Confesso di aver ingenuamente sperato che con l’insediamento
alla Casa Bianca di Donald Trump e l’inizio della sua effettiva azione di
governo si sarebbe, se non ricomposta, perlomeno drasticamente ridotta la
schizofrenica frattura fra pensiero e realtà che si era manifestata in quei
settori liberal-progressisti e radical-chic– dominanti sui mass media, ma
minoritari nella società – durante le primarie, nel corso della campagna
elettorale e persino dopo il risultato di novembre. Pia illusione. La
rappresentazione caricaturale o demonizzante del nuovo Presidente degli USA
continua ad imperversare, utilizzando la consueta e ormai consolidata
metodologia: si enfatizzano manifestazioni di piazza che si svolgono solo in
determinate e ben circoscritte aree sociali e geografiche degli USA – non certo
quelle ove Trump ha costruito la sua vittoria – e si minimizzano i sondaggi che
mostrano come la maggioranza degli americani, oltre la stessa percentuale di
cittadini che lo aveva votato il 5 novembre, approva la sua politica, a
cominciare dal bando all’immigrazione clandestina o dalle restrizioni agli
ingressi da determinati paesi islamici; si estrapolano delle frasi dal contesto
delle sue dichiarazioni e dei suoi discorsi e si costruiscono con queste delle
fake-news e dei titoli cubitali (a volte si estrapolano anche dei gesti, come
nel caso surreale della notizia sulla mancata stretta di mano alla Merkel, uno
“sgarbo” che in realtà non c’è mai stato); si ignora il fatto che Trump –
comunque si voglia giudicare il suo programma elettorale – lo sta coerentemente
attuando, oppure addirittura gli si ritorce contro proprio questa coerenza,
come se una volta insediatosi alla Casa Bianca dovesse rispondere non ai suoi
elettori, ma a Madonna o a Beppe Severgnini o a Furio Colombo. Certamente,
questa perdurante campagna mediatica diffamatoria ha un fondamento: nessun
Presidente americano neoeletto è stato mai così duramente avversato e anche
boicottato da significativi settori dell’establishment politico (non solo
democratico, ma anche repubblicano), giudiziario e di intelligence, oltre che naturalmente dal potere mediatico. Ciò,
però, non fa altro che confermare il carattere «straordinario» del personaggio
nella storia politica americana.
Riprendendo allora il filo di un serio tentativo
di analisi – incentrato innanzitutto sulla politica estera, che in fin dei
conti è l’aspetto che dovrebbe interessarci di più e che siamo meno inadeguati
a valutare – ci rivolgiamo nuovamente a un grande studioso, Walter Russel Mead.
Chi segue questo blog forse ricorderà che, prima delle elezioni, avevo
utilizzato proprio un saggio scritto diversi anni fa, nel 2001, da questo
autore (Special Providence, poi
tradotto in italiano con il fantasioso titolo di Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati
Uniti d’America) per tentare un’interpretazione del fenomeno Trump e
azzardare una previsione che poi si è rivelata fondata. Russel Mead, nelle
scorse settimane, ha pubblicato un interessante articolo sulla rivista «Foreign
Affairs» sulla «rivolta jacksoniana», a
cui Trump ha dato voce, e sulla contrapposizione
fra «populismo americano» e «ordine liberal».
Cercherò di riassumerne i punti a mio avviso più importanti, non solo per
continuare questo tentativo di analisi del fenomeno Trump, ma anche per capire se nella stessa Europa,
fatte salve le imprescindibili differenze, non sia in atto, dietro la facciata
dei cosiddetti «populismi», una sorta di «rivolta jacksoniana» contro l’ordine,
o meglio il regime, liberal-progressista
e politically correct (scusandomi con i miei lettori più avvertiti,
preciso, per inciso, che il termine liberal
nel linguaggio politico statunitense non ha niente a che vedere con il termine
«liberale», in uso nel Vecchio Continente e che oggi si tratta anzi di due
campi politici largamente contrapposti).
Russel
Mead esordisce, affermando che gli americani hanno eletto per la prima volta da
settant’anni a questa parte un presidente che «disprezza le politiche, le idee
e le istituzioni che sono state il cuore della politica estera americana dopo
la seconda guerra mondiale» (e questo è il primo elemento della «rivolta»).
Infatti, dalla seconda guerra mondiale, la strategia americana è stata dominata
da due correnti di pensiero, entrambe volte alla costruzione di un sistema
internazione stabile con al centro gli USA. Secondo gli hamiltoniani era nell’interesse degli USA sostituire l’Impero
Britannico come potenza globale egemone e «giroscopio del mondo», innanzitutto
sul piano economico. Una prospettiva simile è stata adottata dai wilsoniani, sebbene essi ragionassero
più in termini di valori – promozione di diritti umani, democrazia e legalità -
che di economia. Alla fine della guerra fredda, i wilsoniani si sono poi divisi in una corrente che ha continuato a
puntare sulle istituzioni internazionali e su una politica “multilaterale”, con
il coinvolgimento degli alleati e la ricerca del più vasto consenso
internazionale, e un’altra corrente, quella neoconservative,
che notoriamente ha influenzato e anche diretto la politica di Bush figlio, che
ha invece privilegiato le azioni unilaterali, con il sostegno solo di alleati
scelti (le coalizioni di «volenterosi»).
Aggiungo,
da parte mia, soltanto due considerazioni: con Obama la politica
dell’amministrazione americana è tornata nelle mani dei wilsoniani del primo
tipo, in continuità sotto questo profilo, con gli otto anni di Bill Clinton; inoltre,
quasi tutte le iniziative belliche
statunitensi di questi settant’anni sono state il risultato del dominio
wilsoniano - soprattutto quelle più sciagurate, dalla guerra in Vietnam a
quella in Kosovo alla seconda guerra all’Iraq – o hamiltoniano – la prima guerra all’Iraq di Bush padre. E’ quindi
davvero surreale pensare che Trump, che, come stiamo per vedere, è
l’espressione di una rivolta contro questa politica, possa costituire una
minaccia alla pace più di tutti i suoi predecessori!
L’evidente fallimento
dell’approccio wilsoniano, in entrambe le sue versioni, che
si è evidenziato soprattutto negli ultimi anni, ha provocato una crisi di
sfiducia e un malcontento che hanno ridato forza alle altre due tradizionali
correnti politiche, i jeffersoniani e
i jacksoniani. I primi sostengono una
politica marcatamente «isolazionista», ritenendo che occorra definire in
termini molto stretti l’interesse statunitense e, di conseguenza, il raggio
d’azione degli USA nel mondo, riducendo così i costi e i rischi della politica
estera. In questo campo si schierano i cosiddetti «realisti» (Luttwak, molto
noto al pubblico italiano, ne è un buon esempio), parecchi conservative (ad esempio il rivale di Trump alle primarie, Ted
Cruz) e si registra pure una singolare convergenza fra libertarians, di ‘destra’, e settori radical, di ‘sinistra’, ad esempio sulla riduzione delle spese
militari e sulla critica alle iniziative belliche delle precedenti
amministrazioni.
Russel
Mead rileva che Trump ha però fiutato qualcosa che è invece sfuggito ai suoi
concorrenti politici e che lo ha portato poi alla Casa Bianca: la forza emergente nello scenario politico
americano non è l’isolazionismo o «minimalismo» jeffersoniano, ma è il «nazionalismo
populistico» jacksoniano.
Che
cosa caratterizza i jacksoniani e li distingue dalle altre correnti politiche? I
jacksoniani non vedono negli USA una entità politica fondata su una serie di
principi ideali derivati dall’Illuminismo e conseguentemente orientata a una
missione universale, ma in primo luogo il focolare nazionale del popolo
americano, il cui leader ha il compito
di promuovere e tutelare sicurezza e benessere di questo popolo, nel proprio
territorio, interferendo il meno possibile con le libertà individuali e con il
principio della uguale dignità di tutti i cittadini, che sono il cardine della
«unicità» americana, nella prospettiva jacksoniana.
E’
questa, a mio avviso, la corretta e proficua chiave di lettura non solo del
successo di Trump, ma ormai dei suoi atti politici – compresi quelli più noti,
controversi e contestati. Se invece si leggono queste iniziative nella lente
deformante dei pregiudizi correnti e della ideologia liberal e politically correct
si perpetua soltanto quella schizofrenica frattura fra la realtà e il proprio
pensiero che ha già prodotto valutazioni e previsioni fallimentari.
Russel
Mead – ed è questo un punto centrale della sua analisi sul quale concordo
pienamente – non legge il fenomeno del rimontante jacksonismo a partire da fattori di ordine economico-sociale –
disoccupazione e stagnazione economica, emarginazione, ecc.. Ritiene, invece,
che sia decisivo il piano culturale (in senso lato): il popolo in rivolta – formato sia da classi lavoratrici che da ceti
medi - ritiene che i valori fondanti della propria comunità e la sua stessa
identità siano minacciati; di conseguenza è disposto ad appoggiare i
personaggi e le politiche che sembrano rispondere efficacemente a questa
minaccia, a fronte di altri personaggi e altre politiche che addirittura ne
disconoscono l’esistenza. Seguendo il modello di Huntington – che essendo
scomparso da diversi anni non può più darci la sua opinione sulla situazione
attuale – si potrebbe forse dire che la
«rivolta jacksoniana» dipende molto più dal «conflitto di civiltà» che dagli
effetti negativi della globalizzazione economica – fatto salvo l’ovvio
intreccio fra i due piani. Ciò che mobilita e galvanizza la «comunità
jacksoniana» è la percezione di essere sotto attacco, o meglio l’idea che la
propria identità sia in pericolo - sia
che si tratti di una minaccia esterna, sia che si tratti di ‘nemici’ interni.
Nell’ottica
jacksoniana è del tutto falsa la contrapposizione su cui si fonda l’attuale
visione del mondo delle oligarchie progressiste e liberal fra la loro posizione, che sarebbe universalistica,
inclusiva e umanitaria, e quella angustamente e ottusamente identitaria, e
quindi nazionalistica, se non addirittura xenofoba e razzista, attribuita ai
cosiddetti «populisti». Si tratta di una enorme mistificazione, perché lo scontro in realtà è solo fra chi difende
la propria identità storico-culturale e chi, invece, favorisce e privilegia
altre identità. La rivolta jacksoniana è stata infatti suscitata anche da
politiche che negli anni scorsi hanno privilegiato tutte le identità
«minoritarie», fino a renderle di fatto culturalmente egemoni nel discorso
pubblico: afro-americani, ispanici, musulmani, femministe, movimento gay LGBTQ,
nativi americani. E’ stata invece considerata retriva e addirittura pericolosa
ed è divenuta quasi un tabù qualsiasi rivendicazione identitaria di tipo wasp (white-anglosaxon-protestant)
o legata alle vecchie comunità provenienti dall’Europa cattolica– ad esempio
quella italo-americana o quella irlandese - che sono poi le componenti che
hanno storicamente fondato la pluralità culturale statunitense. In sostanza,
una parte consistente dell’elettorato bianco ha reagito con indignazione ad una
società liberal che rimarca di
continuo l’importanza della diversità e quindi, inevitabilmente, della
specifica identità etnico-linguistico-religiosa, che tutela tutte le identità -
offrendo loro nuovi e inusitati diritti, protezione sociale e benefici
economici – esclusa proprio la loro, esclusa l’identità storicamente fondativa
degli USA e ancora maggioritaria.
Anche
se Russel Mead non lo dice esplicitamente, mi pare che la sua analisi colga un punto centralissimo: ogni discorso che
si pone come universalistico e inclusivo e che talora pretende di mirare a un
orizzonte di società multiculturale, per una sua intrinseca logica, non fa
altro che rimarcare l’importanza delle identità, dei valori che caratterizzano
le diverse comunità. La contrapposizione fra universalismo e ‘arroccamento
identitario’, fra integrazione e ‘xenofobia’, fra società aperta muti etnica e
società chiusa identitaria è quindi una classica mistificazione ideologica.
Se si vuole davvero integrare e non limitarsi a far coesistere le une accanto
alle altre – sperando nel miracolo di una convivenza pacifica – le diverse
identità, bisogna scegliere in base a
quali valori e secondo quali norme e regole queste diverse identità debbano
integrarsi. E ciò ancora una volta
significa operare delle scelte fra di loro, privilegiandone inevitabilmente
una o alcune rispetto ad altre. Ed è proprio ciò che hanno cercato di fare, in
fin dei conti, i liberal-progressisti
politicamente corretti, tolleranti e inclusivi con tutte le identità e comunità,
tranne la propria, le cui rivendicazioni vengono, invece, istericamente e
sistematicamente bollate come razziste, fasciste, islamofobe, omofobe,
xenofobe, degne in sostanza non di esseri ragionevoli ma di scimmie urlanti,
furiose e spaventate (questo sono agli occhi di tanti radical-chic quelli che
essi chiamano «populisti»). Si tratta,
in fin dei conti, della arrogante intolleranza di chi coltiva l’inossidabile
fede nella propria superiorità intellettuale, mascherata dietro il buonismo e
il dichiarato anti-razzismo! Il jacksonismo ha almeno l’inestimabile merito di
smascherare tutto questo.
E’
partire da questi dati che bisognerebbe interpretare
l’America first! di Donald Trump,
invece di ridurlo a un riflesso, a un conato quasi, sciovinistico e xenofobo.
Che
cosa significhi tutto ciò, concretamente, sul piano della politica estera, per
Russel Mead, resta ancora largamente da vedere. Può darsi che Trump, come tanti
suoi predecessori, dovrà modificare sostanzialmente le sue idee e i suoi
programmi, nel confronto con la complessità dello scenario internazionale. Chi,
però, valutasse alla stregua di un “fallimento” o di una “sconfitta” questi
eventuali aggiustamenti, cadrebbe ancora una volta in errore. Il personaggio
non è mosso da una “ideologia”, anzi è eminentemente anti-ideologico e anche in
questo è in piena sintonia con la sua base elettorale, essendo la «comunità
jacksoniana» a sua volta anti-ideologica. I trattati commerciali che Trump ha
incominciato a stracciare non sono avversati, ad esempio, per motivi di
principio, ma perché si ha l’impressione che non corrispondano agli interessi
statunitensi. Se questa percezione dovesse cambiare, cambierebbe anche la valutazione
di questi trattati e della attualmente auspicata politica protezionistica.
Il
punto centrale non riguarda, quindi, le specifiche iniziative di politica
estera – e in fondo neanche quelle di politica interna – ma lo scontro fra due diverse e ormai
largamente opposte visioni del mondo, incarnate da due diverse leadership, di
cui Obama e Trump possono considerarsi rappresentanti emblematici.
Nell’ultimo
quarto di secolo, scrive Russel Mead, la classe dirigente occidentale si è
infatuata di alcune idee, pericolosamente semplicistiche. Ha ritenuto che il
capitalismo fosse stato «addomesticato», tanto da non provocare più
sconvolgimenti economici, sociali o politici. E’ stata considerata marginale,
strumentale e comunque senza futuro la contestazione del modello che si
riteneva sbrigativamente vincente, frutto dell’azione di «cattivi perdenti» (l’espressione
è stata usata proprio da Obama) che cercavano solo di sfogare le loro
frustrazioni, senza avere alcuna speranza di mobilitare le masse al loro seguito.
Ciò che poi è realmente accaduto - dall’11 settembre, alla crisi finanziaria,
al nuovo terrorismo islamista, alla crescita dei «populismi» - è stato accolto
come un’amara sorpresa. Un imprevisto
«disordine mondiale» ha preso il posto del «liberal order» che le
«magnifiche sorti e progressive» avrebbero dovuto immancabilmente realizzare.
In
questo grande disordine, emerge soprattutto un dato: non si può più negare il potere delle politiche «identitarie». Le elites occidentali hanno creduto che nel
XXI secolo cosmopolitismo e globalismo avrebbero trionfato su queste politiche,
ritenute retaggio di atavismo e «fedeltà tribali». Nulla di più errato! Queste elites, il cui più eminente
rappresentante è stato negli anni scorsi proprio Barack Obama, non hanno capito, in definitiva, che i
processi economici e sociali legati a cosmopolitismo e globalizzazione avrebbero
suscitato turbolenze e opposizioni e che i popoli avrebbero reagito
innanzitutto con una domanda di «protezione» e con il tentativo di rinsaldare
legami identitari e appartenenze comunitarie. Si tratta, per usare i classici termini della sociologia novecentesca,
di una rivolta della Gemeinschaft contro la Gesellschaft. Trump è
attualmente la più potente incarnazione di questa rivolta.
Occorre
ora capire in che misura e in che termini questa insurrezione contro l’ordine liberal e le elites che lo sostengono (non disinteressatamente) coinvolga anche
quest’altra sponda dell’Oceano e quali forze politiche ne siano l’espressione,
abbandonando finalmente le rappresentazioni ideologiche e i pregiudizi a cui è invece
davvero difficile sfuggire, se le proprie fonti di informazione restano
soltanto quei mass-media che quelle stesse elites
controllano e se non si esercita un minimo di controllo critico di queste
stesse fonti.
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