sabato 16 gennaio 2016

I MIGRANTI "ESERCITO INDUSTRIALE DI RISERVA"



Vorrei partire da un commento alla più stretta attualità per poi cercare di fare una riflessione un po’ più profonda e arrivare a qualche problema strutturale. Ha fatto clamore, nei giorni scorsi, la pubblicazione sul sito gay. it di nomi e facce dei parlamentari del PD - cosiddetti catto-dem - contrari alle adozioni per le coppie omosessuali.  Si e’ parlato di “liste di proscrizione” e addirittura di un’ azione “squadristica”. Io credo che si sia trattato,  invece, di una sorta di azione lobbystica, condotta forse in forma alquanto brutale. Infatti, se si trattasse soltanto del tema delle unioni civili si dovrebbe parlare di una sacrosanta battaglia per i diritti, ma visto che la questione che divide, a quanto pare, è solo quella specifica delle adozioni in una coppia omosessuale, mi pare invece più corretto parlare appunto di una azione lobbistica. Il  problema è che riconoscere che, almeno in certi casi, le associazioni gay funzionano come una lobby porterebbe piu’ chiarezza nel dibattito pubblico, ma avrebbe un prezzo: significherebbe riconoscere che esse agiscono, in quei casi specifici, come portatrici di legittimi interessi e di un  legittimo punto di vista, ma non come soggetti protagonisti di lotte per i diritti o addirittura di "battaglie di civiltà" e di azioni rivolte al trionfo dell’amore cristiano. E significherebbe riconoscere che chi invece ha un altro punto di vista, non è necessariamente afflitto dal terribile morbo dell’omofobia, tantomeno si colloca fuori dalla civiltà e dalla legge dell’amore cristiano, ma ritiene che vadano considerati altri legittimi interessi, come quelli del bambino, questione la cui soluzione non è scontata, ma neanche può essere così sbrigativa come vorrebbero i fautori senza se e senza ma delle adozioni.
Ma vi è un’altra questione che è adombrata dalla iniziativa di gay.it.  Essa lascia trasparire ancora una volta, a pochi giorni dalle reazioni e dalle non-reazioni ai fatti di Colonia, le stridenti contraddizioni del fronte “progressista”. Vista, infatti, la nuova legge sul diritto di cittadinanza fortemente voluta da quei settori "progressisti" che sostengono anche le adozioni gay, visto che tale legge nei prossimi anni potrebbe dare diritto di voto a centinaia di migliaia di islamici, divenuti cittadini italiani, il sito gay.it dovrà prepararsi a pubblicare liste più numerose, che comprenderanno accanto agli attuali deputati di tendenza "catto-dem", nuovi deputati "islam-dem", probabilmente non favorevoli ai "diritti gay" ( e contrari anche ad altri diritti cari non solo ai progressisti, ma a qualsiasi buon cittadino occidentale).

La contraddizione sul terreno dei diritti è già emersa, ma è destinata a divenire esplosiva, salvo casi gravi, ma ancora episodici, solo nei prossimi anni. Vi è invece una contraddizione sul terreno economico-sociale che è già dirompente e riguarda gli effetti della massiccia ondata migratoria sulle condizioni del lavoro e dei lavoratori autoctoni. La sinistra, in tutte le sue articolazioni, ha sbrigativamente liquidato il problema, trattandolo come una mera mistificazione delle destre xenofobe. E ha contrapposto al rozzo slogan di queste ultime – che però fa molta presa sulla popolazione - “gli immigrati tolgono il lavoro agli italiani”, slogan altrettanto stolti, tipo “gli immigrati fanno i lavori che gli italiani si rifiutano di fare”, “gli immigrati rappresentano una risorsa per il nostro futuro”. Una risorsa lo sono certamente, ma per chi?
Sono anni che con profondo sconcerto noto che nessuno o quasi degli “intellettuali” progressisti ricorda certe fondamentali categorie del pensiero marxiano, che sarebbero invece utilissime oggi a dare una corretta lettura “da sinistra” del fenomeno dell’immigrazione e a progettare una politica coerente. Per esempio, la formidabile categoria di “esercito industriale di riserva”. Marx ne parla nel I libro del Capitale, riferendosi ai disoccupati. La disoccupazione, dice Marx in sostanza, non è un incidente di percorso dell’economia capitalistica e non è nemmeno legata alle crisi congiunturali, sebbene ovviamente sia più elevata in queste crisi, ma è un elemento strutturale dell’economia capitalistica. Il capitalista, infatti, deve investire il suo capitale sia in forza-lavoro – i salari pagati agli operai – sia in macchine, attrezzature tecnologiche, e oggi anche pubblicità, spese di marketing, ecc.. Il primo, secondo la definizione già data da David Ricardo, è il “capitale variabile”, il secondo è il “capitale fisso”. Ora mentre il capitalista può anche diminuire la spesa in capitale variabile, ossia la quota salari, mentre può trovare, ad esempio, aree del mondo ove il costo del lavoro è inferiore e l’investimento più conveniente, può far poco per diminuire la quota di capitale fisso, che invece tende immancabilmente a salire. Se un capitalista investisse di meno in macchinari, attrezzature o pubblicità sarebbe schiacciato dalla concorrenza. Dunque il capitale fisso non può che crescere. Ma se cresce il capitale fisso investito, diminuisce proporzionalmente il profitto del capitalista, perché aumentano i costi di produzione. Come se ne esce? In teoria è molto semplice, agendo sull’altra quota di capitale investito, il cosiddetto capitale mobile, la retribuzione dei lavoratori. Ovviamente non è facile convincere i lavoratori ad accontentarsi di salari più bassi, ma la disoccupazione è un efficace strumento di compressione dei salari. Marx definisce, infatti, i disoccupati “esercito industriale di riserva”, perché la loro semplice presenza fornisce ai capitalisti una formidabile arma nella lotta di classe contro i lavoratori, un’arma che consente di tener bassi i livelli salariali, sia con una sorta di ricatto psicologico (detto semplicemente: “sappiate che se protestate per avere salari più alti, potreste essere licenziati e allora assumerò quelli che sono disoccupati che certamente pur di lavorare si accontenteranno di essere pagati di meno”), sia, soprattutto, per una elementare legge dell’economia di mercato, che è la legge della domanda e dell’offerta. Dato che il lavoro è ridotto a merce, il suo valore – a cui corrisponde, in parte, il salario del lavoratore – tende a diminuire quando l’offerta supera la domanda, come avviene per ogni altra merce. E questa è appunto la condizione che si crea sul mercato del lavoro quando vi è una diffusa disoccupazione.
Se Marx fosse ancora vivo, capirebbe immediatamente che il sistema capitalistico è divenuto molto più complesso e che gli strumenti adottati dai capitalisti per tenere alti i profitti sono oggi più raffinati. Capirebbe immediatamente che dell’esercito industriale di riserva, oggi, non fanno più parte soltanto i disoccupati, ma anche le varie tipologie di lavoratori precari e i lavoratori “in nero”. La funzione di questo lavoro precario e in nero che si unisce all’esercito dei disoccupati veri e propri è però sempre la stessa: comprimere i salari dei lavoratori e con i salari anche diritti e garanzie (che per il capitalista hanno sempre un “costo”). Ora, il mio sconcerto è che nessuno o quasi si ricordi di questa analisi marxiana e capisca che gli immigrati vanno esattamente ad accrescere l’odierno esercito industriale di riserva, ponendosi oggettivamente in conflitto con gli altri lavoratori, non perché “rubano” loro il lavoro, ma perché, ovviamente loro malgrado, danno ulteriore forza alla parte che è già più forte nel conflitto sociale.
Ho detto quasi nessuno, perché finalmente ho trovato di recente un paio di eccezioni. Uno che si è ricordato dell’”esercito industriale di riserva” è l’antipaticissimo Diego Fusaro, filosofo da talk show, che tuttavia qualche libro l’ha letto e l’ha capito pure.
“L’esercito industriale di riserva dei migranti”, ha scritto Fusaro in ottobre, sul “Fatto quotidiano” “rappresenta un immenso bacino di manodopera a buon mercato, peraltro estranea alla tradizione della lotta di classe: permette di esercitare una radicale pressione al ribasso sui salari dei lavoratori, spezza l’unità – ove essa ancora sussista – nel movimento operaio e, ancora, consente ai padroni di sottrarsi ai crescenti obblighi di diritto al lavoro”. Per questo, “nella sua logica generale, l’immigrazione è oggi promossa strutturalmente dal capitale e difesa sovrastrutturalmente dalla “retorica del migrante” propria del pensiero unico”.
Perfetto, direi!
E con sintesi altrettanto lucida ed efficace, Fusaro coglie il motivo di fondo per cui, al di là della disorganizzazione, dell’incuria, dell’incompetenza, risulta così difficile trasformare l’accoglienza in integrazione: “il capitale non mira a integrare i migranti, aspira, invece, a disintegrare, tramite i migranti, i non-migranti, riducendo anche questi ultimi al rango dei primi”.
La retorica dell’accoglienza pura e semplice è quindi funzionale allo sfruttamento, tanto dei migranti che dei lavoratori autoctoni.
L’articolo di Fusaro, che in altri tempi avrebbe quantomeno suscitato un po’ di dibattito, è purtroppo caduto nel vuoto, nessuno, che io sappia, ha ripreso le sue tesi (magari per contestarle con argomentazioni!), eccetto un interessante sito, denominato “la via culturale al socialismo” . Ecco cosa si legge, tra l’altro, su queste pagine:

“Non sentiamo parlare mai di “competizione fra lavoratori” o “esercito industriale di riserva”, eppure queste categorie marxiane sarebbero utilissime per capire molti fenomeni, Marx infatti aveva capito che quel processo che noi oggi chiamiamo globalizzazione e che lui chiama fraternità universale, era in realtà “lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale.

Ma la sinistra odierna è troppo impegnata a scrivere post contro Salvini o a festeggiare Tsipras e le unioni civili della Grecia, scollandosi completamente dalla base storica del suo elettorato, non vedendo che queste politiche di accoglienza indiscriminata provocano solo una deregolamentazione del mercato del lavoro, il proliferare del caporalato nel Sud e una competitività sleale che va ad alimentare una inutile guerra tra poveri.
L'imperativo categorico della sinistra italiana”, conclude l’articolo,  “diventa l'accoglienza totalitaria, con la scusa che dobbiamo accogliere perché il multiculturalismo fa bene, quando invece limitare e regolare l’immigrazione dovrebbe essere il compito di qualsiasi forza che voglia rappresentare e portare avanti gli interessi delle classi popolari, le quali del resto chiedono delle regole a gran voce e sempre più insistentemente”.

Ovviamente, neanche questo articolo, che pochissimi leggeranno, sveglierà la sinistra dal suo coma culturale. Si continuerà a spacciare la politica dell’accoglienza pura e semplice per politica “di sinistra”, laddove essa è precisamente l’opposto: una politica funzionale agli interessi dei più ricchi e dei più forti e contraria a quelli dei lavoratori, siano migranti o cittadini italiani. Si continuerà a confondere il piano etico con quello politico, senza comprendere che se è doveroso per un singolo o per una chiesa, quando ne hanno la possibilità, soccorrere chi arriva in condizioni di bisogno nel nostro paese e fuggendo, se non sempre dalla guerra, perlomeno da condizioni di miseria, ben altra cosa è trasformare il dovere etico dell’accoglienza in una politica. La politica non deve essere certo svincolata dall’etica, per quanto mi riguarda, ma deve essere solidamente agganciata ad un’etica della responsabilità, ad un’etica, cioè, che si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni e non solo delle conseguenze immediate e particolari ma di quelle generali e a medio o lungo termine. In altre parole, se io singolo individuo, associazione o chiesa aiuto un migrante bisognoso il mio gesto soddisfa sia l’etica dei principi che quella della responsabilità ed è un gesto encomiabile. Ma se un governo, o lo stesso singolo cittadino quando esprime un’opinione politica, o la stessa chiesa, quando passa dal livello della diaconia all’intervento nel dibattito pubblico, sostengono come politica l’accoglienza senza se e senza ma, l’accoglienza che non si traduce in integrazione, seguono allora un’etica dei principi che nella sua astrattezza si scontra catastroficamente con l’etica della responsabilità. Lasciando così alla destra peggiore la denuncia di un problema che i lavoratori, senza certo bisogno di leggere e conoscere Marx, avvertono sulla propria pelle e che non deriva da nessun pregiudizio razziale, da nessuna ossessione xenofoba, ma dalle crude leggi del mercato e dell’economia. Sarà allora solo questa destra, ed è già in parte questa destra, a fornire ai lavoratori una chiave di lettura e una presunta soluzione al problema.
Hanno quindi proprio ragione quelli di “la via culturale al socialismo” (ai quali peraltro non affiderei mai il governo del paese, questo sia chiaro, dato che in quel caso la loro via culturale si trasformerebbe immancabilmente in una via già tristemente sperimentata), quando scrivono che “la verita è che la sinistra se ne frega dei lavoratori perché non è fatta di lavoratori, ma è fatta di benestanti radical chic, hipster, luminari da circolo ricreativo e poco altro, impantanata tra la retorica del “buon migrante” e del "fascioleghista", novelli Cappuccetto Rosso e lupo cattivo”.

2 commenti:

  1. Alla tua acuta, approfondita e calzante analisi vorrei soltanto aggiungere che sono proprio quelle da te ben spiegate nel finale del tuo pezzo le ragioni dei contrasti e delle divisioni all'interno dell'opinione pubblica sul tema dell'immigrazione, e cioè che ognuno di noi parla e si schiera in nome di un'etica esterna a quella che dovrebbe essere l'azione di governo. Il cattolico invoca la solidarietà incondizionata, il radicale invoca la reazione all'ordine economico internazionale, il conservatore invoca l'identità culturale ed etnica. E nessuno di loro mai, nessuno di noi, del tutto presi come siamo da quelle che tu bene definisci le nostre rispettive personali etiche di principi, si sente davvero parte dello Stato nazionale in cui viviamo, né ne ha davvero a cuore le sorti: è per questo che discutiamo tanto...

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    1. E qui sul nuovo problema dei migranti si innesta il vecchio e mai risolto problema della formazione di una coscienza nazionale. Grazie per i commento, Carlo.

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