domenica 7 agosto 2016

SULLA MANIPOLAZIONE DELLA STORIA: ABU MAZEN E LA "DICHIARAZIONE BALFOUR"



Pochi giorni fa, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, colui cioè che dovrebbe essere l’interlocutore del governo israeliano nel processo di pace, se ne è uscito con questa dichiarazione che in prima battuta indubbiamente provoca solo ilarità: Abu Mazen vorrebbe citare in giudizio la Gran Bretagna per la “dichiarazione Balfour” del 1917! Purtroppo, la vicenda non è affatto comica e non è da prendere così alla leggera, come molti hanno giustamente osservato in Israele (http://www.israele.net/abu-mazen-contro-balfour-molto-peggio-che-una-comica). Il discorso che l’annuncio di Abu Mazen sottende è infatti questo: lo Stato di Israele è una “invenzione” della prepotenza coloniale britannica, che ha così “rubato” la “loro” terra ai palestinesi. E’ vero, come è stato subito notato, che in tal modo Abu Mazen mostra di non essere minimamente interessato alla pace, di non essere un interlocutore credibile e affidabile per Israele e di fatto disconosce lo stesso diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Ciò che voglio, però, commentare è la manipolazione della storia che peraltro ritengo, in continuità con il discorso sviluppato nei post precedenti, non sia solo un arma di propaganda politica, ma che risalga a quello che si potrebbe definire il “paradigma coranico della storia”.
Per noi occidentali, tuttavia, la storia si scrive ancora con la raccolta e il vaglio critico dei documenti. E in questo modo la storia reale risulta essere molto diversa da quella raccontata dai palestinesi e, cosa ancora più preoccupante e che ispira questo mio intervento, da quella ripetuta dai loro non pochi sostenitori occidentali.
Vediamola, allora, la storia reale.

La “dichiarazione Balfour” nel “triplice gioco” della Gran Bretagna durante la Prima guerra mondiale.
Fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Palestina e tutta l’area medioorientale erano sotto il dominio dell’Impero Ottomano. Questo è un primo dato storico da sottolineare di fronte a chi ritiene che il “colonialismo europeo” sia un fattore della “rabbia islamica”: i paesi arabi mediorientali, a differenza ad esempio dei paesi africani o della stessa Algeria, non hanno una lunga storia di dominio coloniale occidentale. La loro storia “coloniale” incomincia solo con la fine della Prima guerra mondiale, si svolge come vedremo e si esaurisce quasi immediatamente (è il caso dell’Iraq) o dura pochissimi anni e comunque non nelle forme del vecchio e tradizionale colonialismo.
L’Impero Turco entra in guerra a fianco degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) e contro l’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) alla fine di ottobre del 1914. In questo modo il Medio Oriente diventa teatro di importanti operazioni belliche e soprattutto di strategie politiche per il dopoguerra. La Gran Bretagna, in previsione della disgregazione del dominio ottomano, è molto attiva nella cura dei propri interessi in quell’area strategica del globo e intreccia rapporti con tutti i soggetti in campo. Si può dire che dal 1916 alla fine della guerra, giochi le sue carte su tre diversi tavoli, in attesa dei futuri sviluppi. La “dichiarazione Balfour” è solo uno di questi tavoli e non è il più importante.
Incominciamo, comunque, da questa. Il 2 novembre del 1917, il Ministro degli esteri britannico Balfour, scrive al rappresentante del movimento sionista in Gran Bretagna, lord Rotschild, per comunicargli il contenuto di una dichiarazione di “simpatia per le aspirazioni del movimento sionista” che era stata approvata dal governo inglese. Il governo di Sua Maestà vedeva con favore “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale (National home) per il popolo ebraico” e si sarebbe adoperato per favorire il conseguimento di tale obiettivo, senza peraltro pregiudicare i diritti civili e religiosi delle popolazioni non ebraiche. La dichiarazione seguiva ad una tenace opera di pressione effettuata per due anni dal vero leader sionista britannico, Chaim Weizmann, un chimico che aveva dato tra l’altro con una sua scoperta applicabile alla produzione di proiettili per artiglieria un rilevante contributo allo sforzo bellico britannico. Il governo inglese pensava non solo di ricambiare Weizmann, ma soprattutto di guadagnarsi il favore del movimento sionista attivo anche negli USA. Bisogna ricordare che gli USA non erano ancora entrati direttamente in guerra, ma sostenevano concretamente francesi e inglesi attraverso la cosiddetta “legge affitti e prestiti”. Il movimento sionista poteva quindi giocare un suo ruolo nell’orientare l’amministrazione statunitense a un impegno sempre più stretto a fianco della Gran Bretagna, impegno reso ancor più necessario dalla critica situazione russa (siamo a qualche giorno dalla rivoluzione bolscevica, che avrà luogo il 7 novembre e che porterà a marzo la Russia a ritirarsi dalla guerra). La dichiarazione Balfour nasce innanzitutto da questo contesto di motivi contingenti, sebbene importanti, e non profila un progetto a più lungo termine, come le vicende successive chiariranno in modo incontrovertibile.
D’altra parte, non è certo la dichiarazione Balfour che stabilisce un legame fra il popolo ebraico e la terra di Palestina, visto che questo legame risaliva all’epoca dell’antico Israele e non si era mai veramente interrotto nel corso dei millenni. Una pur piccola comunità ebraica aveva continuato a vivere a Gerusalemme e in altri centri delle antiche Giudea e Samaria. Questa comunità si era già notevolmente incrementata, prima del 1917 e a partire almeno dal 1882, per effetto della emigrazione di ebrei dell’Europa Orientale in fuga dai pogrom. Il crescente consenso al progetto sionista di uno stato ebraico deriva quindi dalle persecuzioni violente in Russia, ma anche dalla crescente insicurezza in cui vivono gli ebrei nel resto dell’Europa di fronte alla violenta recrudescenza antisemita (il primo teorico dell’antisemitismo e della “razza ariana” è il francese Gobineau con l’ Essai sur l'inégalité des races humaines, 1853-54, seguito a fine secolo dall’inglese Chamberlain), un clima che porta tra l’altro all’Affaire Dreyfus in Francia (il caso scoppia nel 1894 e si trascina per oltre un decennio) e al celebre falso denominato I protocolli dei savi di Sion. La stessa dichiarazione Balfour è in parte un effetto (minimo, peraltro) di questo contesto storico e non è certo essa il fattore del sionismo e dell’emigrazione ebraica in Palestina. Un contesto storico che segna la fine e il tradimento di quella “promessa” dell’Illuminismo occidentale alla quale la stragrande maggioranza degli ebrei della diaspora aveva creduto con convinzione: che si potesse restare ebrei, per tradizione, cultura ed eventualmente per fede religiosa, diventando tuttavia cittadini a tutti gli effetti del paese in cui si risiedeva ormai da lunghissime generazioni e in un regime di uguaglianza rispetto a tutti gli altri cittadini di quel paese. Non è un caso che a metà dell’Ottocento, quando questa promessa sembra ancora realizzabile se non addirittura già in buona parte effettiva, le idee di Herzl, fondatore del sionismo, abbiano ancora scarsissimo seguito e che invece quelle idee conquistino larghissimo favore qualche decennio dopo.
Quando, però, proclama la dichiarazione Balfour il governo britannico ha già preso altri accordi con altri soggetti in gioco, accordi potenzialmente in contraddizione tra loro e con l’impegno in favore del sionismo. Nell’ottobre del 1916, il governo inglese rappresentato da Sir Mark Sykes stipula un’intesa segreto con il governo francese rappresentato da Francois-George Picot. Il Medio Oriente viene suddiviso in tre aree, diversamente colorate sulla carta dell’accordo. Nella zona rossa, più o meno corrispondente all’attuale Iraq, gli inglesi si riservavano il diritto di insediare il tipo di amministrazione e controllo che avrebbero voluto. La stessa prerogativa spettava alla Francia nella zona blu, che comprendeva gli attuali paesi della Siria e del Libano più la Cilicia. La “Palestina”, segnata in marrone, era indicata come soggetta a una non meglio precisata “amministrazione internazionale”. Da notare che questa area marrone comprendeva anche la Transgiordania (attuale regno di Giordania) e le alture del Golan e coincideva almeno nominalmente con l’area in cui il governo inglese si sarebbe poi impegnato, un anno dopo, a favorire la nascita di uno stato ebraico.
Al momento, però, il tavolo di gioco più importante per la Gran Bretagna era un altro ancora e coinvolgeva le popolazioni arabe, o meglio quelli che erano ritenuti i loro più autorevoli rappresentanti: si trattava della dinastia hascemita del deserto che aveva il controllo, per conto dell’Impero Ottomano, dei luoghi santi della Mecca e quindi rappresentava la massima autorità religiosa di nomina ottomana nel mondo arabo. Staccare gli hascemiti e, in particolare, lo “sceriffo” della Mecca Husayn, dai Turchi, metterli a capo di una rivolta nazionalista araba contro il dominio ottomano e renderseli così alleati nella guerra che la Gran Bretagna conduceva dall’Egitto contro gli stessi Turchi e che puntava come obiettivo finale alla conquista di Damasco, era una mossa strategicamente molto intelligente. Tanto più che il Sultano, istigato dai tedeschi, aveva lanciato ai suoi sudditi arabi un appello al jihad contro inglesi e francesi. Gli inglesi si impegnarono così con Husayn a sostenere la rivolta araba con denaro, grano e fucili e sir Mac Mahon, alto commissario in Egitto, nell’ottobre 1915 si impegnava a sostenere l’indipendenza degli arabi nei confini richiesti dallo sceriffo della Mecca, eccetto quelle parti della Siria per cui aveva manifestato interesse la Francia ed eccetto le provincie di Baghdad e Bassora nelle quali ci si riservava di insediare un’amministrazione anglo-araba.
Sulla base di quest accordi Husayn lanciò un appello alla rivolta araba contro i Turchi e formò un esercito arabo capeggiato dal figlio Feysal. Le tribù arabe e soprattutto beduine, d’altra parte, raccolsero limitatamente e con riserve questo appello: in genere scendevano in campo solo in presenza di argomenti convincenti (il denaro, il grano e le armi, di cui aveva parlato Mc Mahon) e il loro comportamento restava in molti casi ambiguo. Molto spesso, uno stesso sceicco veniva pagato sia dagli inglesi che dai turchi…Chi riuscì a destreggiarsi abilmente in questo mondo infido delle tribù, fu, come è noto, un leggendario archeologo di Oxford, prestato alla guerra e ai servizi di spionaggio: Lawrence d’Arabia.
Se limitiamo il discorso all’area della Palestina, dobbiamo quindi rilevare che essa, tra il 1915 e il 1917, è fatta oggetto di tre diversi accordi, rispettivamente con gli hascemiti, con la Francia e con il movimento sionista e che ciascuno di questi tre accordi prevede una cosa diversa! Non c’è molto da scandalizzarsi, peraltro: la Gran Bretagna ha come obiettivo più immediato quello di vincere la guerra, come obiettivo strategico la difesa dei propri interessi in Medio Oriente e deve tener conto della fluidità e della incertezza della situazione. E’ però del tutto fuorviante, come si è visto, presentare la dichiarazione Balfour come un impegno univoco della politica di Sua Maestà britannica.

La politica britannica nei confronti di ebrei ed arabi nel periodo del mandato in Palestina: il fallito progetto di un regno arabo della “Grande Siria”
La manipolazione storica presente nella ricostruzione palestinese e pro-pal che fa risalire alla dichiarazione Balfour l’”invenzione” dello stato di Israele, emerge in modo ancor più evidente se si passa ora agli sviluppi, nel dopoguerra, di questa intricata situazione.
Sconfitti i turchi, il figlio di Huseyn, l’emiro Faysal, insedia un governo arabo a Damasco e rivendica per sé e per la propria dinastia la sovranità su un regno della “Grande Siria”, che comprenda anche l’area della Palestina. Qui vanno fatte alcune osservazioni, mentre di solito se ne fa solo una, e cioè che questa rivendicazione smaschererebbe l’”inganno” britannico ai danni degli arabi. Certamente, la Gran Bretagna mostra di non voler affatto assecondare le aspirazioni di Faysal. Questa aspirazioni, tuttavia, tradivano esse stesse la lettera degli accordi stipulati con il governo inglese attraverso Mac Mahon, in quanto si estendevano a zone della Siria che erano previste di pertinenza francese. La violazione degli impegni, in sostanza, non è solo britannica, ma è reciproca e su di essa, peraltro, è davvero futile esercitare giudizi moralistici. Qui ognuno fa il proprio gioco e, peraltro, gli inglesi si preoccuperanno ben presto di “risarcire”, nel modo che vedremo, Husayn, Faysal e la loro casata.
Un’altra importante considerazione, sempre taciuta, è che Faysal e Husayn non parlano mai di una “nazione palestinese” né di un regno o stato palestinese, ma di una causa nazionale araba e di un “regno di Siria”, nel quale regno di Siria è inglobata anche la Palestina. Gli abitanti arabi di questa regione sono considerati semplicemente arabi o, più precisamente, “siriani del sud”. Del resto, ancora il 31 maggio 1956, dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’ONU, il futuro dirigente dell’OLP Ahmed Shoukeiry, dichiarò testualmente che “è di pubblica conoscenza che la Palestina non è altro che la Siria del Sud”. E’ quindi bene tener presente che, quando in questa vicenda si parla di rivendicazioni arabe o di progetti di stati arabi, in nessun caso e in nessun modo si fa riferimento a rivendicazioni e progetti che riguardino una specifica “nazione araba palestinese”, per il semplice motivo che l’esistenza di una tale entità è bellamente ignorata dagli stessi leader e portavoce del nazionalismo arabo!
Altro aspetto regolarmente ignorato: Faysal, che interviene anche al Congresso di pace di Parigi a sostegno delle aspirazioni arabe e sue personali, riconosce pubblicamente e ufficialmente le aspirazioni sioniste, ritenendo che “fra i due nazionalismi non vi sia incompatibilità”. Nel gennaio 1919 giunge persino a firmare un accordo con il leader sionista Weizmann con il quale concede la Palestina al movimento sionista, a condizione che fossero contemporaneamente adempiute le promesse britanniche per un regno arabo, aggiungendo che se questo non fosse accaduto non avrebbe rispettato una sola parola dell’accordo con Weizmann. Pertanto, anche Faysal, al momento il maggiore rappresentante della causa araba, gioca spregiudicatamente su più tavoli, per raggiungere il proprio obiettivo.
Da parte britannica, più che un esplicito diniego dalle rivendicazioni hascemite, vi è un prendere tempo: il governo inglese è ben lieto di accogliere la proposta statunitense di una commissione internazionale che si rechi in loco a raccogliere pareri e rivendicazioni e a studiare soluzioni. Questa commissione, a cui gli inglesi si guardano bene dal partecipare, si conclude con un prevedibile nulla di fatto, ma la dilazione dei tempi di decisione determina una radicalizzazione del nazionalismo arabo, che gli hascemiti continuano a fomentare e a strumentalizzare, ma che sempre più largamente sfugge loro di mano. Un congresso arabo riunitosi a Damasco, rivendica la costituzione di un Regno indipendente di Siria che comprenda anche Libano e Palestina e si dichiara violentemente contrario alle “pretese dei sionisti” e “a qualunque immigrazione sionista in qualunque parte del nostro paese, in quanto non riconosciamo loro alcun titolo e li consideriamo invece un grave pericolo per il nostro popolo dal punto di vista nazionale, politico ed economico”. Si trattava di una sorta di dichiarazione di indipendenza che non fu riconosciuta dagli inglesi e dai francesi. Questi ultimi, il 20 luglio 1920, intervennero militarmente contro un improvvisato esercito di volontari arabi, sconfiggendolo in modo definitivo ed occupando la Siria, che avrebbero amministrato fino alla seconda guerra mondiale nella forma del mandato.
E’ una svolta decisiva, perché da questo momento in poi, il nazionalismo arabo, soffocato dai francesi in Siria, si orienta sulla Palestina e su Gerusalemme, si scontra direttamente con gli ebrei e con il movimento sionista e vede emergere come leader degli arabi palestinesi, al posto degli screditati hascemiti, l’inquietante figura del muftì di Gerusalemme, che si chiama anche lui Huseyn, e sarà filonazista e stretto alleato di Hitler, a cui proporrà la sua collaborazione al progetto di genocidio degli ebrei.

La politica filoaraba della Gran Bretagna nel periodo del mandato
Questo passaggio cruciale ha però notevolissimi effetti anche sulla politica britannica che da questo momento, pur conservando oscillazioni e contraddizioni, segue una chiara direttrice filoaraba. Viene così di fatto cancellata la dichiarazione Balfour, nonostante essa venga incorporata nella risoluzione della Società delle Nazioni, che riconosce il mandato britannico sulla Palestina, impegnando in tal modo la Gran Bretagna a promuovere la costituzione di uno stato ebraico.
E’ una leggenda assolutamente falsa storicamente che la Gran Bretagna nel periodo del suo mandato in Palestina abbia favorito gli ebrei a scapito degli arabi. I fatti dimostrano che per molti versi è vero il contrario e se gli arabi possono, in parte a ragione, accusare gli inglesi di aver tradito le promesse fatte a Faysal, gli ebrei potrebbero a maggior ragione accusarli di aver tradito la dichiarazione Balfour, con la rilevante differenza che per effetto della risoluzione della Società delle Nazioni, la dichiarazione Balfour non era più un impegno unilaterale del governo inglese, e non era neanche un accordo fra due parti come quello fra Mc Mahon e Faysal, ma era un impegno assunto dall’Inghilterra su mandato della comunità internazionale.
Innanzitutto, il territorio mandatario di Palestina viene mutilato, sicché si restringe drasticamente l’area ove dovrebbe sorgere lo Stato ebraico. Nel 1923, infatti, la Transgiordania, ossia l’attuale regno di Giordania, che era parte integrante della Palestina del mandato, viene staccata da questa e data all’emiro Abdullah che è un altro hascemita e precisamente un altro figlio di Husayn e fratello quindi di Faysal. A Faysal, nel frattempo, era stato già dato il regno dell’Iraq (1921). In tal modo, l’Inghilterra intende risarcire gli hascemiti e tenerli legati a sé come propri partner privilegiati nel teatro mediorientale. Sempre nel 1923, le alture del Golan – eh sì proprio le famose alture del Golan! – che erano – attenzione – parte integrante pur esse del territorio mandatario della Palestina, vengono cedute al mandato francese della Siria. Quando si parla delle alture del Golan come “territorio occupato” illegittimamente da Israele nel 1967 e abusivamente sottratto alla Siria, bisognerebbe allora ricordare che questo territorio era stato arbitrariamente sottratto al mandato di Palestina, e quindi allo Stato ebraico previsto dalla dichiarazione Balfour, e altrettanto arbitrariamente e abusivamente ceduto alla Siria. Ma chi lo ricorda mai?
Altre questioni immancabilmente sollevate dalla propaganda araba e filo palestinese sono quelle delle terre “sottratte” dagli ebrei ai contadini arabi durante il mandato britannico e dell’immigrazione ebraica nello stesso periodo. Vediamo la realtà storica.
Riguardo alle terre, esse non furono mai depredate o saccheggiate, ma comprate con regolari contratti e pagate generalmente al di sopra di quello che era in quel momento il loro stimabile valore di mercato. E’ vero che gli esponenti del nazionalismo arabo lanciavano proclami che diffidavano gli arabi dal cedere le terre agli ebrei, ma è altrettanto vero che tanto le famiglie della “feudalità” palestinese, quanto le comunità dei villaggi se ne infischiavano altamente di questi moniti e proclami e cercavano di lucrare sulla vendita di terre che spesso erano incolte e che ritenevano poco produttive (i coloni ebrei avrebbero dimostrato il contrario). Dunque, l’insediamento sionista si realizza in stretta collaborazione con gli arabi e l’idea di ebrei che hanno spogliato gli arabi di case e terre, almeno riguardo al periodo che precede il 1948, è puramente fantastica. Gli investimenti ebraici hanno anzi rivitalizzato l’economia locale, a tutto vantaggio della stessa comunità araba. E’ chiaro che questo processo di trasferimento di terre ha contribuito a compromettere l’obiettivo arabo di impedire la nascita di uno stato ebraico, ma questo è un errore storico che gli arabi devono imputare solo a se stessi (e non è l’ultimo di una lunga serie) e non certo alle autorità britanniche, che anzi intervengono con ripetute ordinanze (1920-21, 1929, 1932, 1940), cercando di limitare drasticamente l’acquisto di terre da parte degli ebrei e di ridurre sempre più l’estensione del focolare nazionale promesso. Ma i proprietari e i contadini arabi non tengono in maggior conto queste ordinanze dei proclami dei loro leader nazionalisti e antisionisti.
Riguardo poi all’immigrazione ebraica, regolarmente denunciata dagli arabi come se si trattasse di una sorta di invasione straniera e di un complotto (“giudo-massonico”), orchestrato dalla potenza mandataria, abbiamo visto che questa emigrazione incomincia, ben prima della Dichiarazione Balfour e del mandato britannico, tra il 1882 e il 1903, quando si verifica la prima grande aliya, per i motivi già richiamati. Con la seconda aliya, che giunge fino al 1914 la popolazione ebraica palestinese è già passata da circa 25.000 unità a circa 85000. Alla fine degli anni Venti, il numero degli ebrei sarà più che raddoppiato, sfiorando ormai le 200.000 unità. A questo punto il ritmo dell’immigrazione cala considerevolmente fino al 1932, per poi conoscere un’impennata fra il 1933 e il 1935, in seguito alla presa del potere del nazismo. Dal 1922 al 1935 la popolazione ebraica in Palestina passa dal 9 al 27 %. Devo avvertire che i dati demografici sono piuttosto incerti e le ricostruzioni sono condizionate dal conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, ho scelto di citarli e di citare quelli riportati da una fonte sicuramente seria, ma certamente non sospetta di ostilità al mondo arabo, né di pregiudizi filoisraeliani  (Mc Carthy, The Population of Palestine, Columbia University press, 1990).
Certamente, fino alla metà degli anni Trenta l’immigrazione ebraica è un fenomeno rilevante, ma si tratta di un processo che non viene affatto favorito dall’autorità britannica e che anzi si svolge largamente in contrasto con le sue volontà e deliberazioni. Questa immigrazione sarebbe stata presumibilmente più ampia, se non fosse stata ostacolata dalla Gran Bretagna, già negli anni di cui sopra e certamente dopo. Fin dal 1922 il primo Libro bianco inaugura, infatti, una serie di misure destinate a limitare drasticamente fino a bloccarla l’immigrazione ebraica in Palestina e a rendere inoperante la portata della Dichiarazione Balfour. Nel 1930, la dichiarazione Balfour è di fatto annullata dall’ennesimo Libro bianco, quello di lord Passfield, segretario alle Colonie. Questo documento era tanto sbilanciato in senso filoarabo e antisionista che il governo Mac Donald si vide costretto dalle pressioni dell’opposizione, ma anche di esponenti del suo partito a rimediare con una lettera dove affermava che il governo britannico non aveva alcuna intenzione di fermare o proibire l’immigrazione degli ebrei. Si trattava di una mera dichiarazione astratta e comunque di un documento che non aveva lo stesso valore del Libro bianco, eppure fu sufficiente ad attizzare ulteriormente il nazionalismo arabo, già protagonista di gravi incidenti nel 1929, quando il  mufti di Palestina aveva arringato la folla a Gerusalemme e ne erano seguiti scontri, con la morte di 133 ebrei e 87 arabi. La vecchia comunità ebraica di Hebron era stata del tutto annientata. Fra il 1936 e il 1939 si succedono le azioni terroristiche arabe tanto contro gli inglesi che contro gli insediamenti ebraici e le rappresaglie britanniche sono molto dure.
Tuttavia, di fronte alla rabbia araba la Gran Bretagna non mostra solo il bastone, ma anche e soprattutto la carota. E’ proprio alla fine di questo periodo insurrezionale che si registra l’ultimo Libro bianco che impone agli ebrei restrizioni gravissime e che hanno una portata assolutamente tragica, se si pensa alla loro situazione in un Europa che si appresta ad essere in larghissima parte occupata dai nazisti. Si fissa un tetto di 15000 nuovi arrivi all’anno per 5 anni, dopo di che l’ulteriore immigrazione sarebbe stata soggetta al placet della maggioranza araba, ossia sarebbe stata impossibile. L’acquisto di terre sarebbe stato drasticamente limitato e in alcune regioni semplicemente vietato. Incredibilmente, questo Libro bianco non fu rifiutato solo dagli ebrei, come era ovvio, ma anche dagli arabi.
La politica britannica va letta non solo come tentativo di sedare l’animosità araba, ma soprattutto alla luce della nuova situazione internazionale. L’avvento del fascismo e del nazismo, con la propaganda e la politica filo-araba di Mussolini prima e di Hitler poi, la strategia di alleanza fra pangermanesimo e panarabismo in funzione antibritannica, l’aperto filo nazismo del muftì di Palestina e le sue intese con Hitler, non fanno altro che orientare in modo più deciso in direzione degli arabi una Gran Bretagna timorosa di perdere le sue posizioni in Medio Oriente. Il calcolo britannico è cinico ma semplice: gli ebrei non hanno alternative, non possono che restare legati al carro inglese, mentre occorre sottrarre gli arabi all’influenza tedesca e nazista.
Questa linea politica, peraltro criticata non solo dall’opposizione laburista ma anche da alcuni conservatori a cominciare da Churchill, si rivelerà fallimentare e miope e contribuirà indirettamente ad accrescere il numero di vittime della shoah. Il Libro bianco del 1939 fu infatti applicato rigorosamente e le navi di profughi giunte in prossimità dei porti palestinesi furono bloccate. Questa situazione non cambiò nemmeno dopo la fine della guerra e dopo che tutto il mondo aveva ormai saputo dell’orrore del genocidio degli ebrei. Il caso più famoso, ma non certo l’unico, si verificò nel 1947 e fu quello dell’Exodus, che era riuscito a raggiungere il porto di Giaffa. Qui fu impedito ai suoi 4500 passeggeri l’ingresso in Palestina ed essi furono rispediti in Francia da dove sarebbero finiti in degli appositi campi di concentramento in Germania.
La situazione palestinese era ormai ingestibile per la Gran Bretagna, che non solo non aveva minimamente sedato l’ostilità araba nei suoi confronti, ma si era inimicata anche la popolazione ebraica e il movimento sionista. Nonostante tutto, Ben Gurion tenne un atteggiamento molto responsabile, facendo appello, durante la guerra, a che si combattesse a fianco dell’Inghilterra contro il nazismo, come se il Libro bianco non esistesse. D’altra parte Ben Gurion disse anche che bisognava opporsi al Libro bianco in Palestina, come se la guerra non esistesse, mentre in dissenso con la sua linea si formavano e agivano formazioni ebraiche, prime fra tutte l’Irgun del futuro ministro Begin, che conducevano azioni di guerriglia contro gli inglesi.

La fine del mandato inglese e la nascita dello stato di Israele secondo la risoluzione dell’ONU
Alla fine del periodo del mandato, la Gran Bretagna lasciava dunque una situazione esplosiva con nazionalisti arabi e sionisti che si combattevano fra loro e combattevano entrambi, nello stesso tempo, gli inglesi. E’ in queste condizioni che lord Bevin sottopone il problema del mandato palestinese all’assemblea ONU nel febbraio 1947. Non è detto che il governo inglese fosse convinto della necessità di lasciare definitivamente la Palestina. E’ più probabile che sperasse in un prevedibile insuccesso dell’ONU stessa che avrebbe lasciato libera la Gran Bretagna di ritornare in Palestina e stavolta con le mani libere. L’assemblea aveva del resto bisogno di una maggioranza di due terzi difficile allora da ipotizzare. E invece il 29 novembre 1947, fu deliberata a sorpresa la spartizione della Palestina, con la nascita dello Stato ebraico, nonostante l’ostilità araba e il boicottaggio della commissione ONU da parte degli stessi inglesi della commissione. La nascita di quel “focolare nazionale ebraico”, solo teoricamente annunciato nella dichiarazione Balfour, rimasta inoperante fino a quel momento e disattesa innanzitutto dalla Gran Bretagna stessa, avveniva quindi con un voto a larga maggioranza dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Tutta la vicenda qui ricostruita mostra quindi come sia assolutamente falso sul piano storico sostenere che lo Stato di Israele sia nato in seguito alla dichiarazione Balfour e grazie al sostegno britannico. E’ vero, invece, che esso è nato a dispetto della politica britannica e che questa politica, almeno negli anni Trenta, ha ripetuto in Palestina gli stessi errori compiuti in Europa contro Hitler. La repressione delle rivolte arabe e le rappresaglie immancabilmente seguite all’uccisione di soldati e civili britannici non devono ingannare, perché gli inglesi le hanno considerate in quel periodo soltanto delle inevitabili misure militari che non modificavano e anzi paradossalmente rafforzavano quella linea politica di risposta alle rivendicazioni del nazionalismo arabo che era  essenzialmente  di appeasement. In tal senso, il Libro bianco del 1939 è un po’ il corrispettivo in Palestina e nei confronti degli arabi dell’accordo di Monaco dell’anno prima. Se Ben Gurion non li avesse sconfitti – per molti inaspettatamente – nel 1948-49, se non fossero stati ancora sconfitti militarmente nel 1967 e nel 1973, i nazionalisti arabi avrebbero cacciato (o soppresso) tutti gli ebrei, secondo i loro dichiarati propositi e Israele non sarebbe mai nato o avrebbe subito cessato di esistere.
Questa storia contiene dunque importanti lezioni, che hanno grande valore anche e soprattutto per affrontare i problemi attuali. Non è neanche necessario esplicitare queste lezioni, perché esse sono perfettamente intellegibili. Salvo che per chi “ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ascolta”.

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