Pochi
giorni fa, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, colui cioè che
dovrebbe essere l’interlocutore del governo israeliano nel processo di pace, se
ne è uscito con questa dichiarazione che in prima battuta indubbiamente provoca
solo ilarità: Abu Mazen vorrebbe citare in giudizio la Gran Bretagna per la
“dichiarazione Balfour” del 1917! Purtroppo, la vicenda non è affatto comica e
non è da prendere così alla leggera, come molti hanno giustamente osservato in
Israele (http://www.israele.net/abu-mazen-contro-balfour-molto-peggio-che-una-comica).
Il discorso che l’annuncio di Abu Mazen sottende è infatti questo: lo Stato di
Israele è una “invenzione” della prepotenza coloniale britannica, che ha così
“rubato” la “loro” terra ai palestinesi. E’ vero, come è stato subito notato,
che in tal modo Abu Mazen mostra di non essere minimamente interessato alla
pace, di non essere un interlocutore credibile e affidabile per Israele e di
fatto disconosce lo stesso diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Ciò che
voglio, però, commentare è la manipolazione della storia che peraltro ritengo,
in continuità con il discorso sviluppato nei post precedenti, non sia solo un arma
di propaganda politica, ma che risalga a quello che si potrebbe definire il
“paradigma coranico della storia”.
Per
noi occidentali, tuttavia, la storia si scrive ancora con la raccolta e il
vaglio critico dei documenti. E in questo modo la storia reale risulta essere
molto diversa da quella raccontata dai palestinesi e, cosa ancora più
preoccupante e che ispira questo mio intervento, da quella ripetuta dai loro
non pochi sostenitori occidentali.
Vediamola,
allora, la storia reale.
La “dichiarazione
Balfour” nel “triplice gioco” della Gran Bretagna durante la Prima guerra
mondiale.
Fino
allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Palestina e tutta l’area
medioorientale erano sotto il dominio dell’Impero Ottomano. Questo è un primo
dato storico da sottolineare di fronte a chi ritiene che il “colonialismo
europeo” sia un fattore della “rabbia islamica”: i paesi arabi mediorientali, a
differenza ad esempio dei paesi africani o della stessa Algeria, non hanno una
lunga storia di dominio coloniale occidentale. La loro storia “coloniale”
incomincia solo con la fine della Prima guerra mondiale, si svolge come vedremo
e si esaurisce quasi immediatamente (è il caso dell’Iraq) o dura pochissimi
anni e comunque non nelle forme del vecchio e tradizionale colonialismo.
L’Impero
Turco entra in guerra a fianco degli Imperi centrali (Germania e
Austria-Ungheria) e contro l’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) alla fine
di ottobre del 1914. In questo modo il Medio Oriente diventa teatro di
importanti operazioni belliche e soprattutto di strategie politiche per il
dopoguerra. La Gran Bretagna, in previsione della disgregazione del dominio
ottomano, è molto attiva nella cura dei propri interessi in quell’area
strategica del globo e intreccia rapporti con tutti i soggetti in campo. Si può
dire che dal 1916 alla fine della guerra, giochi le sue carte su tre diversi tavoli, in attesa dei
futuri sviluppi. La “dichiarazione
Balfour” è solo uno di questi tavoli e non è il più importante.
Incominciamo,
comunque, da questa. Il 2 novembre del 1917, il Ministro degli esteri
britannico Balfour, scrive al rappresentante del movimento sionista in Gran
Bretagna, lord Rotschild, per comunicargli il contenuto di una dichiarazione di
“simpatia per le aspirazioni del movimento sionista” che era stata approvata
dal governo inglese. Il governo di Sua Maestà vedeva con favore “la
costituzione in Palestina di un focolare
nazionale (National home) per il
popolo ebraico” e si sarebbe adoperato per favorire il conseguimento di tale
obiettivo, senza peraltro pregiudicare i diritti civili e religiosi delle
popolazioni non ebraiche. La dichiarazione seguiva ad una tenace opera di
pressione effettuata per due anni dal vero leader sionista britannico, Chaim
Weizmann, un chimico che aveva dato tra l’altro con una sua scoperta
applicabile alla produzione di proiettili per artiglieria un rilevante
contributo allo sforzo bellico britannico. Il governo inglese pensava non solo
di ricambiare Weizmann, ma soprattutto di guadagnarsi il favore del movimento sionista attivo anche negli USA. Bisogna
ricordare che gli USA non erano ancora entrati direttamente in guerra, ma
sostenevano concretamente francesi e inglesi attraverso la cosiddetta “legge
affitti e prestiti”. Il movimento sionista poteva quindi giocare un suo ruolo
nell’orientare l’amministrazione statunitense a un impegno sempre più stretto a
fianco della Gran Bretagna, impegno reso ancor più necessario dalla critica
situazione russa (siamo a qualche giorno dalla rivoluzione bolscevica, che avrà
luogo il 7 novembre e che porterà a marzo la Russia a ritirarsi dalla guerra).
La dichiarazione Balfour nasce innanzitutto da questo contesto di motivi
contingenti, sebbene importanti, e non
profila un progetto a più lungo termine, come le vicende successive
chiariranno in modo incontrovertibile.
D’altra
parte, non è certo la dichiarazione Balfour che stabilisce un legame fra il
popolo ebraico e la terra di Palestina, visto che questo legame risaliva
all’epoca dell’antico Israele e non si era mai veramente interrotto nel corso
dei millenni. Una pur piccola comunità ebraica aveva continuato a vivere a
Gerusalemme e in altri centri delle antiche Giudea e Samaria. Questa comunità
si era già notevolmente incrementata, prima del 1917 e a partire almeno dal
1882, per effetto della emigrazione di ebrei dell’Europa Orientale in fuga dai pogrom. Il crescente consenso al
progetto sionista di uno stato ebraico deriva quindi dalle persecuzioni
violente in Russia, ma anche dalla crescente insicurezza in cui vivono gli
ebrei nel resto dell’Europa di fronte alla violenta recrudescenza antisemita
(il primo teorico dell’antisemitismo e della “razza ariana” è il francese
Gobineau con l’ Essai sur l'inégalité des races humaines, 1853-54, seguito a fine secolo dall’inglese
Chamberlain), un clima che porta tra l’altro all’Affaire Dreyfus in Francia (il caso scoppia nel 1894 e si trascina
per oltre un decennio) e al celebre falso denominato I protocolli dei savi di Sion. La stessa dichiarazione Balfour è in
parte un effetto (minimo, peraltro) di questo contesto storico e non è certo essa
il fattore del sionismo e dell’emigrazione ebraica in Palestina. Un contesto
storico che segna la fine e il tradimento di quella “promessa” dell’Illuminismo
occidentale alla quale la stragrande maggioranza degli ebrei della diaspora
aveva creduto con convinzione: che si potesse restare ebrei, per tradizione,
cultura ed eventualmente per fede religiosa, diventando tuttavia cittadini a
tutti gli effetti del paese in cui si risiedeva ormai da lunghissime
generazioni e in un regime di uguaglianza rispetto a tutti gli altri cittadini
di quel paese. Non è un caso che a metà dell’Ottocento, quando questa promessa
sembra ancora realizzabile se non addirittura già in buona parte effettiva, le
idee di Herzl, fondatore del sionismo, abbiano ancora scarsissimo seguito e che
invece quelle idee conquistino larghissimo favore qualche decennio dopo.
Quando,
però, proclama la dichiarazione Balfour il governo britannico ha già preso
altri accordi con altri soggetti in gioco, accordi potenzialmente in
contraddizione tra loro e con l’impegno in favore del sionismo. Nell’ottobre
del 1916, il governo inglese rappresentato da Sir Mark Sykes stipula un’intesa segreto con il governo francese
rappresentato da Francois-George Picot.
Il Medio Oriente viene suddiviso in tre
aree, diversamente colorate sulla carta dell’accordo. Nella zona rossa, più
o meno corrispondente all’attuale Iraq, gli inglesi si riservavano il diritto
di insediare il tipo di amministrazione e controllo che avrebbero voluto. La
stessa prerogativa spettava alla Francia nella zona blu, che comprendeva gli
attuali paesi della Siria e del Libano più la Cilicia. La “Palestina”, segnata
in marrone, era indicata come soggetta a una non meglio precisata
“amministrazione internazionale”. Da notare che questa area marrone comprendeva anche la Transgiordania
(attuale regno di Giordania) e le alture del Golan e coincideva almeno
nominalmente con l’area in cui il governo inglese si sarebbe poi impegnato, un
anno dopo, a favorire la nascita di uno stato ebraico.
Al
momento, però, il tavolo di gioco più importante per la Gran Bretagna era un
altro ancora e coinvolgeva le popolazioni arabe, o meglio quelli che erano
ritenuti i loro più autorevoli rappresentanti: si trattava della dinastia hascemita del deserto che
aveva il controllo, per conto dell’Impero Ottomano, dei luoghi santi della
Mecca e quindi rappresentava la massima autorità religiosa di nomina ottomana
nel mondo arabo. Staccare gli hascemiti e, in particolare, lo “sceriffo” della
Mecca Husayn, dai Turchi, metterli a capo di una rivolta nazionalista araba
contro il dominio ottomano e renderseli così alleati nella guerra che la Gran
Bretagna conduceva dall’Egitto contro gli stessi Turchi e che puntava come
obiettivo finale alla conquista di Damasco, era una mossa strategicamente molto
intelligente. Tanto più che il Sultano, istigato dai tedeschi, aveva lanciato
ai suoi sudditi arabi un appello al jihad contro inglesi e francesi. Gli
inglesi si impegnarono così con Husayn a sostenere la rivolta araba con denaro,
grano e fucili e sir Mac Mahon, alto commissario in Egitto, nell’ottobre 1915
si impegnava a sostenere l’indipendenza degli arabi nei confini richiesti dallo
sceriffo della Mecca, eccetto quelle parti della Siria per cui aveva
manifestato interesse la Francia ed eccetto le provincie di Baghdad e Bassora
nelle quali ci si riservava di insediare un’amministrazione anglo-araba.
Sulla
base di quest accordi Husayn lanciò un appello alla rivolta araba contro i
Turchi e formò un esercito arabo capeggiato dal figlio Feysal. Le tribù arabe e
soprattutto beduine, d’altra parte, raccolsero limitatamente e con riserve
questo appello: in genere scendevano in campo solo in presenza di argomenti
convincenti (il denaro, il grano e le armi, di cui aveva parlato Mc Mahon) e il
loro comportamento restava in molti casi ambiguo. Molto spesso, uno stesso
sceicco veniva pagato sia dagli inglesi che dai turchi…Chi riuscì a
destreggiarsi abilmente in questo mondo infido delle tribù, fu, come è noto, un
leggendario archeologo di Oxford, prestato alla guerra e ai servizi di
spionaggio: Lawrence d’Arabia.
Se limitiamo il
discorso all’area della Palestina, dobbiamo quindi rilevare che essa, tra il
1915 e il 1917, è fatta oggetto di tre diversi accordi, rispettivamente con gli
hascemiti, con la Francia e con il movimento sionista e che ciascuno di questi
tre accordi prevede una cosa diversa! Non c’è molto da
scandalizzarsi, peraltro: la Gran Bretagna ha come obiettivo più immediato
quello di vincere la guerra, come obiettivo strategico la difesa dei propri
interessi in Medio Oriente e deve tener conto della fluidità e della incertezza
della situazione. E’ però del tutto fuorviante, come si è visto, presentare la
dichiarazione Balfour come un impegno univoco della politica di Sua Maestà
britannica.
La politica britannica
nei confronti di ebrei ed arabi nel periodo del mandato in Palestina: il
fallito progetto di un regno arabo della “Grande Siria”
La
manipolazione storica presente nella ricostruzione palestinese e pro-pal che fa
risalire alla dichiarazione Balfour l’”invenzione” dello stato di Israele, emerge
in modo ancor più evidente se si passa ora agli sviluppi, nel dopoguerra, di
questa intricata situazione.
Sconfitti
i turchi, il figlio di Huseyn, l’emiro Faysal, insedia un governo arabo a
Damasco e rivendica per sé e per la propria dinastia la sovranità su un regno
della “Grande Siria”, che comprenda anche l’area della Palestina. Qui vanno
fatte alcune osservazioni, mentre di solito se ne fa solo una, e cioè che
questa rivendicazione smaschererebbe l’”inganno” britannico ai danni degli
arabi. Certamente, la Gran Bretagna mostra di non voler affatto assecondare le
aspirazioni di Faysal. Questa aspirazioni, tuttavia, tradivano esse stesse la
lettera degli accordi stipulati con il governo inglese attraverso Mac Mahon, in
quanto si estendevano a zone della Siria che erano previste di pertinenza
francese. La violazione degli impegni, in sostanza, non è solo britannica, ma è
reciproca e su di essa, peraltro, è davvero futile esercitare giudizi
moralistici. Qui ognuno fa il proprio gioco e, peraltro, gli inglesi si
preoccuperanno ben presto di “risarcire”, nel modo che vedremo, Husayn, Faysal
e la loro casata.
Un’altra
importante considerazione, sempre taciuta, è che Faysal e Husayn non parlano mai di una “nazione palestinese”
né di un regno o stato palestinese, ma di una causa nazionale araba e di un
“regno di Siria”, nel quale regno di Siria è inglobata anche la Palestina.
Gli abitanti arabi di questa regione sono considerati semplicemente arabi o,
più precisamente, “siriani del sud”.
Del resto, ancora il 31 maggio 1956, dinanzi al Consiglio di sicurezza
dell’ONU, il futuro dirigente dell’OLP Ahmed Shoukeiry, dichiarò testualmente
che “è di pubblica conoscenza che la Palestina non è altro che la Siria del
Sud”. E’ quindi bene tener presente che, quando in questa vicenda si parla di
rivendicazioni arabe o di progetti di stati arabi, in nessun caso e in nessun
modo si fa riferimento a rivendicazioni e progetti che riguardino una specifica
“nazione araba palestinese”, per il semplice motivo che l’esistenza di una tale
entità è bellamente ignorata dagli stessi leader e portavoce del nazionalismo
arabo!
Altro
aspetto regolarmente ignorato: Faysal, che interviene anche al Congresso di
pace di Parigi a sostegno delle aspirazioni arabe e sue personali, riconosce
pubblicamente e ufficialmente le aspirazioni sioniste, ritenendo che “fra i due
nazionalismi non vi sia incompatibilità”. Nel gennaio 1919 giunge persino a
firmare un accordo con il leader sionista Weizmann con il quale concede la
Palestina al movimento sionista, a condizione che fossero contemporaneamente
adempiute le promesse britanniche per un regno arabo, aggiungendo che se questo
non fosse accaduto non avrebbe rispettato una sola parola dell’accordo con
Weizmann. Pertanto, anche Faysal, al momento il maggiore rappresentante della
causa araba, gioca spregiudicatamente su più tavoli, per raggiungere il proprio
obiettivo.
Da
parte britannica, più che un esplicito diniego dalle rivendicazioni hascemite,
vi è un prendere tempo: il governo inglese è ben lieto di accogliere la
proposta statunitense di una commissione internazionale che si rechi in loco a
raccogliere pareri e rivendicazioni e a studiare soluzioni. Questa commissione,
a cui gli inglesi si guardano bene dal partecipare, si conclude con un
prevedibile nulla di fatto, ma la dilazione dei tempi di decisione determina
una radicalizzazione del nazionalismo arabo, che gli hascemiti continuano a
fomentare e a strumentalizzare, ma che sempre più largamente sfugge loro di
mano. Un congresso arabo riunitosi a Damasco, rivendica la costituzione di un
Regno indipendente di Siria che comprenda anche Libano e Palestina e si
dichiara violentemente contrario alle “pretese dei sionisti” e “a qualunque
immigrazione sionista in qualunque parte del nostro paese, in quanto non
riconosciamo loro alcun titolo e li consideriamo invece un grave pericolo per
il nostro popolo dal punto di vista nazionale, politico ed economico”. Si
trattava di una sorta di dichiarazione di indipendenza che non fu riconosciuta
dagli inglesi e dai francesi. Questi ultimi, il 20 luglio 1920, intervennero
militarmente contro un improvvisato esercito di volontari arabi, sconfiggendolo
in modo definitivo ed occupando la Siria, che avrebbero amministrato fino alla
seconda guerra mondiale nella forma del mandato.
E’
una svolta decisiva, perché da questo momento in poi, il nazionalismo arabo,
soffocato dai francesi in Siria, si orienta sulla Palestina e su Gerusalemme,
si scontra direttamente con gli ebrei e con il movimento sionista e vede
emergere come leader degli arabi palestinesi, al posto degli screditati
hascemiti, l’inquietante figura del muftì di Gerusalemme, che si chiama anche
lui Huseyn, e sarà filonazista e stretto alleato di Hitler, a cui proporrà la
sua collaborazione al progetto di genocidio degli ebrei.
La politica filoaraba
della Gran Bretagna nel periodo del mandato
Questo
passaggio cruciale ha però notevolissimi effetti anche sulla politica
britannica che da questo momento, pur conservando oscillazioni e
contraddizioni, segue una chiara direttrice filoaraba. Viene così di fatto cancellata
la dichiarazione Balfour, nonostante essa venga incorporata nella risoluzione
della Società delle Nazioni, che riconosce il mandato britannico sulla
Palestina, impegnando in tal modo la Gran Bretagna a promuovere la costituzione
di uno stato ebraico.
E’
una leggenda assolutamente falsa storicamente che la Gran Bretagna nel periodo
del suo mandato in Palestina abbia favorito gli ebrei a scapito degli arabi. I
fatti dimostrano che per molti versi è vero il contrario e se gli arabi possono,
in parte a ragione, accusare gli inglesi di aver tradito le promesse fatte a
Faysal, gli ebrei potrebbero a maggior ragione accusarli di aver tradito la
dichiarazione Balfour, con la rilevante differenza che per effetto della
risoluzione della Società delle Nazioni, la dichiarazione Balfour non era più
un impegno unilaterale del governo inglese, e non era neanche un accordo fra
due parti come quello fra Mc Mahon e Faysal, ma era un impegno assunto
dall’Inghilterra su mandato della comunità internazionale.
Innanzitutto,
il territorio mandatario di Palestina
viene mutilato, sicché si restringe drasticamente l’area ove dovrebbe
sorgere lo Stato ebraico. Nel 1923, infatti, la Transgiordania, ossia l’attuale regno di Giordania, che era parte
integrante della Palestina del mandato, viene staccata da questa e data
all’emiro Abdullah che è un altro hascemita e precisamente un altro figlio di
Husayn e fratello quindi di Faysal. A Faysal, nel frattempo, era stato già dato
il regno dell’Iraq (1921). In tal modo, l’Inghilterra intende risarcire gli
hascemiti e tenerli legati a sé come propri partner privilegiati nel teatro
mediorientale. Sempre nel 1923, le
alture del Golan – eh sì proprio le famose alture del Golan! – che erano –
attenzione – parte integrante pur esse del territorio mandatario della
Palestina, vengono cedute al mandato francese della Siria. Quando si parla
delle alture del Golan come “territorio occupato” illegittimamente da Israele
nel 1967 e abusivamente sottratto alla Siria, bisognerebbe allora ricordare che
questo territorio era stato arbitrariamente sottratto al mandato di Palestina,
e quindi allo Stato ebraico previsto dalla dichiarazione Balfour, e altrettanto
arbitrariamente e abusivamente ceduto alla Siria. Ma chi lo ricorda mai?
Altre
questioni immancabilmente sollevate dalla propaganda araba e filo palestinese
sono quelle delle terre “sottratte”
dagli ebrei ai contadini arabi durante il mandato britannico e dell’immigrazione ebraica nello stesso
periodo. Vediamo la realtà storica.
Riguardo alle terre,
esse non furono mai depredate o saccheggiate, ma comprate con regolari
contratti e pagate generalmente al di sopra di quello che era in quel momento
il loro stimabile valore di mercato. E’ vero che gli
esponenti del nazionalismo arabo lanciavano proclami che diffidavano gli arabi
dal cedere le terre agli ebrei, ma è altrettanto vero che tanto le famiglie
della “feudalità” palestinese, quanto le comunità dei villaggi se ne
infischiavano altamente di questi moniti e proclami e cercavano di lucrare sulla
vendita di terre che spesso erano incolte e che ritenevano poco produttive (i
coloni ebrei avrebbero dimostrato il contrario). Dunque, l’insediamento
sionista si realizza in stretta collaborazione con gli arabi e l’idea di ebrei
che hanno spogliato gli arabi di case e terre, almeno riguardo al periodo che
precede il 1948, è puramente fantastica. Gli investimenti ebraici hanno anzi
rivitalizzato l’economia locale, a tutto vantaggio della stessa comunità araba.
E’ chiaro che questo processo di trasferimento di terre ha contribuito a
compromettere l’obiettivo arabo di impedire la nascita di uno stato ebraico, ma
questo è un errore storico che gli arabi devono imputare solo a se stessi (e
non è l’ultimo di una lunga serie) e non certo alle autorità britanniche, che
anzi intervengono con ripetute ordinanze (1920-21, 1929, 1932, 1940), cercando
di limitare drasticamente l’acquisto di terre da parte degli ebrei e di ridurre
sempre più l’estensione del focolare nazionale promesso. Ma i proprietari e i
contadini arabi non tengono in maggior conto queste ordinanze dei proclami dei
loro leader nazionalisti e antisionisti.
Riguardo
poi all’immigrazione ebraica,
regolarmente denunciata dagli arabi come se si trattasse di una sorta di
invasione straniera e di un complotto (“giudo-massonico”), orchestrato dalla
potenza mandataria, abbiamo visto che questa emigrazione incomincia, ben prima
della Dichiarazione Balfour e del mandato britannico, tra il 1882 e il 1903,
quando si verifica la prima grande aliya,
per i motivi già richiamati. Con la seconda aliya,
che giunge fino al 1914 la popolazione ebraica palestinese è già passata da
circa 25.000 unità a circa 85000. Alla fine degli anni Venti, il numero degli
ebrei sarà più che raddoppiato, sfiorando ormai le 200.000 unità. A questo
punto il ritmo dell’immigrazione cala considerevolmente fino al 1932, per poi
conoscere un’impennata fra il 1933 e il 1935, in seguito alla presa del potere
del nazismo. Dal 1922 al 1935 la popolazione ebraica in Palestina passa dal 9
al 27 %. Devo avvertire che i dati demografici sono piuttosto incerti e le
ricostruzioni sono condizionate dal conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, ho
scelto di citarli e di citare quelli riportati da una fonte sicuramente seria,
ma certamente non sospetta di ostilità al mondo arabo, né di pregiudizi
filoisraeliani (Mc Carthy, The Population
of Palestine, Columbia University press, 1990).
Certamente,
fino alla metà degli anni Trenta l’immigrazione ebraica è un fenomeno rilevante,
ma si tratta di un processo che non
viene affatto favorito dall’autorità britannica e che anzi si svolge largamente
in contrasto con le sue volontà e deliberazioni. Questa immigrazione
sarebbe stata presumibilmente più ampia, se non fosse stata ostacolata dalla
Gran Bretagna, già negli anni di cui sopra e certamente dopo. Fin dal 1922 il
primo Libro bianco inaugura, infatti,
una serie di misure destinate a limitare drasticamente fino a bloccarla
l’immigrazione ebraica in Palestina e a rendere inoperante la portata della
Dichiarazione Balfour. Nel 1930, la dichiarazione Balfour è di fatto annullata
dall’ennesimo Libro bianco, quello di
lord Passfield, segretario alle Colonie. Questo documento era tanto sbilanciato
in senso filoarabo e antisionista che il governo Mac Donald si vide costretto
dalle pressioni dell’opposizione, ma anche di esponenti del suo partito a rimediare
con una lettera dove affermava che il governo britannico non aveva alcuna
intenzione di fermare o proibire l’immigrazione degli ebrei. Si trattava di una
mera dichiarazione astratta e comunque di un documento che non aveva lo stesso
valore del Libro bianco, eppure fu sufficiente ad attizzare ulteriormente il
nazionalismo arabo, già protagonista di gravi incidenti nel 1929, quando il mufti di Palestina aveva arringato la folla a
Gerusalemme e ne erano seguiti scontri, con la morte di 133 ebrei e 87 arabi.
La vecchia comunità ebraica di Hebron era stata del tutto annientata. Fra il
1936 e il 1939 si succedono le azioni terroristiche arabe tanto contro gli
inglesi che contro gli insediamenti ebraici e le rappresaglie britanniche sono
molto dure.
Tuttavia,
di fronte alla rabbia araba la Gran Bretagna non mostra solo il bastone, ma
anche e soprattutto la carota. E’ proprio alla fine di questo periodo
insurrezionale che si registra l’ultimo Libro
bianco che impone agli ebrei restrizioni
gravissime e che hanno una portata assolutamente tragica, se si pensa alla
loro situazione in un Europa che si appresta ad essere in larghissima parte
occupata dai nazisti. Si fissa un tetto di 15000 nuovi arrivi all’anno per 5
anni, dopo di che l’ulteriore immigrazione sarebbe stata soggetta al placet
della maggioranza araba, ossia sarebbe stata impossibile. L’acquisto di terre
sarebbe stato drasticamente limitato e in alcune regioni semplicemente vietato.
Incredibilmente, questo Libro bianco
non fu rifiutato solo dagli ebrei, come era ovvio, ma anche dagli arabi.
La
politica britannica va letta non solo come tentativo di sedare l’animosità
araba, ma soprattutto alla luce della nuova situazione internazionale. L’avvento
del fascismo e del nazismo, con la propaganda e la politica filo-araba di
Mussolini prima e di Hitler poi, la strategia di alleanza fra pangermanesimo e
panarabismo in funzione antibritannica, l’aperto filo nazismo del muftì di
Palestina e le sue intese con Hitler, non fanno altro che orientare in modo più
deciso in direzione degli arabi una Gran Bretagna timorosa di perdere le sue
posizioni in Medio Oriente. Il calcolo britannico è cinico ma semplice: gli
ebrei non hanno alternative, non possono che restare legati al carro inglese,
mentre occorre sottrarre gli arabi all’influenza tedesca e nazista.
Questa linea politica, peraltro
criticata non solo dall’opposizione laburista ma anche da alcuni conservatori a
cominciare da Churchill, si rivelerà fallimentare e miope e contribuirà
indirettamente ad accrescere il numero di vittime della shoah. Il Libro bianco del
1939 fu infatti applicato rigorosamente e le navi di profughi giunte in
prossimità dei porti palestinesi furono bloccate. Questa situazione non cambiò
nemmeno dopo la fine della guerra e dopo che tutto il mondo aveva ormai saputo
dell’orrore del genocidio degli ebrei. Il caso più famoso, ma non certo l’unico,
si verificò nel 1947 e fu quello dell’Exodus,
che era riuscito a raggiungere il porto di Giaffa. Qui fu impedito ai suoi 4500
passeggeri l’ingresso in Palestina ed essi furono rispediti in Francia da dove
sarebbero finiti in degli appositi campi di concentramento in Germania.
La situazione palestinese era ormai
ingestibile per la Gran Bretagna, che non solo non aveva minimamente sedato l’ostilità
araba nei suoi confronti, ma si era inimicata anche la popolazione ebraica e il
movimento sionista. Nonostante tutto, Ben Gurion tenne un atteggiamento molto
responsabile, facendo appello, durante la guerra, a che si combattesse a fianco
dell’Inghilterra contro il nazismo, come se il Libro bianco non
esistesse. D’altra parte Ben Gurion disse anche che bisognava opporsi al Libro bianco in Palestina, come se la
guerra non esistesse, mentre in dissenso con la sua linea si formavano e
agivano formazioni ebraiche, prime fra tutte l’Irgun del futuro ministro Begin, che conducevano azioni di
guerriglia contro gli inglesi.
La
fine del mandato inglese e la nascita dello stato di Israele secondo la
risoluzione dell’ONU
Alla fine del periodo del mandato, la Gran
Bretagna lasciava dunque una situazione esplosiva con nazionalisti arabi e
sionisti che si combattevano fra loro e combattevano entrambi, nello stesso
tempo, gli inglesi. E’ in queste condizioni che lord Bevin sottopone il
problema del mandato palestinese all’assemblea ONU nel febbraio 1947. Non è
detto che il governo inglese fosse convinto della necessità di lasciare
definitivamente la Palestina. E’ più probabile che sperasse in un prevedibile insuccesso
dell’ONU stessa che avrebbe lasciato libera la Gran Bretagna di ritornare in
Palestina e stavolta con le mani libere. L’assemblea aveva del resto bisogno di
una maggioranza di due terzi difficile allora da ipotizzare. E invece il 29
novembre 1947, fu deliberata a sorpresa la spartizione della Palestina, con la
nascita dello Stato ebraico, nonostante l’ostilità araba e il boicottaggio della
commissione ONU da parte degli stessi inglesi della commissione. La nascita di
quel “focolare nazionale ebraico”, solo teoricamente annunciato nella
dichiarazione Balfour, rimasta inoperante fino a quel momento e disattesa
innanzitutto dalla Gran Bretagna stessa, avveniva quindi con un voto a larga
maggioranza dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Tutta la vicenda qui ricostruita mostra quindi
come sia assolutamente falso sul piano storico sostenere che lo Stato di
Israele sia nato in seguito alla dichiarazione Balfour e grazie al sostegno
britannico. E’ vero, invece, che esso è nato a dispetto della politica
britannica e che questa politica, almeno negli anni Trenta, ha ripetuto in
Palestina gli stessi errori compiuti in Europa contro Hitler. La repressione
delle rivolte arabe e le rappresaglie immancabilmente seguite all’uccisione di
soldati e civili britannici non devono ingannare, perché gli inglesi le hanno
considerate in quel periodo soltanto delle inevitabili misure militari che non
modificavano e anzi paradossalmente rafforzavano quella linea politica di risposta
alle rivendicazioni del nazionalismo arabo che era essenzialmente di appeasement.
In tal senso, il Libro bianco del
1939 è un po’ il corrispettivo in Palestina e nei confronti degli arabi dell’accordo
di Monaco dell’anno prima. Se Ben Gurion non li avesse sconfitti – per molti
inaspettatamente – nel 1948-49, se non fossero stati ancora sconfitti
militarmente nel 1967 e nel 1973, i nazionalisti arabi avrebbero cacciato (o
soppresso) tutti gli ebrei, secondo i loro dichiarati propositi e Israele non
sarebbe mai nato o avrebbe subito cessato di esistere.
Questa storia contiene dunque importanti
lezioni, che hanno grande valore anche e soprattutto per affrontare i problemi
attuali. Non è neanche necessario esplicitare queste lezioni, perché esse sono
perfettamente intellegibili. Salvo che per chi “ha occhi ma non vede, ha orecchi
ma non ascolta”.
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