Quando
la felicità o, più spesso, l’infelicità, quando il bene radicale o, più di
frequente, il male radicale irrompono d’improvviso nella vita degli uomini,
sovvertendola, i credenti – e talora anche i non credenti che si interrogano
sulla religione e sulla fede – tendono a chiedersi quale parte abbia Dio in ciò
che accade, quale relazione vi sia fra Dio e il loro bene, la loro felicità o,
più spesso, tra Dio e il loro male, la loro infelicità. A questi interrogativi, che in fondo
rientrano nello smisurato problema del male e nella questione
filosofico-teologica della teodicea, si danno spesso risposte superficiali e ci
si lascia imprigionare nell’angustia dei pregiudizi, del pensiero dominante o
dell’urgenza del momento.
Ciò
non accadde di sicuro a Dietrich Bonhoeffer, che ora ci guiderà in una
riflessione più profonda sulla questione. Bonhoeffer intitolò Felicità e infelicità (Glück
und Unglück) una delle sue dieci poesie, scritte nella prigione nazista e
nell’ultimo anno della sua breve vita. Questa poesia potrebbe essere la seconda
che scrisse, in ordine cronologico; di certo viene dopo quella intitolata Passato. E in questa sua prima
composizione, il tema di Bonhoeffer è appunto il passato, che nella sua
condizione di prigioniero, con pochissime possibilità di salvarsi, gli viene
sottratto; o meglio, il tema è la vita passata, pienamente vissuta, se
non addirittura felice, che ora gli è stata sequestrata, espropriata. Quella vita passata che ritorna con i volti e le
parole delle persone care – i genitori, la giovane fidanzata, il suo amico
fraterno e interlocutore teologico Eberhard Bethge, che aveva sposato una sua
nipote; torna nelle brevi e rare visite che sono loro concesse e negli scambi
epistolari. Il problema di Bonhoeffer non è solo quello che avrebbe afflitto
ogni uomo nella sua situazione – come vivere questa devastazione della propria
esistenza, come sopportarla – ma è il problema dell’uomo Bonhoeffer che è
inseparabile dal credente e dal teologo: come interpretare e come vivere teologicamente la sua tragica
condizione, ossia come viverla in
relazione con Dio. Che parte aveva avuto il Signore nella vita pienamente
vissuta fino al giorno dell’arresto e che parte aveva ora nella sua esistenza
di carcerato, forse prossimo alla morte? Ecco, innanzitutto, la poesia.
Felicità ed infelicità
Che rapide ci colgono e
ci dominano
Esse sono, all’inizio
Come il caldo e il
freddo al primo contatto
Così vicine da non
distinguersi quasi
Come meteore
Scagliate da distanze
ultramondane
Percorrono luminose e
minacciose il loro corso
Sopra il nostro capo
Chi ne è colpito sta,
sbigottito,
davanti alle macerie
della sua quotidiana,
grigia esistenza.
Grandi e sublimi,
distruttrici,
vittoriose,
felicità e infelicità,
invocate o no,
fanno il loro solenne
ingresso
tra gli uomini
sconvolti,
ornano e rivestono
coloro che colpiscono.
Da lontano, da vicino,
accorre gente intorno,
guarda
a bocca aperta,
parte con invidia,
parte con orrore
il portento
nel quale
l’ultraterreno,
portando insieme
benedizione e annientamento,
si offre come
sconcertante, inestricabile
spettacolo terreno.
Che cos’è la felicità,
che cos’è l’infelicità?
Solo il tempo le separa
Quando l’evento
improvviso
Che avviene
incomprensibilmente
Si muta in durata
spossante, tormentosa
Quando le ore del
giorno che scorrono lentamente
Ci svelano la vera
immagine dell’infelicità
Allora i più si
allontanano
Delusi e annoiati
Stanchi per la
monotonia
Dell’infelicità ormai
di lunga data
Questa è l’ora della
fedeltà
L’ora della madre e
dell’amata
L’ora dell’amico e del
fratello.
La fedeltà rischiara
ogni infelicità
E la ricopre
delicatamente
Di dolce
Ultraterreno splendore.
Ma,
ci chiediamo, dov’è Dio qui? Non a torto Felicità
e infelicità è stata definita una “poesia mondana” (weltliches Gedicht), e questo suo carattere risalta soprattutto se
si guarda alla conclusione, alla risoluzione del dramma, che arriva con il
pensiero della “fedeltà” (der Treue)
delle persone care, della madre e dell’amata, dell’amico e del fratello.
Eppure, a ben vedere, Bonhoeffer sembra che lasci balenare qua e là qualche
segno enigmatico di una presenza superiore: felicità e infelicità sono
scagliate “come meteore/ da distanze ultramondane”; “sembrano venire l’una e l’altra dall’eterno”;
il loro abbattersi sulle vite degli uomini è “un portento” nel quale
“l’ultraterreno” porta insieme benedizione e annientamento; infine, “la
fedeltà” ricopre ogni infelicità di “dolce, ultraterreno splendore” (es
leise in milden, überirdischen Glanz).
Sono indizi che non ci forniscono ancora delle risposte, ma stimolano la nostra
curiosità, mobilitano il nostro pensiero. La stessa funzione sembrano avere
certe aporie e certi apparenti paradossi: felicità e infelicità sembrano qui quasi
pareggiate, mentre dovrebbero essere due opposti impossibili da conciliare.
Certo, fino a un certo punto l’accostamento è ben comprensibile: entrambe,
quando si esprimono in tutta la loro potenza e nel modo più radicale, si
abbattono improvvise – fanno “il loro solenne ingresso” - sulle nostre
esistenze e le sconvolgono, lasciandoci “sbigottiti”. Anche la felicità, in
fondo, o forse soprattutto essa riduce in “macerie” la nostra “quotidiana,
grigia esistenza”. Ma come si può dire che all’inizio esse quasi non si
distinguono l’una dall’altra? E soprattutto che sembrano venire entrambe
dall’eterno, “indivise”? Forse, Bonhoeffer esprime qui il tradizionale e
convenzionale pensiero religioso che vede nell’infelicità il castigo per i
nostri peccati oppure la croce che dobbiamo portare nella nostra esistenza
cristiana? In tal caso, però, felicità e infelicità potrebbero sì provenire
entrambe da Dio, ma per motivi e scopi diversi, restando opposte e non certo
“indivise”.
Un
profondo e rigoroso studioso delle poesie di Bonhoeffer, Jürgen Henkys,
individua una traccia per la comprensione teologica di questo componimento già in
un appunto lasciato da Bonhoeffer su uno dei fogli manoscritti dell’Etica, l’opera a cui stava lavorando
quando venne arrestato. “L’amore è al di là di felicità e infelicità” (“Liebe jenseits von Glück und Unglück”),
scrive Bonhoeffer, citando, in realtà, il filosofo berlinese Nicolai Hartmann. Secondo costui, amore e felicità stanno
certamente bene insieme, ma sul piano etico la presenza o meno della felicità
in amore non è decisiva, anzi è del tutto secondaria. Si pensi all’amore
infelice, che è pur sempre amore. D’altra parte, ciò che vale per la felicità,
vale anche per il suo opposto, ossia per l’infelicità: fortunatamente, nemmeno
questa è decisiva per qualificare l’amore. E tuttavia, se è vero che l’amore è
“al di là di felicità e infelicità” è pure innegabile che esso si accompagna
all’una e all’altra, è piacere e sofferenza insieme. Il rapporto che ha Dio con
la felicità e l’infelicità delle nostre esistenze è analogo, come ora vedremo.
D’altra parte, nella I lettera di Giovanni, si dice appunto che “Dio è amore”.
Ma ecco un’altra traccia, individuata da Henkys,
quella forse decisiva. Bonhoeffer parla per la prima volta all’amico Eberhard
Bethge dei suoi “tentativi poetici” in una lettera degli inizi di giugno del
1944. Pochi giorni prima, aveva inviato allo stesso amico e alla giovane sposa
Renate (che, come si diceva, era poi la nipote del teologo) tre brevi
meditazioni bibliche, in occasione del battesimo del loro primogenito. La terza
meditazione è su Genesi 39, 23: “Il Signore era con Giuseppe e dava felicità
a tutto ciò che egli faceva”. Bonhoeffer legge la traduzione di Lutero della
Bibbia, ove effettivamente il verbo ebraico (maṣlîḥa – participio hifil
- che precisamente significa “faceva riuscire”, ossia dava successo) viene
tradotto con “dava felicità” (der HERR war mit Joseph, und was er tat, dazu
gab der HERR Glück).
Da notare che Giuseppe era in prigione, proprio
come Bonhoeffer! Il suo commento a questo versetto inizia così: “Dio segna
alcuni dei suoi figli con la felicità, egli lascia che a loro tutto riesca… dà
loro un grande potere sugli uomini e lascia che attraverso loro sia portata a
compimento la sua stessa opera. Certamente anche costoro devono attraversare il
tempo della sofferenza e della prova. Ma pure da ciò che gli uomini cercano di
far loro di malvagio, Dio ne fa uscire il bene”. Poi, però, aggiunge “Altri
suoi figli Dio li segna con la sofferenza fino al martirio”. Qui davvero
l’occasione lieta e l’affetto per la giovane coppia e per il loro neonato non
consentono a Bonhoeffer di oltrepassare del tutto la sua condizione e la nuda
perentorietà del pensiero espresso ci dà davvero i brividi, se pensiamo che in
esso vi è una lucida preveggenza del proprio imminente destino.
Il ragionamento teologico, tuttavia, oltrepassa
subito la tragica vicenda personale. “Dio”, continua Bonhoeffer, “ si allea con
felicità e infelicità (Gott verbündet sich mit Glück und Unglück), per
portare gli uomini sulla sua via (Weg) e verso la sua meta (Ziel).
La via dice: osserva il comandamento di Dio; e la meta dice: noi restiamo in
Dio e Dio in noi”. Questo pensiero lo porta ancora oltre: “Felicità e
infelicità giungono al loro compimento nella beatitudine (Seligkeit)
di questa meta: noi in Dio e Dio in noi. Ma da dove veniamo a sapere
che incontriamo questa beatitudine attraverso felicità e infelicità”? Dal fatto che in noi si desta l’amore per
questa via e questa meta. Questo amore viene da Dio ed è lo Spirito Santo che
Dio ci ha dato”.
Qui c’è qualcosa di veramente sorprendente: felicità
e infelicità che investono la nostra vita non sono manifestazioni di Dio, non
sono modalità del suo rivelarsi. Dio non ci si rivela nelle sembianze degli
eventi felici o di quelli infelici, nella forma del bene o del male che
viviamo. Dio, però, si allea con la felicità e l’infelicità, Dio le
utilizza, le pone al suo servizio. Perché? Per mantenerci sulla sua via o per
farci tornare su di essa o per farci camminare più spediti e più sicuri su
quella via che ha come meta finale la nostra unione con Lui. Ed è questa
comunione con Dio – Dio in noi e noi in Dio – la nostra vera, perfetta
felicità. Dio utilizza quindi sia la felicità che l’infelicità, per legarci più
strettamente a Lui e per donarci ciò che veramente si può chiamare salvezza.
E questo accade perché per alcuni uomini e in certi momenti della loro
esistenza è la felicità che è più efficace allo scopo, ma altri, purtroppo, o
anche quegli stessi di prima in altri periodi della loro vita, approfondiscono
la loro relazione con Dio solo attraverso la sventura e il dolore. Questa
sventura e questo dolore, tuttavia, non sono per volontà di Dio, ma hanno la
loro origine altrove: vengono da cause puramente profane e umane oppure da quel
Male radicale – Barth lo definiva il Niente – che è entrato nel
mondo sotto forma di peccato, che è entrato nel mondo, ma non per volontà di
Dio. Dio, però, fa in modo che il male stesso e la stessa infelicità servano
alla nostra salvezza. E per questo che Bonhoeffer può sorprendentemente
pareggiare felicità e infelicità, fino a considerarle entrambe come benedizione.
Si può forse capire ancor meglio, tornando al
concetto dell’amore: l’amore si può nutrire sia di felicità che di infelicità,
entrambe possono rinvigorirlo; ed entrambe, quando ciò accade, giovano
all’amore. E’ ben comprensibile che noi preferiremmo un amore fatto solo di
felicità; spesso, però, questo non ci è dato. Non sempre, ovviamente,
l’infelicità nutre l’amore: a volte lo mina e alla fine lo distrugge. Se
guardiamo bene, però, noi sappiamo sempre distinguere tra l’infelicità,
potremmo dire, distruttiva e quella costruttiva. Quella costruttiva, in fondo,
finiamo per “amarla”. Per amore dell’amore. Una cosa simile avviene, pare qui
dirci Bonhoeffer, per la felicità e l’infelicità di cui si serve Dio. Come
facciamo a riconoscerle e a distinguerle da quelle che invece sono solo umane o
che addirittura ci allontanano da lui? E’ semplice: la felicità e l’infelicità
alleate di Dio ci spingono ad amare la sua via e la sua meta.
Nella poesia, però, questa profonda tematica
teologica non c’è, o almeno non è espressa direttamente. Questo è anche il suo specifico valore: la bellezza della poesia
sta proprio nel fatto che è “mondana” (sebbene Bonhoeffer, come confesserà a
Bethge, temesse comunque che potesse risultare troppo gedanklich –
intellettuale). Il fatto che felicità e infelicità siano strumenti di Dio per
legarci a sé resta sullo sfondo, mentre in primo piano è ciò in cui
concretamente, mondanamente, carnalmente si manifesta questa azione che Dio
svolge in noi attraverso la felicità e l’infelicità. E si tratta di figure
care, si tratta di quelle persone con cui intratteniamo relazioni fedeli.
La fedeltà, come è noto, è caratteristica primaria del Dio biblico, per cui
nelle sue relazioni fedeli l’uomo si mostra veramente creatura di Dio, fatta a
sua immagine e secondo la sua somiglianza. La fedeltà, dice Bonhoeffer nei suoi
versi, non cancella certo l’infelicità, ma la rischiara. Ci consente,
cioè, di viverla positivamente, molto al di là del comune concetto di
“conforto” o di “consolazione”. La illumina nella sua natura di benedizione di
Dio: la ricopre delicatamente di dolce eterno splendore.
La chiave di lettura della poesia, che ha il suo
apice nella strofa finale, è offerta, in fondo, dalle parole che Bonhoeffer
scrisse a Bethge, qualche tempo dopo, il 14 agosto 1944, e senza riferirsi
direttamente alla poesia: “Alla fine le relazioni interpersonali sono
senz’altro la cosa più importante nella vita. Nemmeno il ‘moderno uomo della
prestazione’ (Leistungsmensch) può modificare questo fatto, e neppure i
semidei o i folli, che nulla sanno delle relazioni interpersonali. Dio stesso si fa servire da noi nell’umano” (Gott selbst laβt sich von uns im Menschlichen dienen). Dio si fa servire da noi nelle relazioni fedeli con
le persone care, le quali ci aiutano a scoprire e a vivere felicità e
infelicità della nostra vita come benedizioni di Dio.
Fonti
Dietrich Bonhoeffers Werke, DBW 8, Widerstand und
Ergebung, Kaiser, Monaco, 1998
Opere
di Dietrich Bonhoeffer, ODB 8, Resistenza
e resa, Queriniana, Brescia 2002
J. Henkys.
Geheimnis der Freiheit. Die Gedichte Dietrich Bonhoeffers aus der Haft. Biographie
– Poe sie – Theologie, Gütersloh , Kaiser – Gütersloher Verlagshaus, 2005.
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