sabato 3 settembre 2016

L'AUTUNNO DEL M5S



Non sono ancora trascorsi i primi “cento giorni” dell’amministrazione Raggi, ma le vicende accadute in questi primi due mesi sono state così gravi, clamorose e significative che è possibile fare almeno un primo bilancio.
Per una corretta valutazione occorre, però, partire da alcuni presupposti che oggi si tende sorprendentemente a dimenticare: anzitutto, il M5S sapeva già un anno fa che con ogni probabilità avrebbe espresso il futuro sindaco di Roma (si ricordi la famosa battuta della Taverna: “c’è un complotto per farci vincere”!). Ha avuto tutto il tempo, quindi, di prepararsi alla sfida mettendo in campo un candidato, una squadra e un programma adeguati. In secondo luogo, era chiaro al M5S e a tutti che la prova di Roma sarebbe stata il vero esame di maturità del M5S, chiamato a dimostrare la sua affidabilità come forza di governo e a mostrare di non essere soltanto il movimento politico della protesta, della denuncia o, come dicono alcuni, dell’”antipolitica”. In terzo luogo, date le disastrose esperienze precedenti, il M5S era chiamato a dare subito chiari segnali di svolta e di cambiamento e a non rifugiarsi in nessun caso nella miserevole giustificazione fondata sul confronto con “quelli di prima”. Può essere persino irriguardoso il paragone, ma ricordiamo ugualmente che mai la classe politica che ha costruito la repubblica e la democrazia in questo paese, di fronte alle critiche dei cittadini, si difese con argomenti del tipo: “che volete da noi, ricordatevi che prima c’erano Mussolini e Starace”! Dunque, le giustificazioni del tipo: “ricordatevi che prima c’era Marino o Alemanno o Mafia capitale” non dovrebbero valere nemmeno un soldo bucato.
Ciò premesso, vediamo almeno alcuni passaggi salienti della vicenda. Con la solita procedura naiv di selezione – che però secondo i retroscena giornalistici nasconderebbe il primo atto di una vera e propria guerra fra bande – viene individuata come candidato la Raggi, avvocato, senza alcuna significativa esperienza politica e di gestione amministrativa, con relazioni a quanto pare nella destra romana, ma giovane, donna, di gradevole presenza, secondo un cliché ormai universale. Sostenuta da Paola Taverna e da Di Battista, prevale sull’altro aspirante, Marcello De Vito, candidato la volta precedente, capogruppo in consiglio comunale nell’era Marino, ma colpevole di avere forse lo sponsor sbagliato (la cittadina-deputata Lombardi, mentre Di Maio, che inizialmente lo aveva patrocinato si defila per evitare forse di ingaggiare uno duello prematuro con Di Battista). Questo scontro fra i due candidati e i rispettivi sponsor dura per mesi ed evidentemente lascia notevoli strascichi.
A differenza di Giachetti, la Raggi non annuncia la sua squadra prima del voto, limitandosi solo a quattro nomi (tra i quali uno, l’ex rugbista Lo Cicero, sarà poi escluso e si farà da parte senza la minima polemica, a riprova che lo sport, e in particolare uno sport come il rugby, è a volte ancora una ottima scuola di formazione civile). E’ la prima sorpresa negativa, che contraddice la tanto sbandierata “trasparenza”, icona del movimento, ma che già segnala le lotte sotterranee e intestine al suo interno. Come previsto, la Raggi vince a mani basse le elezioni, giovandosi soprattutto, al secondo turno, del voto delle periferie che avevano votato Meloni al primo turno e con una evidente discrasia tra taluni propositi annunciati dal neosindaco – piuttosto radicalchic (il teatro in periferia e cose del genere) - e le reali richieste di fasce consistenti del suo elettorato (che ce l’hanno innanzitutto con gli immigrati).
Dei sindaci neoeletti, la Raggi è l’ultima a formare la giunta e lo fa proprio l’ultimo giorno utile prima del commissariamento. Anche in questo caso, si parla di lotte fra opposte fazioni, di contrasti fra la Raggi e il “direttorio” che le viene subito affiancato. In particolare, viene bocciato il “ticket” voluto dalla sindaca nel ruolo strategico di capogabinetto/vice-capogabinetto e costituito da Daniele Frongia, a cui sarebbe spettato il ruolo più politico, e Raffaele Marra, già vicino ad Alemanno, a cui sarebbero andate le competenze più tecniche. E’ già una sorta di commissariamento del neosindaco, non ancora entrato in carica. La Raggi, tuttavia, riesce a limitare le perdite e se deve rinunciare a Frongia, in favore del magistrato Carla Raineri, riesce a tenersi Marra, come vice capogabinetto. Il ticket di “compromesso”, alla luce delle ultimissime vicende, sembra però avere avuto un ruolo destabilizzante, esasperando ulteriormente i conflitti fra opposte fazioni. In queste ore, proprio Marra viene sospettato di essere il vero responsabile del siluramento della Raineri, che poi ha portato alla slavina delle dimissioni dell’assessore al bilancio Minenna e dei vertici delle più importanti municipalizzate, l’Atac e l’Ama, che si occupano rispettivamente dei trasporti e dei rifiuti . Ma procediamo con ordine.
La Raggi alla fine vara una giunta sostanzialmente formata da “tecnici” ed “esperti”, esterni al M5S, parecchi dei quali “forestieri” e quindi esterni alla stessa città di Roma: la Raineri, ad esempio, è di Piacenza, Minenna è originario di Bari ed è docente alla Bocconi, la Muraro, che ha un altro assessorato strategico quello dell’ambiente, è di Rovigo.
Proprio il caso della Muraro è la prima seria pietra di inciampo. La Raggi e il M5S hanno denunciato per anni il caos e lo scandalo della gestione rifiuti, promettendo un cambiamento radicale. La Muraro, al di là delle indubbie competenze maturate, non sembra precisamente la persona adatta a realizzare e tantomeno a contrassegnare simbolicamente questa annunciata rivoluzione: per 12 anni è stata consulente proprio della famigerata Ama (lucrando anche compensi piuttosto elevati, di oltre un milione di euro) ed ha attraversato tutte le recenti e fallimentari esperienze amministrative, sia di centro-destra che di centro-sinistra. Inoltre, la Muraro ha una situazione di sospetto conflitto di interessi che non consiste, come si è detto, equivocando o strumentalizzando (vedi gli attacchi del PD), nel fatto che da consulente dell’Ama sia passata all’incarico di assessore (questo non è tecnicamente un conflitto di interessi, ma è il passaggio da un ruolo privato a un ruolo di gestione pubblica che è piuttosto frequente, soprattutto nella direzione inversa, in molti paesi, tra cui gli USA). Il vero conflitto di interessi risale agli anni passati, ma getta un’ombra inquietante sull’assessore di una giunta di moralizzatori o presunti tali.
Mentre era consulente dell’Ama e precisamente tra il 2010 e il 2012, la Muraro collaborava, infatti, con una società di Pordenone, la Bioman che si occupa di smaltimento di rifiuti. Alla Bioman viene assegnata una parte dello smaltimento rifiuti a Roma proprio su indicazione della Muraro. E, soprattutto, a tariffe convenienti per la Bioman, ma non per la collettività. Difatti, l’Ama paga per l’appalto alla Bioman 140 euro a tonnellate, mentre la tedesca Enky aveva offerto 136 euro e la Kyklos di Aprilia soltanto 106 euro a tonnellata. La Muraro, peraltro, come consulente doveva indagare su quantità e qualità dei rifiuti prodotti e trattati e sulla situazione degli impianti. La domanda è allora questa: se la gestione rifiuti a Roma è stata davvero un disastro, come hanno sempre detto i 5S e come del resto pensano tanti cittadini, si può credere che la Muraro, coinvolta direttamente per 12 anni in tale gestione, non abbia responsabilità? E se, come ha talora detto, ha segnalato guasti e disfunzioni e non è stata ascoltata, perché non si è dimessa? In ogni caso, era adatta la Muraro a rappresentare quella figura di cambiamento e di svolta che doveva caratterizzare la nuova amministrazione a guida 5S?
Il caso Muraro, per quanto mi concerne, distruggeva già la credibilità della Raggi e del M5S. Ma si sa, come dice una simpatica battuta, il giorno in cui a scuola spiegarono le mezze misure io ero assente…
Proseguo, dunque, la disanima a eventuale beneficio di chi invece non si fosse perso quella lezione.
Arriviamo alla frana di questi giorni, con le dimissioni di tutte le figure più importanti dell’Amministrazione capitolina, sindaco a parte: il capo gabinetto, che tra l’altro doveva anche vigilare sulla corruzione, tema evidentemente nevralgico per la credibilità della Raggi; l’assessore al bilancio (che in realtà era un super assessore e sommava varie deleghe); i vertici dell’Ama, con l’amministratore Solidoro che era stato appena nominato – agli inizi di agosto – al posto di Fortini ( in violenta polemica con la Muraro e con la Raggi stessa); i vertici dell’Atac, l’azienda trasporti.
La vicenda prende le mosse da una singolare e a prima vista surreale iniziativa della Raggi stessa. Dopo aver conferito l’incarico alla Raineri, accettando la sua richiesta di un compenso pari a quello che percepiva come magistrato più le spese di affitto a Roma (la Raineri, come si diceva, vive a Piacenza), la Raggi, sottoposta ad attacchi anche di “fuoco amico” per l’entità di questa retribuzione, dopo quasi due mesi dal varo della giunta ci ripensa e decide di chiedere un parere all’Anac, cioè a Cantone, il “tuttofare anticorruzione” di Renzi! La retribuzione del capogabinetto, peraltro, è comunque inferiore a quanto percepiva il capogabinetto della Giunta Marino. I maligni dicono che dietro questa iniziativa ci sia la mano del luciferino Marra e della fazione a cui fa capo e che il quesito sia stato formulato in modo che la risposta di Cantone fosse scontata. Resta il paradosso di una iniziativa presa non immediatamente ma due mesi dopo la nomina e di un capogabinetto incaricato tra l’altro di vigilare sulla corruzione che viene messo in stato di accusa di fronte all’autorità anticorruzione! Un bel concentrato di dilettantismo e approssimazione.
La Raineri, convocata alle ore 23 dal sindaco che intendeva evidentemente rimuoverla dall’incarico avendo acquisito il parere dell’Anac, fa quello che avremmo fatto tutti: si dimette, prima di essere sfiduciata. Ma, ecco la sorpresa: insieme a lei se ne vanno tutti quegli altri e cioè il nerbo dell’amministrazione! Le uniche spiegazioni che la Raggi riesce a balbettare riguardano il caso Raineri, ma non accendono assolutamente alcun lume sui motivi che hanno indotto alle dimissioni anche l’assessore al Bilancio e i dirigenti delle municipalizzate. Queste spiegazioni, peraltro, evocano l’ultima cosa che dovrebbe essere tirata in ballo, ciò che davvero manca nell’operato della Raggi e del suo Movimento pre- e post- insediamento: la “trasparenza”!
E’ evidente a tutti che la Raineri e gli altri erano legati tra loro in una sorta di cordata che faceva capo proprio a Minenna – un uomo della Consob peraltro. Minenna aveva fortemente voluto la Raineri e aveva di fatto scelto Solidoro. Non si può escludere nemmeno che abbia un fondamento ciò che scrivono i retroscena di alcuni quotidiani, e cioè che Minenna a sua volta sia appoggiato da esponenti e “correnti” interne al M5S e avversi alla Raggi e a Marra. In queste condizioni, descrivere le difficoltà della giunta Raggi come il frutto del boicottaggio dei soliti “poteri forti”, che pare la linea ufficiale del M5S nazionale, è davvero grottesco. Certamente, questi “poteri forti” esistono – sebbene l’espressione semplicistica non renda l’idea della loro ramificazione – certamente sono in agguato contro operazioni di reale pulizia e cambiamento, ma l’impressione che si è avuta per tutta l’estate è che tali poteri forti si siano potuti concedere tranquille vacanze. Da un lato, infatti, azioni incisive non pare che la Raggi le abbia messo in atto, dall’altro le sue difficoltà sembrano dovute essenzialmente all’azione dei poteri “deboli” interni al suo movimento e alla sua amministrazione, sicché i poteri forti non hanno neanche dovuto prendersi il fastidio di scendere in campo.
La vicenda Raggi è molto significativa, perché non adombra solo il naufragio di un sindaco su cui i romani avevano riposto comprensibilmente grandi speranze, ma rivela in modo ormai inequivocabile limiti e vizi del M5S, che su questa vicenda, come si diceva, si giocava e si gioca la sua credibilità. Limiti e vizi che si possono anche tradurre in un solo termine, che non è quello di “populismo” o di “antipolitica”, ma è più propriamente quello di infantilismo politico.
Un infantilismo che, purtroppo, non pare suscettibile di una evoluzione nel senso della maturazione - non solo perché a un certo punto il tempo scade per tutti e se ci si comporta in modo infantile quando si hanno già un po’ di anni alle spalle e si è chiamati a ruoli e compiti di responsabilità, non si può ancora aspettare una maturazione di là da venire, ma bisogna pensare che quello sia un difetto caratterizzante e insuperabile - ma perché è l’identità stessa del M5S che si è ormai definita su certi connotati, appunto infantili.
La vicenda Raggi non ha detto, in fondo, nulla di nuovo, ma ha esaltato ciò che già era evidente. Anzitutto, il M5S ha scelto comprensibilmente di non essere un partito come gli altri, ma non ha costruito alcuna procedura, non ha individuato alcun serio criterio per la selezione e formazione del proprio personale politico e amministrativo, al di là della boutade delle consultazioni online con tanto di videocurriculum. La conseguenza è che le candidature sono una sorta di lotteria che premia non il più adatto, ma il più fortunato, quello che si trova casualmente in tasca il biglietto vincente. E se i danni di tutto questo sono stati ancora limitati, quando si è trattato di sindaci di piccoli e medi comuni o dei parlamentari (che sono numerosi, sicché poi tra di essi si è generato comunque un processo di selezione, indotto non dai 5S ma dalla logica stessa della vita politica parlamentare, e questo processo ha portato, ad esempio, al passaggio dai primi terrificanti portavoce a Di Maio), questi guasti si sono mostrati in modo dirompente quando le circostanze hanno portato il M5S alla testa della amministrazione della capitale.
In secondo luogo, vi è la mancanza di un vero progetto politico e, su questo piano, si deve anzi registrare una regressione. Il primo M5S aveva comunque dei punti programmatici forti anche se su molte cose permaneva una gran confusione. Quei punti programmatici sono progressivamente divenuti marginali rispetto alla parola d’ordine dell’”onestà” e al metodo della “trasparenza”. Se non che onestà e trasparenza non fanno ancora una politica e ne sono solo gli auspicabili presupposti. Ed è anche il caso di ribadire che un onesto incompetente può fare spesso molti più danni di un corrotto capace (sebbene sia sempre augurabile avere dei competenti onesti): se io salgo su un aeroplano, non mi serve a nulla sapere che il pilota è un uomo onesto, ma voglio esser certo che sappia guidare l’aereo e non mi porti a sbattere in modo onesto e trasparente!
L’onestà, poi, non va declamata, ma praticata e soprattutto verificata alla prova del governo e dell’amministrazione, perché a rimanere onesti quando si è all’opposizione e lontani dal potere sono buoni tutti. Dato il numero dei comuni rispettivamente amministrati, non mi pare che gli avvisi di garanzia a esponenti del M5S siano poi in percentuale inferiore a quelli ricevuti da esponenti del PD…
Il fatto è – ma l’Italia che è il paese di Machiavelli non ha capito granché della sua lezione – che l’onestà in politica non è una qualità morale, ma è appunto una qualità… politica! Al di là della battuta, ciò vuol dire che essa è legata non alle caratteristiche morali dei singoli – vi erano evidentemente singole persone onestissime nel fascismo, nella DC, nel PSI dell’ultima stagione – ma alla consistenza del progetto politico. Se questa manca o è labile, è molto più difficile per i singoli e soprattutto per il movimento o partito nel suo complesso restare onesti, quando si ha a che fare, come è inevitabile nella vita politica e amministrativa ad un certo livello, con incarichi e denari. Il progetto politico, una volta si sarebbe detto l’ideale o l’idea, è il più efficace antidoto alla corruzione.
La debolezza del progetto politico del M5S lo espone suo malgrado a degenerazioni che non basta esorcizzare a parole. La vicenda Raggi queste degenerazioni le mostra già in modo più che palese. A torto, molto a torto, si è parlato, ad esempio, di una lotta o una faida tra “correnti” che ricorderebbe i vecchi partiti. Ma stiamo scherzando? Le correnti dei partiti della prima Repubblica come il DC e il PSI certamente si contendevano senza esclusione di colpi poltrone e soldi, ma avevano una radice e un’identità politica fortissime e i loro conflitti riguardavano le scelte politiche di fondo. Ma davvero vogliamo paragonare gli scontri fra i dorotei e i morotei o quelli fra la corrente autonomista di Nenni e la sinistra socialista di Lombardi a questi meschini litigi di comari del M5S? Quale sarebbe la divergenza politica fra la Lombardi e la Taverna, per esempio? Se qualcuno l’ha capito che me lo spieghi, per piacere! Non correnti, ma bande, dunque. E non bande di malviventi, per carità: bande di bambini capricciosi, questo mi sembrano le cosiddette correnti del M5S. I “bambini dell’asilo Mariuccia” li ha definiti Travaglio, non proprio un nemico del M5S.
Se questi sono i moralizzatori dell’Italia, mi viene in mente solo un detto popolare. Ricordo di essere uscito nel lontano 1986, dopo una breve ma significativa esperienza, dalla Federazione giovanile socialista, non sopportando le pratiche clientelari e la competizione con la DC di Mancino e De Mita sul suo stesso terreno. Parlo del 1986, ben prima quindi delle prime avvisaglie di tangentopoli e quando Craxi era al governo e il PSI al massimo della sua potenza e io un giovane neolaureato meridionale che avrebbe avuto tutto da guadagnare a restare nel partito e a non aprire una polemica magari anche “profetica”, ma senza alcun risultato e riscontro politico immediato. Ebbene, di fronte a questi moralizzatori odierni, comunque figli di Tangentopoli e della drammatica cesura che ha segnato nella storia di questo paese e che aspetta ancora una seria ricostruzione storica, mi viene da recitare il noto adagio: “Peppo per Peppo, mi tenevo a Peppo mio”. Che poi si chiamava Bettino, perché quando è morto il vecchio e grande Nenni (fatti salvi certi suoi colossali errori nelle scelte politiche a cominciare dal Fronte popolare del 1948), che io a dire il vero avrei preferito, avevo solo 18 anni. Ma da Nenni ho comunque imparato, a distanza di tempo, una grande lezione: un giorno ammonì i giovani “giacobini” del partito ansiosi di moralizzare ed epurare tutto e tutti; quella strada, disse, non portava da nessuna parte, perché “a giocare ad essere il più puro, arriva sempre qualcuno più puro di te che ti epura”. Soprattutto, se la pretesa di essere il più puro è basata sulle declamazioni retoriche e non sugli atti concreti e sulle scelte politiche e di vita. Questa lezione credo che il M5S non l’abbia mai imparata. E ne farà le spese.

Nessun commento:

Posta un commento