Ieri si è svolta
l’iniziativa lanciata da alcune sigle del mondo islamico in Francia e in Italia
(non le più rappresentative, per la verità). Non poteva trattarsi in un nessun
caso di quell’”evento epocale” annunciato a suono di grancassa dai media e di
quel “fatto enorme” di cui ha parlato la CEI. Tuttavia, sarebbe interessante
sapere quanti musulmani siano entrati nelle chiese. Se non che era più facile
ottenere una notizia attendibile durante il regime fascista che non
nell’attuale regime del Multiculti.Min.Cul.Pop.
I tre maggiori quotidiani italiani, nelle loro edizioni online, hanno
sparato tutti, inizialmente, la stessa cifra: 15.000. Non molti, ma neanche
pochissimi. Peccato che la fonte come si desumeva dagli stessi
articoli fosse un certo Foad Aodi, presidente del Comai (Comunità del mondo
arabo in Italia). A parte che si vorrebbe anche sapere chi e quanti rappresenta
il Comai, il problema è: da dove ha
preso a sua volta questa cifra il suddetto Aodi? E come l'hanno verificata i
due quotidiani? Basarsi acriticamente su una tale fonte sarebbe come chiedere a
me quanti juventini ci sono in Italia! Ma è l'Huffington Post di Lucia
Annunziata che ha raggiunto il grottesco: nel titolo di copertina, parlava di
"migliaia" di musulmani, nella finestra in basso che rimandava
all'articolo le migliaia diventavano "centinaia" e i pochi che hanno avuto
la pazienza di cliccare e andarsi a leggere l'articolo hanno potuto scoprire
che le centinaia si erano ridotte a "decine"!!! È questa davvero
l'apoteosi della disonestà intellettuale e professionale e del rincretinimento
collettivo. Di questi tempi è quasi
meglio andare a caccia di pokemon che leggere giornali.
Ma, preso atto
dell’incertezza dei numeri (qualche ora dopo il solito Faoud Aodi, visto il
successo ottenuto, ha pensato bene di giocare al rilancio e l’ha sparata più
grossa: 23.000 e non più 15.000! Intanto, andavano in onda i telegiornali della
sera che, senza nemmeno citare la fonte, rilanciavano la cosa: 23000 islamici
nelle chiese…credere, obbedire, combattere), un paio di considerazioni vanno
pur svolte, prima di passare a cose più serie. La prima: che cosa si voleva
dimostrare con questa iniziativa? Che esistono tantissimi musulmani pacifici e
che sono inorriditi di fronte allo sgozzamento del prete o all’attentato di
Nizza? E chi può ragionevolmente metterlo in discussione! Se si trattava di
fare questo tipo di censimento, Faoud Aodi avrebbe dovuto alzare di molto il
tiro: i musulmani pacifici in Italia sono certamente molti più di 15 o 23000.
Ma questo cosa risolve? La constatazione che durante il nazismo esistevano
tantissimi tedeschi miti e pacifici o che nel periodo del terrorismo rosso o
delle purghe staliniane esistevano milioni di comunisti che erano bravissime
persone, per caso aggiungeva o toglieva qualcosa al problema del nazismo o del
terrorismo rosso o dello stalinismo?
Se poi l’iniziativa
serviva a rimarcare, come mi pare abbiano detto tutti gli imam coinvolti, che
l’islam non c’entra nulla con il terrorismo, che i terroristi fraintendono
completamente l’islam, allora questa manifestazione non solo non è stata utile,
ma ha contribuito a rafforzare la rimozione del problema. "Maometto ci
invita ad amare", è arrivato a dire un imam. Avessi detto una cosa del
genere all'esame di storia medioevale, persino un professore così signorile
come Del Treppo mi avrebbe forse lanciato il libretto universitario in faccia.
Giustamente. Pare che la
taqyya, la dissimulazione e l'inganno
che si possono o si devono usare quando si vive tra gli infedeli, appartenga
soprattutto alla tradizione sciita. E tuttavia, qui sembrerebbe proprio di
avere a che fare con qualcosa del genere. Del resto, la taqyya ha almeno un importante
precedente nel mondo sunnita: quello dei moriscos
in Spagna dopo la Reconquista.
Il
problema terrorismo jihadista va letto all’interno del problema islam,
come non mi stancherò mai di ripetere, perché i terroristi escono dall’”album
di famiglia” dell’islam, si nutrono della cultura dell’islam. A parte la
risposta che occorre dare al fenomeno sul piano dell’intelligence, delle misure
di polizia, della legislazione, delle iniziative militari contro l’Isis, è
fondamentale la risposta culturale e
quindi la corretta lettura del fenomeno. Dato che questa risposta culturale e
questa lettura coinvolgono la storia, la filosofia e la teologia e dato che
cerco di parlare preferibilmente delle cose che conosco, che studio da una vita
e che devo anche sapere per mestiere, e non di quelle che ignoro o di cui ho
conoscenze sommarie, mi concentro solo su questo aspetto del problema, senza
con ciò escludere che anche gli altri aspetti siano rilevanti e magari anche
più urgenti nella risposta immediata da dare.
Riprendo una
considerazione già da me svolta, perché ad essa si può agganciare una acuta
analisi di Niram Ferretti, che a mio avviso ha il merito inestimabile di andare
sempre al cuore del problema. La considerazione che devo ribadire riguarda la
radicale diversità fra la Bibbia e il Corano, ossia fra le due fonti di
rivelazione delle religioni monoteistiche (a dispetto di quanto affermato pochi
mesi fa dall’ignorantissimo attuale pontefice romano). La rivelazione biblica è storica, si svolge nella storia ed è mediata
dagli uomini. La rivelazione del
Corano è astorica e atemporale. I testi biblici, per il credente, sono “ispirati”; il Corano si presume “dettato” letteralmente da Allah a Maometto attraverso l’arcangelo
Gabriele. La Bibbia quindi esige l’interpretazione e la critica storica ed il
“letteralismo fondamentalista”, pur dominante per secoli, pur assai diffuso
ancor oggi, tradisce il carattere stesso della rivelazione biblica. Usando il
termine in senso rigorosamente tecnico il fondamentalismo è un’eresia (il che evidentemente
non autorizza a servirsi della critica storica per manipolare la testimonianza
biblica, sovrapponendo ad essa concezioni e tradizioni umane o ideologie
attuali). Nell'ebraismo esiste poi il Talmud, opera interminata di interpretazione della Torah. Con il Corano, ci troviamo, invece, nella situazione esattamente opposta:
esso è immodificabile e infallibile (“inerrante”) in quanto non contiene (per il fedele, si intende) la
“testimonianza” della parola divina, umanamente e storicamente mediata, ma la
parola divina stessa: il Corano è Allah incarnato, o meglio incartato. Il letteralismo fondamentalista quindi non
è una deviazione o un’eresia, e neanche una possibilità alternativa ad
un’altra, ma è l’essenza della religione islamica.
Per questo, gli oltre 400
versetti individuati dall'islamologo Laurent Lagartempe (Il Corano contro la Repubblica. I versetti incompatibili), che,
come ha ricordato Niram Ferretti, “istigano a commettere crimini e delitti
contro la persona, in particolare nei confronti delle donne, degli ebrei, dei
cristiani, degli apostati, degli adulteri e degli omosessuali”, sono un serio
problema, perché non possono essere “trattati” criticamente allo stesso modo in
cui si possono trattare, ad esempio, certi versetti del Levitico sull’omosessualità
o l’adulterio. Né è possibile distinguere, nell’islam, la sfera giuridica da
quella etica, la religione dalla politica, la giurisdizione religiosa da quella
civile, il reato dal peccato.
Da qui la conseguenzialità
di domande sulla compatibilità tra l’islam e le leggi della Repubblica francese
(ma discorso analogo si può fare per la compatibilità dell’islam con la
Costituzione e la legislazione italiane). Chi chiede di “mettere al bando l’islam”
– cosa che fa inorridire legioni di benpensanti – certamente pretende di risolvere
troppo sbrigativamente un serissimo problema, con esiti che potrebbero avere un
effetto boomerang, ma quantomeno parte da un’analisi corretta e si pone domande
sensate.
Quest’analisi non può
prescindere, come si diceva, da una valutazione del tipo di rivelazione e di
libro sacro che sono propri dell’islam. Gli stessi contenuti di tale
rivelazione e di questo libro vanno letti alla luce di quella valutazione. In
questa direzione, Niram Ferretti mi offre uno spunto critico che reputo
estremamente importante. Anche Niram, rileva come, in quanto testo increato,
per i suoi adepti, il Corano sia fuori dal tempo e dalla storia. Ma, procedendo
con rigore nel ragionamento, se questo è vero per il testo che è a fondamento
della vita privata e civile nelle comunità islamiche, allora è l’islam stesso
che si concepisce e si vive al di fuori del tempo e della storia. “Per i
musulmani di stretta osservanza”, scrive Niram “il trascorrere dei secoli o la
manciata di secondi che è appena trascorsa nello scrivere questa frase, sono la
stessa cosa. Quella che noi occidentali, formati sul concetto di tempo rettilineo
e rivolto al futuro, un portato ebraico e poi cristiano, consideriamo storia, è
solo il contenitore in cui si deve rovesciare ciò che è eterno”. “La storia per
l'Islam non esiste”, scrive ancora Niram Ferretti, “o meglio esiste solo la
storia dell'Islam, l'unica e vera religione dell'umanità, quella originaria ed
eterna. L'anacronismo deliberato è una caratteristica fondamentale della
teologia islamica. La collocazione storico temporale dell'Islam, il suo
sorgere, è irrilevante rispetto a ciò che questo avvenimento manifesta, la rivelazione
della fede primigenia e definitiva di cui tutte le religioni anteriori non sono
che forme imperfette o tentativi di falsificazione. La pretesa totalizzante
dell'Islam nasce da questo, innanzitutto, da una perentorietà teologica e
religiosa impositiva”.
Da parte mia, osservo come, a partire almeno dalla
capitale opera di Karl Löwith – Significato
e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia –
che ha peraltro come suo retroterra le grandi intuizioni di Nietzsche – la cultura
occidentale sia ben consapevole di come la modernità – non solo nelle sue
espressioni filosofiche, ma in ogni sua espressione, a cominciare dall’idea di
progresso scientifico e tecnologico - sia largamente figlia di una concezione della
storia e del tempo che secolarizza la visione teologica ebraico-cristiana. Löwith,
forse ancora irretito da pregiudizi antigiudaici, ascriveva questa teologia
della storia essenzialmente ad Agostino e la contrapponeva, sull’onda appunto
di Nietzsche, all’idea circolare e ciclica del tempo propria dell’antichità e
della cultura pagana (e che ovviamente si ritrova ancora nell’ebraismo o nel
cristianesimo, quando si ha a che fare con il tempo delle feste, dei cicli agricoli
e della liturgia). La sorgente della riflessione di Agostino era però la Bibbia
ebraica, sia pure da lui conosciuta solo in latino, mentre la seconda
fondamentale fonte di questa filosofia della storia che ha plasmato l’Occidente
è il messianismo ebraico, corrente estremamente complessa e sfaccettata, su cui
oggi esiste per fortuna una sterminata letteratura. L’influenza di questa
corrente e di questo paradigma della storia e del tempo sulla cultura occidentale
si esercita non solo attraverso la mediazione e la rielaborazione cristiana, ma
anche in parte direttamente.
La cultura occidentale
ha però anche peccato di presunzione – questo mi pare di poter dire sulla base
dell’indicazione che mi suggerisce ciò che scrive Niram Ferretti. Sentendosi
vincente nel clash of civilization,
non ha prestato attenzione a quanto accadeva, o meglio non accadeva nel mondo islamico. Questo mondo rigettava largamente sia la concezione ciclica che quella
lineare del tempo e viveva il tempo storico, sulla base del suo testo sacro,
come l’apparenza ingannevole, e anche blasfema, a fronte della immobile verità
dell’eterno senza tempo. Ai suoi livelli alti - che mi sembrano estinti da
tempo, ma posso sbagliarmi per ignoranza della cosa – la medioevale frequentazione
araba della filosofia greca ha forse rafforzato questa concezione
L’Occidente ha liquidato
tutto ciò sotto le categorie di “ignoranza” e di “arretratezza”. Il problema
dell’ignoranza nel mondo islamico certamente esiste ed è colossale. Secondo uno
studio del 2007 di Pervez Hoodbhoy, professore di Fisica all’università di
Islamabad (Science and the Islamic world –
the quest for reapprochment), l’intero mondo arabo traduce in un anno da
altre lingue solo 330 libri, un quinto dei libri tradotti in greco moderno, a
fronte di una popolazione enormemente maggiore. Negli ultimi mille anni si sono
tradotti in arabo lo stesso numero di libri che si traducono oggi in un solo
anno in spagnolo.
E tuttavia, quando
Maurizio Molinari – allora ancora prezioso corrispondente dal Medio Oriente –
ci avvertiva che il progetto dello Stato islamico era né più né meno che quello
di riportare le lancette dell’orologio della storia ai primi secoli della
diffusione e della conquista islamica, al tempo del Profeta e dei suoi
immediati successori, e di imporre quel modo di essere e di vivere, con tutto
il suo terrificante armamentario giuridico di decapitazioni, lapidazioni, crocifissioni,
schiavitù e dhimmitudine, alla “Casa
dell’Islam” e poi progressivamente e attraverso il jihad alla “Casa della
Guerra”, ossia anche a noi e ai nostri paesi, lo abbiamo letto e ascoltato in
pochi e anche quei pochi hanno forse sbrigativamente liquidato la cosa come
fanatismo, ignoranza e arretratezza. Seguendo, invece, questa pista di ricerca,
dovremmo renderci conto di avere a che fare con un male ben più grave, con una concezione alternativa della storia,
alternativa alla modernità. Del resto, già la lettura delle opere del più
importante studioso dell’islam e del Medio Oriente, Bernard Lewis (cito solo La
costruzione del Medio Oriente, Il linguaggio politico dell’islam,
pubblicati negli anni Novanta e poi
il “profetico” What went wrong – Western impact
and Middle Eastern Response, scritto all’indomani dell’11 settembre e La crisi dell’islam, di qualche anno
posteriore) doveva avvertirci che, come recita una formula efficacemente
sintetica, il problema degli islamisti e di larga parte del mondo islamico, che
è fatto di individui che certamente non vanno a sgozzare preti e magari
deplorano anche sinceramente queste cose, ma condividono un comune terreno
culturale con i jihadisti, non è quello
di “modernizzare l’islam”, ma piuttosto di “islamizzare la modernità”.
Ecco perché, prendendo
ancora a prestito le lucide osservazioni di Niram, non può essere derubricata
come follia, ignoranza o fanatismo l’affermazione del mufti palestinese Ahmed
Hussein il quale ha dichiarato che la moschea di Al Aqsa – la moschea che sorge
a Gerusalemme sul Monte del Tempio, oggi anche detto “spianata delle Moschee” –
“esisteva 3000 anni fa, anzi "30000" anzi, "dalla creazione del
mondo".
Si tratta di una affermazione
che si colloca nel contesto di una cultura antistorica e antimoderna e che è
però tutt’altro che innocua, visto che l'anteriorità della moschea di Al Aqsa
rispetto a quella del Tempio di Salomone serve a sostenere una violenta sopraffazione ideologica, secondo cui gli ebrei non
hanno alcun diritto a salire al Monte del Tempio, non essendo infatti il Tempio
mai esistito per buona parte dei musulmani e degli arabi, così come Israele
tutto non ha alcun diritto ad esistere, perché, con buona pace di ogni
elementare evidenza storica, il popolo originario della Palestina sarebbe
quello che oggi rivendica di essere stato derubato della propria terra.
Nessun
europeo può più illudersi che ciò che viene pensato e si cerca di fare nei
confronti di Israele riguardi solo Israele, in quanto corrisponde ormai a ciò
che viene pensato e che si cerca di fare nei confronti di tutto il mondo
occidentale.
Ecco perché serve ben
altro che qualche imam che si reca in chiesa e che offende la nostra
intelligenza sostenendo che il messaggio di Maometto è un messaggio di amore.
Servirebbe un vero evento epocale, un fatto davvero enorme: una grande riforma
dell’islam che mettesse in discussione l’idea stessa di rivelazione e la
concezione del tempo e della storia che essa sottende e nel contempo nutre.
Si può dire, ed è vero,
che al mondo ebraico-cristiano sono stati necessari tanti secoli per molto meno
e cioè per accorgersi, grazie a Spinoza, che il Pentateuco non era stato
scritto da Mosè, senza peraltro che questo compromettesse minimamente la fede
biblica. Il problema è che nessuno Spinoza si intravede nel mondo islamico e
che comunque non abbiamo tutto questo tempo a disposizione.
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