giovedì 3 dicembre 2015

L'IS A 400 MIGLIA DALLA SICILIA



In attesa di approfondire il discorso sui fattori geopolitici che hanno favorito la nascita e l’ascesa dello Stato islamico e sulle risposte che è quindi possibile dare, un’anticipazione su una questione specifica, ma che ci riguarda molto, ma molto da vicino.

Secondo notizie riportate prima dal New York Times e poi anche da Maurizio Molinari su "La Stampa", lo Stato islamico starebbe rafforzando il suo presidio di Sirte in Libia,  trasferendovi tra l'altro una parte della sua leadership politico-militare. Si tratta, in particolare,  di alcuni colonnelli delle forze armate di Saddam Hussein, tra cui Abu Nabil al-Anbari, comandante nella battaglia di Falluja, una delle rarissime sconfitte militari, forse l'unica, subita dagli americani nella guerra irachena. Questi movimenti, insieme con una campagna propagandistica all'insegna dello slogan "non saremo meno di Raqqa", fanno supporre a fonti dell'intelligence l'intenzione di fare di Sirte una seconda capitale del Califfato.
Certamente ciò è dovuto a elementari ragioni di ordine strategico-militare: la coalizione anti-Isis pare intenzionata a intensificare l'offensiva contro Raqqa, la cui eventuale caduta segnerebbe uno scacco anche simbolicamente significativo per lo Stato islamico. Da qui forse il progetto di costituire a Sirte un secondo centro operativo e direttivo. La storia del Califfato del resto ha conosciuto vari trasferimenti della capitale - da Damasco a Baghdad a Istanbul - e l'Is potrebbe così reagire al possibile smacco militare con una controffensiva anche propagandistica.
D'altra parte, l'articolazione storica del Califfato prevedeva una regione del Maghreb distinta da quella dello Sham (Levante): Sirte diventerebbe dunque la capitale del Maghreb così come Raqqa - o un'altra citta siriana o irachena se Raqqa dovesse cadere - sarebbe capitale dello Sham.
C'è però da chiedersi se alla base del progetto non vi siano altre e più inquietanti motivazioni, come la volontà di costituire una capitale più vicina ai luoghi delle attuali e future offensive strategiche. Il primo di questi luoghi, per vicinanza geografica alla Libia, è la Tunisia. Non è un mistero che, dopo il recente attentato a Tunisi, la propaganda di al-Baghdadi abbia affermato che proprio la Tunisia dovrà essere la prossima conquista.
Il secondo luogo dell'offensiva strategica islamista, in ordine di vicinanza alla Libia, è però, disgraziatamente, l'Europa e più precisamente l'Italia. Sirte si trova a 400 miglia dalla Sicilia e non si tratta neanche solo di Sirte, perché,  come ha ricordato il New York Times, l'Is controlla ormai un tratto di costa, sull'omonimo golfo, di circa 150 miglia. Ciò conferma purtroppo che si preparano altri attentati in Europa,  che stavolta potrebbero avvenire anche nel nostro paese. Non può sfuggire la sincronia tra queste manovre dello Stato islamico e l'apertura del giubileo di papa Francesco. Un'azione terroristica a Roma, nel corso dell'anno santo, sarebbe per l'Is un successo simbolico ben più clamoroso degli stessi tragici attentati di Parigi.
In definitiva, sarebbe proprio da irresponsabili pensare che lo Stato islamico va combattuto solo in Siria e in Iraq, che in Europa bastino azioni di intelligence o limitarsi alle solite recriminazioni sulla dissennatissima operazione bellica che ha portato alla caduta di Gheddafi. Oltretutto, per sradicare lo Stato islamico da Sirte non occorre inviare truppe e neanche agire con bombardamenti inutili sul piano militare e devastanti per la popolazione civile. C'è già chi è pronto a "mettere gli scarponi sul terreno" per conto nostro ed è una forza ben più grande e affidabile dei curdi o delle milizie islamiche siriane non jihadiste: l'Egitto di al-Sisi. Uno dei due governi libici, quello di Tobruk, è sostanzialmente un'emanazione del regime militare egiziano, ma conta anche su vecchi esponenti del regime gheddafiano e su personalità ben note ai servizi segreti occidentali. 
Khalifa Belqasim Haftar, ad esempio, attuale uomo forte del governo di Tobruk, ha una storia molto interessante: partito come comandante del regime di Gheddafi, nella guerra contro il Ciad, fu preso prigioniero nel 1987 e passò sull’altro fronte: si arruolò nel contingente anti-libico organizzato dagli americani. Ha vissuto per venti anni negli USA, prendendo anche la cittadinanza di quel paese. Nel 2011 è tornato in Libia per organizzare l’insurrezione contro Gheddafi e pochi mesi fa è stato nominato dal governo di Tobruk Ministro della Difesa e capo di Stato maggiore, con lo specifico incarico di combattere le milizie islamiste. Evidentemente, non è quel che si dice un galantuomo, ma se l’Occidente vuole fronteggiare il jihadismo, senza tornare a una diretta occupazione coloniale dei paesi arabi, che nessuno vuole, che sarebbe anacronistica e probabilmente controproducente, non può che contare su uomini di questo tipo. Torna alla mente la celebre risposta che un giorno Franklin Delano Roosevelt, di sicuro uno dei presidenti meno cinici e più autenticamente democratici nella storia degli USA, dette a un suo consigliere. Si parlava dell’eventuale sostegno a uno dei tanti dittatorelli del Centro America e il consigliere di Roosevelt, sorpreso dalla disponibilità del Presidente, esclamò: “but, he’s a son of bitch!”. E Roosevelt, di rimando: “Yes, I know, but he is our son of bitch”. Se poi si trovasse un galantuomo capace di tenere a bada l’islamismo, sarebbe molto meglio, ma vista l’esperienza delle cosiddette “primavere arabe”, che sono state come vedremo più avanti uno dei fattori di esplosione del jihadismo, sarebbe meglio non farsi troppe illusioni.
Tutto ciò perché, quando pure si riuscisse a sradicare l’islamismo dalla Libia sul piano militare, occorrerebbe, però, avere le idee chiare anche sul dopo, sull'assetto politico della Libia futura. Occorrerà superare il dualismo fra i due governi, che ha consentito all'Is di radicarsi nella zona intermedia, e questo lo si può fare o favorendo una riconciliazione,  ossia un compromesso,  se sarà possibile, o semplicemente abbandonando al suo destino il governo di Tripoli.
 Del resto, se si vuole combattere l'Is non contro, ma insieme all'Islam - moderato o meno che lo si voglia definire - come si dice e come è certamente necessario - che cosa c'è di meglio dell'Egitto di al-Sisi, unico non ambiguo nemico islamico sunnita dello Stato islamico e partner di fatto anche di Israele?
Certamente, occorrerà la nascita di un regime libico, stretto alleato dell'Egitto e possibilmente anche della Tunisia, ma guidato da uomini capaci di gestire la complessa geografia antropologica e politica delle tribù e dei clan, come Gheddafi ha fatto per decenni. A quest' uomo o a questi uomini si potrà e si dovrà chiedere di non essere dei tiranni sanguinari, ma, come dicevamo, non ci si può aspettare che siano leader democratici. Al momento c'è una certa incompatibilità fra il mondo arabo-islamico e la democrazia, almeno questo dovremmo averlo imparato.
Infine, trattandosi della Libia e non di Siria o Iraq, il premier Renzi non potrà permettersi di fare ancora il pesce in barile: meglio prepararsi ad accogliere a Roma, nel suo improvvisato accampamento beduino, il futuro uomo forte libico che vedersi arrivare i kamikaze dello Stato islamico.

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