Avevo preannunciato una “seconda puntata” dedicata all’altro e
decisivo uccisore di Gesù: Pilato, per conto del potere dell’Impero Romano. Mi
rendo però conto che la prima puntata non può dirsi nemmeno sommariamente
esaurita senza chiarire il motivo dello scontro fra Gesù e il potere
sacerdotale. In caso contrario, si finirebbe per accreditare l’idea così
diffusa secondo cui l’accusa a Gesù sia stata del tutto pretestuosa. Bisogna
invece ammettere che, nell’ottica della religione ufficiale e istituzionale del
tempo, questa accusa era probabilmente ben fondata.
Qui, però, occorre distinguere due diverse prospettive: quella dei
narratori evangelici e quella della cosiddetta ricerca sul “Gesù storico” (che
non va equiparata, tuttavia, a una ordinaria ricerca storiografica, perché mantiene,
come vedremo, una fondamentale motivazione teologica). Per i Vangeli, il motivo
della condanna è chiaro: Gesù, in modo più o meno diretto ed esplicito, si è
proclamato Messia e Figlio di Dio e lo ha fatto anche alla fine, dinanzi a
Caiafa. Qui, però, i narratori evangelici mettono nella testa e sulle labbra
del Nazereno niente altro che la confessione di fede della chiesa
post-pasquale. Naturalmente, questa versione è di fondamentale importanza per i
credenti, visto che si tratta del fondamento stesso della loro fede. Un
credente che non sia del tutto sprovveduto sul piano teologico e della critica
biblica può però accettare tranquillamente il fatto che questa piena
consapevolezza della sua identità divina– la si definisce “autocoscienza messianica”,
nel linguaggio specialistico - Gesù
probabilmente non l’abbia mai avuta e che i narratori biblici vogliano qui esprimere
una verità teologica e non una verità storica. Allo stesso modo, i non credenti
che non si arrestino a una visione atea fondata su basi epistemologicamente
grossolane, gli atei “critici” se così li posso definire, potranno comprendere
che questa distinzione fra verità storica e verità teologica non ha nulla a che vedere con una presunta
confutazione della fede e nemmeno ne rappresenta un elemento di debolezza.
In questo momento ci interessa più l’altra prospettiva, quella della “ricerca
sul Gesù storico”. Per sgombrare il campo da fatali equivoci, dirò subito che
la moderna ricerca sul Gesù storico, non ha nulla a che vedere con le
operazioni di divulgazione pseudo-colta,
tipo Corrado Augias o documentari di National Geografic Channel. Nella
migliore delle ipotesi questo tipo di divulgazione, oggi così popolare,
risponde alla primissima fase della ricerca teologica sul Gesù storico, quella
illuministica e settecentesca di Reimarus e altri. Si tratterebbe di
evidenziare, con l’aria di chi ha fatto chissà quali grandi scoperte, le
incongruenze del racconto biblico per
cercare di risalire alla “vera storia” di Gesù. A un livello più alto dei
Corrado Augias attuali, l’operazione tendeva a mostrare la discontinuità fra il
Gesù storico e il Gesù della dogmatica per criticare o demolire quest’ultima e
aprire magari la strada alla ricezione del Nazareno come maestro di vita e
modello morale, come tipo esemplare di umanità (questa è la migliore
prospettiva illuministica, alla Kant, ed è la prospettiva del protestantesimo “liberale”
dell’Ottocento). Questa linea di ricerca è però completamente naufragata, alla
fine dell’Ottocento, per motivi di vario genere e che ora sarebbe troppo lungo
riassumere. Qualche tempo dopo si è però aperta una “seconda ricerca sul Gesù
storico” (peraltro, oggi siamo già da tempo alla “terza ricerca sul Gesù
storico”!), con tutt’altro indirizzo e fondamento. Qui si tratta, con una
metodologia tutt’altro che ingenua sul piano scientifico, di accertare quali parole
e quali atti si possano attribuire, con
un livello più o meno accettabile di probabilità, a Gesù di Nazareth, ossia al
Gesù-uomo. In tal modo emergono certamente, come nel nostro caso specifico,
delle differenze significative fra il Gesù “storico” e il Cristo della fede, ma
l’obiettivo non è più quello di dimostrare la discontinuità fra le due figure,
bensì quello precisamente opposto di coglierne la continuità (qui il discorso
richiede un minimo di raffinatezza intellettuale che Augias non possiede, a
dispetto dei suoi modi signorili, ma che certamente è patrimonio dei miei pochi
lettori!). Si tratta, cioè, di capire che il Cristo della fede non è una figura
disincarnata, astratta da ogni contesto storico, calata dal cielo e lì tornata
dopo una breve parentesi terrena, ma ha come suo retroterra e fondamento un
uomo storico, nato in un luogo preciso e in un tempo preciso, che ha fatto e
detto determinate cose in un ben determinato contesto storico e sociale, che infine
ha subito nella sua carne mortale il supplizio della croce. Con ciò non si
intendono soddisfare primariamente le esigenze della scienza o della
storiografia, ma proprio quelle della dogmatica. Il dogma di Calcedonia (451),
infatti, confessa Gesù Cristo, “vero Dio” e “vero uomo”, integralmente Dio, ma
anche integralmente uomo, mentre l’idea di un Cristo spirituale e disincarnato
e solo “apparentemente” uomo mortale appartiene precisamente all’”eresia”
docetista, quella che i padri della chiesa combatterono più accanitamente (beninteso,
combattere le eresie allora non significava ancora accendere roghi, ma intraprendere
battaglie culturali e polemiche intellettuali).
Tornando finalmente al nostro problema: se non è stata l’autoproclamazione
messianica, che cosa allora ha portato i sadducei ad accusare Gesù? Se non è troppo
ardito pretendere di riassumere in poche righe un dibattito vastissimo, dirò
che la tesi più accreditata è che l’elemento o gli elementi decisivi di
conflitto vadano ricercati non tanto nella predicazione in Galilea, ma in ciò
che Gesù ha fatto e ha detto a Gerusalemme, negli ultimi giorni, quelli fra la “Domenica
delle Palme” e il “Venerdì santo”. Alcuni studiosi ritengono che non si debba
pensare ad un unico episodio determinante, ma ad una pluralità di fattori.
Altri ritengono, invece, che il fatto cruciale sia l’irruzione di Gesù nel
Tempio, che è comunque fondamentale anche per i primi. Questo episodio è quasi
certamente “storico” e anche i dettagli del racconto sono altamente
attendibili. Rileggiamolo nel racconto di Marco (11, 15-18):
Vennero a Gerusalemme e Gesù,
entrato nel tempio, si mise a scacciare coloro che vendevano e compravano nel
tempio; rovesciò le tavole dei cambiavalute e le sedie dei venditori di
colombi; e non permetteva a nessuno di portare oggetti attraverso il tempio. E
insegnava, dicendo loro: «Non è scritto: "La mia casa sarà chiamata
casa di preghiera per tutte le genti?" Ma voi ne avete fatto un
covo di ladroni».
I capi dei sacerdoti e gli scribi udirono queste cose e cercavano il modo
di farlo morire. Infatti avevano paura di lui, perché tutta la folla era piena
d'ammirazione per il suo insegnamento.
Una volta stabilito che questo episodio è quello che convince
definitivamente l’elite del Tempio a procedere contro Gesù non siamo però
neanche in vista del traguardo: occorre interpretare, occorre capire il motivo
e lo scopo dell’azione di Gesù!
Secondo la tesi un tempo dominante tra gli studiosi e oggi ancora
largamente diffusa, ma sempre più contrastata, Gesù sarebbe stato mosso dall’intento
di “purificare” il Tempio e la sua sarebbe stata un’azione di denuncia della
corruzione del culto, delle sue deviazioni, in linea in fondo con quella di
taluni profeti antico-testamentari.
Questa tesi è penetrata nell’immaginario
collettivo che ricorda la vicenda come la cacciata dei mercanti dal Tempio e ne
ha ricavato anche un detto assai comune. Del resto, sono molti – la grande
maggioranza credo – quelli che, oggi come in passato, ritengono che il
fondamentale, se non l’unico problema, della chiesa, della pratica e della
istituzione religiosa, sia la corruzione e che tutto ciò che occorra sia una
rigenerazione morale. Ecco allora che si celebrano – fino ai pericolosissimi confini
dell’idolatria - le figure di uomini di chiesa e soprattutto di pontefici –
ogni riferimento a fatti o persone dell’attualità è puramente voluto! – che sembrano
rispondere a questi criteri di riforma morale.
E’ assai dubbio, però, che i grandi riformatori e le grandi svolte
nella storia della cristianità siano stati mossi e determinate esclusivamente o
principalmente da questa finalità di ordine morale o moraleggiante. Lutero, per
esempio, non scrisse le “95 Tesi” per denunciare lo scandalo “morale” nel
mercimonio delle indulgenze – sebbene questo aspetto pure lo indignasse
oltremodo – ma per motivi di ordine teologico.
Nemmeno Gesù, in effetti, sembra sia qui mosso primariamente da questa
preoccupazione. Io seguo la tesi che è
stata profilata con molta forza ed efficacia da Sanders e accettata, più o meno
largamente, da vari altri studiosi.
Naturalmente non si tratta solo della valutazione di un singolo
episodio, per quanto molto importante, ma è in gioco la comprensione
complessiva del cristianesimo. In altri termini: il messaggio cristiano ha una
portata primariamente morale o primariamente escatologica? Dal mio punto di
vista non c’è dubbio: la seconda che ho detto! Attenzione: ciò non significa
affatto negare e neanche svalutare l’aspetto etico della fede cristiana, ma
collocare questo fondamentale elemento nel suo autentico orizzonte
escatologico. In caso diverso, verrebbe meno la fondamentale peculiarità dell’annuncio
cristiano e il cristianesimo sarebbe solo una delle tante apprezzabili dottrine
etico-religiose che sono comparse sul palcoscenico della storia. Naturalmente,
questo mio punto di vista non deriva da un gradimento personale: non è che l’escatologia
mi piaccia più della morale ( e se anche così fosse sarebbe del tutto
irrilevante)! Deriva da quello che mi pare di capire della figura di Gesù e del
significato di ciò che ha detto e di ciò che ha fatto, come ci viene testimoniato
dal Nuovo Testamento.
Una premessa importante: esistono molteplici prove – non appesantisco
ulteriormente il discorso con citazioni e riferimenti puntuali – che mostrano
come Gesù non abbia mai inteso negare la legittimità del Tempio e del culto che
in esso si amministrava. Questo culto consisteva innanzitutto in una pratica
sacrificale, minuziosamente regolamentata e codificata. Ma se così è, non si
capisce allora che senso abbia una denuncia della corruzione morale e della
degenerazione del culto che consiste nel rovesciare i banchi dei cambiavaluta e
le sedie dei venditori di colombe, visto che le colombe erano essenziali nei
sacrifici – e proprio per i più poveri che non si potevano permettere agnelli o
buoi - e i cambiavalute erano necessari ai forestieri che arrivavano con le
loro monete e dovevano acquistare gli animali da sacrificare nella valuta
corrente. E allora, se nessun altro episodio della vita di Gesù mostra che egli
intendesse contestare la pratica sacrificale del Tempio e al contrario sono
numerosi i casi in cui egli questa pratica la osserva correttamente, che senso
ha quel gesto? La spiegazione di Sanders è che Gesù riconosca la legittimità
storica del Tempio, ma voglia mostrare con un gesto eclatante che il suo
annuncio consiste in una rottura apocalittica della storia. Egli, infatti,
annuncia il Regno di Dio e non lo annuncia in un indeterminato tempo futuro;
dice che “il Regno di Dio si è fatto vicino”; annuncia quindi l’irruzione
escatologica della signoria di Dio nel mondo e nella storia. Il Tempio diviene
allora figura del mondo che passa e il suo annuncio è invece figura del mondo
che viene.
Questa interpretazione è convincente anche perché si lega ai detti –
ai loghoi – di Gesù sulla distruzione
del Tempio, anche questi riportati in tutti i Vangeli e molto probabilmente “storici”.
Questi detti, anzi, rappresenterebbero la chiave di lettura dell’azione di Gesù
al Tempio. L’irruzione violenta di Gesù al Tempio rappresenta così l’irruzione
del Regno di Dio nel mondo, che ha una portata dirompente per la pratica religiosa
ordinaria. Ciò che è rimasto più impresso dell’episodio, come si diceva, è l’atto
di cacciare i mercanti, ma ciò è conforme alla lettura moraleggiante. Nella
lettura apocalittica, il gesto decisivo è un altro: il rovesciamento di banchi
e sedie. E’ un’azione in se stessa non strettamente necessaria: non bastava
cacciare i venditori e i cambiavalute e disperdere le colombe? Che bisogna c’era
di rovesciare anche gli oggetti? Forse che Gesù si lascia prendere la mano dall’ira?
No, di certo. Si tratta di un gesto simbolico, evidentemente: il rovesciamento dei
tavoli allude al rovesciamento, ossia alla distruzione del Tempio.
In conclusione, che cosa accade quando proviamo a trasportare questo
episodio nel nostro tempo? Si manifesta e si conferma anche qui la dirompente
tensione fra l’annuncio di Gesù, che poi diviene la fede dei suoi discepoli, di
allora e di oggi, e la pratica religiosa ordinaria, corrente, istituzionale. Si
mostra che, se è vero che noi non possiamo vivere nella imminente attesa
apocalittica – e questo ce lo dice la Scrittura stessa – tuttavia non dobbiamo dimenticare che questo orizzonte
apocalittico ed escatologico è assolutamente essenziale nel cristianesimo, perché,
come dice un teologo sui cui libri ho speso un po’ di mesi della mia vita: “il
cristianesimo è escatologia dal principio alla fine e non solo in appendice”.
Pertanto, alla chiesa, alle sue istituzioni e innanzitutto a noi stessi noi
dobbiamo chiedere non una semplice, e magari retorica, azione di rinnovamento
morale, ma una tensione escatologica nell’annuncio e nella testimonianza che
poi dà alla stessa azione morale la sua giusta e autentica qualità.
A chi pensa – e sono tanti – che i cristiani debbano essere “moderati”
negli atti e nelle parole, nell’orientamento e nell’indirizzo, sarebbe il caso
di ricordare qualche volta le parole e i gesti di Gesù al Tempio, che non sono
propriamente quelli di un moderato! A chi sostiene – e sono tantissimi – che le
critiche vanno bene, sono lecite (e ci mancherebbe pure!), ma che devono essere
sempre “costruttive”, vale la pena di opporre questa bella critica “distruttiva”
di Gesù e di obiettare che se il cristianesimo vuole mantenere la sua sostanza
di messaggio escatologico, di messaggio apocalittico di rottura della storia (e
proprio questo è poi la Pasqua, una rottura apocalittica della storia) non si
può lasciare imbrigliare dal ricatto della critica “costruttiva”. Infine, ai pedanti
sacerdoti e alle austere sacerdotesse del “politically correct”, vorremmo
presentare, con un sorriso e attraverso questo episodio così decisivo, questo
nostro Maestro, questo nostro rabbì – del
politicamente scorretto: Gesù di Nazareth!
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