Se si vuole veramente contrastare la
tragica offensiva terroristica, occorre partire da una corretta analisi del
fenomeno Isis: è una verità tanto elementare che fa specie doverla ricordare.
Chi non è interessato ad analizzare un fenomeno, evidentemente non è neanche veramente
interessato a combatterlo e, quando si tratta di una realtà così barbarica e
criminale, rischia anche, più o meno
involontariamente, di rendersene complice o comunque di facilitarne il gioco. L’idea
ad esempio, così diffusa in certi settori dell’opinione pubblica occidentale, che l’offensiva terroristica sia in fondo una
reazione a soprusi subiti in varia forma e in vari momenti dal mondo
occidentale rafforza la convinzione delle reclute jihadiste di star conducendo
una guerra santa difensiva, in quanto tale legittimata dal loro libro sacro. Il
Corano, infatti, prescrive di attaccare solo se si viene attaccati. E’ così che
tanti occidentali contribuiscono alla legittimazione dei terroristi, anche se
amano definirsi pacifisti.
In questo abbozzo di analisi ci
serviremo delle fonti finora più informate e attendibili. Non meraviglierà il
fatto che si tratta essenzialmente di giornalisti che ancora si preoccupano, a
loro rischio e pericolo, di osservare direttamente la realtà di cui scrivono e
non si accontentano di attingere notizie in rete. Mi riferisco, innanzitutto, fra
i libri facilmente accessibili, a quelli scritti negli ultimi mesi da Patrick
Cockburn, Maurizio Molinari e Domenico Quirico.
Tanto per cominciare a impostare un’analisi
corretta, occorre dire che l’Isis non va considerato un “sedicente stato”, ma uno stato a pieno titolo. Semplificando al
massimo il discorso, si può dire che il Califfato esercita tutte quelle
funzioni e ha tutte quelle prerogative che definiscono lo Stato. Innanzitutto,
nei territori che controlla, ha il monopolio dell’uso della forza, sia attraverso
un vero e proprio esercito, ormai fornito anche di carri armati, artiglieria
pesante e missili, sia attraverso una forza di polizia, la polizia religiosa
detta Al-Hesbah . Questa prerogativa
essenziale della statualità – il monopolio
dell’uso della forza - appartiene, anzi, all’Isis molto più che ai regimi
iracheno ed afghano, al governo siriano di Assad e a quelli libici di Tripoli e
Tobruk.
L’Isis ha un’amministrazione, una
struttura burocratica, a quanto pare più efficiente di quella dei regimi
suddetti: non appena conquista un territorio – ad esempio l’importante città di
Mosul – l’Isis ripristina i servizi essenziali – di solito devastati dalla
guerra: l’elettricità, gli acquedotti, i servizi postali, la scuola, i servizi
sanitari (vaccinazione obbligatoria dei bambini). In tal senso, è uno Stato, con
elementi anche di Welfare State. Questa
amministrazione tra l’altro emana bandi ed editti pubblici, emette documenti, lasciapassare
e passaporti.
Lo Stato islamico batte moneta e
riscuote le tasse. Tra queste ultime la jizya, l’imposta a cui sono sottoposti
coloro che vivono in regimi di dhimmi, ossia
i cristiani che rifiutano di convertirsi, o almeno i sopravvissuti alle stragi.
Lo Stato islamico ha ovviamente una
legge, la legge coranica o sharia, ha
dei tribunali e un sistema penale. E su questo ci torneremo parlando tra poco
del carattere totalitario di questa
organizzazione statale.
Naturalmente, lo Stato islamico,
attraverso questi strumenti, ha il pieno controllo di un territorio: non è come
molti si ostinano a credere una entità evanescente che si concretizza solo nel
web e nelle diverse cellule terroristiche sparse nel mondo. Lo Stato islamico
non è Al-Qaeda, è profondamente diverso da Al Qaeda proprio perché non è una
organizzazione terroristica clandestina, ma uno stato. Continuare ad ignorare
questa differenza significa, come ha detto Quirico con la sua efficace battuta,
scambiare il gatto con il serpente ed esporsi al morso velenoso di quest’ultimo.
Alcuni forse sono riluttanti ad
attribuire all’Isis la piena valenza di stato a causa della discontinuità
territoriale. Questa discontinuità è reale e si è persino accentuata
ultimamente, proprio perché purtroppo lo Stato islamico si è diffuso. Oggi non
si può parlare di un’entità che controlla solo una fascia di territorio, pur
essa peraltro alquanto frammentata, a cavallo fra la Siria e l’Iraq, in quanto
almeno altre due regioni sono cadute nelle mani dell’Isis: una parte della Libia,
con la città di Sirte, e gran parte del Sinai. Poi ci sono le “filiali” dell’Isis
nel mondo, tra cui la ben nota Boko Haram in Nigeria e ora anche l’organizzazione
islamista del Mali. Ebbene, la discontinuità e la frammentazione del territorio
non sono affatto elementi escludenti la piena statualità. Mi limito a citare
due esempi di istituzioni politiche a cui nessuno negherebbe il pieno
riconoscimento di stato: sono la maggiore potenza economica dell’età medioevale
e la maggiore potenza economica moderna, Venezia e l’Impero Britannico. Nell’uno
e nell’altro caso ci troviamo di fronte a un territorio non compatto. Nei
documenti veneziani del tempo, la Repubblica di San Marco viene spessa chiamata
stato da mar, in quanto l’elemento di
continuità del suo territorio – formato da isole, porti, mercati, città
costiere - era dato proprio dal mare, piuttosto che dalla terraferma. L’impero
britannico giunse poi a controllare – direttamente o meno – circa un terzo
delle terre emerse sull’intero pianeta, con una interruzione di continuità fra
le sue singole parti e fra queste e la Madrepatria che, come tutti sappiamo, è
un’isola. A veneziani e inglesi bastò il controllo dei mari per mantenere la
coesione dei loro stati. Per lo Stato islamico e nei tempi attuali nemmeno
questo è indispensabile: basta l’uso adeguato del web.
Riconoscere la dimensione statuale dell’Isis
è essenziale, ma non basta ancora. Occorre capire la natura schiettamente
totalitaria di questo stato. Le parole non andrebbero mai usate a caso e soprattutto
quando ci si sforza di orientarsi in questioni così drammatiche, dovrebbe
essere obbligatorio l’uso responsabile e quindi appropriato del linguaggio. E’
preoccupante che proprio coloro che sono pronti ad usare con tanta leggerezza,
e in modo così volgarmente infondato ed eticamente indecente, termini tragicamente
impegnativi come “genocidio” e “nazismo” (o “fascismo”), quando si tratta degli
USA o di Israele, siano poi così riluttanti a usare i termini giusti, quando
invece si tratta dell’islamismo. La definizione di Stato totalitario islamico
appartiene, invece, a mio avviso, proprio ad un uso responsabile del
linguaggio.
Nella vasta letteratura sul
totalitarismo, spicca il saggio ormai classico di Adorno e Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy.
Per i due studiosi punto chiave è la conquista del “consenso” (elemento messo in evidenza già nell’altro
studio classico sul tema, il volume di Hanna Arendt su Le origini del totalitarismo). I regimi totalitari contemporanei,
infatti, si differenziano dai regimi autoritari tradizionali o dalle monarchie assolute
di un tempo o da altre forme di dittature e dispotismi proprio perché si
fondano sulla ricerca sistematica del consenso e sul suo mantenimento. Non si accontentano
di imporre determinati comportamenti e di vietarne altri, di controllare e di reprimere
la circolazione delle idee, ma vogliono l’attivo coinvolgimento delle masse, la
loro mobilitazione: hanno un obiettivo molto più ambizioso di quello delle
comuni dittature perché vogliono conquistare il cuore e le coscienze delle persone.
Lo Stato islamico fa proprio questo: non bisogna credere che appena conquistato
un territorio i miliziani dell’Isis facciano prima di tutto stragi e violenze,
promulghino la sharia e terrorizzino
la popolazione. Tutto questo accade, ma come ha scritto Molinari è in fondo la
seconda cosa che accade. La prima è quella a cui già accennavamo: il ripristino
dei servizi essenziali, di forme di assistenza per i bisognosi (tetto massimo
per gli affitti, finanziamenti per le prime case), la vaccinazione dei bambini
e la creazione di scuole di regime. Tutto ciò tende appunto a conquistare un
consenso. Lo stesso terrore, come vedremo, prima ancora di essere uno strumento
di guerra e di repressione violenta o di vendetta, è uno strumento di
proselitismo e di consenso, per quanto ciò possa suonare strano e anche atroce
alle nostre educate orecchie.
Ma lasciamo da parte per il momento il
tema del consenso e andiamo a
verificare se, in base alla tipologia delineata nello studio di Adorno e
Brzezinski, lo Stato islamico si possa o meno definire uno stato “totalitario”.
Secondo i due studiosi, sei sono le caratteristiche fondamentali di uno stato
totalitario:
1)
Un’ideologia ufficiale che abbraccia tutti gli aspetti dell’esistenza, che
fornisce risposte e soluzioni ad ogni questione, un’ideologia, appunto,
totalizzante. L’ideologia si fonda sul pensiero di uno o più autori e si trova
esposta in uno o più testi fondamentali di riferimento. Questa ideologia è inoltre
orientata verso uno stadio finale e perfetto, ha quindi una portata
escatologica e si propone tipicamente la costruzione di un “uomo nuovo”.
2)
Un partito unico di massa guidato tipicamente da un uomo solo, che esercita
una leadership carismatica (anche carismatica). Questo partito è formato da una
percentuale relativamente piccola della popolazione.
3)
Un sistema di terrore, sia fisico che psichico, esercitato sia attraverso
la polizia che attraverso la pressione sociale e diretto verso i nemici del
regime e dell’ideologia, non solo singolarmente, ma anche spesso come classi o
gruppi di individui.
4)
Un monopolio dei mass-media
5)
Un monopolio delle armi e degli strumenti di offesa
6)
Un controllo centralizzato e pianificato dell’economia.
Ebbene, lo Stato islamico possiede
pienamente tutte e sei queste caratteristiche. A quanto già detto, basterà
aggiungere poche note delucidative.
1)
L’ideologia totalizzante è ovviamente l’islamismo, il libro di riferimento
è il Corano, l’autore, almeno nelle pretese degli adepti, è un personaggio un
po’ più importante di Marx, Lenin o Hitler, dato che si tratta di Allah in
persona. Il progetto di costruzione dell’uomo nuovo, in questo caso del “musulmano
nuovo”, contrapposto al musulmano corrotto dei regimi arabi cosiddetti
moderati, è tipicamente presente nella cura dell’istruzione dei fanciulli che è
molto spiccata nello Stato islamico. Istruzione scolastica, con una
riorganizzazione e un rigido controllo dei programmi di studio, che ha portato
all’eliminazione di materie “degenerate” come la filosofia, l’arte e la musica,
alla riscrittura dei programmi di storia, ma anche alla cura per le discipline
scientifiche e per lo studio dell’inglese. Istruzione militare e istruzione
alla jihad, come documentano certi abominevoli filmati diffusi via web.
L’importanza di questo primo punto porta già alla corretta definizione dell’Isis:
non solo stato, non solo stato totalitario, ma stato totalitario islamico.
2)
L’organizzazione jihadista segue i modello dei partiti di massa occidentali
e, all’estero, delle organizzazioni politiche clandestine. Va notato che la
lettura dello studio di Adorno e Brzezinski demolisce la stolta argomentazione
di tanti, secondo cui il numero esiguo dei veri e propri jihadisti rispetto
alla grande maggioranza dei musulmani che jihadisti non sono dimostrerebbe la
scarsa consistenza del fenomeno e il carattere pacifico della religione
islamica e della quasi totalità dei suoi fedeli. Ebbene, anche nella Germania
nazista o nell’URSS di Stalin, i militanti e gli attivisti di partito erano in
numero esiguo rispetto alla totalità degli abitanti, ma nessuno storico, anzi
nessuna persona di buon senso, ne dedurrebbe l’irrilevanza del nazismo o dello
stalinismo e l’estraneità o addirittura la refrattarietà della gran parte dei
tedeschi e dei russi dell’epoca all’ideologia nazista o comunista. Il punto
centrale è quindi quello del consenso all’organizzazione militante e non quello
della sua consistenza numerica.
Il capo unico con funzione anche carismatica è il Califfo Al-Baghdadi –
ritorneremo sulla straordinaria importanza nel mondo musulmano del ripristino
di questa storica istituzione – ma può essere considerato anche il Profeta o
Allah stesso, trattandosi di uno stato totalitario teocratico. Restando sulla
figura del neo-proclamato califfo, va sottolineato come sia pericoloso
ritenerlo un rozzo e fanatico esaltato. L’operazione di proclamazione del califfato
è politicamente sapiente e rivela persino
un uso raffinato della simbologia. Il califfo, che sceglie di chiamarsi
Ibrahim Abu Bakr Al-Baghdadi, usa innanzitutto il nome di Abramo, con un voluto
e significativo riferimento alle origini e alle radici dell’Islam, in funzione
di legittimazione del suo potere. In secondo luogo, il nome Abu Bakr, che è
quello del successore di Maometto e infine Al-Baghdadi, che fa riferimento non
solo al radicamento iracheno, ma anche alla capitale del califfato nel periodo
più splendido della sua storia.
3)
Il sistema di terrore instaurato dallo Stato islamico dovrebbe essere noto
a tutti. E’ però opportuno fornire qualche dettaglio. Esemplare è il caso degli
hudud, le “punizioni coraniche”, che
si trasformano in eventi pubblici, con la popolazione civile, bambini compresi,
che assiste riunita in grandi cerchi all’umiliazione delle vittime e all’esecuzione
delle condanne. Qualche norma penale: il reato di blasfemia è punito con la
morte; l’adultera sposata è uccisa tramite lapidazione; l’omosessualità – cosa da
segnalare a quegli omofili occidentali prontissimi a condannare l’imperialismo
americano o israeliano e così timidi nella condanna dell’islamismo – è ugualmente
punita con la morte. Ai ladri viene amputata la mano, mentre 60 frustrate sono
comminate per il consumo di alcol. La corruzione è punita con il taglio di mano
e piede sui lati opposti. Un fatto che non si è abbastanza sottolineato è la
reintroduzione della schiavitù, per le donne delle popolazioni sottomesse (gli
uomini vengono semplicemente soppressi).
Le categorie di popolazioni colpite e sistematicamente sterminate, come gli
ebrei o i kulaki di un tempo, sono gli sciiti e gli yazidi, ritenuti “eretici”
i primi, “idolatri” i secondi. Anche in questo risalta una differenza con Al
Qaeda: Bin Laden, per motivi di strategia politica, evitò di autorizzare stragi
di sciiti.
4)
5) e 6) Non mi sembrano necessarie ulteriori delucidazioni su questi punti,
che sono più che evidenti. Vale la pena di sottolineare che il controllo dell’economia
significa controllo di quelle che al
momento sembrano i tre fattori fondamentali della ricchezza dell’Isis: i
giacimenti petroliferi, il mercato dei tesori artistici e archeologici, i
finanziamenti provenienti da altri paesi arabi (soprattutto Arabia Saudita e
Qatar). E’ chiaro che l’economia per l’Isis è un mezzo e non è assolutamente un
fine, cosa che sembra invece non entrare mai nella testa di tanti occidentali
che valutano con il metro di misura della società capitalistica occidentale qualunque
altra società e qualunque regime. Del resto, anche nei totalitarismi europei, l’economia
era assolutamente un mezzo.
Ecco, tanto si è detto per ricominciare a restituire il loro giusto nome
alle cose e, parafrasando Quirico, per non chiamare “gatto”, la tigre.
So bene, peraltro, che queste note, se anche le leggessero, non
convincerebbero quelli del partito “la religione non c’entra”. Sono convinto
che molte persone persino di fronte a un jihadista che - Dio non voglia - si
appresta a sgozzarle al grido di "Allah u' akbar" penserebbero fino
all'ultimo istante che la religione non c'entra, che i veri motivi sono
economici, che la colpa è delle politiche occidentali. Un po' come Don Ferrante
che nei Promessi Sposi, nel suo delirio ideologico, nega la peste, nega il
contagio, non prende nessuna precauzione e muore "eroicamente",
prendendosela con le congiunture astrali sfavorevoli.
Altri, poi continueranno imperterriti a denunciare il “vero” pericolo, che
a loro avviso non è tanto il jihadismo, ma l”islamofobia”. Ci si è messo pure
il Corriere della Sera, che ha pubblicato un sondaggio davvero sorprendente:
udite! Dopo l'attacco alle torri gemelle pare sia aumentato notevolmente il
numero degli americani con un'opinione sfavorevole sui musulmani e, fatto ancor
più sorprendente, pare che in Francia stia accadendom ora la stessa cosa!
Questo strano fenomeno, così imprevedibile, il giornale più diffuso d'Italia lo
definisce "islamofobia". È come se dopo la strage di Marzabotto
qualcuno avesse registrato un aumento delle opinioni negative sui tedeschi
parlando di un fenomeno di "germanofobia"!
Tant’è: il Signore acceca quelli che vuole perdere.
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