lunedì 23 novembre 2015

IL CONSENSO ALLO STATO TOTALITARIO ISLAMICO E LA CECITA' DELL'OCCIDENTE



Veniamo al problema, centralissimo, del "consenso" allo Stato islamico. Infatti, come i precedenti e funestissimi regimi totalitari, anche l'IS non si regge solo sul terrore e la violenza. E' evidente che il consenso di cui si parla è ampiamente e spesso totalmente manipolato dal condizionamento propagandistico, dalla pressione sociale e dallo stesso terrore. Questo però nulla toglie ed anzi molto aggiunge alla sua efficacia come strumento di sostegno e di potenza dell'IS. È opportuno qui distinguere, esattamente come nel caso del fascismo e del nazismo, tra il consenso di quella limitata ma assai significativa percentuale di veri e propri militanti, ossia i jihadisti propriamente detti, e il consenso più o meno diretto, più o meno esplicito, ma altrettanto decisivo, di un'area ben più vasta della popolazione musulmana. Renzo De Felice, il noto storico del fascismo,  parlerebbe rispettivamente di "consenso attivo", nel primo caso, e di "consenso passivo", nel secondo. La terminologia non è forse felicissima, ma la distinzione resta importante.

La psicologia e l'antropologia dei jihadisti - partiamo quindi dall'area del "consenso attivo", resta largamente misteriosa, ma non del tutto indecifrabile. Propongo di utilizzare in questo caso la brillante analisi di Hannah Arendt svolta ne Le origini del totalitarismo. La Arendt partiva dal fenomeno della disintegrazione e dell'atomizzazione che caratterizzano la società di massa novecentesca. Risultano distrutte le tradizionali relazioni comunitarie, personali e dirette, in favore di moderni rapporti sociali, impersonali e indiretti, che però non includono ancora ampi strati sociali. Si può dire, utilizzando stavolta le note categorie di un classico della sociologia, quello di Tonnies (Gemeinschaft und Gesellschaf, 1887), che molti individui risultano sradicati dalla Gemeinschaft (comunità), senza ancora integrarsi nella Gesellschaft (società). E' il tipo dell'uomo-massa, come lo chiama la Arendt, isolato da ogni relazione sociale istituzionalizzata o formalizzata e da ogni appartenenza di gruppo: non è iscritto a partiti o a sindacati e neanche a società, organizzazioni, club di altro tipo (professionale, ricreativo, solidaristico, spirituale), ove si condividano idee o interessi. Nell'uomo- massa, disdegnato dalle organizzazioni politiche e sindacali moderne prime fra tutte quelle della sinistra, i regimi totalitari, e soprattutto il nazismo, seppero invece vedere una formidabile e ampissima base di proselitismo e reclutamento. I totalitarismi - ieri il fascismo, oggi lo Stato islamico - offrono a questa massa sradicata un fortissimo legame comunitario, imperniato, come si è visto, su una ideologia totalizzante, un organizzazione militare o militaresca, un leader carismatico, una pianificazione capillare della propria esistenza che abbatte anche il confine tra pubblico e privato.
Questa analisi, qui solo rapidamente accennata, è utile a mio avviso a comprendere almeno il contesto iniziale di reclutamento,  o come si ama dire di "radicalizzazione", dei giovani jihadisti. Il modello interpretativo ha tra l’altro il merito di spiegare come mai il proselitismo dell'Is sembri riscuotere i  maggiori successi tra individui residenti nei paesi dell'Europa occidentale, spesso immigrati di seconda generazione. Sono proprio questi, infatti, che si trovano nel limbo di quella situazione di sradicamento dalle tradizionali relazioni comunitarie e di non integrazione nelle relazioni sociali del paese d'adozione. È su di loro che agisce più potentemente il richiamo dell'integrazione comunitaria islamista. Questa, sia chiaro, non è la "causa" della loro scelta jihadista, ma il terreno e il contesto su cui e in cui essa avviene. Confondere il contesto e le condizioni con la causa è un grave errore concettuale, che non solo pregiudica la corretta analisi del fenomeno, ma apre la porta a più o meno latenti teorie "giustificazioniste" e vittimistiche. Va anche precisato che lo sradicamento di cui qui si parla non necessariamente coincide con uno stato di povertà o di emarginazione sociale conclamata. Spesso anzi si tratta di persone con un reddito dignitoso e talora con un titolo di studio e un lavoro. Inoltre, lo specifico - tragico - della massa militante dello Stato islamico, rispetto a quella dei precedenti totalitarismi, è la disponibilità a "sacrificarsi" per la causa, non se e quando le circostanze esterne lo richiedessero, ma in modo deliberato e pianificato. Da qui le azioni suicide. Questa specificità dipende dalla particolare ideologia che è alla base del totalitarismo islamico. Ancora una volta, il fattore religioso si rivela quindi determinante.

Passiamo ora al secondo livello del consenso, quello non attivo, non militante, non fanatico, ma che coinvolge un’area molto più vasta della popolazione. Questo secondo livello è decisivo: un regime totalitario non sopravvivrebbe a lungo se dovesse fondarsi solo sul terrore e la repressione violenta, ma nemmeno potrebbe reggersi sul consenso della sola e ristretta base militante. Il sostegno di questa ben più ampia area della popolazione, una sorta di “palude” o zona grigia, ha però tratti ben diversi: è sfaccettato, per certi versi ambiguo, ha elementi contraddittori ed è certamente meno solido rispetto al consenso militante. Di solito dura finché dura il successo del regime. Esso però è essenziale alla politica del regime e all’azione dell’area militante: la metafora dei pesci che hanno bisogno dell’acqua per nuotare – anche se l’acqua è la condizione, ma non la causa efficiente del loro movimento – è molto efficace e torneremo ad utilizzarla a breve.
Le forme in cui si manifesta pubblicamente questo consenso, chiamiamolo pure “passivo” in mancanza di una migliore terminologia, sono assai varie: si va dalle manifestazioni di giubilo per gli attentati di Parigi, che abbiamo rivisto nelle città palestinesi a lugubre ripetizione di analoghe manifestazioni seguite all’11 settembre 2001, alla reticenza assoluta a prendere qualunque posizione, ad una condanna generica del terrorismo, ma con la precisazione che l’islam non ha niente a che vedere con esso.
Per capire meglio, è forse utile il riferimento ad una situazione storica che ci è meglio nota, quella del regime fascista. Durante il Ventennio, i fascisti convinti, i veri e propri attivisti erano certamente una ristretta minoranza, così come una piccola minoranza erano gli antifascisti convinti e militanti. In mezzo, la gran parte della popolazione non era certo antifascista – ci riferiamo al periodo che precedette la guerra e alla primissima fase di questa – ma neanche si poteva definire fascista, in quanto condivideva in modo convinto soltanto alcuni elementi della politica e dell’ideologia fascista, era disincantata su altre cose e perfino diffidente o silenziosamente avversa ad altre ancora. Una situazione analoga mi pare che si possa fondatamente ipotizzare nei rapporti fra le masse islamiche e l’Is, certamente riguardo alla popolazione che vive nei territori direttamente controllati da questo, ma anche per una parte rilevantissima degli altri musulmani, quelli che vivono in altri paesi arabi e in Europa.
Va notato che questa area del “consenso passivo” è un’area per definizione “moderata”: erano moderati, infatti, gli italiani di cui parlavamo, quelli che non erano né antifascisti, né propriamente fascisti. Da ciò si capisce che è proprio un non senso la contrapposizione fra il jihadismo e il cosiddetto islam moderato, in quanto quest’ultimo, nella misura in cui esiste, può in buona parte ricadere in quell’area grigia che, sia pure in modo parziale, passivo, indiretto e ambiguo fornisce un supporto allo Stato islamico e  alle sue iniziative criminali.
Gli elementi strutturali del consenso allo Stato islamico in questa area del consenso passivo sono sicuramente molteplici. Vorrei limitarmi a sottolinearne tre, forse i più misconosciuti dall’opinione pubblica occidentale. Il primo, che riguarda le popolazioni islamiche che vivono in territori controllati dall’Is, è quella sorta di welfare state di cui si parlava nel precedente articolo: l’Is provvede a bisogni essenziali della popolazione, in aree che hanno conosciuto parecchi anni di devastazione della vita civile.
Il secondo elemento è l’uso del terrore, delle esecuzioni capitali e degli attentati, non solo a fine repressivo o militare, ma anche a scopo propagandistico e di proselitismo: i filmati sugli sgozzamenti così come gli attacchi terroristici di Parigi hanno purtroppo questa duplice valenza. Il tragico messaggio non è rivolto solo a noi occidentali, ma anche ai musulmani e tende ad essere in direzione di questi ultimi una rassicurante esibizione di potenza e un elemento di galvanizzazione, di mobilitazione e persino di riscatto.
Il terzo elemento è la proclamazione del califfato e agisce su tutto il mondo islamico, in special modo arabo, ben oltre gli incerti e mutevoli confini dello Stato islamico. Si questo terzo punto il discorso deve essere necessariamente un po’ più articolato.
Noi occidentali non riusciamo a capire che cosa significhi per un arabo la rinascita di questa istituzione e tendiamo a ridurre ad una iniziativa propagandistica o addirittura meramente folkloristica l’annuncio di Al-Baghdadi del giugno 2014. E’ un altro grave errore di sottovalutazione.
Il califfato – mi scuso con chi troverà scontate queste scarne annotazioni – è un mito fondativo che ha però una solida base storica. L’istituzione risale al periodo immediatamente successivo alla morte di Maometto; califfo fu già proclamato il primo successore del Profeta e la parola araba del resto significa proprio successore o luogotenente: successore di Maometto, ma anche e soprattutto luogotenente e rappresentante di Allah in terra. Il califfato rappresenta la umma, ossia l’unità politica della comunità islamica. Esso passa attraverso le dinastie degli Omayyadi e degli Abbasidi per poi restare saldamente nella mani del Sultano turco, fino al crollo definitivo dell’Impero Ottomano, che segnerà, nel 1924, l’abolizione della plurisecolare istituzione.  La delusione storica è cocente, non solo per le masse islamiche turche, ma anche e soprattutto per quelle arabe, che si erano illuse di riprendere nelle loro mani il califfato (e la politica britannica durante la Grande Guerra, per fomentare la rivolta araba contro gli Ottomani, aveva alimentato questa loro illusione). E’ proprio come reazione a questa delusione che nasce il primo gruppo fondamentalista dell’epoca contemporanea – i Fratelli musulmani, in Egitto– il quale si propone proprio la restaurazione del califfato. L’indipendenza presto raggiunta dagli stati arabi e poi l’affermazione del nazionalismo laico e modernizzante sembravano però aver definitivamente relegato nella soffitta della storia questi sogni di restaurazione. Essi cominciano a riprendere una qualche consistenza con Al Qaeda: l’idea che Bin Laden punti a una tale restaurazione comincia ad essere profilata, ma pare smentita da quelle poche notizie attendibili e dalle valutazioni che si possono fare dei suoi probabili progetti. Bin Laden mira essenzialmente a un rovesciamento dei regimi arabi moderati, a cominciare da quello del suo paese, l’Arabia Saudita. L’attacco all’Occidente in fondo non è il fine, ma il mezzo per raggiungere questo obiettivo e solo ad obiettivo raggiunto, eventualmente, si potrebbe ipotizzare per lui la proclamazione del Califfato. Bin Laden, alla fine, è un fanatico estremista riguardo ai mezzi utilizzati nella sua lotta politica, ma ha obiettivi circoscritti e una strategia che prevede una gradualità nell’azione e anche una certa prudenza e accortezza (abbiamo accennato al rifiuto di attaccare gli sciiti), che sono quasi da leader secolarizzato. L’Is ha invece un progetto totalitario di dominio globale: la successione dei vari passaggi si inverte e la proclamazione del califfato diventa la prima e non l’ultima tappa.
Nel contempo, la visione propagandistica dell’Is è decisamente superiore a quella di Al Qaeda: il semplice annuncio della rinascita del califfato ha un fortissimo impatto sulle masse arabe, come racconta egregiamente Maurizio Molinari.

Un quarto fattore di consenso, questo invece notissimo in Occidente ed anzi rilanciato da settori della stessa opinione pubblica occidentale, ma catastroficamente equivocato, è il risentimento contro le reali o presunte colpe dell’Occidente stesso, in quello che si potrebbe definire un processo di vittimizzazione delle masse arabe. Questo processo è sicuramente un potente fattore di consenso e di mobilitazione ed è forse il più rilevante elemento dello stesso “consenso passivo”: tantissimi musulmani, singolarmente presi del tutto pacifici, sono riluttanti a condannare il terrorismo o lo fanno in modo reticente e con mille riserve, proprio perché ritengono che esso sia una risposta, magari sbagliata, ai soprusi subiti. L’equivoco catastrofico di tanti occidentali sta però nel non capire che si tratta di una ricostruzione mitologica a uso propagandistico, perché, sebbene le vecchie potenze coloniali e gli USA abbiano gravi responsabilità nella gestione della situazione mediorientale ed abbiano commesso pesanti errori, queste responsabilità e questi errori non sono all’origine dell’integralismo islamico e tantomeno del jihadismo – che partono principalmente da fattori endogeni alle società arabe -  ma hanno solo contribuito ad alimentarlo e a diffonderlo. Questo non serve ad assolvere dai loro errori i governi occidentali, ma dovrebbe servire a prevenirne altri di errori: una diagnosi errata porta fatalmente a una terapia inefficace se non dannosa.
Il processo di vittimizzazione delle masse islamiche va piuttosto visto come una costruzione ideologica, fondata certamente su alcuni dati storicamente reali che vengono però ampiamente manipolati, di cui si servono i leader e i predicatori islamisti a fine propagandistico. Ha la stessa funzione che ebbero, nel fascismo e nel nazismo, la denuncia del pericolo (inesistente) di una imminente rivoluzione bolscevica da cui fascismo e nazismo avrebbero salvato i rispettivi paesi, o l’enfasi del nazionalismo italiano sui presunti soprusi subiti alla fine della Grande guerra (il mito della “vittoria mutilata”), per non parlare del famigerato complotto giudaico o “pluto-giudaico-massonico”. Prendere integralmente per buona la costruzione ideologica che alimenta il jihadismo e addirittura rilanciarla è forse la più tragica manifestazione dell’instupidimento collettivo dell’Occidente.

Questo abbozzo di analisi, dovrebbe portare ad alcune immediate conseguenze pratiche. Anzitutto, permette di comprendere molto meglio la natura dello Stato islamico e dunque i suoi reali obiettivi. La restaurazione del Califfato ha come primissimo scopo la reintegrazione della umma nei suoi confini storici. Essa si articolava in tre macro-regioni: lo Sham (Levante), che comprendeva l’area mesopotamica attuale Iraq e gli attuali territori di Giordania, Siria, Libano, Palestina, Israele; il Maghreb (Nord-Africa), dall’Egitto al Marocco, con i territori conquistati sull’altra sponda del Mediterraneo (Sicilia, penisola iberica…); l’Hegiaz (penisola arabica).
Di conseguenza, il neo-proclamato califfato rinnega i confini venuti fuori dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano e dalla decolonizzazione in Africa e intende restaurare questa articolazione della umma. Il primo passo è stato proprio la costituzione dell’Isis (acronimo di “Stato islamico del Levante). Era quindi prevedibile che dal nucleo originario in Iraq, l’Is, approfittando della guerra civile, si espandesse in Siria, ed è altrettanto prevedibile che esso utilizzerà ogni occasione favorevole, magari creata improvvidamente dalle potenze occidentali, per espandersi nelle altre regioni dello Sham (tra le quali, piccolo particolare, c’è anche Israele).
Altrettanto prevedibile era l’espansione nel Maghreb: l’Egitto è stato aggirato, salvo la penisola del Sinai che è stata solidamente occupata, in quanto è forse l’unico paese arabo seriamente impegnato a fronteggiare la minaccia – dopo il fallimento della “primavera araba” e la liquidazione del governo islamista dei “Fratelli musulmani”; l’Is è così sbarcato in Libia. Non si riesce a immaginare un esito più scontato, eppure dopo la disastrosa operazione contro il regime di Gheddafi, non si è fatto nulla per evitarlo. L’Hegiaz per il momento non viene toccato, se non altro perché da qui provengono i finanziamenti al Califfato.
Il progetto espansionistico dello Stato islamico non si limita a questo, purtroppo, data la sua essenza totalitaria sulla base dell’ideologia coranica. Tale ideologia coranica divide il mondo in due: dar al-islam, casa dell’islam, che coincide con la umma, e dar al-harb, casa della guerra, che è il territorio abitato e governato dagli “infedeli”. Il progetto è totalitario e globale perché prevede esplicitamente la progressiva conquista della “casa della guerra”, ossia delle nostre nazioni e delle nostre città. E’ totalitario perché non punta solo, e neanche in primo luogo, al dominio politico e militare, ma alla islamizzazione della società e delle coscienze, con la repressione e sottomissione o l’eliminazione fisica di ogni diversità culturale e religiosa, e l’estensione della sharia al mondo intero. Quali siano le effettive possibilità di realizzazione del progetto non è il primo punto da discutere, come non era il primo punto da discutere la possibilità concreta di realizzazione del sogno di dominio planetario del Terzo Reich. Il primo punto è la presa di coscienza del reale proposito dello Stato islamico. Un proposito che è già in atto, tragicamente, nei territori controllati, ove è in atto la pulizia etnica delle minoranze considerate idolatre e la persecuzione dei cristiani: va precisato che il regime del dhimmi, a cui sono sottoposti per esempio i cristiani caldei, poteva essere relativamente tollerante nel Medioevo, ma va oggi considerato una vera e propria persecuzione religiosa: chi non vuole o non può pagare la tassa può solo scegliere tra la fuga e il martirio. Chi paga la tassa vede limitate comunque quelle libertà e quei diritti che la nostra civiltà considera inviolabili, compresa la libertà religiosa: le chiese distrutte non si possono ricostruire, non se ne possono costruire di nuove e quelle esistenti non possono essere ampliate o ristrutturate; il culto non può essere pubblico, ma è di fatto semiclandestino, non si può svolgere alcuna attività di evangelizzazione.
Il fatto che le chiese cristiane occidentali parlino così poco di questa persecuzione ai danni dei cristiani del Medio Oriente – ove sono alcune delle comunità più antiche del cristianesimo – mentre denuncino di continuo il presunto pericolo dell’islamofobia nelle nostre società tolleranti e nel nostro stato di diritto, merita una sola parola di commento: indecente.
Va poi sottolineato con forza che oggi, diversamente dai secoli scorsi, la umma è diffusa anche nella “casa della guerra”, ossia in mezzo a noi, e l’operazione di conquista totalitaria si serve di essa, puntando a trasformare gli immigrati islamici in reclute del terrorismo jihadista o comunque suoi collaboratori. Non prendere atto di questo disegno, nemmeno dopo i tragici attentati di Parigi, è davvero sconcertante. Occorre anche registrare il fatto che almeno tre dei nove attentatori di Parigi hanno seguito la rotta dei migranti lungo la Turchia, la Grecia e i Balcani, rotta che si è aperta questa estate, e si può facilmente ipotizzare che lo Stato islamico abbia contribuito a dirottare il flusso dei migranti su quella via e ad enfatizzare strumentalmente l’emergenza stessa, con la complicità di sicuro di tutte le mafie che lucrano sui migranti. La presa d’atto non può portare a reazioni semplicistiche – né l’impossibile chiusura delle frontiere alla Salvini, né l’accoglienza “senza se e senza ma” della Boldrini – ma richiede risposte serie.

La seconda conseguenza pratica di questo abbozzo di analisi riguarda il problema del consenso all’islamismo jihadista. Occorre certamente agire sull’area del consenso attivo e militante, cosa che si fa ancora poco e male, ma occorre anche porsi il problema della ben più vasta area del consenso “passivo”, cosa che invece non si fa per nulla, continuando a negare e ad esorcizzare il problema dietro lo schermo di slogan e formulette retoriche. Ne è un buon esempio il caso delle manifestazioni islamiche contro il terrorismo dell’altro giorno. Annunciate e presentate come la dimostrazione che l’islam non ha niente a che vedere con il terrorismo e che la stragrande maggioranza degli islamici che vivono in Italia, per non dire la quasi totalità, non sono neanche minimamente coinvolti nel retroterra del jihadismo, hanno avuto un esito a dir poco sconfortante: meno di 1000 persone a Roma, meno di 400 a Milano (su quasi 2 milioni di musulmani che vivono in Italia) e in questi numeri sono compresi parecchi militanti dell'estrema sinistra italiana scesi in piazza per denunciare non il terrorismo ma la vendita delle armi e magari l’imperialismo occidentale e “sionista”, nonché gli amici del deputato PD marocchino che ha fatto il suo comizio e un manipolo di politici e sindacalisti in cerca di visibilità e consensi (da Fassina a Casini alla Camusso). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo; l'"islam è pace"; "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri cittadini israeliani, intenti ad aspettare un bus o a pregare, smentivano in diretta gli stessi slogan. Due ragazzine col velo – la foto è stata riportata da tutti i giornali e siti web – imbracciavano un cartello con su scritto “not in my name”, ma una delle due indossava una maglietta inneggiante all’Intifada e ad Hamas. Il sorriso sornione stampato sui loro volti diceva tutto.
Ma soprattutto, da queste manifestazioni e dalle dichiarazioni degli esponenti islamici dopo le stragi di Parigi non è giunto alcun aiuto  a capire la genesi del fenomeno dall’interno dell’islam stesso, che è un fatto indubitabile. Neanche una Rossana Rossanda islamica che abbia perlomeno riconosciuto che i terroristi “fanno parte del nostro album di famiglia”.
Una sola denuncia di una cellula o di un singolo militante jihadista da parte di qualche membro della comunità islamica – una sola denuncia – sarebbe molto più eloquente di altre mille manifestazioni come quelle di sabato scorso nel dare sostanza a quegli slogan. Ma questa denuncia, purtroppo, non mi risulta che ci sia ancora mai stata.
Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano, e nessuno a quanto pare ha voglia di toglierla. Anzi, non ci si pone neanche il problema, il che è ancora più preoccupante. Casini). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla. Casini). Slogan prevedibili, retorici e inutili: "no al terrorismo:, l'"islam è pace", "no all'islamofobia". Le solite bandiere palestinesi che mentre contemporaneamente venivano accoltellati altri israeliani smentivano in diretta gli stessi slogan. Quando ancora si ragionava, dicevamo che per sconfiggere il terrorismo "bisogna togliere l'acqua in cui nuotano i pesci". Ecco, l'acqua in cui nuotano i pesci-terroristi jihadisti e' tanta, e' un oceano e nessuno ha voglia di toglierla.

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