Ad un anno dalla strage di
Charlie Hebdo e del supermercato kosher appare desolante la reazione della
Francia, dell’Europa, dell’Occidente a quel terribile shock collettivo. I fatti
sono tragicamente eloquenti: il fondamentalismo islamico e lo Stato totalitario
che ne rappresenta l’incarnazione politica hanno conquistato altre aree del
mondo e perpetrato nuovi orrori. A Parigi c’è stata una seconda strage, molto
più grave di quella del gennaio 2015, almeno per il numero delle vittime, per
la simbologia degli obiettivi, per la pianificazione e il coordinamento dell’azione
criminale. Se poi restiamo al tema che fu posto al centro dell’indignazione e
della mobilitazione collettiva – la difesa della libertà di espressione come
patrimonio inviolabile della civiltà occidentale – il quadro è altrettanto
avvilente. Che cosa è stato della campagna all’insegna del “je suis Charlie”?
Gli islamisti, è vero, non hanno trucidato altri giornalisti. Forse non ne
hanno sentito neppure la necessità. La stampa e il mondo politico occidentale
li hanno prevenuti, imponendosi l’autocensura e censurando essi stessi, con la
pressione sociale e l’intimidazione del “politicamente corretto”, le poche voci
critiche. Ad ogni nuovo episodio, ad ogni nuovo segnale di allarme, non già i
crimini, gli orrori e la barbarie dei jihadisti sono stati denunciati come la
minaccia e l’emergenza, ma l’”islamofobia”, la “xenofobia”, il rischio di “strumentalizzazioni”
da parte di movimenti “populisti e razzisti”. Si è utilizzato tutto il logoro
armamentario di un sociologismo e di uno pseudo-materialismo storico di infima
lega per relativizzare e di fatto giustificare l’islamismo, ponendo come al
solito sul banco degli imputati l’Occidente, il neoliberismo, gli USA, Israele…in
spregio palese della realtà, dei dati statistici, delle evidenze empiriche e storiche,
della elementare cronologia degli avvenimenti.
La cosa più desolante è che gli
stessi epigoni del giornale satirico francese hanno partecipato a questa deriva
dell’intelletto e dell’etica pubblica, commemorando i loro colleghi con un
numero speciale che reca in copertina una vignetta davvero indecente. Indecente
non certo perché blasfema, ma perché mistificante. Vi si scorge un vecchio con
la barba e il triangolo sul capo – l’usuale icona del Dio biblico – che, armato di mitra, si dilegua furtivo e sornione e su cui
campeggia la scritta “un anno dopo l’assassino è ancora in libertà”. Eh no, proprio no. L’assassino di
Charlie Hebdo non fu Dio, tantomeno fu il Dio degli ebrei e dei cristiani.
Assassini furono gli uomini. E non si trattava di fedeli di una religione
qualsiasi, ma di seguaci di una ben precisa religione, che hanno massacrato al
grido di “Allah akbar”. Charlie Hebdo è liberissimo di fare la sua battaglia
contro ogni religione e ogni immagine di Dio, ma non dovrebbe violentare la
memoria dei suoi giornalisti che non sono stati uccisi da una generica “religione
oppio dei popoli”, ma da uomini che avevano origini, formazione, fede e
progetti ben precisi.
La vicenda più emblematica di
questa deriva dell’Occidente mi pare che sia quella occorsa a Colonia, la notte
di capodanno. Questi i fatti: un migliaio di uomini, arabi e maghrebini – non si
sa ancora e forse non si saprà mai se immigrati recenti, rifugiati e
richiedenti asilo o residenti da più tempo in Germania – si sono dati
appuntamento, probabilmente con una sorta di flash-mob, nella famosa piazza fra
l’Hauptbanhof e la grande cattedrale neogotica. Qui hanno aggredito ogni donna
di passaggio, con insulti e pesanti molestie sessuali – e in qualche caso pare
si sia arrivati allo stupro. Molte donne sono state anche derubate. In altre
città tedesche si sono verificati episodi simili, su scala minore.
Ebbene, vediamo come questi fatti
sono stati raccontati sui mass-media. Innanzitutto, la notizia è circolata solo a
partire dal 5 gennaio ed è stata tenuta nascosta per alcuni giorni. Quando se
ne è cominciato a parlare – si provi a verificare sui siti dei due maggiori
quotidiani italiani – si è detto che un migliaio di “uomini ubriachi” avevano
molestato decine di donne. Che quegli uomini avessero una precisa identità
etnico-religiosa è stato detto solo in forma dubitativa e fra virgolette,
benché quella identità sia stata affermata non solo da tutti i testimoni, ma
dallo stesso capo della polizia di Colonia. Molta enfasi è stata invece posta
sul “pericolo” di una “strumentalizzazione” dell’episodio da parte di movimenti
“estremisti xenofobi”. Tuttora si registra poi il silenzio assordante di tutte
quelle voci così pronte a denunciare ogni singolo episodio di violenza sulle donne.
Nessun allarmato editoriale, nessuna intervista indignata, nessuna campagna di
stampa, nessuna pubblica manifestazione. Eppure, in questo caso, non un singolo
marito, fidanzato, amante, sconosciuto, ma un’orda di mille barbari hanno
manifestato con la violenza più oltraggiosa il loro disprezzo per le donne. Una
delle poche voci che si sono sentite, Chantal Louise, storica femminista tedesca, ha
giustamente detto che non basta neanche parlare di fallimento di un modello di
integrazione: occorre ripensare completamente la questione dell’immigrazione,
liberandosi da pregiudizi che hanno agito in senso contrario, sotto la minaccia
delle accuse di razzismo e di islamofobia. Ha detto, giustamente, che
bisognerebbe innanzitutto incominciare a chiamare le cose con il loro vero nome.
Ecco. Da tempo chi osa
manifestare un pensiero critico di fronte alla linea dell’”accoglienza senza se
e senza ma”, che può essere una giusta istanza etica per un singolo e privato
cittadino e per una chiesa, ma che è una linea irresponsabile, quando viene
adottata da un governo e anche dalla stessa chiesa, non più nella sua attività
diaconale, ma nei suoi interventi nel dibattito pubblico, da tempo chi sostiene
che l’accoglienza non basta e che il vero problema è l’integrazione, è la
condivisione di un terreno comune di principi, di valori, di norme e di regole,
da tempo chi prova a introdurre questi elementi di riflessione viene
verbalmente aggredito, insultato, moralmente ricattato e minacciato con il vessillo dell’islamofobia, della xenofobia e
persino del razzismo.
Sì, è tempo di dare alle cose il
loro nome e di dire che i sacerdoti e i seguaci del politicamente corretto, che
continuano a soffocare in tal modo il pensiero critico e il confronto, non sono
altro che dei fascistelli e degli stalinisti, mascherati da buonisti e
progressisti.
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