lunedì 9 novembre 2015

FELICITA' E INFELICITA': UNA PROSPETTIVA TEOLOGICA


Quando la felicità o, più spesso, l’infelicità, quando il bene radicale o, più di frequente, il male radicale irrompono d’improvviso nella vita degli uomini, sovvertendola, i credenti – e talora anche i non credenti che si interrogano sulla religione e sulla fede – tendono a chiedersi quale parte abbia Dio in ciò che accade, quale relazione vi sia fra Dio e il loro bene, la loro felicità o, più spesso, tra Dio e il loro male, la loro infelicità.  A questi interrogativi, che in fondo rientrano nello smisurato problema del male e nella questione filosofico-teologica della teodicea, si danno spesso risposte superficiali e ci si lascia imprigionare nell’angustia dei pregiudizi, del pensiero dominante o dell’urgenza del momento.

Ciò non accadde di sicuro a Dietrich Bonhoeffer, che ora ci guiderà in una riflessione più profonda sulla questione. Bonhoeffer intitolò Felicità e infelicità  (Glück und Unglück) una delle sue dieci poesie, scritte nella prigione nazista e nell’ultimo anno della sua breve vita. Questa poesia potrebbe essere la seconda che scrisse, in ordine cronologico; di certo viene dopo quella intitolata Passato. E in questa sua prima composizione, il tema di Bonhoeffer è appunto il passato, che nella sua condizione di prigioniero, con pochissime possibilità di salvarsi, gli viene sottratto;  o meglio, il tema è la vita passata, pienamente vissuta, se non addirittura felice, che ora gli è stata sequestrata, espropriata. Quella vita passata che ritorna con i volti e le parole delle persone care – i genitori, la giovane fidanzata, il suo amico fraterno e interlocutore teologico Eberhard Bethge, che aveva sposato una sua nipote; torna nelle brevi e rare visite che sono loro concesse e negli scambi epistolari. Il problema di Bonhoeffer non è solo quello che avrebbe afflitto ogni uomo nella sua situazione – come vivere questa devastazione della propria esistenza, come sopportarla – ma è il problema dell’uomo Bonhoeffer che è inseparabile dal credente e dal teologo: come interpretare e come vivere teologicamente la sua tragica condizione, ossia come viverla in relazione con Dio. Che parte aveva avuto il Signore nella vita pienamente vissuta fino al giorno dell’arresto e che parte aveva ora nella sua esistenza di carcerato, forse prossimo alla morte? Ecco, innanzitutto, la poesia.



Felicità ed infelicità

Che rapide ci colgono e ci dominano

Esse sono, all’inizio

Come il caldo e il freddo al primo contatto

Così vicine da non distinguersi quasi



Come meteore

Scagliate da distanze ultramondane

Percorrono luminose e minacciose il loro corso

Sopra il nostro capo

Chi ne è colpito sta, sbigottito,

davanti alle macerie

della sua quotidiana, grigia esistenza.



Grandi e sublimi,

distruttrici, vittoriose,

felicità e infelicità,

invocate o no,

fanno il loro solenne ingresso

tra gli uomini sconvolti,

ornano e rivestono

coloro che colpiscono.

Da lontano, da vicino,

accorre gente intorno, guarda

a bocca aperta,

parte con invidia, parte con orrore

il portento

nel quale l’ultraterreno,

portando insieme benedizione e annientamento,

si offre come sconcertante, inestricabile

spettacolo terreno.

Che cos’è la felicità, che cos’è l’infelicità?



Solo il tempo le separa

Quando l’evento improvviso

Che avviene incomprensibilmente

Si muta in durata spossante, tormentosa

Quando le ore del giorno che scorrono lentamente

Ci svelano la vera immagine dell’infelicità

Allora i più si allontanano

Delusi e annoiati

Stanchi per la monotonia

Dell’infelicità ormai di lunga data



Questa è l’ora della fedeltà

L’ora della madre e dell’amata

L’ora dell’amico e del fratello.

La fedeltà rischiara ogni infelicità

E la ricopre delicatamente

Di dolce

Ultraterreno splendore.



Ma, ci chiediamo, dov’è Dio qui? Non a torto Felicità e infelicità è stata definita una “poesia mondana” (weltliches Gedicht), e questo suo carattere risalta soprattutto se si guarda alla conclusione, alla risoluzione del dramma, che arriva con il pensiero della “fedeltà” (der Treue) delle persone care, della madre e dell’amata, dell’amico e del fratello. Eppure, a ben vedere, Bonhoeffer sembra che lasci balenare qua e là qualche segno enigmatico di una presenza superiore: felicità e infelicità sono scagliate “come meteore/ da distanze ultramondane”;  “sembrano venire l’una e l’altra dall’eterno”; il loro abbattersi sulle vite degli uomini è “un portento” nel quale “l’ultraterreno” porta insieme benedizione e annientamento; infine, “la fedeltà” ricopre ogni infelicità di “dolce, ultraterreno splendore” (es leise in milden, überirdischen Glanz). Sono indizi che non ci forniscono ancora delle risposte, ma stimolano la nostra curiosità, mobilitano il nostro pensiero. La stessa funzione sembrano avere certe aporie e certi apparenti paradossi: felicità e infelicità sembrano qui quasi pareggiate, mentre dovrebbero essere due opposti impossibili da conciliare. Certo, fino a un certo punto l’accostamento è ben comprensibile: entrambe, quando si esprimono in tutta la loro potenza e nel modo più radicale, si abbattono improvvise – fanno “il loro solenne ingresso” - sulle nostre esistenze e le sconvolgono, lasciandoci “sbigottiti”. Anche la felicità, in fondo, o forse soprattutto essa riduce in “macerie” la nostra “quotidiana, grigia esistenza”. Ma come si può dire che all’inizio esse quasi non si distinguono l’una dall’altra? E soprattutto che sembrano venire entrambe dall’eterno, “indivise”? Forse, Bonhoeffer esprime qui il tradizionale e convenzionale pensiero religioso che vede nell’infelicità il castigo per i nostri peccati oppure la croce che dobbiamo portare nella nostra esistenza cristiana? In tal caso, però, felicità e infelicità potrebbero sì provenire entrambe da Dio, ma per motivi e scopi diversi, restando opposte e non certo “indivise”.

Un profondo e rigoroso studioso delle poesie di Bonhoeffer, Jürgen Henkys, individua una traccia per la comprensione teologica di questo componimento già in un appunto lasciato da Bonhoeffer su uno dei fogli manoscritti dell’Etica, l’opera a cui stava lavorando quando venne arrestato. “L’amore è al di là di felicità e infelicità” (“Liebe jenseits von Glück und Unglück”), scrive Bonhoeffer, citando, in realtà, il filosofo berlinese Nicolai Hartmann. Secondo costui, amore e felicità stanno certamente bene insieme, ma sul piano etico la presenza o meno della felicità in amore non è decisiva, anzi è del tutto secondaria. Si pensi all’amore infelice, che è pur sempre amore. D’altra parte, ciò che vale per la felicità, vale anche per il suo opposto, ossia per l’infelicità: fortunatamente, nemmeno questa è decisiva per qualificare l’amore. E tuttavia, se è vero che l’amore è “al di là di felicità e infelicità” è pure innegabile che esso si accompagna all’una e all’altra, è piacere e sofferenza insieme. Il rapporto che ha Dio con la felicità e l’infelicità delle nostre esistenze è analogo, come ora vedremo. D’altra parte, nella I lettera di Giovanni, si dice appunto che “Dio è amore”.

Ma ecco un’altra traccia, individuata da Henkys, quella forse decisiva. Bonhoeffer parla per la prima volta all’amico Eberhard Bethge dei suoi “tentativi poetici” in una lettera degli inizi di giugno del 1944. Pochi giorni prima, aveva inviato allo stesso amico e alla giovane sposa Renate (che, come si diceva, era poi la nipote del teologo) tre brevi meditazioni bibliche, in occasione del battesimo del loro primogenito. La terza meditazione è su Genesi 39, 23: “Il Signore era con Giuseppe e dava felicità a tutto ciò che egli faceva”. Bonhoeffer legge la traduzione di Lutero della Bibbia, ove effettivamente il verbo ebraico (maṣlîḥa – participio hifil - che precisamente significa “faceva riuscire”, ossia dava successo) viene tradotto con “dava felicità” (der HERR war mit Joseph, und was er tat, dazu gab der HERR Glück).

Da notare che Giuseppe era in prigione, proprio come Bonhoeffer! Il suo commento a questo versetto inizia così: “Dio segna alcuni dei suoi figli con la felicità, egli lascia che a loro tutto riesca… dà loro un grande potere sugli uomini e lascia che attraverso loro sia portata a compimento la sua stessa opera. Certamente anche costoro devono attraversare il tempo della sofferenza e della prova. Ma pure da ciò che gli uomini cercano di far loro di malvagio, Dio ne fa uscire il bene”. Poi, però, aggiunge “Altri suoi figli Dio li segna con la sofferenza fino al martirio”. Qui davvero l’occasione lieta e l’affetto per la giovane coppia e per il loro neonato non consentono a Bonhoeffer di oltrepassare del tutto la sua condizione e la nuda perentorietà del pensiero espresso ci dà davvero i brividi, se pensiamo che in esso vi è una lucida preveggenza del proprio imminente destino.

Il ragionamento teologico, tuttavia, oltrepassa subito la tragica vicenda personale. “Dio”, continua Bonhoeffer, “ si allea con felicità e infelicità (Gott verbündet sich mit Glück und Unglück), per portare gli uomini sulla sua via  (Weg) e verso la sua meta (Ziel). La via dice: osserva il comandamento di Dio; e la meta dice: noi restiamo in Dio e Dio in noi”. Questo pensiero lo porta ancora oltre: “Felicità e infelicità giungono al loro compimento nella beatitudine (Seligkeit) di questa meta: noi in Dio e Dio in noi. Ma da dove veniamo a sapere che incontriamo questa beatitudine attraverso felicità e infelicità”?  Dal fatto che in noi si desta l’amore per questa via e questa meta. Questo amore viene da Dio ed è lo Spirito Santo che Dio ci ha dato”.

Qui c’è qualcosa di veramente sorprendente: felicità e infelicità che investono la nostra vita non sono manifestazioni di Dio, non sono modalità del suo rivelarsi. Dio non ci si rivela nelle sembianze degli eventi felici o di quelli infelici, nella forma del bene o del male che viviamo. Dio, però, si allea con la felicità e l’infelicità, Dio le utilizza, le pone al suo servizio. Perché? Per mantenerci sulla sua via o per farci tornare su di essa o per farci camminare più spediti e più sicuri su quella via che ha come meta finale la nostra unione con Lui. Ed è questa comunione con Dio – Dio in noi e noi in Dio – la nostra vera, perfetta felicità. Dio utilizza quindi sia la felicità che l’infelicità, per legarci più strettamente a Lui e per donarci ciò che veramente si può chiamare salvezza. E questo accade perché per alcuni uomini e in certi momenti della loro esistenza è la felicità che è più efficace allo scopo, ma altri, purtroppo, o anche quegli stessi di prima in altri periodi della loro vita, approfondiscono la loro relazione con Dio solo attraverso la sventura e il dolore. Questa sventura e questo dolore, tuttavia, non sono per volontà di Dio, ma hanno la loro origine altrove: vengono da cause puramente profane e umane oppure da quel Male radicale – Barth lo definiva il Niente che è entrato nel mondo sotto forma di peccato, che è entrato nel mondo, ma non per volontà di Dio. Dio, però, fa in modo che il male stesso e la stessa infelicità servano alla nostra salvezza. E per questo che Bonhoeffer può sorprendentemente pareggiare felicità e infelicità, fino a considerarle entrambe come benedizione.

Si può forse capire ancor meglio, tornando al concetto dell’amore: l’amore si può nutrire sia di felicità che di infelicità, entrambe possono rinvigorirlo; ed entrambe, quando ciò accade, giovano all’amore. E’ ben comprensibile che noi preferiremmo un amore fatto solo di felicità; spesso, però, questo non ci è dato. Non sempre, ovviamente, l’infelicità nutre l’amore: a volte lo mina e alla fine lo distrugge. Se guardiamo bene, però, noi sappiamo sempre distinguere tra l’infelicità, potremmo dire, distruttiva e quella costruttiva. Quella costruttiva, in fondo, finiamo per “amarla”. Per amore dell’amore. Una cosa simile avviene, pare qui dirci Bonhoeffer, per la felicità e l’infelicità di cui si serve Dio. Come facciamo a riconoscerle e a distinguerle da quelle che invece sono solo umane o che addirittura ci allontanano da lui? E’ semplice: la felicità e l’infelicità alleate di Dio ci spingono ad amare la sua via e la sua meta.

Nella poesia, però, questa profonda tematica teologica non c’è, o almeno non è espressa direttamente. Questo è anche il suo  specifico valore: la bellezza della poesia sta proprio nel fatto che è “mondana” (sebbene Bonhoeffer, come confesserà a Bethge, temesse comunque che potesse risultare troppo gedanklich – intellettuale). Il fatto che felicità e infelicità siano strumenti di Dio per legarci a sé resta sullo sfondo, mentre in primo piano è ciò in cui concretamente, mondanamente, carnalmente si manifesta questa azione che Dio svolge in noi attraverso la felicità e l’infelicità. E si tratta di figure care, si tratta di quelle persone con cui intratteniamo relazioni fedeli. La fedeltà, come è noto, è caratteristica primaria del Dio biblico, per cui nelle sue relazioni fedeli l’uomo si mostra veramente creatura di Dio, fatta a sua immagine e secondo la sua somiglianza. La fedeltà, dice Bonhoeffer nei suoi versi, non cancella certo l’infelicità, ma la rischiara. Ci consente, cioè, di viverla positivamente, molto al di là del comune concetto di “conforto” o di “consolazione”. La illumina nella sua natura di benedizione di Dio: la ricopre delicatamente di dolce eterno splendore.

La chiave di lettura della poesia, che ha il suo apice nella strofa finale, è offerta, in fondo, dalle parole che Bonhoeffer scrisse a Bethge, qualche tempo dopo, il 14 agosto 1944, e senza riferirsi direttamente alla poesia: “Alla fine le relazioni interpersonali sono senz’altro la cosa più importante nella vita. Nemmeno il ‘moderno uomo della prestazione’ (Leistungsmensch) può modificare questo fatto, e neppure i semidei o i folli, che nulla sanno delle relazioni interpersonali. Dio stesso si fa servire da noi nell’umano”  (Gott selbst laβt sich von uns im Menschlichen dienen). Dio si fa servire da noi nelle relazioni fedeli con le persone care, le quali ci aiutano a scoprire e a vivere felicità e infelicità della nostra vita come benedizioni di Dio.



Fonti

Dietrich Bonhoeffers Werke, DBW 8, Widerstand und Ergebung, Kaiser, Monaco, 1998

Opere di Dietrich Bonhoeffer, ODB 8, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002

J. Henkys. Geheimnis der Freiheit. Die Gedichte Dietrich Bonhoeffers aus der Haft. Biographie – Poe sie – Theologie, Gütersloh , Kaiser – Gütersloher Verlagshaus, 2005.



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