Non sono ancora
trascorsi i primi “cento giorni” dell’amministrazione Raggi, ma le vicende
accadute in questi primi due mesi sono state così gravi, clamorose e
significative che è possibile fare almeno un primo bilancio.
Per una corretta
valutazione occorre, però, partire da alcuni presupposti che oggi si tende
sorprendentemente a dimenticare: anzitutto, il M5S sapeva già un anno fa che
con ogni probabilità avrebbe espresso il futuro sindaco di Roma (si ricordi la
famosa battuta della Taverna: “c’è un complotto per farci vincere”!). Ha avuto
tutto il tempo, quindi, di prepararsi alla sfida mettendo in campo un
candidato, una squadra e un programma adeguati. In secondo luogo, era chiaro al
M5S e a tutti che la prova di Roma sarebbe stata il vero esame di maturità del
M5S, chiamato a dimostrare la sua affidabilità come forza di governo e a
mostrare di non essere soltanto il movimento politico della protesta, della
denuncia o, come dicono alcuni, dell’”antipolitica”. In terzo luogo, date le
disastrose esperienze precedenti, il M5S era chiamato a dare subito chiari
segnali di svolta e di cambiamento e a non rifugiarsi in nessun caso nella
miserevole giustificazione fondata sul confronto con “quelli di prima”. Può
essere persino irriguardoso il paragone, ma ricordiamo ugualmente che mai la
classe politica che ha costruito la repubblica e la democrazia in questo paese,
di fronte alle critiche dei cittadini, si difese con argomenti del tipo: “che
volete da noi, ricordatevi che prima c’erano Mussolini e Starace”! Dunque, le
giustificazioni del tipo: “ricordatevi che prima c’era Marino o Alemanno o
Mafia capitale” non dovrebbero valere nemmeno un soldo bucato.
Ciò premesso, vediamo
almeno alcuni passaggi salienti della vicenda. Con la solita procedura naiv di selezione – che però secondo i
retroscena giornalistici nasconderebbe il primo atto di una vera e propria
guerra fra bande – viene individuata come candidato la Raggi, avvocato, senza
alcuna significativa esperienza politica e di gestione amministrativa, con
relazioni a quanto pare nella destra romana, ma giovane, donna, di gradevole
presenza, secondo un cliché ormai
universale. Sostenuta da Paola
Taverna e da Di Battista, prevale sull’altro aspirante, Marcello De Vito,
candidato la volta precedente, capogruppo in consiglio comunale nell’era
Marino, ma colpevole di avere forse lo sponsor sbagliato (la cittadina-deputata
Lombardi, mentre Di Maio, che inizialmente lo aveva patrocinato si defila per
evitare forse di ingaggiare uno duello prematuro con Di Battista). Questo
scontro fra i due candidati e i rispettivi sponsor dura per mesi ed
evidentemente lascia notevoli strascichi.
A differenza di
Giachetti, la Raggi non annuncia la sua squadra prima del voto, limitandosi
solo a quattro nomi (tra i quali uno, l’ex rugbista Lo Cicero, sarà poi escluso
e si farà da parte senza la minima polemica, a riprova che lo sport, e in
particolare uno sport come il rugby, è a volte ancora una ottima scuola di
formazione civile). E’ la prima sorpresa negativa, che contraddice la tanto
sbandierata “trasparenza”, icona del movimento, ma che già segnala le lotte
sotterranee e intestine al suo interno. Come previsto, la Raggi vince a mani
basse le elezioni, giovandosi soprattutto, al secondo turno, del voto delle
periferie che avevano votato Meloni al primo turno e con una evidente discrasia
tra taluni propositi annunciati dal neosindaco – piuttosto radicalchic (il
teatro in periferia e cose del genere) - e le reali richieste di fasce
consistenti del suo elettorato (che ce l’hanno innanzitutto con gli immigrati).
Dei sindaci neoeletti,
la Raggi è l’ultima a formare la giunta e lo fa proprio l’ultimo giorno utile
prima del commissariamento. Anche in questo caso, si parla di lotte fra opposte
fazioni, di contrasti fra la Raggi e il “direttorio” che le viene subito affiancato.
In particolare, viene bocciato il “ticket” voluto dalla sindaca nel ruolo
strategico di capogabinetto/vice-capogabinetto e costituito da Daniele Frongia,
a cui sarebbe spettato il ruolo più politico, e Raffaele Marra, già vicino ad
Alemanno, a cui sarebbero andate le competenze più tecniche. E’ già una sorta
di commissariamento del neosindaco, non ancora entrato in carica. La Raggi,
tuttavia, riesce a limitare le perdite e se deve rinunciare a Frongia, in
favore del magistrato Carla Raineri, riesce a tenersi Marra, come vice
capogabinetto. Il ticket di “compromesso”, alla luce delle ultimissime vicende,
sembra però avere avuto un ruolo destabilizzante, esasperando ulteriormente i
conflitti fra opposte fazioni. In queste ore, proprio Marra viene sospettato di
essere il vero responsabile del siluramento della Raineri, che poi ha portato
alla slavina delle dimissioni dell’assessore al bilancio Minenna e dei vertici
delle più importanti municipalizzate, l’Atac e l’Ama, che si occupano
rispettivamente dei trasporti e dei rifiuti . Ma procediamo con ordine.
La Raggi alla fine vara
una giunta sostanzialmente formata da “tecnici” ed “esperti”, esterni al M5S, parecchi
dei quali “forestieri” e quindi esterni alla stessa città di Roma: la Raineri,
ad esempio, è di Piacenza, Minenna è originario di Bari ed è docente alla
Bocconi, la Muraro, che ha un altro assessorato strategico quello dell’ambiente,
è di Rovigo.
Proprio il caso della
Muraro è la prima seria pietra di inciampo. La Raggi e il M5S hanno denunciato
per anni il caos e lo scandalo della gestione rifiuti, promettendo un cambiamento
radicale. La Muraro, al di là delle indubbie competenze maturate, non sembra
precisamente la persona adatta a realizzare e tantomeno a contrassegnare
simbolicamente questa annunciata rivoluzione: per 12 anni è stata consulente
proprio della famigerata Ama (lucrando anche compensi piuttosto elevati, di
oltre un milione di euro) ed ha attraversato tutte le recenti e fallimentari
esperienze amministrative, sia di centro-destra che di centro-sinistra.
Inoltre, la Muraro ha una situazione di sospetto conflitto di interessi che non
consiste, come si è detto, equivocando o strumentalizzando (vedi gli attacchi
del PD), nel fatto che da consulente dell’Ama sia passata all’incarico di
assessore (questo non è tecnicamente un conflitto di interessi, ma è il
passaggio da un ruolo privato a un ruolo di gestione pubblica che è piuttosto
frequente, soprattutto nella direzione inversa, in molti paesi, tra cui gli
USA). Il vero conflitto di interessi risale agli anni passati, ma getta un’ombra
inquietante sull’assessore di una giunta di moralizzatori o presunti tali.
Mentre era consulente
dell’Ama e precisamente tra il 2010 e il 2012, la Muraro collaborava, infatti,
con una società di Pordenone, la Bioman che si occupa di smaltimento di rifiuti.
Alla Bioman viene assegnata una parte dello smaltimento rifiuti a Roma proprio
su indicazione della Muraro. E, soprattutto, a tariffe convenienti per la
Bioman, ma non per la collettività. Difatti, l’Ama paga per l’appalto alla
Bioman 140 euro a tonnellate, mentre la tedesca Enky aveva offerto 136 euro e
la Kyklos di Aprilia soltanto 106 euro a tonnellata. La Muraro, peraltro, come
consulente doveva indagare su quantità e qualità dei rifiuti prodotti e
trattati e sulla situazione degli impianti. La domanda è allora questa: se la
gestione rifiuti a Roma è stata davvero un disastro, come hanno sempre detto i
5S e come del resto pensano tanti cittadini, si può credere che la Muraro,
coinvolta direttamente per 12 anni in tale gestione, non abbia responsabilità?
E se, come ha talora detto, ha segnalato guasti e disfunzioni e non è stata
ascoltata, perché non si è dimessa? In ogni caso, era adatta la Muraro a
rappresentare quella figura di cambiamento e di svolta che doveva
caratterizzare la nuova amministrazione a guida 5S?
Il caso Muraro, per
quanto mi concerne, distruggeva già la credibilità della Raggi e del M5S. Ma si
sa, come dice una simpatica battuta, il giorno in cui a scuola spiegarono le
mezze misure io ero assente…
Proseguo, dunque, la
disanima a eventuale beneficio di chi invece non si fosse perso quella lezione.
Arriviamo alla frana di
questi giorni, con le dimissioni di tutte le figure più importanti dell’Amministrazione
capitolina, sindaco a parte: il capo gabinetto, che tra l’altro doveva anche
vigilare sulla corruzione, tema evidentemente nevralgico per la credibilità
della Raggi; l’assessore al bilancio (che in realtà era un super assessore e
sommava varie deleghe); i vertici dell’Ama, con l’amministratore Solidoro che
era stato appena nominato – agli inizi di agosto – al posto di Fortini ( in
violenta polemica con la Muraro e con la Raggi stessa); i vertici dell’Atac, l’azienda
trasporti.
La vicenda prende le
mosse da una singolare e a prima vista surreale iniziativa della Raggi stessa. Dopo
aver conferito l’incarico alla Raineri, accettando la sua richiesta di un
compenso pari a quello che percepiva come magistrato più le spese di affitto a
Roma (la Raineri, come si diceva, vive a Piacenza), la Raggi, sottoposta ad
attacchi anche di “fuoco amico” per l’entità di questa retribuzione, dopo quasi
due mesi dal varo della giunta ci ripensa e decide di chiedere un parere all’Anac,
cioè a Cantone, il “tuttofare anticorruzione” di Renzi! La retribuzione del
capogabinetto, peraltro, è comunque inferiore a quanto percepiva il
capogabinetto della Giunta Marino. I maligni dicono che dietro questa
iniziativa ci sia la mano del luciferino Marra e della fazione a cui fa capo e
che il quesito sia stato formulato in modo che la risposta di Cantone fosse
scontata. Resta il paradosso di una iniziativa presa non immediatamente ma due
mesi dopo la nomina e di un capogabinetto incaricato tra l’altro di vigilare
sulla corruzione che viene messo in stato di accusa di fronte all’autorità
anticorruzione! Un bel concentrato di dilettantismo e approssimazione.
La Raineri, convocata
alle ore 23 dal sindaco che intendeva evidentemente rimuoverla dall’incarico
avendo acquisito il parere dell’Anac, fa quello che avremmo fatto tutti: si
dimette, prima di essere sfiduciata. Ma, ecco la sorpresa: insieme a lei se ne
vanno tutti quegli altri e cioè il nerbo dell’amministrazione! Le uniche
spiegazioni che la Raggi riesce a balbettare riguardano il caso Raineri, ma non
accendono assolutamente alcun lume sui motivi che hanno indotto alle dimissioni
anche l’assessore al Bilancio e i dirigenti delle municipalizzate. Queste
spiegazioni, peraltro, evocano l’ultima cosa che dovrebbe essere tirata in
ballo, ciò che davvero manca nell’operato della Raggi e del suo Movimento pre-
e post- insediamento: la “trasparenza”!
E’ evidente a tutti che
la Raineri e gli altri erano legati tra loro in una sorta di cordata che faceva
capo proprio a Minenna – un uomo della Consob peraltro. Minenna aveva
fortemente voluto la Raineri e aveva di fatto scelto Solidoro. Non si può
escludere nemmeno che abbia un fondamento ciò che scrivono i retroscena di
alcuni quotidiani, e cioè che Minenna a sua volta sia appoggiato da esponenti e
“correnti” interne al M5S e avversi alla Raggi e a Marra. In queste condizioni,
descrivere le difficoltà della giunta Raggi come il frutto del boicottaggio dei
soliti “poteri forti”, che pare la linea ufficiale del M5S nazionale, è davvero
grottesco. Certamente, questi “poteri forti” esistono – sebbene l’espressione
semplicistica non renda l’idea della loro ramificazione – certamente sono in
agguato contro operazioni di reale pulizia e cambiamento, ma l’impressione che
si è avuta per tutta l’estate è che tali poteri forti si siano potuti concedere
tranquille vacanze. Da un lato, infatti, azioni incisive non pare che la Raggi
le abbia messo in atto, dall’altro le sue difficoltà sembrano dovute essenzialmente
all’azione dei poteri “deboli” interni al suo movimento e alla sua
amministrazione, sicché i poteri forti non hanno neanche dovuto prendersi il
fastidio di scendere in campo.
La vicenda Raggi è
molto significativa, perché non adombra solo il naufragio di un sindaco su cui
i romani avevano riposto comprensibilmente grandi speranze, ma rivela in modo
ormai inequivocabile limiti e vizi del M5S, che su questa vicenda, come si
diceva, si giocava e si gioca la sua credibilità. Limiti e vizi che si possono
anche tradurre in un solo termine, che non è quello di “populismo” o di “antipolitica”,
ma è più propriamente quello di infantilismo politico.
Un infantilismo che,
purtroppo, non pare suscettibile di una evoluzione nel senso della maturazione
- non solo perché a un certo punto il tempo scade per tutti e se ci si comporta
in modo infantile quando si hanno già un po’ di anni alle spalle e si è
chiamati a ruoli e compiti di responsabilità, non si può ancora aspettare una
maturazione di là da venire, ma bisogna pensare che quello sia un difetto
caratterizzante e insuperabile - ma perché è l’identità stessa del M5S che si è
ormai definita su certi connotati, appunto infantili.
La vicenda Raggi non ha
detto, in fondo, nulla di nuovo, ma ha esaltato ciò che già era evidente.
Anzitutto, il M5S ha scelto comprensibilmente di non essere un partito come gli
altri, ma non ha costruito alcuna procedura, non ha individuato alcun serio criterio
per la selezione e formazione del proprio personale politico e amministrativo,
al di là della boutade delle consultazioni online con tanto di videocurriculum.
La conseguenza è che le candidature sono una sorta di lotteria che premia non
il più adatto, ma il più fortunato, quello che si trova casualmente in tasca il
biglietto vincente. E se i danni di tutto questo sono stati ancora limitati,
quando si è trattato di sindaci di piccoli e medi comuni o dei parlamentari
(che sono numerosi, sicché poi tra di essi si è generato comunque un processo
di selezione, indotto non dai 5S ma dalla logica stessa della vita politica
parlamentare, e questo processo ha portato, ad esempio, al passaggio dai primi
terrificanti portavoce a Di Maio), questi guasti si sono mostrati in modo
dirompente quando le circostanze hanno portato il M5S alla testa della
amministrazione della capitale.
In secondo luogo, vi è
la mancanza di un vero progetto politico e, su questo piano, si deve anzi
registrare una regressione. Il primo M5S aveva comunque dei punti programmatici
forti anche se su molte cose permaneva una gran confusione. Quei punti
programmatici sono progressivamente divenuti marginali rispetto alla parola d’ordine
dell’”onestà” e al metodo della “trasparenza”. Se non che onestà e trasparenza
non fanno ancora una politica e ne sono solo gli auspicabili presupposti. Ed è
anche il caso di ribadire che un onesto incompetente può fare spesso molti più
danni di un corrotto capace (sebbene sia sempre augurabile avere dei competenti
onesti): se io salgo su un aeroplano, non mi serve a nulla sapere che il pilota
è un uomo onesto, ma voglio esser certo che sappia guidare l’aereo e non mi
porti a sbattere in modo onesto e trasparente!
L’onestà, poi, non va
declamata, ma praticata e soprattutto verificata alla prova del governo e dell’amministrazione,
perché a rimanere onesti quando si è all’opposizione e lontani dal potere sono
buoni tutti. Dato il numero dei comuni rispettivamente amministrati, non mi
pare che gli avvisi di garanzia a esponenti del M5S siano poi in percentuale
inferiore a quelli ricevuti da esponenti del PD…
Il fatto è – ma l’Italia
che è il paese di Machiavelli non ha capito granché della sua lezione – che l’onestà
in politica non è una qualità morale, ma è appunto una qualità… politica! Al di
là della battuta, ciò vuol dire che essa è legata non alle caratteristiche
morali dei singoli – vi erano evidentemente singole persone onestissime nel
fascismo, nella DC, nel PSI dell’ultima stagione – ma alla consistenza del
progetto politico. Se questa manca o è labile, è molto più difficile per i
singoli e soprattutto per il movimento o partito nel suo complesso restare
onesti, quando si ha a che fare, come è inevitabile nella vita politica e
amministrativa ad un certo livello, con incarichi e denari. Il progetto
politico, una volta si sarebbe detto l’ideale o l’idea, è il più efficace
antidoto alla corruzione.
La debolezza del
progetto politico del M5S lo espone suo malgrado a degenerazioni che non basta
esorcizzare a parole. La vicenda Raggi queste degenerazioni le mostra già in
modo più che palese. A torto, molto a torto, si è parlato, ad esempio, di una
lotta o una faida tra “correnti” che ricorderebbe i vecchi partiti. Ma stiamo
scherzando? Le correnti dei partiti della prima Repubblica come il DC e il PSI certamente
si contendevano senza esclusione di colpi poltrone e soldi, ma avevano una
radice e un’identità politica fortissime e i loro conflitti riguardavano le
scelte politiche di fondo. Ma davvero vogliamo paragonare gli scontri fra i
dorotei e i morotei o quelli fra la corrente autonomista di Nenni e la sinistra
socialista di Lombardi a questi meschini litigi di comari del M5S? Quale
sarebbe la divergenza politica fra la Lombardi e la Taverna, per esempio? Se
qualcuno l’ha capito che me lo spieghi, per piacere! Non correnti, ma bande,
dunque. E non bande di malviventi, per carità: bande di bambini capricciosi,
questo mi sembrano le cosiddette correnti del M5S. I “bambini dell’asilo
Mariuccia” li ha definiti Travaglio, non proprio un nemico del M5S.
Se questi sono i
moralizzatori dell’Italia, mi viene in mente solo un detto popolare. Ricordo di
essere uscito nel lontano 1986, dopo una breve ma significativa esperienza,
dalla Federazione giovanile socialista, non sopportando le pratiche clientelari
e la competizione con la DC di Mancino e De Mita sul suo stesso terreno. Parlo del
1986, ben prima quindi delle prime avvisaglie di tangentopoli e quando Craxi
era al governo e il PSI al massimo della sua potenza e io un giovane
neolaureato meridionale che avrebbe avuto tutto da guadagnare a restare nel
partito e a non aprire una polemica magari anche “profetica”, ma senza alcun
risultato e riscontro politico immediato. Ebbene, di fronte a questi
moralizzatori odierni, comunque figli di Tangentopoli e della drammatica cesura
che ha segnato nella storia di questo paese e che aspetta ancora una seria
ricostruzione storica, mi viene da recitare il noto adagio: “Peppo per Peppo,
mi tenevo a Peppo mio”. Che poi si chiamava Bettino, perché quando è morto il
vecchio e grande Nenni (fatti salvi certi suoi colossali errori nelle scelte
politiche a cominciare dal Fronte popolare del 1948), che io a dire il vero
avrei preferito, avevo solo 18 anni. Ma da Nenni ho comunque imparato, a
distanza di tempo, una grande lezione: un giorno ammonì i giovani “giacobini” del
partito ansiosi di moralizzare ed epurare tutto e tutti; quella strada, disse,
non portava da nessuna parte, perché “a giocare ad essere il più puro, arriva
sempre qualcuno più puro di te che ti epura”. Soprattutto, se la pretesa di
essere il più puro è basata sulle declamazioni retoriche e non sugli atti
concreti e sulle scelte politiche e di vita. Questa lezione credo che il M5S
non l’abbia mai imparata. E ne farà le spese.
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