra invece che l’ombra all’interno della
luce”.
Fra le frasi di Barth e
quelle di Laras non mi pare che ci sia una differenza di sostanza, ma al
massimo di accentuazione (e tali accentuazioni dipendono forse anche dai
periodi storici ben diversi in cui sono state pensate ed espresse: i primi anni
Sessanta e i giorni d’oggi). Anche e soprattutto la Bibbia ebraica conosce
infatti questa somma sproporzione fra giustizia e misericordia. La conosce e la
esprime nella Torah, a cominciare dalle tavole della Legge date a Mosè sul
Sinai, le dieci parole di Dio, i dieci comandamenti dei catechismi cristiani: “Non
avere altri dèi oltre a me. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose
che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li
servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco
l'iniquità dei padri sui figli fino alla
terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso
quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”. Il giudizio di Dio è fino
alla terza e quarta generazione, la sua misericordia fino alla millesima. I
numeri, che nella Bibbia ebraica hanno spesso una forte valenza simbolica,
vogliono qui esprimere proprio quel “sommo squilibrio” di cui parlava Barth.
La Bibbia ebraica
conosce ed esprime la somma sproporzione fra giudizio e misericordia anche nei
Profeti – come è ovvio visto che i profeti richiamano il popolo all’osservanza
della Torah - ove si mostra
ripetutamente come il giudizio nei confronti di Israele, per quanto
severissimo, sia sempre in funzione della salvezza e della benedizione e quindi
della misericordia.
Analogamente, nel Nuovo
Testamento, la parola d’amore di Dio presuppone sempre la parola di giudizio,
sebbene la sopravanzi grandemente, e questo sia nella predicazione dello stesso
Gesù, sia soprattutto nell’azione che Dio compie su, in e con Gesù stesso, a
favore degli uomini, fino al momento culminante della croce e della
resurrezione.
Le parole di rav Laras,
devono quindi essere considerate, a mio modestissimo avviso, non solo un “punto
di vista ebraico” sul giubileo della misericordia e sul rapporto
giustizia/misericordia, ma un punto di vista semplicemente e autenticamente
biblico, che interpella i cristiani non solo in quanto affratellati agli ebrei,
ma anche in quanto cristiani. Le parole di rav Laras hanno forse il merito di
ricordarci che la giusta accentuazione della misericordia e dell’amore di Dio
non può portarci a reprimere ogni istanza critica, né a dimenticare o a
rimuovere la realtà del peccato. Laras chiarisce, infatti, che per giustizia
non si deve intendere solo “condanna”, ma anche capacità di dare un giudizio. Non
è biblico, e dunque non è nemmeno cristiano, confondere giustizia come condanna
e giustizia come capacità di dare un giudizio e attaccare, come spesso
fanno i santoni del politically correct purtroppo
presenti anche nel mondo cristiano, chiunque formuli un giudizio critico su
determinati temi, facendolo passare per uno che emette sentenze di condanna.
Inoltre, rav Laras ci ricorda che “non si può, insomma, semplicemente amare con
pietà senza dire all’altro se sbaglia o se ha peccato”, interpellandoci così su
un altro grave rischio che corriamo, un’altra possibile e catastrofica
infedeltà alla Bibbia: trasformare l’annuncio della giustificazione del
peccatore in un annuncio di giustificazione del peccato.
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