mercoledì 6 gennaio 2016

LA DERIVA DELL'OCCIDENTE, DA CHARLIE HEBDO A COLONIA



Ad un anno dalla strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher appare desolante la reazione della Francia, dell’Europa, dell’Occidente a quel terribile shock collettivo. I fatti sono tragicamente eloquenti: il fondamentalismo islamico e lo Stato totalitario che ne rappresenta l’incarnazione politica hanno conquistato altre aree del mondo e perpetrato nuovi orrori. A Parigi c’è stata una seconda strage, molto più grave di quella del gennaio 2015, almeno per il numero delle vittime, per la simbologia degli obiettivi, per la pianificazione e il coordinamento dell’azione criminale. Se poi restiamo al tema che fu posto al centro dell’indignazione e della mobilitazione collettiva – la difesa della libertà di espressione come patrimonio inviolabile della civiltà occidentale – il quadro è altrettanto avvilente. Che cosa è stato della campagna all’insegna del “je suis Charlie”? Gli islamisti, è vero, non hanno trucidato altri giornalisti. Forse non ne hanno sentito neppure la necessità. La stampa e il mondo politico occidentale li hanno prevenuti, imponendosi l’autocensura e censurando essi stessi, con la pressione sociale e l’intimidazione del “politicamente corretto”, le poche voci critiche. Ad ogni nuovo episodio, ad ogni nuovo segnale di allarme, non già i crimini, gli orrori e la barbarie dei jihadisti sono stati denunciati come la minaccia e l’emergenza, ma l’”islamofobia”, la “xenofobia”, il rischio di “strumentalizzazioni” da parte di movimenti “populisti e razzisti”. Si è utilizzato tutto il logoro armamentario di un sociologismo e di uno pseudo-materialismo storico di infima lega per relativizzare e di fatto giustificare l’islamismo, ponendo come al solito sul banco degli imputati l’Occidente, il neoliberismo, gli USA, Israele…in spregio palese della realtà, dei dati statistici, delle evidenze empiriche e storiche, della elementare cronologia degli avvenimenti.
La cosa più desolante è che gli stessi epigoni del giornale satirico francese hanno partecipato a questa deriva dell’intelletto e dell’etica pubblica, commemorando i loro colleghi con un numero speciale che reca in copertina una vignetta davvero indecente. Indecente non certo perché blasfema, ma perché mistificante. Vi si scorge un vecchio con la barba e il triangolo sul capo – l’usuale icona del Dio biblico –  che, armato di mitra, si dilegua furtivo e sornione e su cui campeggia la scritta “un anno dopo l’assassino è ancora in  libertà”. Eh no, proprio no. L’assassino di Charlie Hebdo non fu Dio, tantomeno fu il Dio degli ebrei e dei cristiani. Assassini furono gli uomini. E non si trattava di fedeli di una religione qualsiasi, ma di seguaci di una ben precisa religione, che hanno massacrato al grido di “Allah akbar”. Charlie Hebdo è liberissimo di fare la sua battaglia contro ogni religione e ogni immagine di Dio, ma non dovrebbe violentare la memoria dei suoi giornalisti che non sono stati uccisi da una generica “religione oppio dei popoli”, ma da uomini che avevano origini, formazione, fede e progetti ben precisi.
La vicenda più emblematica di questa deriva dell’Occidente mi pare che sia quella occorsa a Colonia, la notte di capodanno. Questi i fatti: un migliaio di uomini, arabi e maghrebini – non si sa ancora e forse non si saprà mai se immigrati recenti, rifugiati e richiedenti asilo o residenti da più tempo in Germania – si sono dati appuntamento, probabilmente con una sorta di flash-mob, nella famosa piazza fra l’Hauptbanhof e la grande cattedrale neogotica. Qui hanno aggredito ogni donna di passaggio, con insulti e pesanti molestie sessuali – e in qualche caso pare si sia arrivati allo stupro. Molte donne sono state anche derubate. In altre città tedesche si sono verificati episodi simili, su scala minore.
Ebbene, vediamo come questi fatti sono stati raccontati sui mass-media.  Innanzitutto, la notizia è circolata solo a partire dal 5 gennaio ed è stata tenuta nascosta per alcuni giorni. Quando se ne è cominciato a parlare – si provi a verificare sui siti dei due maggiori quotidiani italiani – si è detto che un migliaio di “uomini ubriachi” avevano molestato decine di donne. Che quegli uomini avessero una precisa identità etnico-religiosa è stato detto solo in forma dubitativa e fra virgolette, benché quella identità sia stata affermata non solo da tutti i testimoni, ma dallo stesso capo della polizia di Colonia. Molta enfasi è stata invece posta sul “pericolo” di una “strumentalizzazione” dell’episodio da parte di movimenti “estremisti xenofobi”. Tuttora si registra poi il silenzio assordante di tutte quelle voci così pronte a denunciare ogni singolo episodio di violenza sulle donne. Nessun allarmato editoriale, nessuna intervista indignata, nessuna campagna di stampa, nessuna pubblica manifestazione. Eppure, in questo caso, non un singolo marito, fidanzato, amante, sconosciuto, ma un’orda di mille barbari hanno manifestato con la violenza più oltraggiosa il loro disprezzo per le donne. Una delle poche voci che si sono sentite, Chantal Louise, storica femminista tedesca, ha giustamente detto che non basta neanche parlare di fallimento di un modello di integrazione: occorre ripensare completamente la questione dell’immigrazione, liberandosi da pregiudizi che hanno agito in senso contrario, sotto la minaccia delle accuse di razzismo e di islamofobia. Ha detto, giustamente, che bisognerebbe innanzitutto incominciare a chiamare le cose con il loro vero nome.
Ecco. Da tempo chi osa manifestare un pensiero critico di fronte alla linea dell’”accoglienza senza se e senza ma”, che può essere una giusta istanza etica per un singolo e privato cittadino e per una chiesa, ma che è una linea irresponsabile, quando viene adottata da un governo e anche dalla stessa chiesa, non più nella sua attività diaconale, ma nei suoi interventi nel dibattito pubblico, da tempo chi sostiene che l’accoglienza non basta e che il vero problema è l’integrazione, è la condivisione di un terreno comune di principi, di valori, di norme e di regole, da tempo chi prova a introdurre questi elementi di riflessione viene verbalmente aggredito, insultato, moralmente ricattato e minacciato con il  vessillo dell’islamofobia, della xenofobia e persino del razzismo.
Sì, è tempo di dare alle cose il loro nome e di dire che i sacerdoti e i seguaci del politicamente corretto, che continuano a soffocare in tal modo il pensiero critico e il confronto, non sono altro che dei fascistelli e degli stalinisti, mascherati da buonisti e progressisti.

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