Il cristiano è dunque chiamato a comprendere le proprie tentazioni, in
analogia alle tentazioni di Cristo. A questo punto Bonhoeffer premette alcune
osservazioni che valgono per qualsiasi tentazione, per poi distinguere fra
tentazioni nella carne, tentazioni nello spirito e giungere infine alla tentazione finale, che è quella dell’apostasia
conclamata e sulla quale qui non mi soffermerò (Bonhoeffer stesso non si
dilunga su questa ultima forma di tentazione) .
1) Di fronte a ogni tentazione.
Valgono innanzitutto le parole di 1 Cor, 10, 12-13:
Perciò, chi crede di stare
in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia
stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le
vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscirne, affinché la
possiate sopportare.
Anche qui il termine greco tradotto con “tentazione” è peirasmòs, che vuol dire innanzitutto “prova” (comunque, anche in
questo caso Lutero traduce Versuchung).
Il testo è un avvertimento a guardarci sia dalla falsa sicurezza, sia dalla
falsa pusillanimità.
Nessuno può credere, neanche per un istante, di essere immune dalla prova e
di stare sotto una speciale, assoluta, costante protezione divina. Nessuno
pensi che Satana possa stare sempre alla larga da lui:
Il vostro nemico, il
diavolo, come un leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt, 5,8).
Occorre quindi una costante attenzione, che è fatta di vigilanza e di
preghiera:
Vegliate e pregate per non
cadere in tentazione (Mt 26,41).
L’altro errore da evitare è di avere, invece, paura della prova. Bisogna
sempre sapere che Dio assegna ad ognuno soltanto la misura che egli può
portare. Chi dunque di fronte all’assalto della tentazione subito si scoraggia
e disarma, dimentica proprio l’essenziale: che Dio non permetterà che la prova
superi le sue forze.
Per questo, conclude Bonhoeffer, occorre affrontare la tentazione sia con
umiltà, che con la certezza della vittoria.
2) Di fronte alla tentazione nella carne.
Qui va fatta un’ulteriore distinzione fra la tentazione del piacere e quella della sofferenza.
Alla tentazione del piacere si è già accennato: essa ha origine dalla
concupiscenza che espone al tipico peccato della “carne”. “Carne”,
biblicamente, non sta semplicemente per “corpo”, tantomeno riguarda
esclusivamente la sfera sessuale, ma concerne tutto ciò che è caduco, che è
mortale, che è già condannato a finire. “Carnale” è dunque anche la ricerca
dell’onore e del successo, del potere o del denaro, è anche l’ambizione, la
vanità, la voglia di vendetta. Tutto ciò può portare al peccato che, in questo
caso, non consiste nell’aperta rivolta contro Dio, ma nella dimenticanza di Dio
e della sua Parola. E’ questo il caso in cui le nostre forze nulla possono, perché
esse “sono passate tutte quante dalla parte dell’avversario”.
Come si può allora affrontare questa prova e uscirne vincitori? Fissando lo
sguardo su Cristo crocefisso, risponde Bonhoeffer. Qui occorre chiarire ciò che
per un teologo di formazione luterana nato all’inizio del Novecento era del
tutto evidente, ma che può non esserlo per tanti oggi. Lo sguardo su Cristo
crocefisso vuol dire lo sguardo sulla carne – intesa come abbiamo appena detto –
che è crocefissa in lui, lo sguardo sul destino che spetta a ciò che è carne, destino
che è la morte. Ma anche, aggiungerei, lo sguardo alla resurrezione di questa
carne, salvata dal peccato, dalla precarietà, dalla fragilità e dalla morte
proprio mediante la croce di Cristo.
La conoscenza della croce non è però teorica, ma porta immediatamente a un
atteggiamento pratico, a una risposta di vita. E questo atteggiamento, questa
risposta si esprimono sorprendentemente nella fuga: fuggire nell’ora della tentazione carnale, questo ci insegna la
Scrittura. Fuggire è l’unico modo per resistere, perché la lotta contro la
concupiscenza che volesse affidarsi alle proprie forze sarebbe ineluttabilmente
destinata allo scacco. Fuggire e rifugiarsi dove c’è protezione e aiuto, all’ombra
del Crocefisso, dove si svela l’ingannevole lusinga della carne, di ciò che è
effimero, precario, mortale.
Si ravvisa, però, una tentazione non solo nel piacere, ma anche nella
sofferenza.
Quando il cristiano cade in una grave malattia, nella miseria o è colpito
da qualche altra grave sventura deve sapere, scrive Bonhoeffer, che “qui c’è lo
zampino del diavolo”. Ancora una volta il riferimento, apparentemente
anacronistico, al diavolo ha una portata teorica e pratica decisiva e ci
consente di evitare gravi errori. La tentazione nella sofferenza può, infatti,
essere quella di lasciarsi andare ad una “rassegnazione stoica”, accettando
tutto come un destino necessario, per non riconoscere né l’azione di quel male
assoluto che è appunto costituito biblicamente dal diavolo, né l’azione di Dio,
né il proprio peccato. Questa rassegnazione non ha nulla di cristiano, benché
sia sempre stata molto popolare e diffusa nel cristianesimo “storico”. Dio,
infatti, non vuole affatto la sofferenza e questa si è introdotta nel mondo a
seguito della caduta e del peccato.
La tentazione nella sofferenza può portare addirittura a prendersela con
Dio, a dubitare del suo amore: perché Dio permette questo, ci si chiede? Perché
colpisce proprio me? Dove sta la sua giustizia? Nella tribolazione, Dio sembra
farsi nostro nemico. Il modello biblico di questa tentazione è, ancora una
volta, Giobbe: Satana gli toglie tutto per spingerlo a maledire Dio.
Come supera il cristiano questa temibile tentazione? Il finale del libro di
Giobbe ci fornisce la risposta. Giobbe, che ha protestato fino alla fine la sua
innocenza e la sua rettitudine di fronte agli amici, dopo l’ingresso in scena
di Dio si riconosce colpevole e si pente (Gb
42,6). E l’ira di Dio, a questo punto, non investe lui, ma i suoi amici.
Dio dà ragione a Giobbe, che si confessa colpevole dinanzi a lui, dopo aver
protestato contro la sciagura che lo aveva colpito e contro le accuse degli
amici! Qui sta la soluzione: noi, quando siamo tentati nella sofferenza,
abbiamo tutto il diritto di protestare contro la sofferenza, nella misura in
cui protestiamo così contro il “diavolo” e rivendichiamo la nostra innocenza: è
il diavolo, infatti, è il Male, che ha fatto irruzione nella creazione di Dio e
l’ha guastata. Qui Bonhoeffer ricorda pure che fu questo l’atteggiamento di
Lutero quando fu colpito dalla disgrazia della morte della figlia Lena. Nello stesso tempo, dinanzi a Dio dobbiamo
riconoscere che la sofferenza è il Suo giudizio sul nostro peccato, non su uno
specifico peccato, su un peccato individuale, ma sul peccato che abita in ogni
carne e che va riconosciuto e manifestato per poter essere perdonato ed eliminato.
Questo significa che chi ha sofferto nel
suo corpo ha rotto con il peccato (1 Pt 4,1).
Naturalmente, si può soffrire nel proprio corpo, senza affatto rompere con
il peccato, perché non lo si riconosce, perché non si comprende la vera origine
di quella sofferenza. E’ questo sicuramente il caso più frequente, mentre è
molto più difficile superare la prova seguendo la strada che Bonhoeffer e la
Bibbia ci indicano. Questa strada diventa però pienamente accessibile se
ritorniamo all’analogia con la tentazione di Cristo, se cioè riconosciamo nella
nostra sofferenza la sofferenza di Cristo in noi e la sua tentazione. Questo ci
induce ad essere pazienti (pazienti
come Cristo, non pazienti verso il diavolo e verso il peccato!), a sopportare
in silenzio la tentazione, a mutare la nostra amarezza in gratitudine per la
liberazione che alla fine scaturirà dalla morte dell’uomo vecchio e dalla
comunione più stretta dell’uomo nuovo con Cristo.
3) Le tentazioni spirituali
Anche qui occorre distinguere fra le tentazioni che ci fanno cadere nella
superbia spirituale (securitas) e
quelle che ci precipitano, invece, nella tristezza (desperatio).
Quando il diavolo ci tenta nella superbia, vuole spingerci a non prendere
sul serio la Parola di Dio. Questa è la tentazione di Eva (“Dio ha veramente
detto…”), questa è anche la tentazione della grazia a buon mercato. In fondo, questo ci viene insinuato nella
mente, Dio nella sua misericordia non ci vorrà certo imputare il nostro
peccato. Qui, come Bonhoeffer aveva già scritto in Sequela, la Grazia da risultato
di un percorso, che comprende il riconoscimento del peccato, diviene il presupposto, che rende inutile il
percorso stesso (la sequela, appunto). Qui siamo minacciati dal peccato della
superbia nei confronti della grazia. Un altro tipo ancora di superbia
spirituale è quella di chi si ritiene in grado di adempiere perfettamente al
comandamento di Dio (giustizia delle opere).
Una diversa tentazione è poi quella della desperatio, della tristizia,
della acedia (Bonhoeffer riconoscerà
di essere particolarmente esposto a questa tentazione e ne soffrirà nel modo
più serio nei primi tempi della carcerazione a Tegel: la grande teologia delle
sue ultime lettere è il frutto della sua vittoria in questa terribile prova).
Qui non si prende alla leggera la grazia di Dio, come avveniva nel caso
precedente, ma si dubita di essa, fino a disperarne. Qui non si confida con
troppa sicurezza e con troppo anticipo sul perdono, ma si dispera del perdono.
Il risultato è però identico ed è la ribellione alla Parola di Dio, la
disobbedienza.
Questa tentazione è particolarmente insidiosa, perché sembra nascere dalla
stessa Parola di Dio, che accusa l’uomo, che lo inchioda al suo peccato.
Occorre, però, uscirne come ne uscì Lutero (dal superamento di questa
tentazione nacque la Riforma): opponendo la Parola di Dio che salva alla Parola
di Dio che sembra condannare e riconoscendo che dietro quest’ultima non c’è
affatto Dio, ma c’è il diavolo, che cerca di servirsene per i propri fini,
proprio come nell’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto.
Ciò non significa affatto dimenticare il nostro peccato, ma significa,
scrive significativamente Bonhoeffer, che ne dobbiamo discutere non già con il
diavolo, che ci farebbe precipitare, ma con Gesù, che ci salva. Azzardando una
traduzione meno ostica alla sensibilità moderna di questo cruciale passaggio si
potrebbe dire che la nostra colpa non deve portarci alla disperazione, ma che
nemmeno possiamo illuderci di superare la disperazione negando la colpa. La
dobbiamo riconoscere, esaminare e confessare, ma in modo costruttivo e non
distruttivo, in modo consolante e non disperante, con gratitudine e non con
amarezza, nell’obbedienza e non nella ribellione.
Tutto questo, però, rischia di restare molto astratto, intellettuale,
accademico se, ancora una volta, non guardiamo alla croce di Cristo e non
comprendiamo e viviamo la nostra tentazione in analogia con la sua.
Gesù precipitò nell’abisso della più profonda tentazione, raggiunse il
culmine della tristitia, nel suo
grido sulla croce che lamentava l’abbandono di Dio. Ma proprio lì dove si
manifestarono l’ira e il giudizio di Dio avvenne la riconciliazione, si rivelò
la grazia.
Per questo nella tribolazione dobbiamo sempre ascoltare la risposta che Dio
dette un giorno a Paolo, anche lui afflitto probabilmente dalla più profonda tristitia:
ti basti la mia grazia, perché
la mia potenza si manifesta nella debolezza (2 Cor 12,9)
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