giovedì 4 agosto 2016

ALLE RADICI DEL PROBLEMA: LA STORIA E I DIRITTI DELL'UOMO NELL'ISLAM



Per riprendere e sviluppare ulteriormente il discorso dell’ultimo post, è molto importante l’articolo puntualmente segnalatomi da Niram Ferretti e a firma di Carlo Panella (è del novembre 2014, ma ciò non toglie nulla alla sua straordinaria attualità)
Se è vero quanto argomentato la scorsa volta, non di un islamico “revisionismo storico” bisogna parlare e non di una semplice, grossolana manipolazione della storia (fino all’invenzione, dice Panella, di una “metastoria”), ma di un paradigma della storia, fondato sul Corano come luogo di una rivelazione astorica e atemporale, che paradossalmente nega la storia stessa, almeno come la concepisce la cultura occidentale, e legge i fatti solo nell’ottica di quella stessa rivelazione, travisandoli o semplicemente cancellandoli. Certo, il risultato, ai nostri occhi, è comunque quello di una violenta deformazione della realtà storica e su questo Panella fornisce esempi davvero illuminanti.
Già la prima affermazione, da lui citata, meriterebbe uno studio specifico: “Abramo è stato il primo musulmano” (rimando per un utile approfondimento a http://www.biblia.org/documenti-tabella/approfondimenti-culturali/90-49/file.html) . L’idea che vi sia una sostanziale comunanza fra le tre religioni monoteistiche, fondata proprio sulla comune discendenza abramitica, sul riconoscimento di Abramo come padre comune, un’idea tradotta ora dal papa nei suoi termini più banali, si infrange sulla dura pietra della parola rivelata a Maometto, che qualifica Abramo non già come un padre comune, ma come il primo muslim e hanif. Personalmente, posso testimoniare di aver assistito poco tempo fa ad una lezione su “Abramo nel Corano” di una teologa islamica, sciita, iraniana, ma che vive a Roma, nella quale neanche una volta è stato detto che Abramo era un ebreo!
Panella si sofferma, in particolare, sul disconoscimento islamico della stessa esistenza del Tempio di Gerusalemme. E’ un punto cruciale, che in epoca contemporanea è servito e serve a negare ogni legittimità allo stato di Israele, ma che ha una portata più vasta, essendo il fulcro di quel paradigma storico – o meglio astorico – di cui si diceva, fondato sulla rivelazione coranica. “L’islam”, scrive Panella, è la continuazione lineare della vicenda biblica iniziata, appunto, con il primo “musulmano” – hanif – Abramo, disattesa e tradita con disonore prima dagli ebrei e poi dai cristiani. In questo contesto, la legittimità della continuità profetica viene a Maometto, che vive a centinaia di miglia da Gerusalemme, proprio dal racconto del suo viaggio mistico. L’arcangelo Gabriele lo trasporta sulla Roccia della Spianata. La Roccia di Gerusalemme diventa dunque il luogo da cui Dio sceglie di farlo ascendere, vivente, nell’iperuranio. Simbolo concreto del suo essere il “sigillo della Profezia””.
L’ebraicità di Abramo è dunque negata, perché nell’ottica del paradigma islamico, un vero credente, quale Abramo certamente è, non può che essere musulmano. Dunque, Abramo che è stato il primo credente ed il prototipo stesso del credente, deve essere musulmano. Il monte dove egli mostrò la sua obbedienza assoluta – da musulmano, appunto – a Dio, il monte del sacrificio di Isacco, è lo stesso monte da cui Maometto ascende al cielo, dopo aver compiuto la sua missione. Su quel monte non può dunque essere esistito nessun Tempio, prima della costruzione della moschea di al Aqsa.
Tutta la vicenda del popolo di Israele, nei tempi antichi, è così “esemplarmente” ricostruita in un memorandum del Ministero saudita degli affari esteri che spiega il proprio rifiuto a firmare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Onu (ci ritorneremo su questo) e così motiva il diritto arabo esclusivo alla terra di Palestina: “Il popolo palestinese è stato privato dei propri diritti fondamentali nella sua patria storica, dove era vissuto sin dall’epoca degli arabi cananei, migliaia di anni fa, e ben prima della nascita di Israele. Quest’ultimo si era rifugiato in Egitto con i suoi dodici figli, che là si moltiplicarono con il passare dei secoli. Un giorno, i loro discendenti decisero di liberarsi della schiavitù faraonica e fuggirono verso la Palestina che invasero e devastarono, allo scopo di fondare una patria, e fecero ciò aggredendo una popolazione araba che possedeva il diritto esclusivo di sovranità su quella terra, sua patria storica […] Quando gli arabi musulmani giunsero nel VII secolo a liberare la Palestina dai Bizantini, non trovarono alcun ebreo in quel paese”.
Ovviamente, i Cananei non erano arabi, ma di origine fenicia, e nel VII secolo gli ebrei a Gerusalemme e in Palestina erano molto numerosi.
Panella, con apprezzabile acume, non riduce tutto ciò a una costruzione propagandistica, volta a  giustificare la lotta contro il nemico sionista, né all’ottusità e all’ignoranza del fanatismo religioso e neanche a una specie di “mito fondativo”. Non si tratta di nulla di tutto questo. Se si entra, per capirlo, nell’ottica del paradigma coranico della storia, si comprende che non si tratta di farneticazioni, di semplici sciocchezze, di deliberate e strumentali manipolazioni, ma di un’operazione che è del tutto coerente con quel paradigma. La storia “non si basa – il dato è essenziale – su documenti scritti, al di là del Corano, ma sulla attendibilità della “catena di trasmissione” orale dei fatti e dei detti del Profeta. Detti che nei secoli successivi vengono raccolti negli Hadith che fanno parte integrante della Rivelazione. Incluso quello che dice: “Il giorno del Giudizio non verrà fino a quando l’ultimo ebreo non verrà ucciso…”, baricentro programmatico dello Statuto di Hamas”.
A tutti piacerebbe trovare un punto di incontro con il mondo islamico o con gran parte di esso. Tutti siamo consapevoli del fatto che non si possono trattare da nemici e neanche da barbari incompatibili con la civiltà moderna un miliardo e passa di persone. Tutti, infine, capiamo la necessità di isolare i jihadisti, separandoli in qualche modo dalla massa degli altri musulmani. Chi ci rimprovera di non tener conto di queste cose offende non la nostra intelligenza, ma la sua, tanto esse sono scontate. Il problema è che non basta proclamare le esigenze più ovvie, occorre trovare il modo per perseguirle concretamente e questo modo non lo si troverà mai se si continuano ad eludere le radici del problema.
E’ proprio da quelle radici che germinano piante avvelenate: è stranamente rimosso, tra gli altri, un fatto veramente emblematico: il rifiuto dei paesi islamici di sottoscrivere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, considerata “non compatibile con la concezione della persona e della comunità che ha l’islam” e la contrapposizione ad essa, nel 1981 di una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (è seguita un’altra dichiarazione dei diritti islamici nel 1990 al Cairo, ma il testo che pare seguito dalle organizzazioni islamiche più rappresentative pare quello più antico e in ogni caso i due documenti presentano le medesime incompatibilità con la Dichiarazione universale dell’ONU del 1948)
Un rapido confronto fra i due testi, quello islamico e quello dell’ONU, dà l’idea delle enormi difficoltà di un progetto che si proponga seriamente di integrare popolazioni islamiche nella nostra civiltà occidentale. Difficoltà che – è davvero il caso di ripeterlo per l’ennesima volta? – non devono certo indurre ad abbandonare l’impresa, in favore di una “guerra totale contro l’islam” (che in realtà nessuno mi pare voglia, nemmeno Salvini e tantomeno Trump o la Le Pen, ma che è solo un feticcio propagandistico che viene sbandierato e gettato addosso agli antagonisti e interlocutori, per  non affrontare i veri nodi), ma che devono essere riconosciute, per poter essere affrontate.
E’ curioso innanzitutto notare come ad un lettore sprovveduto potrebbero sfuggire le suddette dissonanze. Molto spesso, infatti, nel testo è evocata la “Legge”. Ad esempio, già all’art. 1:  “La vita umana è sacra e inviolabile e ogni sforzo deve essere fatto per proteggerla. In particolare, nessuno potrà essere ferito o ucciso se non per autorità della Legge”. E all’art. 2 si afferma che l’uomo è nato libero e che nessun ostacolo deve essere posto alla sua libertà se non per autorità della Legge; e all’art. 3 che tutti sono uguali di fronte alla Legge. Ma di quale “Legge” si tratta? Perché, si trattasse della legge civile, della legge dello stato, delle norme del diritto internazionale, non solo non si dovrebbe rilevare alcuna incompatibilità con la Dichiarazione ONU del 1948, ma non emergerebbero neanche serie difformità, sicché resterebbe un mistero il motivo che ha indotto i paesi islamici a non firmare la Dichiarazione del 1948 e a redigerne una propria. Malauguratamente, il lungo preambolo chiarisce che la fonte di ogni legge è Allah e che, pertanto, la “Legge” qui continuamente richiamata è solo la legge islamica, ossia la sharia
In tal modo, già le formulazioni citate, quelle dei primi articoli, acquistano un ben altro tenore, ma il conflitto dirompente fra le due Dichiarazioni emerge in alcuni degli articoli successivi. Ad esempio, all’art. 4, ove si legge che “ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge (ossia alla sharia) e che nessun'altra legge gli venga applicata”. Qui viene meno il requisito essenziale di cittadinanza: il rispetto, anzi lo stesso riconoscimento delle leggi del paese in cui si vive o si vorrebbe vivere! Mi chiedo: è islamofobia, è guerra totale all’islam chiedere, anzi pretendere, che gli islamici che intendono vivere nel nostro paese, o in Francia o in Germania, dichiarino di non riconoscersi in questo articolo e lo mostrino concretamente, vivendo nel rispetto delle leggi del paese ospitante e non secondo le norme della sharia?
Potremmo andare avanti ancora a lungo nella comparazione dei due documenti, ma mi limito a citare un altro articolo soltanto, quello che riguarda la libertà di pensiero: “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge prevede a questo proposito”.
Dal confronto fra le due Dichiarazioni emerge, in realtà, un vero scontro di civiltà.
Come si risolve il problema? Per la verità sono stanco di sentirmi chiedere regolarmente da quelli (fortunatamente ben pochi fra le persone con cui mi trovo a discutere) che si ostinano a non vedere il problema e a ripetere il vecchio mantra, un po’ comico, della sinistra anni Settanta per cui “il problema è un altro” (il problema è sempre un altro e quasi sempre riguarda i presunti misfatti e le inenarrabili colpe dell’Occidente e del suo terrificante sistema economico o dei suoi criminali apparati militari e bellico-industriali). Sono stanco di sentirmi dire: “ma tu che proponi?”. Io per mestiere studio e dunque posso solo proporre delle analisi che se per puro caso avessero qualche fondamento sarebbero forse utili a individuare delle soluzioni concrete. Vorrei però ricordare che, secondo una elementare norma, nemmeno di deontologia del dibattito, ma di mero buonsenso, l’onere della prova spetterebbe qui a chi pensa di poter detto fatto costruire una società multiculturale, a chi pensa che non si debba regolamentare l’immigrazione, a chi pensa che ogni essere umano debba avere la libertà di emigrare e di vivere dove gli pare: date le profonde differenze culturali che emergono e che sto cercando di richiamare, documentandole, dato che nessuno mi pare voglia rinunciare alle conquiste della civiltà occidentale, se non altro perché di quelle conquiste gode ampiamente anche quando il suo sport preferito è la denigrazione dell’Occidente, dato tutto questo, a costoro io vorrei chiedere “voi che cosa proponete”? Aspettando qualche risposta che non sia fatta di slogan, belle parole e diversivi, ma che affronti i nodi di fondo che sono emersi.



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