Vorrei partire da un commento alla più stretta attualità per
poi cercare di fare una riflessione un po’ più profonda e arrivare a qualche
problema strutturale. Ha fatto clamore, nei giorni scorsi, la pubblicazione sul
sito gay. it di nomi e facce dei parlamentari del PD - cosiddetti catto-dem -
contrari alle adozioni per le coppie omosessuali. Si e’ parlato di “liste di proscrizione” e
addirittura di un’ azione “squadristica”. Io credo che si sia trattato, invece, di una sorta di azione lobbystica,
condotta forse in forma alquanto brutale. Infatti, se si trattasse soltanto del
tema delle unioni civili si dovrebbe parlare di una sacrosanta battaglia per i
diritti, ma visto che la questione che divide, a quanto pare, è solo quella
specifica delle adozioni in una coppia omosessuale, mi pare invece più corretto
parlare appunto di una azione lobbistica. Il
problema è che riconoscere che, almeno in certi casi, le associazioni
gay funzionano come una lobby porterebbe piu’ chiarezza nel dibattito pubblico,
ma avrebbe un prezzo: significherebbe riconoscere che esse agiscono, in quei
casi specifici, come portatrici di legittimi interessi e di un legittimo punto di vista, ma non come
soggetti protagonisti di lotte per i diritti o addirittura di "battaglie
di civiltà" e di azioni rivolte al trionfo dell’amore cristiano. E
significherebbe riconoscere che chi invece ha un altro punto di vista, non è
necessariamente afflitto dal terribile morbo dell’omofobia, tantomeno si
colloca fuori dalla civiltà e dalla legge dell’amore cristiano, ma ritiene che
vadano considerati altri legittimi interessi, come quelli del bambino,
questione la cui soluzione non è scontata, ma neanche può essere così
sbrigativa come vorrebbero i fautori senza se e senza ma delle adozioni.
Ma vi è un’altra questione che è adombrata dalla iniziativa
di gay.it. Essa lascia trasparire ancora
una volta, a pochi giorni dalle reazioni e dalle non-reazioni ai fatti di
Colonia, le stridenti contraddizioni del fronte “progressista”. Vista, infatti,
la nuova legge sul diritto di cittadinanza fortemente voluta da quei settori
"progressisti" che sostengono anche le adozioni gay, visto che tale
legge nei prossimi anni potrebbe dare diritto di voto a centinaia di migliaia
di islamici, divenuti cittadini italiani, il sito gay.it dovrà prepararsi a
pubblicare liste più numerose, che comprenderanno accanto agli attuali deputati
di tendenza "catto-dem", nuovi deputati "islam-dem",
probabilmente non favorevoli ai "diritti gay" ( e contrari anche ad
altri diritti cari non solo ai progressisti, ma a qualsiasi buon cittadino
occidentale).
La contraddizione sul terreno dei diritti è già emersa, ma è
destinata a divenire esplosiva, salvo casi gravi, ma ancora episodici, solo nei
prossimi anni. Vi è invece una contraddizione sul terreno economico-sociale che
è già dirompente e riguarda gli effetti della massiccia ondata migratoria sulle
condizioni del lavoro e dei lavoratori autoctoni. La sinistra, in tutte le sue
articolazioni, ha sbrigativamente liquidato il problema, trattandolo come una
mera mistificazione delle destre xenofobe. E ha contrapposto al rozzo slogan di
queste ultime – che però fa molta presa sulla popolazione - “gli immigrati
tolgono il lavoro agli italiani”, slogan altrettanto stolti, tipo “gli
immigrati fanno i lavori che gli italiani si rifiutano di fare”, “gli immigrati
rappresentano una risorsa per il nostro futuro”. Una risorsa lo sono
certamente, ma per chi?
Sono anni che con profondo sconcerto noto che nessuno o
quasi degli “intellettuali” progressisti ricorda certe fondamentali categorie
del pensiero marxiano, che sarebbero invece utilissime oggi a dare una corretta
lettura “da sinistra” del fenomeno dell’immigrazione e a progettare una
politica coerente. Per esempio, la formidabile categoria di “esercito
industriale di riserva”. Marx ne parla nel I libro del Capitale, riferendosi ai
disoccupati. La disoccupazione, dice Marx in sostanza, non è un incidente di
percorso dell’economia capitalistica e non è nemmeno legata alle crisi
congiunturali, sebbene ovviamente sia più elevata in queste crisi, ma è un
elemento strutturale dell’economia capitalistica. Il capitalista, infatti, deve
investire il suo capitale sia in forza-lavoro – i salari pagati agli operai –
sia in macchine, attrezzature tecnologiche, e oggi anche pubblicità, spese di
marketing, ecc.. Il primo, secondo la definizione già data da David Ricardo, è
il “capitale variabile”, il secondo è il “capitale fisso”. Ora mentre il
capitalista può anche diminuire la spesa in capitale variabile, ossia la quota
salari, mentre può trovare, ad esempio, aree del mondo ove il costo del lavoro
è inferiore e l’investimento più conveniente, può far poco per diminuire la
quota di capitale fisso, che invece tende immancabilmente a salire. Se un
capitalista investisse di meno in macchinari, attrezzature o pubblicità sarebbe
schiacciato dalla concorrenza. Dunque il capitale fisso non può che crescere.
Ma se cresce il capitale fisso investito, diminuisce proporzionalmente il
profitto del capitalista, perché aumentano i costi di produzione. Come se ne
esce? In teoria è molto semplice, agendo sull’altra quota di capitale
investito, il cosiddetto capitale mobile, la retribuzione dei lavoratori. Ovviamente
non è facile convincere i lavoratori ad accontentarsi di salari più bassi, ma la
disoccupazione è un efficace strumento di compressione dei salari. Marx
definisce, infatti, i disoccupati “esercito industriale di riserva”, perché la
loro semplice presenza fornisce ai capitalisti una formidabile arma nella lotta
di classe contro i lavoratori, un’arma che consente di tener bassi i livelli
salariali, sia con una sorta di ricatto psicologico (detto semplicemente: “sappiate
che se protestate per avere salari più alti, potreste essere licenziati e allora
assumerò quelli che sono disoccupati che certamente pur di lavorare si
accontenteranno di essere pagati di meno”), sia, soprattutto, per una
elementare legge dell’economia di mercato, che è la legge della domanda e dell’offerta.
Dato che il lavoro è ridotto a merce, il suo valore – a cui corrisponde, in
parte, il salario del lavoratore – tende a diminuire quando l’offerta supera la
domanda, come avviene per ogni altra merce. E questa è appunto la condizione
che si crea sul mercato del lavoro quando vi è una diffusa disoccupazione.
Se Marx fosse ancora vivo, capirebbe immediatamente che il
sistema capitalistico è divenuto molto più complesso e che gli strumenti
adottati dai capitalisti per tenere alti i profitti sono oggi più raffinati.
Capirebbe immediatamente che dell’esercito industriale di riserva, oggi, non
fanno più parte soltanto i disoccupati, ma anche le varie tipologie di
lavoratori precari e i lavoratori “in nero”. La funzione di questo lavoro
precario e in nero che si unisce all’esercito dei disoccupati veri e propri è
però sempre la stessa: comprimere i salari dei lavoratori e con i salari anche
diritti e garanzie (che per il capitalista hanno sempre un “costo”). Ora, il
mio sconcerto è che nessuno o quasi si ricordi di questa analisi marxiana e
capisca che gli immigrati vanno esattamente ad accrescere l’odierno esercito
industriale di riserva, ponendosi oggettivamente in conflitto con gli altri
lavoratori, non perché “rubano” loro il lavoro, ma perché, ovviamente loro
malgrado, danno ulteriore forza alla parte che è già più forte nel conflitto
sociale.
Ho detto quasi nessuno, perché finalmente ho trovato di
recente un paio di eccezioni. Uno che si è ricordato dell’”esercito industriale
di riserva” è l’antipaticissimo Diego Fusaro, filosofo da talk show, che
tuttavia qualche libro l’ha letto e l’ha capito pure.
“L’esercito industriale di riserva dei migranti”, ha scritto
Fusaro in ottobre, sul “Fatto quotidiano” “rappresenta un immenso bacino di
manodopera a buon mercato, peraltro estranea alla tradizione della lotta di
classe: permette di esercitare una radicale pressione al ribasso sui salari dei
lavoratori, spezza l’unità – ove essa ancora sussista – nel movimento operaio
e, ancora, consente ai padroni di sottrarsi ai crescenti obblighi di diritto al
lavoro”. Per questo, “nella sua logica generale, l’immigrazione è oggi promossa
strutturalmente dal capitale e difesa sovrastrutturalmente dalla “retorica
del migrante” propria del pensiero unico”.
Perfetto, direi!
E con sintesi altrettanto lucida ed efficace, Fusaro coglie
il motivo di fondo per cui, al di là della disorganizzazione, dell’incuria,
dell’incompetenza, risulta così difficile trasformare l’accoglienza in
integrazione: “il capitale non mira a integrare i migranti, aspira, invece, a disintegrare,
tramite i migranti, i non-migranti, riducendo anche questi ultimi al rango dei
primi”.
La retorica dell’accoglienza pura e semplice è quindi
funzionale allo sfruttamento, tanto dei migranti che dei lavoratori autoctoni.
L’articolo di Fusaro, che in altri tempi avrebbe quantomeno
suscitato un po’ di dibattito, è purtroppo caduto nel vuoto, nessuno, che io
sappia, ha ripreso le sue tesi (magari per contestarle con argomentazioni!),
eccetto un interessante sito, denominato “la via culturale al socialismo” .
Ecco cosa si legge, tra l’altro, su queste pagine:
“Non sentiamo parlare mai di “competizione fra lavoratori” o
“esercito industriale di riserva”, eppure queste categorie marxiane sarebbero
utilissime per capire molti fenomeni, Marx infatti aveva capito che quel
processo che noi oggi chiamiamo globalizzazione e che lui chiama
fraternità universale, era in realtà “lo sfruttamento giunto al suo stadio
internazionale.
Ma la sinistra odierna è troppo impegnata a scrivere post contro Salvini o a festeggiare Tsipras e le unioni civili della Grecia, scollandosi completamente dalla base storica del suo elettorato, non vedendo che queste politiche di accoglienza indiscriminata provocano solo una deregolamentazione del mercato del lavoro, il proliferare del caporalato nel Sud e una competitività sleale che va ad alimentare una inutile guerra tra poveri.
Ma la sinistra odierna è troppo impegnata a scrivere post contro Salvini o a festeggiare Tsipras e le unioni civili della Grecia, scollandosi completamente dalla base storica del suo elettorato, non vedendo che queste politiche di accoglienza indiscriminata provocano solo una deregolamentazione del mercato del lavoro, il proliferare del caporalato nel Sud e una competitività sleale che va ad alimentare una inutile guerra tra poveri.
L'imperativo categorico della sinistra italiana”, conclude l’articolo,
“diventa l'accoglienza totalitaria, con
la scusa che dobbiamo accogliere perché il multiculturalismo fa bene, quando
invece limitare e regolare l’immigrazione dovrebbe essere il compito di
qualsiasi forza che voglia rappresentare e portare avanti gli interessi delle classi
popolari, le quali del resto chiedono delle regole a gran voce e sempre più
insistentemente”.
Ovviamente, neanche questo articolo, che pochissimi
leggeranno, sveglierà la sinistra dal suo coma culturale. Si continuerà a
spacciare la politica dell’accoglienza pura e semplice per politica “di
sinistra”, laddove essa è precisamente l’opposto: una politica funzionale agli
interessi dei più ricchi e dei più forti e contraria a quelli dei lavoratori,
siano migranti o cittadini italiani. Si continuerà a confondere il piano etico
con quello politico, senza comprendere che se è doveroso per un singolo o per
una chiesa, quando ne hanno la possibilità, soccorrere chi arriva in condizioni
di bisogno nel nostro paese e fuggendo, se non sempre dalla guerra, perlomeno
da condizioni di miseria, ben altra cosa è trasformare il dovere etico dell’accoglienza
in una politica. La politica non deve essere certo svincolata dall’etica, per
quanto mi riguarda, ma deve essere solidamente agganciata ad un’etica della
responsabilità, ad un’etica, cioè, che si preoccupa delle conseguenze delle
proprie azioni e non solo delle conseguenze immediate e particolari ma di
quelle generali e a medio o lungo termine. In altre parole, se io singolo
individuo, associazione o chiesa aiuto un migrante bisognoso il mio gesto
soddisfa sia l’etica dei principi che quella della responsabilità ed è un gesto
encomiabile. Ma se un governo, o lo stesso singolo cittadino quando esprime un’opinione
politica, o la stessa chiesa, quando passa dal livello della diaconia all’intervento
nel dibattito pubblico, sostengono come politica
l’accoglienza senza se e senza ma, l’accoglienza che non si traduce in
integrazione, seguono allora un’etica dei principi che nella sua astrattezza si
scontra catastroficamente con l’etica della responsabilità. Lasciando così alla
destra peggiore la denuncia di un problema che i lavoratori, senza certo
bisogno di leggere e conoscere Marx, avvertono sulla propria pelle e che non
deriva da nessun pregiudizio razziale, da nessuna ossessione xenofoba, ma dalle
crude leggi del mercato e dell’economia. Sarà allora solo questa destra, ed è
già in parte questa destra, a fornire ai lavoratori una chiave di lettura e una
presunta soluzione al problema.
Hanno quindi proprio ragione quelli di “la via culturale al
socialismo” (ai quali peraltro non affiderei mai il governo del paese, questo sia
chiaro, dato che in quel caso la loro via culturale si trasformerebbe immancabilmente
in una via già tristemente sperimentata), quando scrivono che “la verita è che
la sinistra se ne frega dei lavoratori perché non è fatta di lavoratori, ma è
fatta di benestanti radical chic, hipster, luminari da circolo
ricreativo e poco altro, impantanata tra la retorica del “buon migrante” e del
"fascioleghista", novelli Cappuccetto Rosso e lupo cattivo”.
Alla tua acuta, approfondita e calzante analisi vorrei soltanto aggiungere che sono proprio quelle da te ben spiegate nel finale del tuo pezzo le ragioni dei contrasti e delle divisioni all'interno dell'opinione pubblica sul tema dell'immigrazione, e cioè che ognuno di noi parla e si schiera in nome di un'etica esterna a quella che dovrebbe essere l'azione di governo. Il cattolico invoca la solidarietà incondizionata, il radicale invoca la reazione all'ordine economico internazionale, il conservatore invoca l'identità culturale ed etnica. E nessuno di loro mai, nessuno di noi, del tutto presi come siamo da quelle che tu bene definisci le nostre rispettive personali etiche di principi, si sente davvero parte dello Stato nazionale in cui viviamo, né ne ha davvero a cuore le sorti: è per questo che discutiamo tanto...
RispondiEliminaE qui sul nuovo problema dei migranti si innesta il vecchio e mai risolto problema della formazione di una coscienza nazionale. Grazie per i commento, Carlo.
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