Prima di passare al
tema centrale di questa serie di interventi - che è quello delle reali
responsabilità dell’Occidente di fronte alla barbarie islamista, ossia dell’assenza
di una seria analisi del fenomeno e, conseguentemente, di una efficace risposta
culturale, politica e militare - restiamo ancora un momento sul motivo delle
presunte e immaginarie colpe dell’Occidente, motivo che già è stato in parte
affrontato nel precedente articolo.
Uno dei luoghi comuni più diffusi vede nel
jihadismo la reazione – addirittura comprensibile, se non giustificabile per
alcuni! – alle guerre e alle occupazioni militari degli USA e dei loro alleati. "Le guerre chiamano altre guerre", urlano i Giulietto Chiesa e i Gino Strada, con uno slogan certamente di facile presa, ma di discutibile fondatezza storica.
Abbiamo già sottolineato la debolezza logico-epistemologica di questo argomento,
ma occorre insistere ancora sulla grande ignoranza storica che manifesta chi lo
fa proprio. La serie delle guerre a cui si fa riferimento sono di solito quelle di Bush
figlio, all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle nel 2001. I meglio informati
retrocedono fino alla prima guerra del Golfo, voluta da Bush padre nel 1991, che sarebbe
poi la causa dello stesso attentato dell’11 settembre. L’esplosione del
fondamentalismo islamista sarebbe quindi un fenomeno relativamente recente, se
esso fosse una risposta a queste guerre. Ciò è totalmente falso. L’evento
cardine, nell’ascesa del fondamentalismo islamico, è la rivoluzione khomeinista
in Iran ed è del 1979. Evidentemente, non può essere una risposta a guerre che erano ancora
molto di là da venire. Nel 1979 gli USA subivano ancora il trauma storico della
guerra del Vietnam, che ancora per lungo tempo li avrebbe indotti a rinunciare
a spedizioni militari nel mondo, e, dal 1976, erano sotto l’amministrazione
Carter, protagonista di quello che è forse l’unico vero accordo di pace nell’area
mediorientale, in tempi recenti: gli accordi di Camp David fra Israele e l’Egitto.
Due anni dopo, nel 1981, il jihadismo lancia ancora, stavolta nel campo religioso
sunnita, il suo lugubre squillo di tromba, uccidendo proprio il presidente
egiziano Sadat (l’attentato fu realizzato dalla Jihad islamica egiziana). Alla prima guerra del Golfo mancano però
ancora dieci anni: è molto strana una reazione che precede di un decennio l’azione!
Passa un altro anno ancora ed ecco che nel 1982 viene fondato un altro
movimento di punta del fronte jihadista: il “partito di Dio” libanese, ossia Hezbollah, organizzato proprio dalle Guardie della rivoluzione islamica del
regime khomeinista. Anche l’altro notissimo movimento fondamentalista, il
palestinese Hamas, viene fondato prima della guerra di Bush padre, nel
1987. Esso, tra l’altro, è una filiazione dei Fratelli musulmani, l’organizzazione che è all’origine del
fondamentalismo islamico contemporaneo, la quale fu fondata in Egitto
addirittura nel 1928! L’ascesa e l’offensiva jihadista precedono quindi gli
interventi occidentali in Medio Oriente.
Ma va aggiunta un’altra considerazione
che davvero ridicolizza l’argomentazione di cui sopra: l’unico regime arabo che
è fondamentalista dalle sue origini è la monarchia dei Saud in Arabia, che si è
costituita sull’ideologia religiosa del wahabismo, la più importante corrente
del fondamentalismo islamico in epoca moderna. Ebbene, si tratta di un paese
che torti dall’Occidente proprio non ne ha subiti e che anzi, fin dall’epoca
dell’amministrazione Roosevelt, ha fondato la sua sicurezza e la sua grande
ricchezza proprio sulla strettissima alleanza con gli USA. Ciò non toglie che l’Arabia
Saudita, come pure il Qatar – altro paese arabo che deve tutto all’Occidente (e
al petrolio, ovviamente, ma il petrolio non servirebbe a nulla se l’Occidente
non lo comprasse!) – hanno sempre finanziato i movimenti jihadisti sunniti, e
continuano a farlo.
Se proprio si vuole
individuare un fattore storico responsabile dell’ascesa del fondamentalismo
jihadista bisogna guardare, non certo alla politica occidentale e alle guerre
degli USA in Medio Oriente, ma piuttosto, nel rispetto di una elementare cronologia,
al fallimento dei progetti di modernizzazione del nazionalismo arabo e
persiano. La grande stagione di questo nazionalismo incomincia all’inizio degli
anni Cinquanta con il colpo di stato che abbatte la monarchia egiziana e porta
al potere un gruppo di militari fra cui si imporrà la figura di Nasser. Altra
espressione di punta di questo nazionalismo è il partito Baath, che ha una
filiale irachena e una siriana, e che avrà come principali esponenti,
rispettivamente, Saddam Hussein e Assad padre. Il progetto di questo
nazionalismo è una modernizzazione a tappe forzate della nazione araba,
attraverso una pianificazione economica ispirata al modello sovietico – molto attraente
in quegli anni per i paesi in via di sviluppo. I regimi in questione non hanno
nulla di democratico, ma sono rigorosamente laici: i gruppi religiosi vengono
anzi perseguitati. Un caso in parte analogo è il regime dello scià di Persia.
Nella grande partita a scacchi della guerra fredda, questi regimi sono alleati
ora dell’una ora dell’altra superpotenza: la Siria e ben presto anche l’Egitto
di Nasser sono sostenuti dall’URSS; l’Iraq di Saddam e la Persia dagli USA. Dal momento che URSS
e USA armano e finanziano i loro alleati mediorientali e che, oltretutto, la
parabola del nazionalismo arabo e persiano si consuma quasi interamente all’interno
della fase di grande espansione economica del dopoguerra (i “cosiddetti trent’anni
gloriosi”) il totale fallimento di questo progetto di modernizzazione non è
ascrivibile a responsabilità dell’Occidente, o comunque delle grandi potenze, né è un riflesso della crisi del modello occidentale o di quella del capitalismo.
Questo fallimento, che ha soprattutto cause endogene, avrà la sua “apocalisse” (rivelazione) nella drammatica
sconfitta di Nasser e dei suoi alleati arabi nella guerra dei Sei Giorni.
Nasser non sopravviverà alla disfatta né
politicamente, né fisicamente (morirà un paio di anni dopo). La frustrazione
generata dal fallimento della modernizzazione laica può essere, essa sì, un
fattore di ascesa dell’islamismo.
Un’ascesa che condurrà
alla fine all’Isis o Is o Daesh. Già, come dobbiamo chiamarlo? La questione non
è affatto secondaria, ma ci introduce già nel tema centrale: le carenze di
analisi, il deficit culturale dell’Occidente di fronte al fenomeno del
Califfato di Al-Baghdadi. Come ha scritto ultimamente uno degli osservatori più
lucidi del fenomeno – Domenico Quirico – una delle maggiori mistificazioni
rispetto a questa terribile e nuova realtà è
“l’incapacità di
cogliere il passaggio dalla fase terroristica alla fase militare e politica. Io
sono rimasto fermo ad Eraclito e al logos: le cose sono le parole con cui le
definisci. Se tu un serpente lo chiami gatto e poi cerchi di accarezzarlo come
fai col gatto, quello ti morde e muori. Noi continuiamo a chiamare questo
fenomeno nuovo con le parole che usavamo per Al Qaida 15 anni fa: è lì il
problema”
Le sostanziali
differenze fra Al Qaeda e il Califfato le esamineremo meglio nella prossima
puntata. Questione ancor più a monte, per non rischiare di scambiare il
serpente con il gatto, è stabilire come bisogna chiamare questa nuova “entità”.
In questi giorni, caldeggiata anche da Obama, vi è la proposta di usare l’acronimo
arabo Daesh, perché esso suonerebbe come una parola che in arabo significa più
o meno “colui che semina discordia”. Sarebbe invece sconveniente, inopportuno,
politicamente “scorretto” usare gli acronimi inglesi di Isis o di Is, perché sottolineerebbero
un carattere statuale che non si vorrebbe attribuire al Califfato e soprattutto
perché ne rivelerebbero la natura islamica. Ebbene, proprio per gli stessi
motivi, ritengo che vadano usati proprio gli acronimi inglesi, meglio ancora la
dizione per esteso: “Stato islamico”. E’ questo l’unico modo per cominciare a
chiamare il serpente col suo nome e non scambiarlo col gatto e per incominciare
una necessaria, salutare operazione di demistificazione. Il Califfato è uno
Stato, e non è una mera organizzazione terroristica. C’è di più: è uno Stato
totalitario, che come vedremo più diffusamente, risponde a tutte le caratteristiche
essenziali dei regimi totalitari che abbiamo tristemente conosciuto nel
Novecento. Tra queste caratteristiche vi è il fatto di fondarsi su una
ideologia totalizzante, l’islamismo. Stato islamico, dunque. Meglio ancora:
Stato islamico totalitario. I serpenti non sono gatti.
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